Книга - Voto Di Gloria

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Voto Di Gloria
Morgan Rice


L’Anello Dello Stregone #5
In VOTO DI GLORIA (Libro #5 in LAnello dello Stregone), Thor si imbarca con i suoi compagni della Legione per unimpresa epica nelle vaste Terre Selvagge dellImpero per cercare di trovare lantica Spada della Dinastia e salvare quindi lAnello. Le amicizie di Thor si fanno sempre più profonde mentre viaggiano in luoghi nuovi, affrontano mostri inimmaginabili e combattono fianco a fianco in incredibili battaglie. Incontrano territori esotici, creature e persone che non avrebbero mai immaginato, mentre ogni ulteriore passo del loro viaggio si presenta carico di pericoli sempre più grandi. Dovranno chiamare a raccolta tutta la loro abilità se vorranno sopravvivere mentre seguono il sentiero dei ladri, sempre più a fondo nel territorio dellImpero. La loro ricerca li porterà direttamente fino al cuore del Mondo Sotterraneo, un dei sette regni dellinferno, dove regnano i morti viventi e i campi sono disseminati di ossa. Qui più che mai Thor chiama a raccolta i suoi poteri e lotta per capire la sua stessa natura. Tornata nellAnello, Gwendolyn deve condurre metà della Corte del Re verso la roccaforte occidentale di Silesia, unantica città arroccata ai confine del Canyon che domina da quella postazione da oltre mille anni. Le fortificazioni di Silesia le hanno permesso di sopravvivere a ogni attacco nel corso dei secoli, ma la città non ha mia dovuto affrontare un assalto da parte di un capo quale Andronico e da un esercito di un milione di uomini. Gwendolyn impara cosa significhi essere regina nel momento in qui assume il ruolo di guida. Srog, Kolk, Brom, Steffen, Kendrick e Godfrey sono al suo fianco e si preparano a difendere la città dalla violenta guerra che sta per scatenarsi. Nel frattempo, Gareth sta impazzendo sempre di più, cercando di respingere un colpo di stato che lo vorrebbe morto nella Corte del Re.





Morgan Rice

VOTO DI GLORIA




V o t o   di   G L O R i a




(libro #5 in l’anello dello stregone)




Morgan Rice




Versione italiana


A cura di




Annalisa lovat



Chi è Morgan Rice

Morgan Rice è l’autrice campione d’incassi di APPUNTI DI UN VAMPIRO, una serie per ragazzi che comprende al momento undici libri; autrice campione d’incassi di THE SURVIVAL TRILOGY, un thriller post-apocalittico che comprende al momento due libri; e autrice campione d’incassi della serie epica fantasy L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende al momento tredici libri.



I libri di Morgan sono disponibili in edizione stampata e in formato audio e sono stati tradotti in tedesco, francese, italiano, spagnolo, portoghese, giapponese, cinese, svedese, olandese, turco, ungherese, ceco e slovacco (prossimamente ulteriori lingue).



Morgan ama ricevere i vostri messaggi e commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.morganricebooks.com (http://www.morganricebooks.com/) per iscrivervi alla sua mailing list, ricevere un libro in omaggio, gadget gratuiti, scaricare l’app gratuita e vedere in esclusiva le ultime notizie. Connettetevi a Facebook e Twitter e tenetevi sintonizzati!



Cosa dicono di Morgan Rice

“L’ANELLO DELLO STREGONE ha tutti gli ingredienti per un successo immediato: intrighi, complotti, mistero, cavalieri valorosi, storie d’amore che fioriscono e cuori spezzati, inganno e tradimento. Vi terrà incollati al libro per ore e sarà in grado di riscuotere l’interesse di persone di ogni età. Non può mancare sugli scaffali dei lettori di fantasy.”

–-Books and Movie Reviews, Roberto Mattos



“Rice fa un bel lavoro nel trascinarvi nella storia fin dall’inizio, utilizzando una grande qualità descrittiva che trascende la mera colorazione d’ambiente… Ben scritto ed estremamente veloce da leggere…”

--Black Lagoon Reviews (parlando di Tramutata)



“Una storia perfetta per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellente creando un intreccio interessante  …Rinvigorente e unico. La serie si concentra su una ragazza… una ragazza straordinaria!… Di facile lettura, ma estremamente veloce e incalzante… Classificato PG.”

–-The Romance Reviews (parlando di Tramutata)



“Mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere…. Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dalle prime pagine. Non esistono momenti morti.”

–-Paranormal Romance Guild {parlando di Tramutata }



“Pieno zeppo di azione, intreccio, avventura e suspense. Mettete le vostre mani su questo libro e preparatevi a continuare a innamorarvi”

–-vampirebooksite.com (parlando di Tramutata)



“Un grande intreccio: questo è proprio il genere di libro che farete fatica a mettere giù la sera. Il finale lascia con il fiato sospeso ed è così spettacolare che vorrete immediatamente acquistare il prossimo libro, almeno per sapere cosa succede in seguito.”

