Книга - Un’Impresa da Eroi

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Un’Impresa da Eroi
Morgan Rice


L’Anello Dello Stregone #1
Una serie fantasy epica mozzafiato. Morgan Rice ripete limpresa! Questa magica saga ricorda il meglio di J.K. Rowling, George R.R. Martin, Rick Riordan, Christopher Paolini e J.R.R. Tolkien. Non sono riuscita a chiudere il libro! --Allegra Skye, autore del best-seller SAVED Dallautrice best-seller Morgan Rice giunge il primo capitolo di una nuova serie fantasy. UNIMPRESA DA EROI (LIBRO 1 nellANELLO DELLO STREGONE) ruota attorno allepica crescita di un ragazzo speciale, un quattordicenne proveniente da un piccolo villaggio ai confini del Regno dellAnello. Il più giovane di quattro fratelli, il meno favorito del padre, odiato dai suoi fratelli, Thorgrin sente di essere diverso dagli altri. Sogna di diventare un grande guerriero, di entrare tra gli uomini del Re e proteggere lAnello dalle orde di creature che popolano laltra parte del Canyon. Quando raggiunge letà giusta ma il padre gli vieta di tentare lingresso nella Legione del Re, Thor rifiuta di prendere quel no come una risposta definitiva: si mette in cammino da solo, determinato a farsi strada allinterno della Corte del Re ed essere preso sul serio. Ma la Corte del Re è impegnata con i propri drammi familiari, lotte di potere, ambizioni, gelosia, violenza e tradimento. Re MacGil deve scegliere un erede tra i suoi figli e lantica Spada della Dinastia, la sorgente di tutto il loro potere, giace ancora intatta in attesa del prescelto. Thorgrin si presenta come un outsider e lotta per essere accettato e per far parte della Legione del Re.







UN’IMPRESA DA EROI



(Libro #1 in L’Anello dello Stregone)



Morgan Rice



Tradotto da Annalisa Lovat


Chi è Morgan Rice



Morgan Rice è lautore del bestseller THE VAMPIRE JOURNALS, serie per ragazzi che comprende otto libri e che stata tradotta in sei lingue.

Morgan anche autore del bestseller THE VAMPIRE LEGACY, serie per ragazzi che comprende due libri.

Morgan è anche autrice dei bestseller ARENA ONE e ARENA TWO, i primi due libri della THE SURVIVAL TRILOGY, thriller d’azione post-apocalittico ambientato nel futuro.

Morgan è anche autrice della serie epica fantasy bestseller THE SOURCERER’S RING, che comprende dieci libri.

A Morgan piace sentire i vostri commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito http://www.morganricebooks.com (http://www.morganricebooks.com) per tenervi in contatto con lei.


Cosa hanno detto di Morgan Rice



“Mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere…. Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dall’inizio. Nono esistono momenti morti.”

--Paranormal Romance Guild {parlando di Turned}



“Una storia perfetta per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellenteun creando un intreccio interessante … Rinvigorente e unico, possiede i classici elementi che si ritrovano in molte storie paranormali per ragazzi. Di facile lettura, ma estremamente veloce e incalzante… Lo raccomando a chiunque ami leggere piacevoli romanzi paranormali. Classificato PG.”

--The Romance Reviews (parlando di Turned)



“Pieno zeppo di azione, romanticismo, avventura e suspense. Metteteci sopra le mani e non finirete di innamorarvene.”

--vampirebooksite.com (parlando di Turned)



“Un grande intreccio, e proprio il genere di libro che farete fatica a mettere giù per dormire. Il finale è ad alta tensione, talmente spettacolare che vorrete comprare all’istante il libro successivo, anche solo per vedere cosa succede.”

--The Dallas Examiner {parlando di Loved}



“Morgan Rice dà nuovamente prova di essere una narratrice di grande talent… Questo è un libro in grado di catalizzare un ampio spettro di lettori, inclusi i fan più giovani del genere fantasy/vampiresco. Il finale è un inaspettato colpo di scena, tale da lasciare senza fiato.”

--The Romance Reviews {parlando di Loved}


Libri di Morgan Rice









Libri di Morgan Rice



L’ANELLO DELLO STREGONE

UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)

LA MARCIA DEI RE (Libro #2)

A FEAST OF DRAGONS (Libro #3)

A CLASH OF HONOR (Libro #4)

A VOW OF GLORY (Libro #5)

A CHARGE OF VALOR (Libro #6)

A RITE OF SWORDS (Libro #7)

A GRANT OF ARMS (Libro #8)

A SKY OF SPELLS (Libro #9)

A SEA OF SHIELDS (Libro #10)



THE SURVIVAL TRILOGY

ARENA ONE: SLAVERSUNNERS (Libro #1)

ARENA TWO (Libro #2)



THE VAMPIRE JOURNALS

TURNED (Libro #1)

LOVED (Libro #2)

BETRAYED (Libro #3)

DESTINED (Libro #4)

DESIRED (Libro #5)

BETROTHED (Libro #6)

VOWED (Libro #7)

FOUND (Libro #8)

RESURRECTED (Libro #9)

CRAVED (Libro #10)


Copyright © 2013 by Morgan Rice



All rights reserved. Except as permitted under the U.S. Copyright Act of 1976, no part of this publication may be reproduced, distributed or transmitted in any form or by any means, or stored in a database or retrieval system, without the prior permission of the author.



This ebook is licensed for your personal enjoyment only. This ebook may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this book with another person, please purchase an additional copy for each recipient. If you’re reading this book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then please return it and purchase your own copy. Thank you for respecting the hard work of this author.



This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.


INDICE



CAPITOLO UNO (#u4a746998-da4d-5c4e-9e22-f16305cd84ee)

CAPITOLO DUE (#u9b745814-0f3a-59ce-b278-959ae9a36438)

CAPITOLO TRE (#uf9d5ee02-2490-5f61-a6d5-e41c9191069d)

CAPITOLO QUATTRO (#u7f836978-f6d7-5581-8f44-5daed15f380b)

CAPITOLO CINQUE (#uaca467fb-6d8f-5d70-b74a-5c429e047fe9)

CAPITOLO SEI (#u2e6c8bb8-67b5-5448-9b4d-bcf4ac31e992)

CAPITOLO SETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO OTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO NOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DIECI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO UNDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DODICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TREDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUATTORDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUINDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIASSETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIANNOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIDUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTITRE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIQUATTRO (#litres_trial_promo)

CHAPTER TWENTY FIVE (#litres_trial_promo)

CHAPTER TWENTY SIX (#litres_trial_promo)

CHAPTER TWENTY SEVEN (#litres_trial_promo)

CHAPTER TWENTY EIGHT (#litres_trial_promo)


“Giace scomoda la testa che indossa la corona.”

—William Shakespeare

Enrico IV, Parte II




CAPITOLO UNO


Il ragazzo se ne stava in piedi sul poggio più elevato della Landa Inferiore, nel Regno Occidentale dell’Anello, e guardava verso nord, osservando il primo dei soli che sorgeva. Fin dove giungeva il suo sguardo non si vedeva che una distesa ondeggiante di verdi colline, simili alle gobbe di un cammello, che salivano e scendevano in un susseguirsi di valli e picchi. L’arancio dei raggi del primo sole indugiava nella bruma mattutina facendo brillare quei promontori e donando alla luce una magia che combaciava con lo stato d’animo del giovane.

Raramente si alzava così presto, né era solito allontanarsi così tanto da casa; e mai era salito così in alto, ben sapendo che ciò avrebbe suscitato la collera di suo padre. Ma quel giorno non gli importava. Quel giorno non aveva intenzione di curarsi di quel milione di regole ed incombenze che l’avevano oppresso nei suoi quattordici anni di vita. Perché quel giorno era diverso. Quel giorno si sarebbe potuto compiere il suo destino.

Il ragazzo, Thorgrin del Regno Occidentale della Provincia del Sud del clan McLeod, da tutti conosciuto semplicemente come Thor – il più giovane di quattro fratelli, il meno favorito di suo padre – aveva vegliato tutta la notte, in attesa di quel giorno. Si era girato e rigirato, con lo sguardo offuscato, nell’attesa, nel desiderio che il primo sole sorgesse. Perché un giorno come quello arrivava solo una volta nel giro di molti anni, e se avesse perso quell’occasione, sarebbe rimasto in quel villaggio, condannato ad occuparsi del gregge di suo padre, per il resto dei suoi giorni. Il solo pensiero gli era intollerabile.

Giorno della Coscrizione. Era il giorno in cui l’Esercito del Re attraversava le province e raccoglieva volontari per la Legione del Re. Per tutta la sua vita Thor non aveva sognato altro. La vita significava per lui una sola cosa: far parte dell’Argento, l’elite di cavalieri del re, adorni delle migliori armature e dotati di armi di prima scelta ovunque nei due regni. Nessuno poteva accedere all’Argento se prima non aveva fatto parte della Legione, la compagnia di scudieri dai quattordici ai diciannove anni. E non vi era altro modo di accedere alla Legione se non essere figli di un nobile o di un valoroso guerriero.

Il Giorno della Coscrizione era l’unica eccezione, un evento raro che capitava a distanza di anni, quando la Legione era a corto di componenti e gli uomini del re pattugliavano il territorio a caccia di nuove reclute. Tutti sapevano che solo pochi cittadini comuni sarebbero stati scelti, e che ancora meno sarebbero stati quelli effettivamente ammessi a far parte della Legione.

Thor se ne stava lì, ad osservare assorto l’orizzonte, in attesa di un minimo segno di movimento. L’Argento, lo sapeva, sarebbe passato per di lì – l’unica strada che conduceva al suo villaggio – e voleva essere il primo ad avvistarli. Nel gregge raccolto attorno a lui, le pecore protestavano emettendo un coro di fastidiosi belati, nel tentativo di sollecitarlo a riportarle a valle, dove il pascolo era migliore. Thor cercava di non pensare al rumore, e alla puzza. Doveva concentrarsi.

Ciò che gli aveva permesso di sopportare tutto questo – tutti quegli anni a prendersi cura del gregge, a fare da servo a suo padre e ai suoi fratelli più grandi, ad essere quello che riceveva le minori attenzioni e il maggior carico di lavoro – era l’idea che un giorno avrebbe abbandonato quel luogo. Un giorno, quando l’Argento fosse giunto, lui avrebbe sorpreso tutti quelli che l’avevano sottovalutato e sarebbe stato selezionato. Con un unico repentino gesto sarebbe salito sulla loro carrozza e avrebbe detto addio a tutto questo.

Il padre di Thor, ovviamente, non l’aveva mai preso in considerazione come possibile candidato per la Legione; a dire il vero non l’aveva mai considerato come possibile candidato per alcunché. Al contrario, suo padre riservava tutto il suo affetto e le sue attenzioni ai tre fratelli maggiori di Thor. Il primogenito aveva diciannove anni e gli altri venivano in successione con solo un anno di differenza, mentre Thor era ben tre anni più giovane di loro. Probabilmente perché più vicini di età tra di loro, o forse perché si assomigliavano ed erano tutti completamente diversi da Thor, i tre stavano sempre insieme, a malapena consapevoli dell’esistenza del fratello minore.

Quel che era peggio, erano più alti e robusti e forti di lui, e Thor, che sapeva di non essere basso, ciononostante si sentiva piccolo accanto a loro: aveva la sensazione che i muscoli delle sue gambe fossero deboli in confronto alle loro, che sembravano barili di quercia. Il padre non faceva niente per bilanciare la situazione, niente di ciò, piuttosto sembrava goderne lasciando che Thor si occupasse delle pecore e affilasse le armi, mentre i suoi fratelli potevano allenarsi. Non era mai stato espressamente detto, ma era implicito che Thor avrebbe trascorso tutta la sua vita dietro le quinte, costretto a guardare i suoi fratelli che compivano grandi imprese. Il suo destino, se fosse stato per suo padre e i suoi fratelli, era di rimanere lì, inghiottito da quel villaggio, a dare alla propria famiglia il sostegno che richiedeva.

Ancora peggiore era il fatto che Thor percepiva che i suoi fratelli, paradossalmente, si sentivano minacciati da lui, forse addirittura lo odiavano. Thor poteva scorgerlo in ogni loro sguardo, in ogni gesto. Non capiva come, ma era in grado di suscitare in loro una sorta di paura o gelosia. Forse perché era diverso da loro, non gli assomigliava e non parlava con i loro vezzi; non si vestiva neanche come loro, dato che il padre riservava il meglio – indumenti viola e scarlatti, armi dorate - per i suoi fratelli, mentre a Thor venivano lasciati gli stracci più grezzi.

Ciononostante, Thor faceva del suo meglio con ciò che aveva, trovando un modo per rendere adatti i suoi abiti: legava la tunica con una fascia attorno alla vita e, ora che era giunta l’estate, aveva tagliato le maniche cosicché le sue braccia sode potessero essere carezzate dall’aria. A questo si abbinava un paio di pantaloni di lino sgualciti, l’unico paio che aveva, e stivali fabbricati con la pelle più scadente e stretti agli stinchi. Non avevano niente a che vedere con la pelle di quelli indossati dai suoi fratelli, ma lui li faceva andare bene. Indossava la tipica uniforme da pastore, ma ne mostrava a malapena l’atteggiamento. Thor era alto e slanciato, la mascella fiera, il mento nobile, zigomi alti e occhi grigi, come un guerriero fuori posto. I suoi capelli dritti e castani formavano delle onde sulla testa, terminando giusto dietro le orecchie, e i suoi occhi luccicavano come fanno certi pesci quando guizzano sotto la luce.

I fratelli di Thor avrebbero avuto il permesso di dormire quella mattina, avrebbero ricevuto un pasto sostanzioso e sarebbero stati mandati alla selezione con le armi più belle e la benedizione di loro padre, mentre a lui non sarebbe stato neanche consentito di partecipare. Aveva tentato di sollevare il discorso una volta con suo padre. Non era andata bene. Il padre aveva sommariamente messo fine alla conversazione, e lui non ci aveva più riprovato. Non era giusto.

Thor era determinato a rifiutare il destino che suo padre aveva definito per lui: non appena la carrozza reale fosse comparsa, sarebbe corso di nuovo a casa, avrebbe affrontato suo padre e, che gli piacesse o no, si sarebbe presentato agli Uomini del Re. Avrebbe partecipato alla selezione come tutti gli altri. Suo padre non poteva fermarlo. Avvertì un nodo nello stomaco al pensiero.

Il primo sole saliva, e quando anche il secondo sole iniziò a sorgere, nel suo bagliore verde menta, aggiungendo un strato di luce nuova al cielo viola, Thor li scorse.

Rimase lì in piedi, con la pelle d’oca, completamente elettrizzato. Laggiù, all’orizzonte, avanzava la sagoma sfuocata di una carrozza trainata da un cavallo, le ruote che sollevavano polvere al cielo. Il battito del suo cuore accelerò quando un’altra comparve, poi un’altra ancora. Anche da laggiù le carrozze dorate scintillavano alla luce dei soli, come pesci argentati che guizzano dall’acqua.

Fino a quel momento ne aveva contate dodici: non poteva aspettare oltre. Con il cuore che gli martellava nel petto, dimenticando il gregge per la prima volta nella sua vita, Thor si voltò e si buttò a capofitto giù dalla collina, determinato a non fermarsi per niente al mondo, non prima di essersi presentato.

*

Thor quasi non si fermò neppure per prendere fiato, mentre scendeva rapido dalla collina, attraverso gli alberi, incurante dei rami che lo graffiavano. Raggiunse una radura e vide il suo villaggio distendersi sotto di lui: un sonnacchioso paese di campagna, pieno di storia, con case di argilla bianca dai tetti di paglia. Non vivevano che qualche dozzina di famiglie lì. Il fumo saliva dai comignoli, rivelando che molti erano già in piedi per preparare la colazione. Era un luogo idilliaco situato ad una giornata di cammino dalla Corte del Re, la giusta distanza per scoraggiare i passanti. Semplicemente un altro villaggio di contadini al confine dell’Anello, un altro ingranaggio nella ruota del Regno Occidentale.