–-The Dallas Examiner {parlando di Amata}



“È  un libro che può competere con TWILIGHT e DIARI DI UN VAMPIRO, uno di quelli che vi vedrà desiderosi di continuare a leggere fino all’ultima pagina! Se siete tipi da avventura, amore e vampiri, questo è il libro che fa per voi!”

–-Vampirebooksite.com {parlando di Tramutata}



“Morgan Rice dà nuovamente prova di essere una narratrice di talento… Questo libro affascinerà una vasta gamma di lettori, compresi i più giovani fan del genere vampiresco/fantasy. Il finale mozzafiato vi lascerà a bocca aperta.”

–-The Romance Reviews {parlando di Amata}



Libri di Morgan Rice




L’ANELLO DELLO STREGONE


UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)


LA MARCIA DEI RE (Libro #2)


DESTINO DI DRAGHI (Libro #3)


GRIDO D’ONORE (Libro #4)


VOTO DI GLORIA (Libro #5)


UN COMPITO DI VALORE (Libro #6)


RITO DI SPADE (Libro #7)


CONCESSIONE D’ARMI (Libro #8)


UN CIELO DI INCANTESIMI (Libro #9)


UN MARE DI SCUDI (Libro #10)


UN REGNO D’ACCIAIO (Libro #11)


LA TERRA DEL FUOCO (Libro #12)


LA LEGGE DELLE REGINE (Libro #13)




THE SURVIVAL TRILOGY


ARENA ONE: SLAVERSUNNERS (Libro #1)


ARENA TWO (Libro #2)




APPUNTI DI UN VAMPIRO


TRAMUTATA (Libro #1)


AMATA (Libro #2)


TRADITA (Libro #3)


DESTINATA (Libro #4)


DESIDERATA (Libro #5)


BETROTHED (Libro #6)


VOWED (Libro #7)


FOUND (Libro #8)


RESURRECTED (Libro #9)


CRAVED (Libro #10)


FATED (Libro #11)












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Copyright © 2013 by Morgan Rice

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This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.

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“Ciascun uomo ha cara la propria vita; ma l’uomo d’onore ha l’onore più caro della vita.”

    —William Shakespeare
    Troilo e Cressida






CAPITOLO UNO


Andronico si portò fieramente al centro della città di McCloud, affiancato da centinaia dei suoi generali e trascinandosi dietro la sua più preziosa proprietà: re McCloud. Privato della sua armatura, mezzo nudo, il corpo grassoccio e peloso lasciato allo scoperto, re McCloud era legato dietro alla sella di Andronico con una grossa corda stretta attorno ai polsi.

Avanzando lentamente e facendo mostra del suo trionfo, Andronico trascinava McCloud tra terra e sassi, sollevando una nuvola di polvere. Il popolo di McCloud si riunì attorno a loro guardando la scena a bocca aperta. McCloud imprecava e si agitava per il dolore, mentre sfilava attraverso le vie della sua stessa cittadina. Andronico era raggiante. I volti della gente di McCloud erano segnati da smorfie di paura. Ecco lì il loro re, ora ridotto al più infimo degli schiavi. Era uno dei giorni migliori di cui Andronico avesse memoria.

Era sorpreso di quanto semplice fosse stato conquistare quella città. Pareva che gli uomini di McCloud si fossero demoralizzati ancora prima che l’attacco avesse inizio. I suoi soldati li avevano sottomessi alla velocità di un fulmine, piombando su di loro, annientando i pochi che avevano osato opporsi e penetrando all’interno della città in un batter d’occhio. Probabilmente si erano resi conto che non valeva la pena opporre resistenza. Avevano tutti deposto le armi sperando che, se si fossero arresi, Andronico si sarebbe limitato a farli prigionieri.

Ma non conoscevano il grande Andronico. Disprezzava chi si arrendeva. Non catturava prigionieri, e l’abbassare le armi gli aveva solo reso le cose più facili.

Le strade della città di McCloud furono presto inondate dal sangue, mentre gli uomini di Andronico facevano piazza pulita in ogni vicolo, in ogni via, massacrando ogni anima incontrassero. Le donne e i bambini venivano catturati e fatti schiavi, come sempre. Le case saccheggiate una per una.

Ora Andronico avanzava lentamente tra le vie, osservando i segni del suo trionfo e vedendo cadaveri ovunque, il bottino accumulato, le case distrutte. Si voltò e fece cenno a uno dei suoi generali che immediatamente sollevò una torcia e diede il via ai suoi uomini: centinaia di soldati si aprirono a ventaglio sulla città dando fuoco ai tetti di paglia. Le fiamme si levarono tutt’attorno a loro, alte verso il cielo, e Andronico già ne sentiva il calore.

“NO!” gridò McCloud, dimenandosi a terra dietro di lui.

Andronico sorrise e allungò il passo, diretto verso una roccia piuttosto grande. Si udì subito un colpo che gli diede grande soddisfazione, consapevole che il corpo di McCloud vi aveva sbattuto contro.