Thor si lanciò veloce a coprire l’ultimo tratto, fino alla piazza del villaggio, sollevando la polvere nella foga della sua corsa. Polli e cani fuggivano dalla sua traiettoria e una vecchia donna, rannicchiata davanti ad un pentolone di acqua bollente fuori dalla propria casa, gli sibilò contro.

“Rallenta, ragazzo!” gridò stridula quando lui le passò accanto, gettando della terra sul fuoco.

Ma Thor non si sarebbe fermato, né per lei né per nessun altro. Svoltò in una via secondaria, poi in un’altra, girando e svoltando lungo strade che conosceva a memoria, fino a che raggiunse casa.

Era piccola, dal vago aspetto di abitazione come tutte le altre, con i suoi muri d’argilla e il tetto di paglia secca. Come la maggior parte, aveva un unico vano diviso, con il padre che dormiva da una parte e i suoi tre fratelli dall’altra; diversamente dalle altre, aveva un piccolo pollaio sul retro, ed era qui che Thor era relegato a dormire. All’inizio aveva dormito accampato con i suoi fratelli, ma nel tempo loro erano diventati più grandi, più meschini e più boriosi, e avevano lasciato intendere di non volergli lasciare spazio. Thor ne era stato inizialmente ferito, ma ora apprezzava quello spazio tutto suo, preferendo stare ala larga dalla loro presenza. Era una semplice conferma del suo essere un esule all’interno della famiglia, cosa che già sapeva.

Thor corse fino alla porta d’ingresso e si proiettò all’interno senza fermarsi.

“Padre!” urlò ansimando, ormai senza fiato. “L’Argento! Stanno arrivando!”

Suo padre ed i tre fratelli stavano seduti, chini sul tavolo apparecchiato per la colazione, già vestiti di tutto punto. Alle sue parole saltarono in piedi e sfrecciarono verso l’uscio, passandogli accanto e urtandogli le spalle nella foga di raggiungere la strada.

Thor li seguì all’esterno e tutti rimasero lì a scrutare l’orizzonte.

“Io non vedo nessuno,” rispose Drake, il più grande, con voce profonda. Con le ampie spalle, i capelli tagliati corti come i suoi fratelli, gli occhi castani e le labbra sottili e sprezzanti, guardò Thor con cipiglio, come al solito.

“Neanche io,” gli fece eco Dross, solo un anno più giovane di Drake e sempre pronto a stare dalla sua parte.

“Stanno arrivando!” replicò Thor. “Lo giuro!”

Suo padre si voltò verso di lui e lo afferrò severamente per le spalle.

“E come diavolo fai a saperlo?” chiese.

“Li ho visti.”

“Come? Da dove?”

Thor esitò. Suo padre l’aveva in pugno. Ovviamente sapeva che l’unico posto da dove Thor aveva potuto scorgerli era la cima di quel poggio. Ora Thor non era certo di quale fosse la risposta migliore da dare.

“Sono salito sul poggio.”

“Con il gregge? Sai che non devi portarlo così distante.”

“Ma oggi era diverso. Dovevo vedere.”

Suo padre lo guardò torvo in volto.

“Entra immediatamente e prendi le armi dei tuoi fratelli, e lucida i foderi, così che siano al meglio prima dell’arrivo degli uomini del re.”

Finito che ebbe con lui, il padre si voltò verso i suoi fratelli, che erano tutti in piedi in mezzo alla strada e guardavano in lontananza.

“Pensi che saremo scelti?” chiese Durs, il più giovane dei tre e tre anni abbondanti più grande di Thor.

“Sarebbero sciocchi a non farlo,” disse il padre. “Si trovano a corto di uomini quest’anno. La raccolta è stata magra, altrimenti non si sarebbero presi la briga di venire. Basta che stiate ben dritti in piedi, voi tre, tenete il mento alto e il petto in fuori. Non guardateli dritti negli occhi, ma neppure distogliete lo sguardo. Siate forti e sicuri di voi. Non mostrate titubanza. Se volete entrare nella Legione del Re, dovete comportarvi come se già ne faceste parte.”

“Sì padre,” risposero i tre ragazzi in coro, mettendosi in posizione.

L’uomo si voltò e lanciò uno sguardo truce a Thor.

“Cosa stai facendo ancora lì?” chiese. “Va’ dentro!”

Thor era combattuto. Non voleva disobbedire al padre, ma doveva parlargli. Il cuore gli martellava nel petto mentre tentava di capire cosa fare. Decise che era meglio obbedire e prendere le spade, per poi affrontare il padre. Disobbedire direttamente non gli sarebbe stato d’aiuto.

Thor corse in casa e uscì dal retro, raggiungendo il ricovero delle armi. Trovò le tre spade dei fratelli, bellissimi oggetti tutte e tre, dotate delle più belle else d’argento, doni preziosi per i quali suo padre aveva faticato per anni. Le afferrò, meravigliandosi come sempre del loro peso, e corse di nuovo attraverso la casa portandole con sé.

Balzò di fronte ai suoi fratelli e porse a ciascuno la sua spada, poi si voltò verso il padre.

“Cosa, non sono lucidate?” disse Drake.

Il padre si girò a guardarlo con disapprovazione, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa Thor parlò.

“Padre, per favore. Ho bisogno di parlarti!”

“Ti ho detto di lucidare le armi.”

“Padre, ti prego!”

Il padre gli restituì un’occhiata furente, combattuto sul da farsi. Sicuramente vedeva la determinazione sul volto di Thor, perché alla fine disse: “Ebbene?”

“Voglio essere valutato. Con gli altri. Per la Legione.”

La risata dei suoi fratelli risuonò alle sue spalle, facendolo arrossire in volto.

Ma il padre non rise; al contrario il suo cipiglio si rilassò.

“Davvero?” chiese.

Thor annuì con decisione.

“Ho quattordici anni. Sono idoneo.”

“Quattordici anni è il limite”, disse Drake con tono denigratorio, guardandolo dall’alto verso il basso. “Se ti prendessero saresti il più giovane. Credi davvero che sceglierebbero te sopra qualcuno come me, di cinque anni più vecchio?”

“Sei un insolente,” disse Durs. “Lo sei sempre stato.”

Thor si voltò verso di loro. “Non lo sto chiedendo a voi,” disse.

Si rigirò verso il padre, che nuovamente aggrottò la fronte.

“Padre, per favore,” disse. “Dammi una possibilità. È tutto ciò che chiedo. So che sono giovane, ma mi farò valere, con il tempo.”

Il padre scosse la testa.

“Tu non sei un soldato, ragazzo. Non sei come i tuoi fratelli. Tu sei un pastore. La tua vita è qui. Con me. Compirai il tuo dovere, e lo compirai per bene. Non bisogna sognare troppo. Abbraccia la tua vita e impara ad amarla.”

Thor si sentì spezzare il cuore mentre vedeva la sua vita crollargli davanti agli occhi.

No, pensò. Non può essere vero.

“Ma padre…”

“Silenzio!” urlò, un grido così stridulo da fendere l’aria. “Con te ho finito. Eccoli che arrivano. Fatti da parte. E farai bene a comportarti come si deve, mentre sono qui.”

Il padre fece un passo in avanti e con una mano spinse Thor da parte, come un oggetto che fosse meglio non vedere. Il suo palmo nerboruto colpì il petto di Thor.

Si sollevò un forte rimbombo e la gente del villaggio si riversò dalle case, allineandosi lungo la strada.

Una nuvola di polvere avanzava, annunciando l’arrivo della carovana, e un attimo dopo infatti erano lì: una dozzina di carrozze ad un cavallo che avanzavano con il rumore di un potente tuono.

Giunsero al villaggio come un esercito, fermandosi accanto alla casa di Thor. I loro cavalli stavano fermi sul posto, scalpicciando e sbuffando. Ci volle un bel po’ di tempo perché la nuvola di polvere calasse a terra, e Thor cercò ansiosamente di sbirciare di soppiatto le loro armature, i loro armamenti. Non aveva mai visto l’Argento così da vicino prima d’ora, e il cuore gli batteva forte.

Il soldato sul primo cavallo smontò dal suo stallone. Eccolo lì, un vero, effettivo membro dell’Argento, ricoperto di cotta di maglia luccicante, una lunga spada alla cintura. Sembrava sulla trentina, un vero uomo, la barba corta, cicatrici sulla guancia e il naso ingobbito dalla battaglia. Era l’uomo più considerevole che Thor avesse mai visto: largo il doppio degli altri, con un espressione in volto che ne lasciava intendere la forza.

Il soldato saltò giù in mezzo alla strada sporca e i suoi speroni tintinnavano mentre si avvicinava alla fila di ragazzi.

Da un capo all’altro del villaggio stavano decine di ragazzi, sull’attenti e pieni di speranza. Far parte dell’Argento significava una vita di onori, battaglie, fama, gloria, ma anche di terre, titoli e ricchezze. Significava la migliore sposa, la terra di prima scelta, una vita di gloria. Significava onore per la tua famiglia, ed entrare nella Legione era il primo passo.

Thor aveva studiato le grandi carrozze dorate, e sapeva che potevano portare solo un certo numero di reclute. Era un grande regno, e loro avevano tanti paesi da visitare. Sussultò, rendendosi conto che le sue possibilità erano ancora più remote di quanto si fosse immaginato. Avrebbe dovuto battere tutti questi altri ragazzi – molti di loro combattenti notevoli – oltre ai suoi tre fratelli. Iniziò a scoraggiarsi.

Thor riusciva a malapena a respirare mentre il soldato camminava in silenzio, osservando le schiere di speranzosi. Iniziò dall’estremità opposta della strada, poi proseguì lentamente in senso circolare. Thor conosceva tutti gli altri ragazzi, ovviamente. Sapeva anche che alcuni di loro segretamente non ambiva ad essere scelti, sebbene le loro famiglie volessero mandarceli. Avevano paura, sarebbero stati dei soldati di scarso valore.

L’orgoglio di Thor gli bruciava dentro. Sentiva di meritare di essere scelto, tanto quanto ciascuno di loro. Solo perché i suoi fratelli erano più vecchi, più grandi e più forti non significava che lui non dovesse avere il diritto di stare lì ed essere scelto. Si sentiva bruciare di odio nei confronti di suo padre, e quasi avvampò quando il soldato gli si avvicinò.

Il soldato si fermò, per la prima volta, di fronte ai suoi fratelli. Li guardò dall’alto in basso, e sembrò colpito. Allungò una mano, afferrò uno dei loro foderi e lo strattonò, come per metterne alla prova la resistenza.

Sorrise.

“Non hai ancora usato la tua spada in battaglia, vero?” chiese a Drake.

Thor vide Drake nervoso per la prima volta nella sua vita. Deglutì.

“No, mio signore. Ma l’ho usata molte volte nelle esercitazioni, e spero di…”

“Nelle esercitazioni!”

Il soldato rise fragorosamente e si voltò verso gli altri soldati, che gli fecero eco, sghignazzando in faccia a Drake.

Drake arrossì. Era la prima volta che Thor vedeva Drake imbarazzato: di solito era Drake a mettere gli altri in imbarazzo.

“Bene, allora dovrò sicuramente dire ai nostri nemici di avere paura di te, te che brandisci la tua spada nelle esercitazioni!”

Il gruppo di soldati rise di nuovo.

Il soldato si voltò poi verso gli altri fratelli.

“Tre ragazzi dello stesso stampo,” disse, grattandosi la barbetta sul mento. “Può tornare utile. Siete tutti di buona stazza. Però non ancora collaudati. Avrete bisogno di molto allenamento, se volete essere all’altezza.”

Fece una pausa.

“Credo che si possa trovare del posto.”

Fece un cenno verso l’ultima carrozza.

“Entrate, e fatelo in fretta. Prima che cambi idea.”

I tre fratelli di Thor scattarono verso la carrozza, raggianti. Thor notò che anche suo padre era radioso.

Lui invece era desolato, mentre li guardava andare.

Il soldato si voltò e proseguì verso la casa successiva. Thor non riuscì più a trattenersi.

“Signore!” gridò.

Suo padre si voltò e gli lanciò un’occhiataccia, ma a Thor non interessava più.

Il soldato si fermò, la schiena rivolta verso di lui, e lentamente si voltò.

Thor fece due passi in avanti, il cuore che gli batteva all’impazzata, e spinse il petto in fuori più che poteva.

“Non mi avete considerato, signore,” disse.

Il soldato, sorpreso, guardò Thor dall’alto in basso, come se si trattasse di uno scherzo.

“No?” chiese, e scoppiò a ridere.

Anche i suoi uomini risero. Ma Thor non se ne curò. Questo era il suo momento. Ora o mai più.

“Voglio entrare a far parte della Legione!” disse Thor.

Il soldato si avvicinò a Thor.

“Tu? Ora?”

Aveva un aspetto divertito.

“Hai compiuto il quattordicesimo anno?”

“Certo signore. Due settimane fa.”

“Due settimane fa!”

Il soldato sghignazzò, e cos fecero gli uomini dietro di loro.

“In questo caso i nostri nemici sicuramente tremeranno al solo vederti.”

Thor si sentiva bruciare per l’affronto. Doveva fare qualcosa. Non poteva permettere che finisse così. Il soldato gli voltò le spalle per andarsene, ma Thor non poteva accettarlo.

Fece un passo avanti e urlò: “Signore! Sta facendo un errore!”

Un sussulto di orrore si diffuse tra la folla, mentre il soldato si fermava e si girava lentamente. Ora si stava facendo più serio e accigliato.

“Stupido ragazzo,” disse suo padre, prendendo Thor per le spalle, “Torna dentro!”

“No!” gridò Thor, divincolandosi dalla presa di suo padre.

Il soldato avanzò verso Thor, e suo padre si ritrasse.

“Sai qual la punizione per l’insulto all’Argento?” disse il soldato seccamente.

Il cuore di Thor gli martellava nel petto, ma sapeva che non poteva più tornare indietro.

“La prego di perdonarlo, signore,” disse suo padre. “È un ragazzino e…”

Il soldato si voltò nuovamente verso Thor.

“Rispondimi!” disse.

Thor deglutì, incapace di parlare. Non era così che le cose dovevano andare nella sua testa.

“Insultare l’Argento significa insultare il Re in persona,” disse Thor umilmente, recitando ciò che aveva imparato a memoria.

“Sì,” disse il soldato. “Il che significa che posso darti quaranta frustrate, se voglio.”

“Non è mia intenzione insultare, signore,” disse Thor. “Voglio solo essere preso. Per favore. È tutta la vita che lo sogno. Per favore. Lasciatemi entrare nella Legione.”

Il soldato rimase immobile, e lentamente la sua espressione si ammorbidì. Dopo un po’ scosse la testa.

“Sei giovane, ragazzo. Hai un cuore valoroso. Ma non sei pronto. Torna da noi quando sarai svezzato.”

Detto questo, si voltò e si allontanò rapidamente, guardando a malapena gli altri ragazzi. Risalì velocemente a cavallo.

Thor rimase lì, mortificato, a guardare mentre la carovana si rimetteva in moto. Tanto veloci come erano arrivati, se n’erano già andati.

L’ultima cosa che Thor vide furono i suoi fratelli, seduti sul retro dell’ultima carrozza, che lo guardavano con disapprovazione e scherno. Li stavano portando via davanti ai suoi occhi, via da lì, verso una vita migliore.

Thor si sentiva morire dentro.

Mentre l’eccitazione svaniva attorno a lui, gli abitanti del villaggio rientrarono di soppiatto nelle loro case.

“Ti rendi conto di quanto stupido sei stato, sciocco ragazzino?” disse seccamente il padre di Thor afferrandolo per le spalle. “Ti rendi conto che avresti potuto mettere a repentaglio le possibilità dei tuoi fratelli?”

Thor si liberò scontrosamente dalle mani di suo padre, che gli rispose con un ceffone sul viso.

Thor sentì il bruciore del colpo e fissò suo padre con cipiglio. Una parte di lui, per la prima volta, avrebbe voluto rispondere con un altro colpo. Ma si trattenne.

“Va’ a prendere le me mie pecore e riportale a casa. Ora! E quando torni, non aspettarti che ti prepari la cena. Farai a meno di mangiare stasera, e penserai a quello che hai fatto.”

“Può darsi che io non torni per niente!” gridò Thor, voltandosi e andandosene furente, allontanandosi dalla sua casa, in direzione delle colline.

“Thor!” gridò suo padre, mentre alcune persone si fermavano a guardarli.

Thor allungò il passo e si mise infine a correre, spinto dal desiderio di andarsene il più lontano possibile da quel posto. Si rese conto a malapena che stava piangendo, con le lacrime che gli solcavano il volto, mentre ogni sogno che avesse mai coltivato veniva infranto.




CAPITOLO DUE


Thor girovagò per ore sulle colline, fremendo di rabbia, e alla fine scelse una collina e si sedette, le braccia incrociate sopra alle ginocchia, a guardare l’orizzonte. Guardò le carrozze mentre scomparivano, la nuvola di polvere che rimase a fluttuare per ore anche dopo che si furono eclissati.

Non ci sarebbero state altre visite. Ora era destinato a restare lì, in quel villaggio, per anni, in attesa di un'altra possibilità, se mai fossero tornati. Se suo padre gliel’avesse mai permesso. Ora sarebbero stati solo lui ed il padre, soli nella casa, e suo padre gli avrebbe sicuramente scaricato addosso tutta l’ira possibile. Avrebbe continuato ad essere il servo di suo padre, gli anni sarebbero passati, e lui avrebbe finito per ritrovarsi esattamente come lui, bloccato in quel luogo, a condurre una vita minima e domestica, mentre i suoi fratelli guadagnavano gloria e fama. Il sangue gli ribolliva nelle vene per l’onta di tutto ciò: non era quella la vita che lui intendeva vivere. Ne era certo.

Thor si scervellò alla ricerca di una soluzione, di un modo per cambiare la situazione. Ma non trovò nessuna risposta. Queste erano le carte che la vita aveva girato per lui.

Dopo ore che se ne stava seduto, si alzò sconfortato e iniziò a ripercorrere la strada verso casa sulle familiari colline, sempre più in alto. Inevitabilmente andò in direzione del gregge, verso l’alto poggio. Mentre avanzava, il primo sole era già alto nel cielo ed il secondo aveva appena raggiunto il picco, emanando una tonalità verdognola.

Thor prese tempo e rallentò, distrattamente prese la fionda che teneva legata alla vita, l’impugnatura usurata dagli anni. Infilò la mano nel sacco che gli pendeva dal fianco e fece passare fra le dita la sua collezione di pietre, una più liscia dell’altra, e ne scelse una fra le migliori, quelle provenienti dal letto del fiume. Talvolta tirava agli uccelli, in altre occasioni a piccoli roditori. Era un’abitudine che aveva radicato negli anni. Le prime volte non prendeva un colpo; poi, un giorno, aveva colpito un bersaglio in movimento. Da quella volta era sempre andato a centro sicuro. Ora lanciare pietre era diventato una parte di lui, e gli era di aiuto per sfogare parte della sua rabbia. I suoi fratelli erano forse capaci di fendere un ceppo d’albero con la loro spada, ma non sarebbero mai stati in grado di colpire con una pietra un uccello in volo.

Automaticamente posizionò una pietra nella fionda, si piegò indietro e lanciò con tutte le sue forze, immaginando di tirare il colpo contro suo padre. Colpì il ramo di un albero lontano, recidendolo nettamente. Quando si rese conto che poteva realmente uccidere animali in movimento, aveva smesso di mirare a questi, spaventato dalla sua stessa forza e non volendo far del male a niente o nessuno. Ora i suoi bersagli erano i rami. A meno che, ovviamente, una volpe non si avvicinasse al suo gregge. Con il tempo aveva imparato a stare allerta. Per tutto risultato, quelle di Thor erano le pecore più al sicuro di tutto il villaggio.

Thor pensò ai suoi fratelli, a dove si trovassero in quel preciso momento, e si sentì ribollire. Dopo un giorno di viaggio sarebbero arrivati alla Corte del Re. Li poteva immaginare. Se li vedeva arrivare in pompa magna, accolti da gente vestita con gli abiti migliori. Venivano accolti dai guerrieri. I Membri dell’Argento. Li avrebbero fatti entrare, gli avrebbero dato un posto in cui vivere nella caserma della Legione, un posto dove allenarsi nei campi del Re, le armi migliori. Ciascuno di loro sarebbe stato nominato scudiero di un famoso cavaliere. Un giorno sarebbero poi diventati cavalieri loro stessi: avrebbero avuto il loro cavallo, il loro blasone, il loro scudiero. Avrebbero partecipato a tutte le feste e banchettato alla mensa del Re. Era una vita incantata. E gli era scivolata via dalle mani. Thor si sentiva fisicamente male, e tentava di scacciare tutti quei pensieri dalla sua testa. Ma non ne era capace. C’era una parte di lui, una parte nascosta, che gli urlava contro. Gli diceva di non arrendersi, che il suo destino era ben più grande di tutto ciò. Non aveva idea di che cosa fosse, ma sapeva che non poteva stare lì. Sentiva di essere diverso. Forse addirittura speciale. Che nessuno lo capiva. E che tutti lo sottovalutavano.

Thor raggiunse il poggio più alto e avvistò il suo gregge. Ben addestrate, le pecore erano ancora tutte insieme e masticavano con soddisfazione ogni ciuffo d’erba che riuscivano ad acciuffare. Le contò, cercando i segni rossi che aveva impresso sulle loro schiene. Quando ebbe finito, rimase pietrificato. Mancava una pecora.

Contò di nuovo, e di nuovo ancora. Non poteva crederci: ne mancava una.

Thor non aveva mai perso una pecora prima, e suo padre non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Quel che era peggio, non poteva sopportare l’idea di una pecora perduta, sola e vulnerabile in quella landa selvaggia. Odiava vedere soffrire qualsiasi essere innocente.

Thor si precipitò sulla cima del poggio e scrutò l’orizzonte fino a che la vide, lontana, parecchie colline più in là: la pecora solitaria, il segno rosso sulla schiena. Era la selvatica del gruppo. Il cuore gli si fermò in petto quando si rese conto che la pecora non solo era fuggita, ma aveva scelto, fra tutti i luoghi, di dirigersi verso ovest, in direzione di Bosconero.

Thor sussultò. Bosconero era un luogo vietato, non solo alle pecore ma anche agli umani. Si trovava oltre il limitare del villaggio, e da quando aveva imparato a camminare Thor sapeva di non doversi avventurare lì. Non l’aveva mai fatto. Recarsi in quel luogo, diceva la leggenda, significava morte sicura: i suoi boschi non contrassegnati erano pieni di bestie feroci.

Thor, dibattuto, guardò in alto, verso il cielo che si stava oscurando. Non poteva permettere che la sua pecora se ne andasse. Calcolò che se si fosse mosso in fretta l’avrebbe recuperata in tempo.

Dopo essersi guardato alle spalle un’ultima volta, si girò e cominciò a correre di gran lena, diretto verso nord, verso Boscoscuro, mentre nuvole spesse iniziavano a formarsi sopra di lui. Aveva una sensazione tremenda, tuttavia le gambe sembravano portarlo da sole. Sentiva che, se mai l’avesse voluto, non c’era la possibilità di tornare indietro.

Era come tuffarsi di corsa in un incubo.

*

Thor passò di corsa la seria di colline senza mai fermarsi, fino ad entrare nella fitta cupola di Boscoscuro. I sentieri finivano laddove il bosco aveva inizio, e lui continuò a correre su territorio non contrassegnato, con le foglie dell’estate che scricchiolavano sotto i suoi piedi.

Nel momento in cui entrò nel bosco, venne inghiottito dall’oscurità, dato che la luce veniva bloccata dall’alto da pini torreggianti. Era anche più freddo là dentro, e quando attraversò la soglia, sentì una certa frescura. Non era causata semplicemente dal buio, o dall’aria fredda, ma proveniva da qualcos’altro. Qualcosa a cui non sapeva dare un nome. Era come essere osservati.

Thor guardò in alto verso gli antichi rami, nodosi, più grossi di lui stesso, che ondeggiavano e scricchiolavano nella brezza. Aveva appena fatto cinquanta passi nel bosco, quando iniziò a sentire strani versi di animali. Si girò e riuscì a malapena a vedere il punto da dove era entrato; si sentiva già come non ci fosse alcuna via d’uscita. Esitò.

Boscoscuro si era sempre trovato alla periferia del villaggio e alla periferia della coscienza di Thor, qualcosa di profondo e misterioso. Ogni pastore che mai avesse perso una pecora nel bosco non si era mai avventurato a recuperarla. Neanche suo padre. I racconti che riguardavano quel luogo erano talmente oscuri, talmente incalzanti.

Ma quel giorno portava con sé qualcosa di diverso, qualcosa per cui Thor sentiva di non curarsene e che lo spingeva a gettare al vento ogni forma di cautela. Una parte di lui desiderava spingersi oltre il confine, per andare il più lontano possibile da casa e per lasciare che la vita lo portasse dove era possibile.

Si avventurò oltre, poi si fermò, incerto sulla direzione da prendere. Notò dei segni: rami piegati dove la sua pecora forse era passata, e girò quindi da quella parte. Dopo un po’ svoltò un’altra volta.

Prima che fosse passata un’ora si era ormai irrimediabilmente perso. Cercò di ricordare la direzione da cui era giunto, ma non ne era più così sicuro. Una sensazione di disagio gli attanagliò lo stomaco, ma capì che l’unico modo per uscire da quella situazione era andare avanti, quindi continuò a procedere.

In lontananza Thor avvistò un raggio di sole e si diresse da quella parte. Si ritrovò in una piccola radura e si fermò al limitare di questa, immobile: non poteva credere a ciò che aveva davanti agli occhi.

Lì in piedi, vestito con una lunga tunica di raso e con le spalle rivolte a Thor, stava un uomo. No, non un uomo, Thor poteva percepirlo. Era qualcosa di diverso. Un druido, forse. Era alto e allampanato, la testa coperta da un cappuccino, perfettamente immobile, come se non gliene importasse nulla del mondo.

Thor rimase immobile senza ben sapere cosa fare. Aveva sentito parlare dei druidi, ma non ne aveva mai incontrato uno. Dai segni sulla sua tunica, un elaborato ricamo dorato, non si trattava di un mero druido: quelli erano segni reali. Della corte del Re. Thor non riusciva a capire. Cosa ci faceva un druido del Re in quel luogo?

Dopo un tempo che gli parve un’eternità, il druido lentamente si voltò e guardò Thor in faccia: a quel punto Thor lo riconobbe. Gli mancò il fiato. Era uno dei volti più noti nel regno: il druido personale del Re. Argon, consigliere dei re del Regno Occidentale da secoli. Cosa ci facesse lì, lontano dalla corte reale, nel bel mezzo di Boscoscuro, era un mistero. Thor si chiese se per caso stesse sognando.

“I tuoi occhi non ti ingannano,” disse Argon, fissando Thor dritto in volto.

La sua voce era profonda, antica, come fosse emanata dagli alberi stessi. I suoi occhi grandi e luccicanti sembravano trapassare Thor da un capo all’altro. Sentiva un’energia intensa che si irradiava da lui, come se si trovasse di fronte al sole.

Thor immediatamente si inginocchiò e abbassò il capo.

“Mio signore,” disse. “Mi spiace averti disturbato.”

La mancanza di rispetto nei confronti di un consigliere del Re poteva portare all’arresto o alla morte. Questo era stato inculcato in Thor fin dalla nascita.

“Alzati, fanciullo,” disse Argon. “Se avessi voluto che ti inginocchiassi, te l’avrei detto.”

Lentamente Thor si aòl e lo guardò. Argon fece qualche passo verso di lui. Se ne stava lì a fissarlo, fino a che Thor iniziò a sentirsi a disagio.

“Hai gli occhi di tua madre,” disse Argon.

Thor fu preso alla sprovvista. Non aveva mai conosciuto sua madre, non aveva mai incontrato nessun altro, a parte suo padre, che la conoscesse. Gli avevano raccontato che era morta dandolo alla luce, cosa per la quale Thor aveva sempre provato un senso di colpa. Aveva sempre sospettato che quella fosse la ragione per cui la sua famiglia lo odiava così tanto.

“Credo che tu mi stia confondendo con qualcun altro,” disse Thor. “Io non ho una madre.”

“Davvero?” chiese Argon sorridendo. “Sei nato da un uomo?”

“Volevo dire, signore, che mia madre è morta durante il parto. Credo che tu si stia sbagliando.”

“Tu sei Thorgrin, del Clan McLeod. Il più giovane di quattro fratelli. Quello che non è stato scelto.”

Thor sgranò gli occhi. Non sapeva proprio che senso dare a quella situazione. Che qualcuno del lignaggio di Argon conoscesse chi era lui, questo era al di fuori della sua capacità di comprensione. Mai avrebbe immaginato che qualcuno fuori dal villaggio lo conoscesse.

“Come fai a saperlo?”

Argon gli sorrise, ma non rispose.

Thor si sentì improvvisamente pervadere dalla curiosità.

“Come…” aggiunse Thor, cercando le parole giuste, “come sai di mia madre? La conoscevi? Chi era?”

Argon si voltò e si allontanò.

“Domande per un’altra volta,” disse.

Thor lo guardò andarsene, confuso. Era stato un incontro talmente frastornante e misterioso, e tutto stava accadendo così in fretta. Decise che non poteva permettere che Argon se ne andasse. Lo rincorse.

“Cosa ci fai qui?,” chiese Thor, correndo per raggiungerlo. Argon, usando il suo bastone, un antico oggetto d’avorio, camminava sorprendentemente veloce. “Non stavi aspettando me, vero?”

“E chi altro?” chiese Argon.

Thor camminava in fretta per stare al passo, seguendolo nel bosco e lasciandosi la radura alle spalle.

“Ma perché io? Come potevi sapere che sarei venuto qui? Cosa stai cercando?”

“Quante domande,” disse Argon. “Saturi l’aria. Dovresti ascoltare, piuttosto.”

Thor lo seguì mentre proseguivano attraverso il bosco fitto, facendo del suo meglio per restare in silenzio.

“Tu sei qui alla ricerca della tua pecora perduta,” affermò Argon. “Uno sforzo nobile. Ma sprechi il tuo tempo. Non sopravviverà.”

Thor sgranò gli occhi.

“Come fai a saperlo?”

“Io conosco parole che tu mai saprai, ragazzo. Almeno non ancora.”

Thor pensava tra sé e sé mentre camminava più velocemente per stare al passo.

“Ad ogni modo, non ascolterai. È nella tua natura. Ostinato. Come tua madre. Continuerai a correre dietro alla tua pecora, determinato a salvarla.”

Thor arrossì mentre Argon leggeva i suoi pensieri.

“Sei un ragazzo risoluto, aggiunse. Determinato. Troppo orgoglioso. Tratti positivi. Ma un giorno potrebbero determinare la tua sconfitta.”

Argon iniziò a risalire un crinale ricoperto di muschio, e Thor lo seguì.

“Tu vuoi entrare nella Legione del Re,” disse Argon.

“Sì!” rispose Thor trepidante. “C’è qualche possibilità? Puoi fare che succeda?”

Argon rise, un suono profondo e cavernoso che fece scorrere un brivido lungo schiena di Thor.

“Io posso far accadere tutto o niente. Il tuo destino è già stato scritto. Ma sta a te sceglierlo.”

Thor non capiva.

Raggiunsero la cima del crinale e quando furono arrivati Argon di fermò e guardò Thor negli occhi. Thor era solo qualche passo indietro, e la bruciante energia di Argon lo trapassava.

“Il tuo è un destino importante,” disse. “Non abbandonarlo.”

Thor sgranò ancor più gli occhi. Il suo destino? Importante? Si sentì pervadere dall’orgoglio.

“Non capisco. Parli per indovinelli. Ti prego, dimmi di più.”

All’improvviso, Argon svanì.