Era meraviglioso veder bruciare quella città. Come aveva fatto per ogni luogo conquistato dall’Impero, l’avrebbe prima rasa al suolo, per poi ricostruirla con i suoi uomini, i suoi generali, il suo Impero. Era così che funzionava. Non lasciava mai traccia del vecchio. Voleva costruire un nuovo mondo. Il mondo di Andronico.

L’Anello, il sacro Anello che era sfuggito a tutti i suoi antenati, era ora territorio suo. Riusciva a stento a crederci. Fece un respiro profondo pensando alla sua grandezza. Presto avrebbe attraversato l’Altopiano e avrebbe conquistato anche l’altra metà di Anello. Dopodiché non ci sarebbe stato alcun luogo sul pianeta dove il suo piede non fosse passato.

Andronico si avvicinò alla torreggiante statua di McCloud, nella piazza cittadina, e vi si fermò davanti. Era fatta di marmo e si ergeva di oltre quindici metri, come una sorta di tempio. Mostrava una versione di McCloud che Andronico non conosceva: un McCloud in forma e muscoloso, che brandiva coraggiosamente una spada. Era egomaniacale. Per quell’aspetto lo ammirava. Una parte di lui avrebbe voluto prendere quella statua e portarla a casa, collocarla come un trofeo nel suo palazzo.

Ma un’altra parte ne era troppo disgustata. Senza pensarci due volte prese la sua fionda – tre volte più grande di quella di qualsiasi essere umano, abbastanza larga per potervi mettere un piccolo masso – e tirò con tutta la propria forza.

La roccia volò in aria e andò a colpire la testa della statua, che esplose in mille pezzi staccandosi dal corpo. Andronico poi gridò, sollevò il suo mazzafrusto e lo calò sul resto del monumento.

Frantumò il busto di marmo e i pezzi caddero a terra con grande frastuono. Andronico girò poi il suo cavallo e si assicurò che, avanzando, il corpo di McCloud si grattasse e graffiasse sui frammenti.

“Pagherai per questo!” gridò debolmente e agonizzante McCloud.

Andronico rise. Aveva incontrato molti uomini nella sua vita, ma quello era forse il più patetico di tutti.

“Davvero?” gli gridò in risposta.

Quel McCloud era troppo ottuso, ancora non apprezzava il potere del grande Andronico. Aveva bisogno di una lezione, una volta per tutte.

Andronico osservò la città e i suoi occhi caddero su quello che era senza dubbio il castello di McCloud. Spronò il cavallo e partì al galoppo, seguito dai suoi uomini, mentre McCloud veniva trascinato in terra attraverso il cortile.

Risalì le decine di gradini di marmo e il corpo di McCloud rimbalzò dietro di lui, gridando e gemendo a ogni scalino. Poi proseguì attraverso l’ingresso. I suoi uomini erano già di guardia al portone, ai loro piedi i cadaveri insanguinati delle precedenti guardie. Andronico sorrise soddisfatto constatando che ogni angolo della città era già suo.

Oltrepassò i grandi portoni del castello ed entrò in un corridoio dall’alto soffitto a volta, completamente fatto di marmo. Si meravigliò per gli eccessi di quel re. Era chiaro che non aveva badato a spese per concedersi i lussi che voleva.

Ora era giunta la sua ora. Andronico proseguì a cavallo lungo gli ampi corridoi, sempre seguito dai suoi uomini. Gli zoccoli dei cavalli risuonavano tra le pareti e il gruppo giunse a quella che aveva tutto l’aspetto di essere la sala del trono. Fecero irruzione attraverso la porta di quercia e si portarono al centro della stanza, vicino a un volgare ed eccessivo trono d’oro lavorato, collocato al centro della sala.

Andronico smontò da cavallo, salì lentamente i gradini dorati e vi si sedette.

Respirò profondamente scrutando da lì i suoi uomini, le decine di generali a cavallo in attesa di un suo comando. Guardò il corpo sanguinante di McCloud, ancora legato al suo cavallo, gemente. Osservò la stanza, esaminò le pareti, gli arazzi, le armature, le armi. Osservò la maestria con cui il trono era stato cesellato e se ne stupì. Prese in considerazione l’idea di fonderlo, o magari portarlo indietro intero. Avrebbe magari potuto darlo in dono a uno dei suoi generali minori.

Ovviamente quel trono non assomigliava neanche lontanamente al suo, il trono più grande e massiccio di tutti i regni, che aveva richiesto il lavoro di venti artigiani per quarant’anni. La costruzione aveva avuto inizio ai tempi di suo padre ed era stata completata nel giorno in cui Andronico l’aveva ucciso. Tempismo perfetto.