Thor non riusciva a credere ai suoi occhi. Rimase lì a guardare da ogni parte, in ascolto, dubbioso. Aveva immaginato tutto? Era stata una sorta di illusione?

Thor si voltò ed esaminò il bosco: da quel punto propizio, dall’alto del crinale, poteva vedere ben oltre rispetto a prima. Mentre osservava, scorse del movimento in lontananza. Udì un rumore ed ebbe la netta certezza che si trattasse della sua pecora.

Corse a precipizio giù dal crinale ricoperto di muschio e si diresse rapidamente verso il suono, di nuovo attraverso il bosco. Mentre procedeva non riusciva a togliersi dalla mente l’incontro con Argon. Si capacitava a malapena che fosse successo. Con tutti i posti che c’erano, cosa ci faceva il druido del Re proprio lì? Lo aveva aspettato. Ma perché? E cosa aveva voluto dire sul suo destino?

Più Thor cercava di capirci qualcosa, meno ne veniva fuori. Argon lo stava mettendo in guardia dal continuare, ma allo stesso tempo lo aveva tentato a farlo. Ora, mentre procedeva, Thor avvertì un crescente senso di inquietudine, come se qualcosa di importantissimo stesse per accadere.

Svoltò ad una curva e si fermò pietrificato alla vista di ciò che gli stava di fronte. Tutti i suoi peggiori incubi divennero realtà in un istante. Gli si rizzarono i capelli e si rese conto di aver commesso un grave errore addentrandosi così tanto in Boscoscuro.

Lì di fronte a lui, appena trenta passi più in là, c’era un Sybold. Enorme, robusto, alto – sulle quattro zampe – quasi quanto un cavallo. Si trattava dell’animale più temuto di Boscoscuro, forse del Regno intero. Thor non ne aveva mai visto uno, ma aveva sentito le leggende. Assomigliava ad un leone, ma era più grande, più robusto, con la pelle di un colore scarlatto scuro e gli occhi di un giallo brillante. La leggenda diceva che il suo colore scarlatto derivasse dal sangue di bambini innocenti.

Thor aveva sentito di ben pochi avvistamenti di quella bestia, e anche quei pochi risultavano dubbiosi. Forse perché nessuno era realmente mai sopravvissuto ad un incontro. Alcuni consideravano il Sybold come il Re del Bosco, e un auspicio. Quale fosse quell’auspicio, Thor proprio non riusciva ad immaginarlo.

Fece un cauto passo indietro.

Il Sybold si alzò, la mascella mezza aperta, con la saliva che gocciolava dalle sue fauci, è guardò verso Thor. In bocca aveva la pecora perduta che belava, appesa a testa in giù, con metà del corpo attanagliato dalle zanne. Era quasi morta. Il Sybold sembrava gioire della sua preda e prendeva tempo, sembrava provare piacere nel torturarla.

Thor non riuscì a sopportare i lamenti. La pecora si dimenava, indifesa, e lui si sentiva responsabile.

Il suo primo impulso fu di girarsi e correre via, ma già sapeva che sarebbe stato inutile: quella bestia poteva correre più veloce di ogni cosa. Fuggire l’avrebbe solo incoraggiato. E inoltre non poteva lasciar morire la sua pecora in quel modo.

Esitò, paralizzato dalla paura, sapendo di dover agire in qualche modo.

I suoi riflessi presero il comando. Lentamente infilò la mano nella sua borsa, prese una pietra e la inserì nella fionda. Con mano tremante caricò, fece un passo indietro e lanciò.

La pietra sfrecciò fendendo l’aria e colpì il bersaglio. Era stato un tiro perfetto: la pietra prese la pecora in un occhio, arrivando dritta al cervello.

La pecora si afflosciò. Era morta. Thor aveva risparmiato la sofferenza a quella povera bestia.

Il Sybold si accigliò, incollerito perché il ragazzo aveva ucciso il suo giocattolo. Aprì lentamente le immense fauci e lasciò cadere la pecora, che atterrò a terra con un tonfo. Poi rivolse gli occhi a Thor.

Ringhiò, un suono profondo e malvagio, che gli saliva dallo stomaco.

Non appena iniziò ad avanzare verso di lui, Thor, con il cuore che gli batteva a mille, mise un’altra pietra nella fionda, si inarcò all’indietro e si preparò a lanciare un’altra volta.

Il Sybold fece uno scatto, più veloce di qualsiasi altra cosa Thor avesse mai visto in tutta la sua vita. Thor fece un passo indietro e lanciò la pietra, pregando perché andasse a segno, ben sapendo di non avere il tempo per prepararne un’altra prima che quella giungesse la bersaglio.

La pietra colpì il mostro nell’occhio destro, accecandoglielo. Fu un lancio straordinario, il genere di lancio che avrebbe messo in ginocchio un piccolo animale.

Ma quello non era un animale qualsiasi. La bestia era irrefrenabile. Gridò per il dolore, ma non rallentò minimamente. Anche senza un occhio, anche con la pietra conficcata in testa, continuò a caricare contro Thor. Non c’era niente che Thor potesse fare.

Un attimo più tardi la bestia era su di lui. Prese la mira con i suoi enormi artigli e graffiò Thor su una spalla.

Thor gridò e cadde. Era come se tre coltelli gli avessero trapassato la carne e il sangue caldo zampillò istantaneamente dalla ferita.

La bestia lo teneva fermo a terra con le sue quattro zampe. Il peso era insostenibile, come avere un elefante in piedi sul petto. Thor sentiva le costole che gli si rompevano.

La bestia tirò indietro la testa, aprì al massimo la mandibola, mettendo in mostra le sue zanne, e iniziò ad abbassarle in direzione della gola di Thor.

Subito Thor gli afferrò il collo: era come stringere muscolo puro. Thor riusciva a malapena a tenervisi aggrappato. Le sue braccia iniziarono a tremare mentre le zanne scendevano più in basso, verso di lui. Sentiva in viso l’alito caldo della bestia, la saliva che gli gocciolava sul collo. Un rimbombo giunse dal petto dell’animale, bruciando le orecchie di Thor. Sapeva che sarebbe morto.

Thor chiuse gli occhi.

Ti prego, Dio. Dammi la forza. Permettimi di battere questa creatura. Per favore. Ti prego. Farò tutto quello che vuoi. Ti sarò debitore.

E poi accadde qualcosa. Thor sentì un calore grandioso salirgli dal corpo, scorrergli nelle vene, come un’energia che lo attraversasse con rapidità. Aprì gli occhi e vide qualcosa che lo sorprese: dalle sue mani emanava una luce gialla, e quando premeva indietro la gola del mostro, sorprendentemente era in grado di bilanciare la propria forza con quella dell’animale e tenerlo a bada.

Thor continuò a premere fino a che fu effettivamente in grado di spingere indietro il mostro. La sua forza stava aumentando e sentì un’ondata di energia: un istante dopo il mostro volò indietro, spinto da Thor ad almeno tre metri di distanza. Atterrò sulla schiena.

Thor si tirò su a sedere, incapace di capire cosa fosse successo.

Anche la bestia si rimise in piedi e, piena di rabbia, tornò alla carica. Ma questa volta Thor si sentiva diverso. L’energia gli scorreva dentro, si sentiva più potente che mai.

Quando la bestia balzò nell’aria, Thor si accucciò a terra, la afferrò allo stomaco e la lanciò, lasciando che venisse trasportata dal suo stesso impeto.

Il mostro volò attraverso il bosco, andò a schiantarsi contro un albero e collassò a terra.

Thor si voltò, meravigliato. Aveva appena lanciato in aria un Sybold?

Il mostro sbatté gli occhi due volte, poi guardò Thor. Attaccò di nuovo.

Questa volta quando il mostro saltò Thor lo afferrò per la gola. Finirono entrambi a terra, la bestia sopra a Thor. Ma Thor rotolò via, portandosi sopra al mostro. Thor lo teneva, strangolandolo con entrambe le mani, mentre la bestia tentava di sollevare la testa, facendo schioccare le zanne. Lo mancò. Thor, pervaso da una nuova forza, affondò le mani nel collo del mostro senza lasciarlo più andare. Lasciò che l’energia gli scorresse nel corpo. E subito, straordinariamente, si sentì più forte del mostro.

Stava strangolando a morte il Sybold. Alla fine la bestia si afflosciò.

Thor tenne ben salda la presa per un altro minuto buono.

Si alzò poi lentamente, senza fiato, guardando verso il basso con gli occhi sgranati, tenendosi il braccio ferito. Non poteva credere a ciò che era appena successo. Aveva veramente ucciso lui, Thor, un Sybold?

Sentiva che era un segno, in questo giorno dei giorni. Avvertiva che era accaduto qualcosa di grandioso. Aveva appena ucciso il più leggendario e temuto mostro del suo regno. A mani nude. Senza un’arma. Non sembrava reale. Nessuno lo avrebbe creduto.

Rimase lì, barcollante, domandandosi quale potere lo avesse sostenuto, cosa ciò significasse, chi lui fosse veramente. Le uniche persone note per possedere un potere come quello erano i druidi. Ma suo padre e sua madre non erano druidi, quindi lui non poteva esserlo.

O forse poteva?

Thor improvvisamente avvertì una presenza alle sue spalle, e si voltò per vedere Argon, lì in piedi, che guardava l’animale.

“Come sei arrivato qui?” chiese Thor sorpreso.

Argon lo ignorò.

“Hai visto cos’è successo?” chiese Thor, ancora incredulo. “Non so come ho fatto.”

“E invece lo sai,” rispose Argon. “Dentro di te, lo sai. Tu sei diverso dagli altri.”

“È stato come un’ondata di potere.” disse Thor. “Come una forza che non sapevo di avere.”

“Il campo di energia,” disse Argon. “Un giorno arriverai a conoscerlo meglio. Potrai addirittura imparare a controllarlo.”

Thor si strinse nelle spalle, il dolore era lancinante. Guardò verso il basso e vide la sua mano ricoperta di sangue. Si sentiva stordito, aveva paura di cosa gli sarebbe successo se non avesse trovato un aiuto.

Argon fece tre passi in avanti e afferrò la mano libera di Thor, appoggiandola saldamente sulla ferita. La tenne lì, piegò indietro la testa e chiuse gli occhi.

Thor sentì una sensazione di calore scorrergli attraverso il braccio. In pochi secondi il sangue appiccicoso sul braccio si asciugò e il dolore iniziò a svanire.

Guardò in basso e non riuscì a capire: era guarito. Tutto ciò che rimaneva erano tre cicatrici laddove gli artigli lo avevano graffiato, ma sembravano vecchie di parecchi giorni. La ferita si era cicatrizzata. Non cera più sangue.

Thor guardò Argon con stupore.

“Come hai fatto?” chiese.

Argon sorrise.

“Io non ho fatto nulla. Tu l’hai fatto. Io ho solo diretto il tuo potere.”

“Ma io non ho il potere di guarire,” rispose Thor, confuso.

“Davvero?” rispose Argon.

“Non capisco. Tutto questo non ha senso,” disse Thor, sempre più impaziente. “Per favore, dimmi qualcosa.”

Argon distolse lo sguardo.

“Alcune cose le imparerai nel tempo.”

A Thor venne in mente una cosa.

“Questo significa che posso entrare nella Legione del Re?” chiese trepidante. “Sicuramente, se sono capace di uccidere un Sybold, posso tenere testa a ragazzi come me.”

“Certo che puoi,” rispose.

“Ma loro hanno scelto i miei fratelli, non me.”

“I tuoi fratelli non avrebbero potuto uccidere questo mostro.”

Thor guardò oltre, pensieroso.

“Ma mi hanno già rifiutato. Come posso unirmi a loro?”

“Da quando un guerriero ha bisogno di un invito?” chiese Argon.

Le sue parole rimasero sospese. Thor sentì che il corpo gli si scaldava.

“Mi stai dicendo che posso semplicemente presentarmi così? Senza invito?”

Argon sorrise.

“Sei tu che crei il tuo destino. Non gli altri.”

Thor sbatté gli occhi, e un attimo dopo Argon non c’era più.

Thor non ci poteva credere. Si guardò attorno in ogni direzione, ma non c’era traccia di Argon.

“Da questa parte!” lo raggiunse una voce.

Thor si voltò e vide davanti a sé un grande macigno. La voce sembrava provenire dalla cima, e lui subito vi si arrampicò.

Raggiunse la cima, ma fu perplesso nel non trovare segno di Argon.

Da lì, però, poteva vedere al di sopra delle cime degli alberi di Boscoscuro. Vide dove terminava il bosco, vide il secondo sole tramontare in un verde scuro e, al di là, la strada che conduceva alla Corte del Re.

“Quella è la strada che devi percorrere,” disse la voce. “Se ne hai il coraggio.”

Thor si voltò, ma non vide nulla. Era solo una voce. Ma sapeva che Argon era lì da qualche parte, ad incitarlo. E sentiva, dentro di sé, che era giusto così.

Senza ulteriori esitazioni, Thor scese dalla roccia e si mise in cammino attraverso il bosco, diretto verso la strada.

Di corsa incontro al suo destino.




CAPITOLO TRE


Re MacGilc – robusto, il torace largo, la barba fitta e troppo grigia, abbinata a capelli lunghi e la fronte ampia segnata da troppe – stava sul bastione più alto del suo castello, la sua regina accanto a lui, e controllava i festeggiamenti del giorno della fioritura. I suoi territori reali si estendevano sotto di lui in tutta la loro magnificenza, fino a dove gli occhi potevano vedere: una città florida, cinta da mura fortificate di pietra antica. La Corte del Re. Collegati da un intrico di tortuose strade vi si trovavano edifici di pietra di ogni forma e misura, per i guerrieri, i guardiani, i cavalli, l’Argento, la Legione, le guardie, le caserme, l’armeria, l’arsenale, e tra queste si trovavano centinaia di abitazioni per la moltitudine di persone che avevano scelto di vivere all’interno delle mura. Qua e là trovavano posto ampi acri di prato, giardini reali, piazze contornate di pietra, fontane straripanti. La Corte del Re veniva curata da secoli: da suo padre, e dal padre di suo padre prima di lui, e si trovava ora al picco della sua gloria. Senza dubbio era ora la più sicura fortezza all’interno del Regno Occidentale dell’Anello.

MacGil aveva la fortuna di possedere i migliori e più leali guerrieri che ogni re avesse mai incontrato, e nella sua vita nessuno aveva mai osato attaccare. Era il settimo MacGil al trono e lo deteneva da ben trentadue anni in qualità re buono e saggio. La terra aveva prosperato in maniera grandiosa nel suo regno, lui aveva raddoppiato la misura del suo esercito, aveva espanso le sue città, portato abbondanza alla sua popolazione, e dalla gente non proveniva una singola lamentela. Era conosciuto come il re generoso, e non c’era mai stato un pari periodo di abbondanza e pace da quando lui era salito al trono.

La cosa, paradossalmente, era proprio ciò che teneva MacGil sveglio la notte. Perché MacGil conosceva la sua storia: in tutte le epoche non c’era mai stato un periodo così lungo senza una guerra. Ormai non si chiedeva più se ci sarebbe stato un attacco, ma quando. E da parte di chi.

La minaccia maggiore, ovviamente, proveniva dai territori esterni all’Anello, dall’Impero dei barbari che governavano le Regioni Selvagge periferiche e che avevano soggiogato tutte le popolazioni al di fuori dell’Anello, oltre il Canyon. Per MacGil, e le sette generazioni prima di lui, le Regioni Selvagge non avevano mai realmente costituito una minaccia: a causa della singolare geografia del regno, a forma di cerchio perfetto. Un anello separato dal resto del mondo da un profondo canyon ampio un miglio, e protetto da uno scudo d’energia che era attivo da quando un MacGil aveva regnato per la prima volta. Avevano ben poco da temere dalle Regioni Selvagge. I barbari avevano tentato molte volte di attaccare, di oltrepassare lo scudo, di attraversare il Canyon, ma non avevano mai avuto successo. Fintanto che lui e il suo popolo fossero rimasti all’interno dell’Anello, non ci sarebbero state minacce dall’esterno.

Questo non significava, però, che non ci potessero essere minacce dall’interno. Ed era questo che recentemente aveva tenuto MacGil sveglio la notte. Questo, in effetti, era lo scopo delle celebrazioni del giorno: il matrimonio della sua primogenita. Un matrimonio organizzato proprio per placare i suoi nemici, per mantenere la fragile pace tra il Regno Occidentale ed il Regno Orientale dell’Anello.

L’Anello si allungava per cinque miglia buone in ogni direzione ed era diviso nel mezzo da una catena montuosa. LìAltopiano. Dall’altra parte dell’Altopiano si trovava il Regno Orientale, che governava l’altra metà dell’Anello. Questo secondo regno, governato da secoli dai loro rivali – i McCloud – aveva sempre minacciato di mandare in frantumi la fragile tregua con i MacGils. I McCloud erano insoddisfatti, infelici del loro territorio, convinti che quella parte del regno si trovasse su terreno meno fertile. Contestavano anche l’Altopiano, rivendicando il possesso sull’intera catena montuosa, mentre almeno la metà apparteneva ai MacGil. C’erano continue scaramucce di confine e costanti minacce di invasione.

Mentre MacGil rifletteva su tutto ciò, montò in lui l’irritazione. I McCloud sarebbero dovuti essere felici: erano al sicuro all’interno dell’Anello, protetti dal Canyon; si trovavano su terra di qualità e non avevano nulla da temere. Avrebbero dovuto semplicemente accontentarsi della loro metà di Anello. Era solo perché MacGil aveva costruito un esercito così forte che, per la prima volta nella storia, i McCloud non avevano osato attaccare. Ma MacGil, da saggio re quale era, avvertiva qualcosa all’orizzonte: sapeva che questa pace non sarebbe potuta durare. Per questo aveva organizzato questo matrimonio tra la sua primogenita ed il principe primogenito dei McCloud. Ed ora il grande giorno era arrivato.

Mentre guardava in basso, vide sotto di lui migliaia di sudditi, tutti vestiti con tuniche dai colori sgargianti, provenienti da ogni angolo del regno, da entrambe le parti dell’Altopiano. Quasi l’intero Anello si trovava lì, riversato all’interno delle sue mura. Il suo popolo si era preparato per mesi, gli ordini erano di rendere tutto prospero e forte. Quello non era solo un giorno di nozze, ma l’occasione per trasmettere un messaggio ai McCloud.

MacGil scrutava le sue centinaia di soldati, allineati strategicamente lungo i bastioni, nelle strade, lungo le mura, più soldati di quanti realmente avesse bisogno, e si sentiva soddisfatto. Era proprio l’esibizione di potere di cui lui aveva bisogno. Ma si sentiva anche sulle spine: l’atmosfera era carica, matura per una schermaglia. Sperava che nessuna testa calda, magari infiammata da qualche bicchiere in più, insorgesse da una delle due parti. Scrutò i campi dove si stavano svolgendo le giostre, quelli dove si stava giocando, e pensò al giorno che si stava preparando, pieno di gare e tornei ed ogni sorta di celebrazione. Sarebbe stata una giornata intensa. I McCloud si sarebbero sicuramente presentati con il loro piccolo esercito privato, e ogni torneo, ogni combattimento, ogni competizione avrebbe assunto un certo significato. Se solo qualcosa fosse andato storto, sarebbe potuta scoppiare una battaglia.

“Mio Signore?”

Sentì una mano leggera sulla sua, e si voltò a guardare la sua Regina, Krea, ancora la più bella donna che avesse mai incontrato. Aveva sposato con gioia lui e il suo regno, gli aveva dato cinque figli, di cui tre maschi, e non si era mai lamentata una sola volta. Per di più, era diventata la sua più fidata consigliera. Con il passare degli anni aveva imparato che lei era molto più saggia di tutti i suoi uomini, in effetti più saggia anche di lui stesso.

“È un giorno di politica,” disse lei. “Ma anche il matrimonio di nostra figlia. Cerca di godertelo. Non accadrà una seconda volta.”

“Mi preoccupavo meno quando non possedevo nulla,” rispose lui. “Ora che abbiamo tutto, ogni cosa mi preoccupa. Siamo al sicuro. Ma non mi sento al riparo.”

Lo fissò in volto con i suoi occhi color nocciola, grandi e pieni di compassione: sembrava che potessero contenere la saggezza del mondo intero. Le palpebre erano un po’ abbassate, come sempre, e le donavano quell’aspetto un po’ sornione, incorniciate dai suoi bellissimi capelli lisci e castani, che ricadevano su entrambi i lati del volto, leggermente ingrigiti. Aveva qualche ruga in più, ma non era cambiata neanche un poco.

“È perché tu non sei al sicuro,” disse. “Nessun re lo è. Ci sono più spie nella nostra corte che tu possa mai pensare. Ed così che vanno le cose.”

Si sporse in avanti a baciarlo, poi sorrise.

“Cerca di divertirti,” disse. “Dopotutto è un matrimonio.”

Detto questo si voltò ed uscì dal bastione.

La guardò andarsene, poi si voltò ad osservare la sua corte. Aveva ragione, lei aveva sempre ragione. Lui voleva godersela, quella giornata. Amava la sua primogenita, ed era un matrimonio, del resto. Era la più bella giornata del più bel periodo dell’anno, il cuore della primavera, con l’estate che già si intravedeva, i due soli perfetti nel cielo e il soffio di una mite brezza. Tutto era in piena fioritura, gli albero ovunque ricoperti da un’ampia tavolozza di rosa e viola e arancio e bianco. Non cera nulla che desiderasse di più che scendere ed andare a sedersi tra i suoi uomini, guardare sua figlia che si sposava, e bere boccali di birra fino a non poterne più.

Ma non poteva. C’era una lunga lista di doveri da espletare prima di poter anche solo mettere piede fuori dal suo castello. Dopotutto il matrimonio di una figlia implicava una serie di doveri per un re: doveva riunirsi con il suo consiglio, con i suoi figli, e doveva dare udienza ad una lunga fila di supplicanti che avevano il diritto di vedere il re durante quella giornata. Sarebbe stato fortunato se fosse riuscito a lasciare il castello in tempo per la cerimonia del tramonto.

*

MacGil, vestito con il miglior paramento reale – pantaloni di velluto nero, cintura dorata, tunica reale della più raffinata seta viola e dorata, mantello bianco e stivali di cuoio splendente alti fino ai polpacci – con tanto di corona (una fascia d’oro decorato con un grande rubino incastonato al centro), avanzava con incedere fiero lungo i corridoi del castello, con i suoi attendenti al seguito. Procedeva a grandi passi passando di stanza in stanza, percorrendo i gradini che scendevano dalla balaustra, attraversando le sue stanze reali, il grande salone dall’altissimo soffitto ad arco e dalle vetrate colorate. Alla fine raggiunse un’antica porta di quercia, spessa quanto il tronco di un albero, che i suoi servitori aprirono prima di farsi da parte e lasciarlo passare. La Sala del Trono.

I suoi consiglieri erano in piedi sull’attenti quando MacGil entrò, e la porta sbatté chiudendosi alle sue spalle.

“Sedetevi,” disse, più bruscamente del solito. Era stanco, soprattutto in un giorno come quello, delle infinite formalità necessarie per governare il regno, e voleva finirla in fretta.

Attraversò a grandi passi la Sala del Trono, che mai smetteva di impressionarlo: il soffitto alto cinquanta piedi, un’intera parete costituita da una vetrata colorata, pavimento e pareti fatti di pietra spessa un piede. La stanza poteva tranquillamente contenere un centinaio di dignitari. Ma in giornate come quella, quando veniva convocato il suo consiglio, venivano a trovarsi in quella cavernosa ambientazione solo lui e una manciata di consiglieri. La stanza era dominata da un ampio tavolo a forma di semicerchio, dietro al quale stavano in piedi i suoi consiglieri.

Il re avanzò attraverso il passaggio, collocato proprio nel mezzo, fino al suo trono. Salì i gradini di pietra, oltrepassò i leoni di oro intarsiato e sprofondò nel cuscino di velluto rosso che ricopriva il suo trono, lavorato interamente in oro. Suo padre aveva seduto su quello stesso trono, e così aveva fatto il padre di suo padre, e tutti i MacGil prima di lui. Quando si sedeva lì, MacGil sentiva il peso dei suoi antenati, di tutte le generazioni, gravare su di lui.

Scrutò i consiglieri che erano in attesa. C’era Brom, il suo primo generale e consigliere in questioni militari; Kolk, il generale della Legione dei ragazzi; Aberthol, il più anziano del gruppo, uno studioso e storico, mentore dei re da tre generazioni; Firth, suo consigliere in affari interni alla corte, un uomo magro con i capelli corti e grigi ed occhi infossati che non stavano mai fermi. Era un uomo per il quale MacGil non aveva mai provato una particolare fiducia, non aveva neanche mai capito quale fosse il suo titolo. Ma suo padre, ed il padre di suo padre prima di lui, tenevano un consigliere per affari di corte, e quindi lui l’aveva mantenuto per rispetto nei loro confronti. C’era Owen, il suo tesoriere; Bradaigh, suo consigliere negli affari esterni; Earnan, il suo esattore delle tasse; Duwayne, suo consigliere sulle masse; e Kelvin, il rappresentante dei nobili.

Ovviamente il Re aveva autorità assoluta. Ma il suo era un regno liberale, e i suoi predecessori erano sempre stati orgogliosi di permettere alla nobiltà di avere voce in ogni questione per mezzo di un loro rappresentante. Storicamente l’equilibrio di potere tra la regalità e la nobiltà non era mai stato cosa facile. Ora c’era armonia, ma in altri tempi si erano verificate insurrezioni e lotte di potere tra i nobili e la famiglia reale. Quello attuale era un buon equilibrio.

Osservando la stanza e i presenti, MacGil notò che mancava una persona, proprio l’uomo con il quale desiderava parlare di più. Argon. Come al solito, quando e dove sarebbe apparso non era prevedibile. Questo faceva infuriare MacGil a non finire, ma non c’era altra scelta che accettare la situazione. I modi dei druidi erano imperscrutabili per lui. Senza la sua presenza, MacGil sentì la necessità di concludere ancora più in fretta. Voleva portare a termine quella formalità e fare le altre mille cose che gli spettavano prima del matrimonio.

Il gruppo di consiglieri sedeva di fronte a lui, attorno al tavolo semicircolare, a dieci piedi l’uno dall’altro, ognuno di loro seduto su una sedia di quercia antica con braccioli di legno decorati da elaborati intarsi.

“Mio signore, se posso cominciare,” prese la parola Owen.

“Permesso concesso. E falla breve. Ho i tempi stretti oggi.”

“Vostra figlia riceverà una grande quantità di doni oggi, che speriamo staranno tutti nei suoi forzieri. Le migliaia di persone che rendono omaggio presentando doni personalmente a voi, e riempiono i nostri bordelli e le nostre taverne, daranno pure un contributo a colmare le casse. Ciononostante i preparativi per le celebrazioni di oggi consumeranno buona parte del tesoro reale. Consiglio quindi un aumento delle tasse sulla popolazione e sui nobili. Una tassa una tantum, per alleviare la pressione generata da questo grande evento.”

MacGil scorse la preoccupazione sul volto del suo tesoriere, e lo stomaco gli si strinse al pensiero che il tesoro reale potesse esaurirsi. Tuttavia non aveva intenzione di aumentare ancora le tasse.

“Meglio avere un tesoro povero e dei sudditi leali,” rispose MacGil. “La nostra ricchezza deriva dalla felicità dei nostri sudditi. Non possiamo pretendere di più.”

“Ma mio signore, se non…”

“Ho deciso. Altro?”

Owen si arrese, mortificato.

“Mio Re,” disse Brom con la sua voce profonda. “Secondo i vostri ordini abbiamo posizionato la maggior parte delle nostre forze all’interno della corte per l’evento di oggi. L’esibizione di potere sarà impressionante. Ma ci diramiamo a breve raggio. Se dovesse verificarsi un attacco da qualche altra parte del regno, risulteremmo vulnerabili.”

MacGil annuì, soppesando la questione.

“I nostri nemici non ci attaccheranno mentre gli stiamo dando da mangiare.”

Gli uomini risero.

“E che novità ci sono dall’Altopiano?”

“Non ci sono notizie di alcuna attività da settimane. Pare che le loro truppe siano rimaste in basso per i preparativi per il matrimonio. Forse sono pronti per la pace.”

MacGil non ne era certo.

“Questo può significare che l’organizzazione del matrimonio ha funzionato, oppure che aspetteranno di attaccarci in un altro momento. Quale pensi sia la risposta giusta, vecchio mio?” chiese MacGil, rivolgendosi a Aberthol.

Aberthol si schiarì la voce, che uscì roca: “Mio signore, vostro padre, e il padre di vostro padre prima di lui, non si sono mai fidati dei McCloud. Il semplice fatto che stiano dormendo, non significa che non si sveglieranno.”

MacGil annuì, apprezzando la schiettezza.

“E da parte della Legione?” chiese, rivolto a Kolk.

“Oggi abbiamo dato il benvenuto alle nuove reclute,” rispose Kolk con un rapido cenno della testa.

“Anche mio figlio tra di loro?” chiese MacGil.

“Ha preso fieramente il suo posto tra di loro, e si tratta per certo di un ragazzo in gamba.”

MacGil annuì, poi si rivolse a Bradaigh.

“E cosa si dice oltre il Canyon?”

“Mio signore, le nostre pattuglie hanno visto maggiori tentativi di attraversare il Canyon nelle ultime settimane. Potrebbe significare che le Terre Selvagge si stanno preparando per un attacco.”

Un sussurro sommesso serpeggiò fra gli uomini. A quel pensiero MacGil sentì lo stomaco che gli si stringeva. Lo scudo di energia era invincibile, tuttavia aveva un cattivo presentimento.

“E cosa succederebbe se di dovesse verificare un attacco in piena regola?” chiese.

Fintanto che lo scudo è attivo non abbiamo nulla da temere. Le Terre Selvagge non riescono ad oltrepassare il Canyon da secoli. Non c’è ragione di pensare che possano farcela ora.

MacGil non si sentiva così sicuro. Un attacco dall’esterno non si verificava da tempo e non poteva fare a meno di chiedersi quando sarebbe potuto succedere.

“Mio signore,” disse Firth con voce nasale, “sento l’obbligo di aggiungere che oggi la nostra corte è piena di dignitari del regno di McCloud. Sarebbe interpretato come un insulto da parte vostra se non vi intratteneste con loro, rivali o no. Consiglierei di utilizzare le vostre ore pomeridiane per salutarli tutti. Hanno portato un grande seguito, molti doni e, gira voce, anche molte spie.”

“Chi ci dice che le spie non siano già qui?” ribatté MacGil guardando con attenzione Firth, mentre poneva la domanda, e chiedendosi, come sempre, se potesse essere proprio lui una di quelle.

Firth aprì la bocca per rispondere, ma MacGil sospirò e sollevò il palmo della mano: ne aveva avuto abbastanza. “Se è tutto, ora me ne vado per partecipare al matrimonio di mia figlia.”

“Mio signore,” disse Kelvin schiarendosi la voce, “ovviamente c’è un’altra cosa. La tradizione, nel giorno del matrimonio della vostra primogenita. Ogni MacGil ha nominato un successore in questo giorno. Il popolo si aspetterà che voi facciate altrettanto. Sono in fermento. Non è consigliabile lasciarli a bocca asciutta. Soprattutto con la Spada della Dinastia ancora immobile.”

“Dovrei nominare un erede mentre sono ancora al trono?” chiese MacGil.

“Mio signore, non intendo offendere sua maestà,” balbettò Kelvin, preoccupato.

MacGil alzò una mano. “Conosco la tradizione. E in effetti, nominerò qualcuno oggi.”

“Potrebbe informarci su chi sarà?” chiese Firth.

MacGil lo fissò, seccato. Firth era un pettegolo, e poi non si fidava di quell’uomo.

“Avrete la notizia a tempo debito.”

MacGil si alzò, e così fecero anche gli altri. Si inchinarono, si voltarono e si affrettarono fuori dalla stanza.