Guardò McCloud, quel patetico omuncolo, e si chiese come poterlo far soffrire al meglio. Esaminò la forma e la misura del suo cranio e decise che gliel’avrebbe perforato per inserirlo nella catena che portava al collo, insieme alle altre teste che già vi pendevano. Eppure si rendeva conto che prima di ucciderlo aveva bisogno di tempo per smagrirgli il volto, far incavare le guance, in modo che stesse meglio sulla sua collana. Non voleva che una faccia grassa e floscia rovinasse il risultato estetico  del suo gioiello. Lo avrebbe lasciato vivere quanto bastasse, e nel frattempo lo avrebbe torturato. Sorrise tra sé e sé. Sì, era davvero un bel piano.

“Portatelo qui,” ordinò Andronico a uno dei suoi generali con il suo consueto ringhio profondo e gutturale.

Il generale balzò a terra senza un solo secondo di esitazione, si avvicinò velocemente a McCloud, tagliò la fune e trascinò il corpo sanguinante sul pavimento, macchiandolo di rosso, e lo lasciò ai piedi di Andronico.

“Non puoi passarla liscia!” bofonchiò debolmente McCloud.

Andronico scosse la testa: quell’umano non avrebbe mai imparato.

“Eccomi qui, seduto sul tuo trono,” disse Andronico. “E guarda dove sei tu, disteso ai miei piedi. Io direi che la passerò liscia in tutto e per tutto. Direi che l’ho già fatto.”

McCloud rimase a terra, gemente e tremante.

“Il primo punto del mio ordine del giorno,” disse Andronico, “sarà di insegnarti a prestare il dovuto rispetto al tuo nuovo re e padrone. Vieni da me ora, e ricevi l’onore di essere il primo a inginocchiarsi davanti a me nel mio nuovo regno, il primo a baciare la mia mano e a chiamarmi re di ciò che prima era la parte di Anello appartenente ai McCloud.”

McCloud sollevò lo sguardo, si alzò appoggiandosi su mani e ginocchia e fece una smorfia ad Andronico.

“Mai!” disse, voltandosi e sputando sul pavimento.

Andronico scoppiò a ridere. Si stava divertendo di cuore. Era un bel po’ che non incontrava un umano così pieno di forza di volontà.

Si voltò e fece un cenno. Uno dei suoi uomini afferrò McCloud alle spalle, un altro gli tenne ferma la testa e un terzo si fece avanti con un lungo rasoio. Vedendolo avvicinarsi McCloud tremò di paura.

“Cosa avete intenzione di fare?” chiese terrorizzato, con voce alta e stridula.

L’uomo abbassò il rasoio e con un colpo netto gli tagliò metà della barba. McCloud lo guardò disorientato, chiaramente stupito di non essere stato ferito.

Andronico annuì e un altro servitore si fece avanti con un lungo attizzatoio, all’estremità del quale era inciso nel ferro l’emblema del suo regno: un leone con un uccello tra le fauci. Avvampava, arancione e caldo rovente, e mentre gli altri tenevano fermo McCloud, l’uomo abbassò il ferro contro la sua guancia nuda.

“NO!” McCloud strillò rendendosi conto di cosa stava accadendo.

Ma ormai era troppo tardi.

Un grido terrificante tagliò l’aria, accompagnato da un sibilo e dal puzzo di carne bruciata. Andronico guardò con soddisfazione l’attizzatoio che affondava nella guancia di McCloud bruciandola. Il sibilo era sempre più forte e le grida quasi insopportabili.

Alla fine, dopo dieci secondi buoni, lo lasciarono andare.

McCloud si afflosciò sul pavimento, privo di conoscenza, sbavando, mentre il fumo si levava dalla metà bruciacchiata della sua faccia. Ora portava, stampato nella carne, l’emblema di Andronico.

Andronico si chinò in avanti, guardò il corpo privo di conoscenza di McCloud e ammirò il lavoretto appena fatto.

“Benvenuto nell’Impero.”




CAPITOLO DUE


Erec si trovava in cima alla collina, al limitare della foresta, e guardava il piccolo contingente armato che avanzava. Il cuore gli bruciava di ardore. Era nato per un giorno come quello. In alcune battaglie la linea di demarcazione sfumava tra giusto e ingiusto, ma non in una giornata come quella. Il signore di Baluster aveva sfacciatamente rubato la sua sposa e si era comportato da spaccone, per nulla dispiaciuto per ciò che aveva fatto. Era stato messo al corrente del suo crimine, gli era stata data la possibilità di ratificare i suoi errori, eppure lui si era rifiutato. Si era preso gioco dei suoi dolori. I suoi uomini avrebbero dovuto lasciar perdere, soprattutto ora che egli era morto.

Invece stavano avanzando, in centinaia: mercenari pagati da quel signorotto mediocre, tutti lanciati con lo scopo di uccidere Erec solo perché quell’uomo li aveva pagati. Procedevano verso di lui nelle loro scintillanti armature verdi, e mentre si avvicinavano lanciavano grida di guerra. Come se una cosa del genere potesse mai spaventarlo.