MacGil rimase lì, pensieroso, per un po’. In giorni come quelli avrebbe voluto non essere re.

*

MacGil scese dal suo trono, con la suola degli stivali che faceva risuonare i suoi passi nel silenzio, e attraversò la stanza. Aprì da sé l’antica porta di quercia, tirando bruscamente la maniglia di ferro, ed entrò nella stanza adiacente.

Godette della pace e della solitudine di quella sala accogliente, come sempre, con i suoi muri di neanche venti piedi per lato e con un alto soffitto ad arco. La stanza era costruita completamente in pietra, con una piccola e tonda vetrata colorata su una parete. La luce trapelava all’interno attraverso il vetro giallo e rosso, illuminando l’unico oggetto presente nella stanza, per il resto completamente vuota.

La Spada della Dinastia.

Gaceva lì, nel mezzo della stanza, stesa orizzontalmente su rebbi di ferro, come una tentatrice. Come aveva sempre fatto da quando era ragazzo, MacGil si avvicinò, le camminò attorno, la esaminò. La Spada della Dinastia. La spada della leggenda, la fonte del potere e della forza del suo intero regno, da una generazione all’altra. Chiunque avesse avuto la forza di sollevarla sarebbe stato il Prescelto, colui che era destinato a governare il regno per tutta la vita, per liberare il regno da tutte le minacce, dentro e fuori dall’Anello. Era stata una bella leggenda con la quale crescere, e non appena era stato proclamato re, MacGil aveva cercato di sollevarla lui stesso, perché solo i re della famiglia MacGil avevano il permesso di provare. I re prima di lui, tutti, avevano fallito. Lui era certo di essere diverso. Era sicuro che sarebbe stato il Prescelto.

Ma si era sbagliato. Come si erano sbagliati tutti gli altri re MacGil prima di lui. E il suo fallimento aveva contaminato da allora la sua regalità.

Ora, mentre la guardava, ne esaminava la lunga lama, fatta di un misterioso metallo che nessuno aveva mai decifrato. L’origine della spada era ancora più oscura dell’oggetto stesso: si diceva che fosse emersa dalla terra nel mezzo di un terremoto.

Esaminandola, avvertì di nuovo il bruciore della sconfitta. Poteva ben essere un bravo re, ma non era il Prescelto. Il suo popolo lo sapeva. I suoi nemici lo sapevano. Poteva essere un bravo re, ma non importava cosa facesse, non sarebbe mai stato il Prescelto.

Se lo fosse stato, era certo che ci sarebbe stata meno irrequietezza nella sua corte, minori complotti. Il suo stesso popolo si sarebbe fidato maggiormente di lui e i suoi nemici non avrebbero neppure considerato l’eventualità di attaccare. Una parte di lui desiderava che la spada semplicemente sparisse, e con essa anche la leggenda. Ma sapeva che non sarebbe successo. Quelli erano la maledizione e il potere di una leggenda. Più forti addirittura di un esercito.

Mentre la fissava per la centesima volta, MacGil non poté fare a meno di chiedersi, ancora una volta, chi sarebbe stato. Chi, nella sua stirpe, era destinato a brandirla? Mentre pensava al compito che aveva dinnanzi, quello di eleggere un erede, si chiese chi, se mai esistesse, fosse destinato a sollevarla.

“Il peso della lama è notevole,” disse una voce.

MacGil si voltò, sorpreso di non essere solo nella piccola stanza.

In piedi sulla porta c’era Argon. MacGil riconobbe la voce prima di vederlo e provò un misto di irritazione per non averlo visto prima e di sollievo nell’averlo lì in quel momento.

“Sei in ritardo,” disse MacGil.

“Il tuo senso del tempo non mi appartiene,” rispose Argon.

MacGil si girò nuovamente verso la spada.

“Hai mai creduto che sarei stato in grado di sollevarla?” chiese pensosamente. “Quel giorno, quando sono diventato re?”

“No,” rispose Argon con franchezza.

MacGil si voltò e lo fissò.

“Sapevi che non ne sarei stato capace. L’avevi visto, vero?”

“Sì.”

MacGil ci pensò su.

“Mi spaventi quando rispondi così direttamente. Non è da te.”

Argon rimase in silenzio, e infine MacGil si rese conto che non avrebbe detto altro.

“Oggi nominerò il mio successore,” disse MacGil. “Sembra inutile nominare un erede in un giorno come questo. Distoglie la gioia del re dal matrimonio di sua figlia.”

“Forse si tratta di una gioia che deve essere moderata.”

“Ma mi restano così tanti anni per regnare,” disse MacGil con tono lamentoso.

“Forse non così tanti quanti tu credi,” rispose Argon.

MacGil socchiuse gli occhi fissando Argon pensieroso. Era forse un messaggio?

Ma Argon non aggiunse altro.

“Sei figli. Quale dovrei scegliere?” chiese MacGil.

“Perché lo chiedi a me. Hai già scelto.”

MacGil lo guardò. “Tu vedi troppe cose. È vero. Eppure voglio sapere cosa ne pensi.”

“Penso che tu abbia fatto una scelta saggia,” disse Argon. “Ma ricorda: un re non può regnare dalla tomba. Noncurante di chi pensi di scegliere, il fato ha il suo modo di scegliere per sé.”

“Vivrò, Argon?” chiese a cuore aperto MacGil, ponendo la domanda che aveva trattenuto dentro di sé da quando si era svegliato la notte prima, destato da un incubo orribile.

“La scorsa notte ho sognato un corvo,” aggiunse. “È arrivato e mi ha rubato la corona. Poi un altro mi ha sollevato in volo, e dall’alto ho visto il mio regno sotto di me. Diventava nero mentre mi allontanavo. Sterile. Una terra desolata.”

Alzò lo sguardo verso Argon, gli occhi lucidi.

“È stato solo un sogno? O qualcosa di più?”

“I sogni sono sempre qualcosa di più, no?” chiese Argon.

MacGil fu colpito da una terribile sensazione.

“Dov’è il pericolo? Dimmi solo questo.”

Argon gli si avvicinò e lo fissò negli occhi, con una tale intensità che MacGil si sentì come se stesse fissando un altro mondo.

Argon si sporse verso di lui e sussurrò: “Sempre più vicino di quanto pensi.”




CAPITOLO QUATTRO


Thor si nascose tra la paglia nel retro di un carro che gli era passato accanto lungo la strada di campagna. Si era diretto verso la strada la notte prima e aveva atteso con pazienza fino a che un carro era passato, grande abbastanza per permettergli di salire a bordo senza essere visto. Era ormai buio allora, e il carro procedeva al piccolo trotto, abbastanza lentamente perché lui potesse raggiungere un discreto ritmo di corsa e saltarvi dentro dal retro. Era atterrato nel fieno e vi si era immerso dentro. Fortunatamente l’uomo alla guida non l’aveva visto. Thor non poteva sapere per certo se il carro si stesse dirigendo verso la Corte del Re, ma stava procedendo in quella direzione, e un carro di quella grandezza e con quei segni poteva essere diretto in ben pochi altri posti.

Mentre Thor si faceva strada così durante la notte, rimase sveglio per ore, ripensando al suo incontro con il Sybold. Con Argon. Al suo destino. Alla sua precedente dimora. A sua madre. Sentiva che l’universo gli aveva dato una risposta, dicendogli che aveva un altro destino. Era rimasto steso lì, le mani intrecciate dietro la nuca, a guardare in alto il cielo notturno che era visibile attraverso la tela lacerata. Aveva osservato l’universo, così luminoso, le stelle rosse così distanti. Era euforico. Per una volta nella sua vita era finalmente in viaggio. Non sapeva verso quale destinazione, ma stava andando. Per una strada o per un’altra sarebbe arrivato alla Corte del Re.

Quando Thor aprì gli occhi era mattina: la luce inondava il giorno e lui si rese conto di essersi assopito. Velocemente si tirò su a sedere, guardandosi intorno e rimproverandosi per aver ceduto al sonno. Sarebbe dovuto rimanere più vigile, aveva avuto fortuna che non l’avessero scoperto.

Il carro era ancora in movimento, ma non dava poi tanti scossoni. Il che poteva significare solo una cosa: una strada migliore. Dovevano essere vicini ad una città. Thor guardò in basso e vide quanto liscia fosse la strada, senza pietre, senza crepe e costeggiata da bianche ed eleganti conchiglie. Il cuore gli batté più forte nel petto: si stavano avvicinando alla Corte del Re.

Thor guardò fuori dal retro del carro e rimase senza parole: le strade immacolate erano brulicanti di attività. Decine di carri di tutte le forme e di tutte le misure trasportavano ogni genere di cosa e riempivano le strade. Uno era carico di pellicce, un altro di tappeti, un altro ancora di polli. In mezzo a questi carri camminavano centinai di mercanti, alcuni conducevano bestiame, altri portavano ceste di merce sulle loro teste. Quattro uomini trasportavano un viluppo di seta, tenendolo in equilibrio su dei pali. Era un esercito di persone, tutti diretti nello stesso senso di marcia.

Thor si sentiva vivo. Non aveva mai visto così tanta gente in una volta, così tanta merce, così tante cose. Era stato in un piccolo villaggio tutta la sua vita e ora si trovava in un centro di vita, travolto dall’umanità.

Udì un forte rumore: il clangore di catene, il battito di un grande pezzo di legno, così forte che il terreno tremò. Qualche attimo dopo giunse un suono diverso, di zoccoli di cavalli che facevano schioccare il legno. Guardò in basso e capì che stavano attraversando un ponte. Accanto a loro scorreva un fossato. Un ponte levatoio.

Thor si sporse con la testa dal carro e vide immensi pilastri di pietra, il cancello di ferro con spuntoni acuminati sollevato sopra le loro teste. Stavano varcando il Cancello del Re.

Era il cancello più grande che avesse mai visto. Guardò in alto verso le punte acuminate e tremò all’idea che se fossero scese l’avrebbero tagliato a metà. Avvistò quattro membri dell’Argento del Re di guardia all’ingresso, e il suo cuore si mise a battere ancora più forte.

Passarono attraverso una lunga galleria di pietra e poi, qualche attimo più tardi, il cielo si riaprì sopra di loro. Si trovavano nella Corte del Re.

Thor riusciva a malapena a crederlo. Qui c’era ancora più attività, se mai fosse possibile: sembravano migliaia di persone che mulinavano in ogni direzione. C’erano ampie distese d’erba perfettamente tagliata e fiori sbocciati ovunque. Le strade si facevano più ampie, ed erano costeggiate da chioschi, venditori ed edifici di pietra. E in mezzo a tutto questo, gli uomini del Re. Soldati in armatura. Thor ce l’aveva fatta.

Nel pieno dell’eccitazione, senza pensarci si alzò in piedi, ma appena l’ebbe fatto il carro si fermò di colpo, facendolo cadere all’indietro, di schiena, sulla paglia. Prima che riuscisse ad alzarsi, ci fu il suono del legno che si abbassava, e guardando in alto poté vedere un anziano furioso, calvo, vestito di stracci e con’ l’espressione corrucciata. Il carrettiere si allungò verso di lui, lo afferrò per le caviglie con le sue mani ossute, e lo tirò giù dal carro.

Thor volò per aria e andò ad atterrare con la schiena sulla strada lercia, sollevando una nuvola di polvere. Uno scroscio di risa di levò attorno a lui.

“La prossima volta che ti fai un giro sul mio carro, ragazzo, ti metto ai ceppi. Ritieniti fortunato che non chiamo l’Argento all’istante!”

Il vecchio si voltò e sputò, poi si affrettò di nuovo sul suo carro e schioccò la frusta facendo ripartire i cavalli.

Imbarazzato Thor si rimise lentamente in piedi. Si guardò in giro: uno o due passanti ridacchiarono e Thor rispose con un sogghigno, fino a che quelli non distolsero lo sguardo. Si strofinò le braccia e cercò di eliminare la terra; era ferito nell’orgoglio, ma non nel corpo.

Lo spirito gli si risollevò quando si guardò attorno, stupefatto, e si rese conto che avrebbe dovuto gioire per avercela fatta fino a quel punto, finalmente. Ora che era fuori dal carro poteva guardarsi in giro liberamente, ed era una vista straordinaria: la corte si distendeva fino a dove l’occhio poteva vedere. Al suo centro si trovava un magnifico palazzo di pietra, circondato da torreggianti mura di pietra fortificate, coronate da balaustre in cima alle quali, ovunque, faceva la ronda l’esercito del Re. Tutt’attorno a lui si estendevano prati verdi, perfettamente curati, palazzi di pietra, fontane, boschetti. Era una città. Ed era straripante di gente.

Ovunque confluivano ogni genere di persona – mercanti, soldati, dignitari – ognuno con indicibile fretta. Thor ebbe bisogno di qualche minuto per capire che stava accadendo qualcosa di speciale. Durante la sua passeggiata vide che erano in corso preparativi, si stavano sistemando posti a sedere, veniva eretto un altare. Sembrava che stessero preparando il tutto per un matrimonio.

Gli venne quasi un colpo al cuore quando vide, in lontananza, il campo di un torneo, con la sua lunga corsia di terra e la corda divisoria. In un altro campo vide soldati tirare lance contro bersagli lontani; in un altro ancora arcieri che miravano a bersagli di paglia. Sembrava che ovunque ci fossero giochi e gare. C’era anche la musica: liuti, flauti e cembali, gruppi di musici vagabondavano; e vino, enormi botti venivano fatte rotolare; e cibo, si preparavano tavoli, i banchetti si allungavano a perdita d’occhio. Era come se fosse capitato nel mezzo di un enorme celebrazione.

Tutto era talmente stupefacente che Thor avvertì la necessità impellente di trovare la Legione. Era già in ritardo, e doveva presentarsi.

Si avvicinò di corsa alla prima persona che vide, un anziano che sembrava, per la sua tunica macchiata di sangue, un macellaio che si affrettava lungo la strada. Erano tutti così di fretta lì.

“Mi scusi, signore,” disse Thor, afferrandogli il braccio.

L’uomo guardò verso la mano di Thor con espressione denigratoria.

“Cosa c’è, ragazzo?”

“Sto cercando la Legione del Re. Sa dirmi dove si esercitano?”

“Ti sembro una mappa?” sibilò l’uomo, e si allontanò in fretta e furia.

Thor rimase spiazzato dalla sua scortesia.

Si avvicinò allora alla persona successiva, una donna che stava disponendo dei fiori su un lungo tavolo. C’erano diverse donne a quel tavolo e tutte lavoravano sodo. Thor pensò che almeno una di loro probabilmente sapeva quello che gli serviva.

“Mi scusi, signorina,” disse. “Sa per caso dove si esercita la Legione del Re?”

Quelle si guardarono e ridacchiarono, alcune di loro parevano avere appena qualche anno più di lui.

La più matura si voltò e lo guardò.

“Stai cercando nel posto sbagliato,” disse. “Qui stiamo preparando per le celebrazioni.”

“Ma mi hanno detto che si esercitano alla Corte del Re,” disse Thor confuso.

Le donne scoppiarono a ridere un’altra volta. La più matura si mise le mani sui fianchi e scosse la testa.

“Ti comporti come se fossi nella Corte del Re per la prima volta. Non hai idea di quanto grande sia?”

Thor arrossì mentre le altre donne ridevano, poi scappò via. Non gli piaceva essere preso in giro.

Vide che davanti a lui si spiegavano una decina di strade che svoltavano e giravano in ogni direzione attraverso la Corte del Re. Dislocate all’interno delle mura di pietra c’erano almeno una decina di ingressi. La grandezza e portata di quel posto erano impressionanti. Aveva la tremenda sensazione che avrebbe potuto cercare per giorni senza trovare nulla.

Lo colpì un’idea: sicuramente un soldato avrebbe saputo dirgli dove gli altri si esercitavano. Era nervoso all’idea di avvicinarsi ad un vero soldato del Re, ma si rese conto che doveva.

Si voltò e corse verso le mura, verso i soldati che stavano di guardia all’ingresso più vicino, sperando che non lo avrebbero buttato fuori. I soldati stavano dritti in piedi, guardando fissi davanti a loro.

“Sto cercando la Legione del Re,” disse Thor, tirando fuori la sua voce più coraggiosa.

I soldati continuarono a fissare dritto davanti a loro, ignorandolo.

“Ho detto che sto cercando la Legione del Re!” ripeté Thor con insistenza, a voce più alta, determinato a farsi notare.

Dopo diversi secondi, i soldati guardarono verso il basso, sogghignando.

“Potete dirmi dove si trova?” ribadì Thor.

“E tu cos’hai a che fare con loro?”

“Qualcosa di molto importante,” affermò Thor con urgenza, sperando che i soldati non indagassero oltre.

I soldati si rigirarono a guardare dritto davanti a loro, ignorandolo di nuovo. Thor sentì che il cuore gli sprofondava nel petto e temette che non avrebbe mai ricevuto una risposta.

Ma dopo quella che gli parve un’eternità, il soldato rispose: “Prendi il cancello orientale, poi dirigiti verso nord fino a dove puoi arrivare. Prendi il terzo cancello a sinistra, poi inforca la destra, e infine a destra di nuovo. Attraversa il secondo arco di pietra: la loro sede è oltre il cancello. Ma ti avverto, sprechi il tuo tempo. Non si intrattengono con i visitatori.”

Era tutto ciò che Thor aveva bisogno di sentire. Senza perdere un altro secondo, si girò e corse attraverso il prato, seguendo le indicazioni, ripetendosele in testa, cercando di memorizzarle. Notò il sole più alto in cielo, e pregò solo che, quando fosse arrivato, non fosse già troppo tardi.

*

Thor corse velocemente lungo le vie immacolate e bordate da conchiglie, girando e svoltando attraverso la Corte del Re. Fece del suo meglio per seguire le indicazioni, sperando di non perdersi. Raggiunse il limitare del cortile, vide tutti i cancelli e scelse il terzo sulla sinistra. Lo attraversò di corsa e poi seguì i bivi, svoltando vicolo dopo vicolo. Correva controcorrente rispetto alle migliaia di persone che si stavano riversando nella città, una folla che si ingrossava ogni minuto di più. Quasi si scontrò con dei suonatori di liuto, giocolieri, ogni sorta di intrattenitore, tutti vestiti nel migliore dei modi.

Thor non poteva sopportare l’idea che la selezione avesse inizio senza di lui e fece del suo meglio per concentrarsi mentre svoltava, sentiero dopo sentiero, cercando ogni minimo segno del campo delle esercitazioni. Passò sotto un arco, svoltò in un’altra strada e poi, in lontananza, avvistò quella che solo poteva essere la sua destinazione: un piccolo anfiteatro fatto di pietra, di forma perfettamente circolare. Aveva al centro un grande cancello, con soldati a guardia. Thor udì delle attutite grida di incoraggiamento provenire da oltre le mura ed il suo cuore accelerò. Quello era il posto.

Corse ancora più velocemente, con i polmoni che gli bruciavano. Quando raggiunse il cancello, due guardie fecero un passo verso di lui e abbassarono le loro lance, sbarrandogli la strada. Una terza guardia avanzò e portò il palmo della mano in avanti.

“Altolà,” ordinò.

Thor si fermò di scatto, ansimando senza fiato, appena capace di contenere il proprio entusiasmo.

“Voi non capite,” disse di getto, con le parole che uscivano disordinatamente tra un respiro e l’altro. “Devo entrare. Sono in ritardo.”

“In ritardo per cosa?”

“Per la selezione.”

La guardia, un uomo basso e tozzo con la pelle butterata, si girò a guardare gli altri, che ricambiarono lo sguardo con espressione cinica. Si voltò di nuovo ed osservò Thor con sguardo denigratorio.

“Le reclute sono state portate dentro un’ora fa, con la carovana reale. Se non sei stato invitato, non puoi entrare.”

“Ma voi non capite. Io devo…”

La guardia allungò un braccio e afferrò Thor per la camicia.

“Sei tu che non capisci, ragazzino insolente. Come osi venire qui e tentare di entrare con la forza? Ora vai prima che ti arresti.”

Diede uno spintone a Thor, facendolo arretrare di parecchi piedi.

Thor sentì un bruciore al petto dove la mano della guardia lo aveva colpito, ma più di quello gli doleva l’offesa del rifiuto. Era indignato. Non aveva fatto tutta quella strada per essere mandato via da una guardia senza neppure essersi fatto vedere. Era determinato ad entrare.

La guardia si girò nuovamente verso i suoi uomini, e Thor si allontanò lentamente, facendo il giro dell’edificio in senso orario. Aveva un piano. Camminò fino ad essere fuori vista, poi iniziò a correre, strisciando lungo le mura. Controllò per assicurarsi che le guardie non stessero guardando, poi accelerò, scattando. Quando era a metà del giro dell’edificio, scorse un’altra apertura nell’arena: su in alto c’erano degli archi scavati nella pietra, sbarrati da barre di ferro. Una di queste aperture non aveva le sbarre. Udì un altro grido, si sollevò sul pianerottolo, e guardò.

Il cuore gli accelerò in petto. Lì, sparpagliati sul grande anello del campo di esercitazione, si trovavano decine di reclute, anche i suoi fratelli. Allineati, erano tutti schierati di fronte a decine di soldati dell’Argento. Gli uomini del Re camminavano tra di loro, chiamandoli per nome.

Un altro gruppo di reclute se ne stava da parte, di lato, sotto gli occhi attenti di un soldato, tirando lance verso un bersaglio lontano. Uno di essi lo mancò.

Thor si sentì ribollire di indignazione. Lui stesso avrebbe potuto colpire quei segni, era bravo tanto quanto ciascuno di loro. Solo perché era più giovane, un po’ più piccolo, non era giusto che fosse lasciato fuori.

All’improvviso Thor sentì una mano sulla schiena e si sentì tirare indietro, volando in aria. Atterrò pesantemente a terra, ansimante.

Guardò in su e vide la guardia del cancello che lo guardava con un ghigno.

“Cosa ti ho detto, ragazzo?”

Prima che potesse reagire, la guardia gli sferrò un forte calcio. Thor sentì una profonda fitta alle costole, mentre la guardia si preparava a colpirlo di nuovo.

Questa volta Thor afferrò il piede della guardia a mezzaria e lo tirò bruscamente, facendogli perdere l’equilibrio e facendolo cadere.

Thor si rimise velocemente in piedi. Nello stesso istante anche la guardia fece lo stesso. Thor esitò, ripensando scioccato a ciò che aveva appena fatto. Di fronte a lui la guardia lo guardava in cagnesco.

“Non solo ti farò arrestare,” sibilò la guardia, “ma te la farò anche pagare. Nessuno può permettersi di toccare una guardia del Re. Dimenticati di entrare a far parte della Legione: ora ti crogiolerai in gattabuia. Sarai fortunato se mai qualcuno ti rivedrà!”

La guardia tirò fuori una catena con un ceppo all’estremità. Si avvicinò a Thor, con la vendetta stampata in volto.

La mente di Thor cercava rapida una soluzione. Non poteva permettere che lo arrestassero, del resto non era stata sua intenzione fare del male ad una Guardia del Re. Doveva pensare a qualcosa, e doveva farlo in fretta.

Si rammentò della sua fionda. I suoi riflessi agirono per lui e la afferrò, inserì una pietra, prese la mira e lanciò.

La pietra si librò nell’aria e, con stupore della guardia, fece volar via i ceppi dalla sua presa, colpendogli le dita. La guardia si ritrasse e scosse la mano, urlando di dolore, mentre i ceppi ricadevano rumorosamente a terra.

La guardia fissò Thor con sguardo di morte. Tirò fuori un caratteristico anello metallico.

“Questo è stato il tuo ultimo errore,” disse con tono lugubre e minaccioso, poi andò alla carica.

Thor non aveva scelta: quell’uomo semplicemente non gli avrebbe risparmiato la vita. Infilò un’altra pietra nella fionda e la lanciò. Tirò ponderatamente: non voleva uccidere la guardia, ma doveva fermarla. Quindi, invece di mirare al cuore, al naso, ad un occhio o alla testa, lanciò verso il punto che sapeva l’avrebbe fermato senza ucciderlo.

Tra le gambe.

Fece volare la pietra, non con piena forza, ma a sufficienza da mettere l’uomo al tappeto.

Fu un colpo perfetto.

La guardia collassò, lasciando cadere la spada e stringendosi le mani sull’inguine mentre cadeva a terra rannicchiandosi a palla.

“Sarai impiccato per questo!” gemette tra grugniti di dolore. “Guardie! Guardie!”

Thor guardò verso l’alto e in lontananza vide diverse Guardie del Re che correvano verso di lui.

Doveva agire ora o mai più.

Senza sprecare un attimo di più, si mise a correre verso il pianerottolo dell’arcata. Avrebbe dovuto saltare dentro l’arena da lì, e farsi così vedere. E avrebbe combattuto contro chiunque si fosse messo sui suoi passi.




CAPITOLO CINQUE


MacGil sedeva nel salone superiore del castello, il suo salone per gli incontri privati, quello che utilizzava per questioni personali. Sedeva sul suo trono personale, di legno intarsiato, e osservava quattro dei suoi figli che stavano in piedi dinnanzi a lui. C’era il suo primogenito maschio, Kendrick, un bravo guerriero e un vero gentiluomo di venticinque anni. Di tutti i suoi figli era quello che assomigliava di più a MacGil, il che era buffo, dato che era un bastardo, l’unico figlio di MacGil nato da un’altra donna, una donna che aveva da tempo dimenticato. MacGil aveva cresciuto Kendrick insieme ai suoi figli legittimi, nonostante le iniziali proteste della sua Regina, a condizione che non sarebbe mai salito al trono. La cosa faceva ora soffrire MacGil, dato che Kendrick era l’uomo migliore che avesse mai conosciuto, un figlio di cui era fiero di essere il padre. Non ci sarebbe potuto essere erede migliore per il regno.

Accanto a lui, in forte contrasto, c’era il figlio secondogenito – in effetti il primogenito legittimo – Gareth, ventitré anni, magro, con le guance scavate e grandi occhi scuri che non stavano mai fermi. Il suo carattere non avrebbe potuto essere più diverso da quello del fratello maggiore. La natura di Gareth era in tutto l’opposto di quella del fratello: dove Kendrick era franco e diretto, Gareth nascondeva i suoi reali pensieri; dove Kendrick era orgoglioso e nobile, Gareth era disonesto e ingannevole. MacGil soffriva per il fatto di non apprezzare un suo proprio figlio, e aveva tentato molte volte di correggere la sua indole, ma dopo un certo punto negli anni dell’adolescenza del ragazzo, aveva deciso che la sua natura era stata decisa dal destino: cospiratore, assetato di potere ed ambizioso in ogni accezione sbagliata del termine. Inoltre, MacGil lo sapeva, Gareth non provava alcun amore per le donne, ed aveva invece diversi amanti maschi. Altri re avrebbero diseredato un figlio del genere, ma MacGil era un uomo di ampie vedute, e per lui quello non era un motivo per non amare un figlio. Non lo giudicava per questo. Ciò per cui lo giudicava era la sua natura cattiva e cospiratrice, che era una cosa che lui non poteva controllare.

La successiva nella riga, dopo Gareth, era la seconda femmina, Gwendolyn. Sedici anni appena compiuti, era la più bella ragazza sulla quale avesse mai posato gli occhi, ed il temperamento brillava addirittura più del suo aspetto: era gentile, generosa, onesta, la miglior donna che avesse mai conosciuto. Da questo punto di vista era molto simile al fratello Kendrick. Guardava MacGil con l’amore tipico di una figlia per il proprio padre, e lui aveva sempre percepito la sua lealtà, in ogni sguardo. Era addirittura più orgoglioso di lei che dei suoi figli maschi. Accanto a Gwendolyn stava il maschio più giovane, Reece, un ragazzino orgoglioso e vivace che, a quattordici anni, stava già diventando uomo. MacGil aveva assistito con grande piacere al suo ingresso nella Legione, e poteva già scorgere in lui l’uomo che sarebbe diventato. Un giorno, MacGil non aveva alcun dubbio. Reece sarebbe stato il suo figlio migliore, ed un grande sovrano. Ma quel giorno non era adesso. Era ancora troppo giovane, ed aveva ancora così tanto da imparare.

MacGil aveva provato un gran miscuglio di sentimenti passando in rassegna questi quattro giovani, i suoi tre figli e sua figlia, in piedi davanti a lui. Provava orgoglio misto a delusione. Avvertiva anche rabbia ed irritazione perché due dei suoi figli mancavano. La maggiore, sua figlia Luanda, si stava ovviamente preparando per il proprio matrimonio, e dato che si sarebbe sposata con l’appartenente ad un altro regno, non c’era ragione perché partecipasse ad una discussione sul futuro erede. Ma l’altro figlio, Godfrey, quello di mezzo, di diciotto anni, era assente. MacGil arrossì per l’affronto.

Fin da quando era un bambino Godfrey aveva sempre mostrato una tale mancanza di rispetto per la regalità. Era sempre apparso chiaro che non gli interessava e che non avrebbe mai regnato. La maggior delusione di MacGil era che Godfrey preferiva invece buttare il proprio tempo in birrerie, in compagnia di amici poco di buono, causando crescente vergogna e disonore per la famiglia reale. Era uno scansafatiche, dormiva la maggior parte del giorno, che per il resto occupava bevendo. Da una parte MacGil era sollevato che non fosse lì, ma dall’altra quello era un insulto che non poteva sopportare. In effetti se l’era aspettato, ed aveva mandato presto i suoi uomini a fare una retata in birreria per riportarlo a casa. MacGil rimase seduto in silenzio, in attesa, finché arrivarono.

La pesante porta finalmente si aprì fragorosamente, ed entrarono marciando le guardie reali, trascinando Godfrey tra loro. Gli dettero una spinta e Godfrey fu catapultato all’interno della stanza mentre la porta veniva sbattuta alle sue spalle.

Gli altri si voltarono e lo fissarono. Godfrey era trasandato, mezzo svestito e non rasato, e puzzava di birra. Sorrise. Con insolenza. Come sempre.

“Salve, Padre,” disse Godfrey. “Mi sono perso tutto il divertimento?”

“Te ne starai in piedi con i tuoi fratelli e come loro aspetterai che io parli. Se non lo farai, Dio me ne salvi, ti incatenerò nelle prigioni insieme al resto dei prigionieri comuni, e non vedrai cibo, e ancor meno birra, per tre giorni interi.”

Godfrey rimase lì, sprezzante, guardando suo padre con aria truce. In quello sguardo MacGil notò un qualche profondo bacino di forza, una parte di se stesso, una scintilla di qualcosa che un giorno forse potrebbe rivelarsi utile per Godfrey. Sempre che fosse mai in grado di dominare la propria personalità.

Ribelle fino all’ultimo, Godfrey aspettò dieci minuti buoni e poi finalmente ubbidì e si avvicinò lentamente agli altri.

Mentre tutti stavano lì in piedi, MacGil passò in rassegna questi cinque figli: il bastardo, il diverso, l’ubriacone, la figlia e il più giovane. Era uno strano gruppo e riusciva a malapena a credere che fossero stati tutti originati da lui. Ed ora, nel giorno del matrimonio della sua primogenita, gli toccava anche il compito di scegliere un erede da quel mazzo. Com’era possibile?

Era un esercizio inutile: dopotutto era lui il reggente e avrebbe potuto governare ancora per trent’anni o più; qualsiasi erede avesse scelto oggi avrebbe potuto attendere anche decenni prima di salire al trono. L’intera tradizione lo irritava. Probabilmente era stata rilevante ai tempi di suo padre, ma non aveva senso ora.

Si schiarì la voce.

“Siamo qui riuniti oggi per la più attesa delle tradizioni. Come sapete, in questo giorno – il giorno del matrimonio della mia primogenita – ho il compito di nominare un successore. Un erede che governi questo regno. Se dovessi morire, nessuno sarà più adeguato di vostra madre per salire al governo. Ma le leggi del nostro regno dicono che solo un re può essere il legale successore. Per cui, devo scegliere.