Erec non aveva la minima paura. Aveva visto troppe battaglie come quella. Se aveva imparato qualcosa nei suoi lunghi anni di allenamento, era di non avere mai paura quando combatteva dalla parte del giusto. Gli avevano insegnato che la giustizia non aveva sempre la meglio, ma poteva donare a chi la sostenesse la forza di dieci uomini.

Non era paura quella che Erec provava mentre guardava l’avanzata di quelle centinaia di uomini, consapevole che sarebbe probabilmente morto. Era attesa. Gli era stata concessa la possibilità di affrontare la propria morte nel modo più onorevole, e questo era un dono. Aveva fatto un voto di gloria e quel giorno quel voto gli domandava ciò che era dovuto.

Erec sguainò la spada e iniziò a correre a piedi giù dalla collina, rapido contro l’esercito che gli galoppava contro. In quel momento desiderava più di ogni altra cosa di poter avere il suo fidato destriero, per affrontare la battaglia a cavallo, ma provava un senso di pace sapendo che Warkfin stava riportando Alistair a Savaria, sana e salva alla corte del duca.

Quando fu più vicino ai soldati, ormai a neanche cinquanta metri da lui, Erec prese velocità deciso a colpire il cavaliere che stava a capo del gruppo, esattamente al centro. L’esercito non rallentò, e neppure Erec lo fece, preparandosi allo scontro ormai imminente.

Sapeva di avere un vantaggio: trecento uomini non potevano fisicamente avvicinarsi abbastanza da attaccare un uomo solo nello stesso istante. Aveva imparato dal suo allenamento che al massimo sei uomini a cavallo potevano arrivare sufficientemente vicini a un uomo a terra. Per come la vedeva Erec, ciò significava che lo scontro non era trecento a uno, ma solo sei a uno. Se fosse riuscito ad uccidere sei uomini alla volta, aveva delle possibilità di vittoria. Tutto ovviamente dipendeva dalla sua resistenza e se questa sarebbe stata sufficiente a sostenerlo per tutta la durata della battaglia.

Scendendo dalla collina, Erec estrasse dalla cintura l’arma che sapeva essere la migliore: un mazzafrusto con una catena lunga dieci metri, all’estremità della quale era appesa una palla chiodata. Era il genere di arma generalmente utilizzata per tendere trappole lungo la via, o per situazioni come quella.

Erec attese l’ultimo momento, fino a che fu certo che l’esercito non avesse tempo per reagire, poi fece roteare il mazzafrusto sopra la propria testa e lo scagliò verso il campo di battaglia. Mirò a un piccolo albero e la catena si srotolò attraverso il campo. Quando la palla si fu attorcigliata attorno all’albero, Erec iniziò a rotolare a terra, evitando così le lance che i nemici gli stavano scagliando, tenendosi alla catena con tutte le sue forze.

Il suo tempismo fu perfetto: l’esercito non ebbe alcun tempo per reagire. Videro la catena all’ultimo momento e cercarono di fermare i cavalli, ma stavano procedendo troppo velocemente e fu troppo tardi.

L’intera prima linea inciampò nel cavo, che tagliò le gambe dei cavalli mandando a terra i cavalieri, seguiti a ruota dalle loro cavalcature che atterrarono su di loro. Decine di uomini collassarono a terra in un grande caos generale.

Erec non ebbe il tempo per essere orgoglioso di quanto aveva fatto: un altro contingente girò e si lanciò contro di lui, avanzando con un grido di battaglia. Erec balzò in piedi pronto ad affrontarli.

Quando il cavaliere a capo del gruppo sollevò il suo giavellotto, Erec prese vantaggio dalle sue risorse: non aveva un cavallo, non poteva affrontare quegli uomini alla loro altezza, ma essendo basso poteva utilizzare il terreno sotto di lui. Improvvisamente si tuffò in terra, rotolò, sollevò la spada e tagliò le gambe del cavallo del primo cavaliere. L’animale inciampò e il soldato cadde a terra senza avere neanche l’occasione di usare la sua arma.

Erec continuò a rotolare e riuscì a schivare le zoccolate dei cavalli attorno a sé, che dovettero dividersi per evitare di calpestare il cavallo caduto a terra. Molti non vi riuscirono e incespicarono sull’animale morto, collassando a terra e sollevando un nuvola di polvere, causando così un vero e proprio ingorgo nel mezzo dell’esercito.

Era proprio ciò che Erec aveva sperato: polvere e confusione, decine di soldati e cavalli a terra.

Balzò in piedi, sollevò la spada e parò un colpo che stava scendendo contro la sua testa. Ruotò su se stesso e bloccò un giavellotto, poi una lancia, poi ancora un’ascia. Si difese contro colpi che gli piovevano contro da ogni parte, ma sapeva che non avrebbe potuto resistere a lungo. Doveva rimanere all’erta se voleva conservare una minima possibilità.