MacGil trattenne il fiato, riflettendo. Un silenzio pesante aleggiava nell’aria, e poteva avvertire il peso dell’attesa. Li guardò negli occhi, e scorse in ciascuno una diversa espressione. L’illegittimo aveva l’aspetto rassegnato, sapendo che non sarebbe stato scelto. Gli occhi del diverso brillavano di ambizione, come se si aspettasse che la scelta ricadesse naturalmente su di lui. L’ubriacone guardava fuori dalla finestra, non nutriva il minimo interesse. La figlia ricambiava il suo sguardo con amore, sapendo di non avere parte in quella discussione, ma amando suo padre comunque. Lo stesso per il più giovane.

“Kendrick, ti ho sempre considerato un vero figlio. Ma le leggi del nostro regno mi vietano di passare lo scettro a nessun altro che non sia prole legittima.”

Kendrick si inchinò. “Padre, non mi aspettavo che mi scegliessi. Sono contento di quello che ho. Non lasciare che questa situazione ti turbi.”

MacGil si sentì afflitto dalla risposta, sentendo quanto genuino era il ragazzo che lui avrebbe voluto nominare come erede, più di tutti gli altri.

“Questo vi lascia in quattro. Reece, sei un bravo ragazzo, il migliore che abbia mai visto. Ma sei troppo giovane per far parte della scelta.”

“È quello che mi aspettavo, padre,” rispose Reece, con un lieve inchino.

“Godfrey, tu sei uno dei miei tre figli legittimi maschi, tuttavia preferisci sprecare il tuo tempo in birreria, con il sudiciume. Ti sono stati offerti ogni sorta di privilegi nella vita, e li hai sdegnati tutti. Se devo pensare a una delusione in questa vita, ebbene sei tu.”

Godfrey rispose con una smorfia, assumendo un atteggiamento di disagio.

“Bene, quindi immagino di aver finito qui e di potermene tornare in birreria, giusto, padre?”

Con un rapido ed irrispettoso inchino Godfrey si voltò e si incamminò verso l’uscita.

“Torna qui,” gridò MacGil. “ORA!”

Godfrey continuò ad avanzare, ignorandolo. Attraversò la stanza ed aprì la porta. Lì stavano due guardie.

MacGil fremette di rabbia quando le guardie lo guardarono con sguardo interrogativo.

Ma Godfrey non aspettò: si fece strada tra di loro, attraverso il salone aperto.

“Fermatelo!” gridò MacGil. “E tenetelo lontano dalla vista della Regina. Non voglio che sua madre venga ferita dalla sua vista nel giorno del matrimonio di sua figlia.”

“Sì, mio signore,” dissero chiudendo la porta prima di correre ad acciuffarlo.

MacGil stava seduto, respirando, rosso in volto, tentando di riprendere la calma. Per la millesima volta si chiese cosa aveva mai fatto per meritarsi un figlio del genere.

Guardò di nuovo i figli rimasti. Tutti e quattro erano lì in piedi, in attesa in quel silenzio fitto. MacGil fece un profondo respiro, nel tentativo di concentrarsi.

“Questo lascia solo due di voi, continuò. E tra questi due io ho scelto il successore.”

MacGil si rivolse a sua figlia.

“Gwendolyn, sarai tu.”

Ci fu un sussulto di sorpresa nella stanza, tutti i suoi figli sembravano scioccati, soprattutto Gwendolyn.

“Hai detto bene, padre?” chiese Gareth. “Hai detto Gwendolyn?”

“Padre, sono onorata,” disse Gwendolyn. “Ma non posso accettare. Sono una donna.”

“È vero, una donna non ha mai seduto sul trono dei MacGil. Ma ho deciso che è tempo di cambiare la tradizione. Gwendolyn, tu hai la mentalità e lo spirito migliori di ogni giovane donna che io abbia mai incontrato. Sei giovane, ma se Dio vuole non morirò presto, e quando sarà ora, sarai abbastanza saggia da governare. Il regno sarà tuo.”

“Ma padre!” gridò Gareth, rosso in volto. “Io sono il primogenito maschio tra i tuoi figli legittimi! Sempre, in tutta la storia dei MacGil, lo scettro è andato al primogenito maschio!”

“Sono io il Re,” rispose MacGil cupamente, “e detto io la tradizione.”

“Ma non è giusto!” insistette Gareth piagnucolando. “Devo essere io il re. Non mia sorella. Non una donna!”

“Tieni a freno la lingua, ragazzo!” urlò MacGil, scosso dalla rabbia. “Osi mettere in discussione il mio giudizio?”

“Valgo meno di una donna? È questo che pensi di me?”

“Ho preso la mia decisione,” disse MacGil. “Tu la rispetterai e la seguirai con obbedienza, come tutti gli altri sudditi del mio regno. Ora potete andarvene.”

I figli fecero un veloce inchino con la testa ed uscirono velocemente dalla stanza.

Ma Gareth si fermò alla porta, incapace di portarsi fuori.

Si voltò e si trovò solo, faccia a faccia con suo padre.

MacGil poteva riconoscere la delusione sul suo volto. Appariva chiaro che si era aspettato di essere nominato erede quel giorno. Ancora di più, l’aveva voluto. Disperatamente. Il che, tutto sommato, non sorprendeva MacGil, e tra l’altro era anche il motivo per cui non aveva nominato lui.

“Perché mi odi, padre?,” chiese.

“Non ti odio. Semplicemente non ti reputo adatto a governare il mio regno.”

“E per quale ragione?” insistette Gareth.

“Perché è esattamente ciò di cui vai in cerca.”

Il volto di Gareth assunse una tonalità cremisi scuro. Era evidente che MacGil aveva scorto la sua natura più vera. MacGil lo guardava negli occhi, vedendoli bruciare di un odio per lui che non avrebbe mai creduto possibile.

Senza una parola di più Gareth uscì di scatto dalla stanza, sbattendo la porta dietro di sé.

Nell’eco riverberante, MacGil sussultò. Ripensò allo sguardo di suo figlio e percepì un odio così profondo, più profondo addirittura di quello dei suoi nemici. In quel momento pensò ad Argon, alla sua allusione ad un pericolo vicino.

Poteva essere vicino fino a quel punto?




CAPITOLO SEI


Thor attraversò di corsa il vasto campo dell’arena, correndo più veloce che poteva. Dietro di lui poteva sentire i passi delle guardie del Re che gli erano alle calcagna. Lo inseguirono attraversando il paesaggio caldo e polveroso, maledicendolo mentre correvano. Di fronte a lui erano sparpagliati i membri – e le nuove reclute – della Legione, decine di ragazzi, proprio come lui, ma più vecchi e più forti. Si esercitavano e stavano sostenendo prove in diverse formazioni: alcuni tiravano le lance, altri lanciavano i giavellotti, un pochi stavano facendo pratica nella loro presa sulle lance. Miravano a bersagli distanti, e raramente li mancavano. Questi erano i suoi rivali, e sembravano formidabili.

Tra di loro c’erano decine di veri cavalieri, membri dell’Argento, in piedi a formare un ampio semicerchio e a osservare l’azione. Giudicando. Decidendo chi sarebbe rimasto e chi sarebbe stato rimandato a casa.

Thor sapeva che avrebbe dovuto dar prova di se stesso, doveva impressionare quegli uomini. A momenti le guardie sarebbero state su di lui, e se mai aveva una qualche possibilità di dare un’impressione di sé, quello era il momento. Ma come? La mente gli si arrovellava mentre correva attraverso il cortile, determinato a non essere mandato via.

Mentre Thor correva attraverso il campo, altri iniziarono a notarlo. Alcune delle reclute interruppero ciò che stavano facendo e si voltarono; alcuni dei cavalieri fecero lo stesso. Nel giro di pochi secondi Thor sentì tutta l’attenzione concentrata su di sé. Sembravano confusi, e capì che probabilmente si stavano chiedendo chi fosse quel ragazzo che correva attraverso il loro campo con tre delle guardie del Re alle calcagna. Non era questo il modo in cui aveva pensato di fare impressione. Tutta la sua vita, quando aveva sognato di unirsi alla Legione, non era così che se l’era immaginato.

Mentre Thor correva, dibattuto su cosa fare, qualcun altro decise di decidere per lui. Un ragazzo di buona stazza, una recluta, decise di prendersi la briga di impressionare gli altri fermando Thor. Alto, muscoloso, e quasi il doppio rispetto a Thor, sollevò la sua spada di legno per bloccare l’avanzata di Thor. Thor riuscì a capire quanto fosse determinato a colpirlo, a schernirlo di fronte a tutti, venendo quindi trovarsi in vantaggio rispetto alle altre reclute.

Questo rese Thor furioso. Thor non aveva nulla a che vedere con questo ragazzo, e quello non era il suo combattimento. Ma quello lo stava trasformando nel suo combattimento, per essere in vantaggio sugli altri.

Mentre si avvicinavano, Thor si capacitava a malapena della stazza di quel ragazzo: torreggiava sopra di lui, con espressione accigliata e spessi capelli neri che gli coprivano la fronte, oltre ad avere la mascella più grande e quadrata che Thor avesse mai visto. Non vedeva come avrebbe potuto anche solo scalfire quel giovane.

Il ragazzo lo prese di mira con la sua spada di legno e Thor sapeva che se non avesse agito in fretta sarebbe stato colpito.

I riflessi di Thor si risvegliarono. Istintivamente estrasse la sua fionda, caricò e lanciò una pietra contro la mano del giovane. Colpì il bersaglio, facendogli saltare la spada dalla mano proprio nel momento in cui questi la stava calando su di lui. La spada volò via ed il ragazzo con un grido si strinse la mano.

Thor non perse tempo. Si preparò, approfittando del momento, saltò nell'aria e calciò il ragazzo, piantandogli entrambi i piedi nel petto. Ma il giovane era così robusto che fu come dare un calcio ad un tronco di quercia. Il giovane arretrò appena di qualche centimetro, mentre Thor rimase pietrificato e cadde ai suoi piedi. Questo non lascia presagire niente di buono, pensò Thor quando colpì il terreno con un tonfo, le orecchie che gli martellavano in testa.

Thor tentò di rimettersi in piedi, ma il ragazzo fu più veloce: si chinò ed afferrò Thor per la schiena, lanciandolo per aria e mandandolo a faccia in giù nella polvere.

Un fitto gruppo di ragazzi velocemente si riunì attorno a loro ed esultò. Thor arrossì per l'umiliazione.

Si girò per rimettersi in piedi, ma il ragazzo era troppo veloce. Era giù sopra di lui, e lo teneva bloccato a terra. Prima che Thor se ne potesse rendere conto, il combattimento si era trasformato in un incontro di wrestling, ed il peso del suo avversario era abnorme.

Thor riusciva a sentire le grida delle altre reclute che gli giungevano attutite: tutti si erano disposti a cerchio attorno a loro, vocianti e desiderosi di sangue. Il volto del suo avversario si accigliò, il giovane allungò i pollici e li abbassò, nel tentativo di colpite gli occhi di Thor. Thor non poteva crederci: sembrava che quel ragazzo volesse veramente fargli del male. Voleva sul serio avere la meglio in modo così violento?

All’ultimo momento Thor ruotò la testa schivando il colpo, e le mani del ragazzo non andarono a segno, finendo a terra. Thor colse l’occasione per divincolarsi e liberarsi da lui.

Si rimise in piedi e si piazzò di fronte al ragazzo, che pure si alzò. Il ragazzo si preparò e sferrò un colpo diretto alla faccia di Thor, ma Thor lo schivò all’ultimo momento. L’aria gli sferzò il volto e Thor si rese conto che se l’avesse colpito gli avrebbe rotto la mascella. Allora gli tirò un pugno nello stomaco, ma ottenne ben poco: era come colpire un albero.

Prima che Thor potesse reagire, il ragazzo gli diede una gomitata in faccia.

Thor venne sbalzato all’indietro, barcollando per il colpo. Era come essere colpiti da un martello e le orecchie gli rimbombarono.

Mentre Thor incespicava all’indietro, cercando di riprendere fiato, il giovane lo attaccò di nuovo con un calcio al petto. Thor volò all’indietro e sbatté a terra, finendo steso sulla schiena. Gli altri ragazzi esultarono.

Stordito, Thor cercò di mettersi a sedere, ma appena vi provò il giovane attaccò un’altra volta, colpendolo con un altro pugno e sferrandoglielo forte in faccia tanto da rimandarlo nuovamente a terra, steso sulla schiena.

Thor rimase lì, sentiva le grida esultanti degli altri ed avvertiva il sapore salato del sangue che gli scendeva copioso dal naso, la faccia piena di lividi. Gemette di dolore. Guardò verso l’alto e vide il ragazzone che si voltava e se ne tornava verso i suoi amici, già celebrando la sua vittoria.

Thor voleva arrendersi. Quel ragazzo era enorme, battersi contro di lui era inutile, e non poteva subire ulteriori mortificazioni. Ma qualcosa dentro di lui lo esortò. Non poteva perdere. Non di fronte a tutta quella gente.

Non arrenderti. Alzati. Alzati!

In qualche modo Thor raccolse le forze: gemendo rotolò a pancia in giù e si sollevò reggendosi su mani e ginocchia; poi, lentamente, si rimise in piedi. Sanguinante, gli occhi gonfi tanto da non riuscire a vedere bene, il respiro affannoso, guardò il ragazzo e sollevò i pugni.

Il ragazzone si volt e fissò Thor dall’alto in basso. Scosse la testa, incredulo.

“Saresti dovuto rimanere a terra, ragazzo,” disse minacciosamente, ritornando verso Thor.

“FERMA!,” gridò una voce. “Elden, stai indietro!”

Un cavaliere improvvisamente giunse e si pose fra loro, allungando le mani aperte ed impedendo ad Elden di avvicinarsi ulteriormente a Thor. La folla si acquietò, e tutti guardarono il cavaliere: chiaramente era qualcuno degno di rispetto.

Thor guardò in alto, sbalordito per la presenza del cavaliere: era alto, con spalle ampie, mascella squadrata, capelli castani e ben pettinati, aveva circa vent’anni. Thor provò per lui un’immediata simpatia. La sua armatura di prima qualità, una cotta di maglia in lucido argento, era ricoperta di marchi reali: l’emblema del falcone della famiglia MacGil. La gola di Thor si seccò: si trovava di fronte ad un membro della famiglia reale. Stentava a crederlo.





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Una serie fantasy epica mozzafiato. Morgan Rice ripete limpresa! Questa magica saga ricorda il meglio di J.K. Rowling, George R.R. Martin, Rick Riordan, Christopher Paolini e J.R.R. Tolkien. Non sono riuscita a chiudere il libro! –Allegra Skye, autore del best-seller SAVED Dallautrice best-seller Morgan Rice giunge il primo capitolo di una nuova serie fantasy. UNIMPRESA DA EROI (LIBRO 1 nellANELLO DELLO STREGONE) ruota attorno allepica crescita di un ragazzo speciale, un quattordicenne proveniente da un piccolo villaggio ai confini del Regno dellAnello. Il più giovane di quattro fratelli, il meno favorito del padre, odiato dai suoi fratelli, Thorgrin sente di essere diverso dagli altri. Sogna di diventare un grande guerriero, di entrare tra gli uomini del Re e proteggere lAnello dalle orde di creature che popolano laltra parte del Canyon. Quando raggiunge letà giusta ma il padre gli vieta di tentare lingresso nella Legione del Re, Thor rifiuta di prendere quel no come una risposta definitiva: si mette in cammino da solo, determinato a farsi strada allinterno della Corte del Re ed essere preso sul serio. Ma la Corte del Re è impegnata con i propri drammi familiari, lotte di potere, ambizioni, gelosia, violenza e tradimento. Re MacGil deve scegliere un erede tra i suoi figli e lantica Spada della Dinastia, la sorgente di tutto il loro potere, giace ancora intatta in attesa del prescelto. Thorgrin si presenta come un outsider e lotta per essere accettato e per far parte della Legione del Re.

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