Erec rotolò di nuovo, uscì da quel pandemonio, si poggiò su un ginocchio e lanciò la spada come fosse una lancia. L’arma volò in aria e si conficcò nel petto del soldato più vicino. Questo sgranò gli occhi e cadde di lato dal suo cavallo, morto.

Erec colse l’occasione per balzare sul cavallo, prendendo il mazzafrusto dalle mani dell’uomo. Si trattava di un’arma ben fatta ed Erec l’aveva individuata per quel motivo: aveva un’asta d’argento borchiata e una catena di un metro e mezzo con tre palle chiodate all’estremità. Erec la tirò all’indietro  e la fece roteare sopra la testa, andando a spazzare via le armi dalle mani di diversi avversari in un colpo solo. Poi, con un altro colpo, li fece cadere dai loro cavalli.

Poi perlustrò il campo di battaglia e notò che aveva atterrato quasi un centinaio di cavalieri. Ma gli altri, ancora almeno duecento, si stavano lanciando contro di lui tutti insieme proprio in quel momento, ed erano decisamente determinati.

Erec galoppò loro incontro, un uomo solo contro duecento, e levò un forte grido di battaglia, brandendo il suo mazzafrusto e pregando Dio che la sua forza lo sostenesse.


*

Alistair piangeva mentre si teneva stretta a Warkfin con tutta la sua forza, mentre il destriero galoppava portandola lungo la fin troppo familiare strada per Savaria. Per tutto il tempo aveva calciato e gridato contro il cavallo, cercando di fare il possibile per farlo girare e tornare da Erec. Ma lui non l’aveva ascoltata. Non aveva mai incontrato un cavallo del genere prima d’ora: ascoltava risoluto il comando del suo padrone e non esitava un secondo. Era ovviamente intenzionato a portarla dove Erec gli aveva ordinato, e alla fine non poté che rassegnarsi al fatto che non c’era nulla da fare.

I sentimenti di Alistair erano contrastanti mentre attraversava i cancelli della città, una città nella quale aveva vissuto così a lungo da schiava. Da una parte si sentiva a casa, ma dall’altra le tornavano alla mente i ricordi del locandiere che l’aveva sfruttata, di ogni cosa ci fosse di sbagliato in quel luogo. Aveva desiderato così tanto andarsene, scappare da lì con Erec e iniziare una nuova vita insieme a lui. Mentre quelle mura la facevano sentire al sicuro, provava allo stesso tempo una crescente inquietudine per Erec, laggiù da solo, ad affrontare un esercito intero. Il solo pensiero le dava alla nausea.

Rendendosi conto che Warkfin non sarebbe tornato indietro, sapeva che la miglior cosa che avesse potuto fare sarebbe stata cercare aiuto per Erec. Lui le aveva chiesto di rimanere lì, all’interno delle mura protette della città, ma sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto. Era la figlia di un re dopotutto, e non era tipo da fuggire dalla paura o dagli scontri. Erec aveva trovato in lei una persona come lui: era altrettanto nobile e determinata. E non c’era modo per lei di sopravvivere se gli fosse accaduto qualcosa.

Conoscendo bene quella cittadina reale, Alistair diresse Warkfin verso il castello del duca, ed ora che si trovavano oltre il cancello, l’animale si lasciò guidare. Giunta all’ingresso del castello scese da cavallo e corse tra i servitori che cercavano di fermarla. Si scrollò di dosso le loro mani e percorse i corridoi di marmo che tanto bene aveva imparato a conoscere quando era una serva.

Si lanciò di peso contro le grandi porte reali della sala principale e le aprì con uno schianto, introducendosi in fretta e furia nella stanza privata del duca.

Diversi membri del consiglio si voltarono a guardarla, tutti abbigliati con paramenti reali, il duca seduto al centro, circondato da numerosi cavalieri. Rimasero tutti sorpresi: chiaramente aveva interrotto con il suo arrivo qualche affare importante.

“Chi sei, donna?” chiese un uomo.

“Chi osa interrompere gli affari ufficiali del duca?” gridò un altro.

“Riconosco questa donna,” disse il duca alzandosi in piedi.

“Anche io,” disse Brandt, che Alistair riconobbe essere l’amico di Erec. “È Alistair, vero?” chiese. “La nuova moglie di Erec?”

Lei gli corse incontro, in lacrime, e gli afferrò le mani.

“Vi prego, mio signore, aiutatemi. Si tratta di Erec!”

“Cos’è successo?” chiese il duca, allarmato.

“Si trova in grave pericolo. Sta affrontando un terribile esercito da solo in questo preciso istante! Non ha voluto che rimanessi con lui! Ha bisogno di aiuto!”

Senza dire una parola tutti i cavalieri saltarono in piedi e iniziarono a correre fuori dalla sala senza la minima esitazione. Anche Alistair si voltò e iniziò a correre con loro.

“Resta qui!” la esortò Brandt.

“Mai!” rispose lei, correndogli dietro. “Vi condurrò da lui!”

Corsero tutti insieme lungo i corridoi, fuori dai portoni del castello fino a un gruppo di cavalli già pronti. Ognuno montò sul suo senza aspettare un solo secondo. Alistair salì su Warkfin, lo spronò e si mise a capo del gruppo, ansiosa tanto quanto loro di partire.

Mentre attraversavano di gran carriera la corte del duca, altri soldati intorno a loro montarono a cavallo e si unirono al gruppo. Quando lasciarono i cancelli di Savaria formavano un grosso contingente di almeno cento uomini, Alistair a capo di esso, affiancata da Brandt e dal duca.

“Se Erec viene a sapere che sei con noi, vorrà la mia testa,” disse Brandt. “Per favore, mia signora, dicci semplicemente dove sta.”

Ma Alistair scosse la testa ostinatamente, ricacciando le lacrime mentre continuava a galoppare in quel frastuono di zoccoli attorno a lei.

“Preferirei scendere nella mia stessa tomba, piuttosto che abbandonare Erec!”




CAPITOLO TRE


Thor cavalcava cautamente lungo il sentiero che attraversava la foresta con accanto Reece, O’Connor, Elden e i gemelli, Krohn alle loro spalle, uscendo pian piano dalla foresta al confine del Canyon. Il cuore gli batteva trepidante di attesa mentre raggiungevano il limitare del fitto bosco. Sollevò una mano, facendo cenno agli altri di restare in silenzio, e tutti si immobilizzarono dietro di lui.

Thor si guardò attorno e osservò la vasta distesa di spiaggia, cielo aperto e, ancora oltre, lo sconfinato mare giallo che li avrebbe portati verso le remote terre dell’Impero. Il mar Tartuvio. Non vedeva quelle acque dal viaggio del Cento. Era strano trovarsi di nuovo lì e questa volta per una missione che riguardava il destino dell’Anello.

Dopo aver attraversato il ponte sul Canyon, il breve tragitto attraverso le Terre Selvagge era stato tranquillo. Kolk e Brom avevano detto a Thor di cercare una piccola imbarcazione ormeggiata sulle rive del Tartuvio, attentamente nascosta sotto i rami di un immenso albero che si protendeva sul mare. Thor seguì le loro indicazioni alla lettera, e quando raggiunsero il confine del bosco, scorse la barca, ben nascosta e pronta per portarli dove dovevano andare. Si sentì sollevato.

Ma poi vide sulla sabbia di fronte all’imbarcazione sei soldati dell’Impero intenti a studiarla. Un settimo vi era salito a bordo. La barca era attraccata a riva, giaceva per metà sulla sabbia e per il resto della lunghezza veniva lambita e fatta dondolare dalle onde. Non ci sarebbe dovuto essere nessuno lì.

Era un colpo di sfortuna. Scrutando verso l’orizzonte, Thor vide la lontana sagoma di quella che sembrava essere l’intera flotta dell’Impero: migliaia di navi scure con la bandiera nera dell’Impero. Fortunatamente non stavano navigando verso di loro, ma verso un’altra direzione, come se stessero percorrendo la lunga rotta circolare che portava a fare il giro dell’Anello, verso la parte dei McCloud, dove avevano oltrepassato il Canyon. Fortunatamente quell’armata era occupata con un diverso obiettivo.

Eccetto quella pattuglia. Quei sei soldati dell’Impero, probabilmente scorte in una missione di routine, che in qualche modo si erano imbattuti nella barca della Legione. Non era il momento opportuno. Se Thor e gli altri avessero solo raggiunto la riva pochi minuti prima, si sarebbero probabilmente già imbarcati e avrebbero salpato. Ora avevano uno scontro tra le mani. Non c’era modo di evitarlo.

Thor esaminò la spiaggia in tutte le direzioni e non vide altri contingenti dell’Impero. Almeno questo era a loro favore. Probabilmente si trattava di un gruppetto solitario.

“Pensavo che la barca dovesse essere ben nascosta,” disse O’Connor.

“Probabilmente non lo era abbastanza,” sottolineò Elden.

I sei rimasero ad osservare la barca e il gruppo di soldati nemici dai loro cavalli.

“Non ci vorrà molto perché diano l’allarme alle altre truppe dell’Impero,” osservò Conven.

“E allora avremo una guerra bella e buona da combattere,” aggiunse Conval.

Thor sapeva che avevano ragione. E che non era un rischio da correre.

“O’Connor,” disse Thor, “tra tutti noi sei quello con la mira migliore. Ti ho visto tirare da cinquanta metri. Vedi quello sulla prua? Abbiamo un tiro a disposizione. Ce la puoi fare?”

O’Connor annuì seriamente, gli occhi fissi sul soldato dell’Impero. Allungò con scioltezza una mano dietro la spalla, sollevò l’arco, posizionò una freccia e lo tenne pronto.

Stavano tutti guardando Thor e lui si sentiva pronto a dare il via.

“O’Connor, al mio segnale, tira. Poi noi ci butteremo su quelli più sotto. Tutti gli altri usino le loro armi da lancio non appena saremo vicini. Prima di tutto cercate di avvicinarvi il più possibile.”

Thor fece un gesto con la mano e subito O’Connor lasciò la corda.

La freccia volò in aria con un sibilo e il colpo si rivelò perfetto: la punta di metallo perforò il cuore del soldato che si trovava sulla prua. L’uomo rimase lì, gli occhi si fecero grandi per un momento, come se non comprendesse ciò che stava accadendo, poi improvvisamente allargò le braccia e cadde in avanti, di faccia, in un tuffo, atterrando sulla spiaggia con un tonfo ai piedi dei suoi compagni e macchiando la sabbia di rosso.

Thor e gli altri partirono all’attacco, una macchina ben strutturata, tutti perfettamente sincronizzati. Il rumore dei loro cavalli lanciati al galoppo li precedette e i sei soldati rimanenti si voltarono a guardarli. Montarono anch’essi a cavallo e si lanciarono contro di loro, pronti ad affrontarli.

Thor e i suoi ancora avevano il vantaggio della sorpresa. Thor lanciò un sasso con la sua fionda e colpì uno dei soldati alla tempia da una distanza di venti metri mentre continuava a galoppare. L’uomo cadde a terra morto, le redini ancora in mano.

Quando furono più vicini Reece lanciò la sua ascia, Elden una lancia e i gemelli un pugnale a testa. La sabbia era irregolare e i cavalli scivolavano, rendendo più difficile del solito lanciare le armi. L’ascia di Reece andò a segno, uccidendo uno degli uomini, ma gli altri mancarono il bersaglio.

Ne rimanevano quattro. Quello a capo del gruppo si separò dagli altri e si lanciò contro Reece, ora disarmato. Aveva tirato la sua ascia e non aveva avuto il tempo di sguainare la spada. Reece si preparò al peggio, ma all’ultimo momento Krohn balzò in avanti, morse una gamba del cavallo avversario e lo fece collassare a terra disarcionando il soldato e salvando quindi Reece all’ultimo momento.

Reece sfoderò la spada e colpì l’uomo uccidendolo prima che potesse rimettersi in piedi.

Ora ne mancavano tre. Uno di questi si avventò contro Elden brandendo un’ascia e roteandola in aria con l’intento di colpirlo alla testa. Elden parò il colpo con lo scudo e allo stesso tempo ruotò su sé stesso e colpì l’aggressore alla testa con lo scudo stesso, facendolo cadere da cavallo.

Un altro soldato prese un mazzafrusto dalla cintura e fece roteare la lunga catena terminante con una palla chiodata che si diresse immediatamente contro O’Connor. Accadde tutto troppo velocemente perché lui potesse reagire.

Thor lo vide sopraggiungere e si portò accanto all’amico, sollevando al spada e tranciando la catena del mazzafrusto prima che colpisse O’Connor. La lama tagliò di netto la catena con un secco rumore metallico, e Thor si sorprese di quanto la nuova spada fosse affilata. La palla chiodata cadde a terra, innocua, e si conficcò nella sabbia, risparmiando al vita di O’Connor. Subito sopraggiunse anche Conval, che trafisse l’avversario con la sua lancia, uccidendolo.

L’ultimo soldato dell’Impero rimasto si rese conto di essere drasticamente in minoranza. Con la paura negli occhi si voltò di scatto e si mise a correre, allontanandosi lungo la costa. Il suo cavallo lanciato al galoppo lasciava orme nette nella sabbia.

Tutti si concentrarono sul fuggitivo: Thor scagliò una pietra con la fionda, O’Connor sollevò l’arco e scoccò una freccia e Reece tirò una lancia. Ma il soldato correva in modo troppo irregolare, il cavallo sprofondava nella sabbia e tutti mancarono il bersaglio.

Elden allora sguainò la spada e Thor vide che stava per lanciarsi all’inseguimento. Ma sollevò una mano e li fece cenno di restare fermo.

“No!” gli gridò.

Elden si voltò a guardarlo.

“Se sopravvive manderà altri a cercarci!” protestò.

Thor si voltò e guardò la barca: sapeva che dare la caccia a quell’uomo avrebbe rubato loro del tempo prezioso, tempo che non potevano permettersi di sprecare.

“L’Impero si metterà comunque sulle nostre tracce,” disse. “Non abbiamo tempo da perdere. La cosa più importante ora e che ci allontaniamo da qui. Alla barca!”

Scesero da cavallo e raggiunsero la barca; Thor iniziò a svuotare la sella di tutte le provviste e gli altri fecero lo stesso, caricando a bordo armi e sacchi di cibo e acqua. Non potevano sapere quanto sarebbe durato il viaggio, quanto tempo sarebbe passato prima di riuscire a rivedere terra, se mai l’avessero rivista. Thor caricò anche del cibo per Krohn.

Lanciarono i sacchi in alto, oltre il parapetto della barca, e li sentirono atterrare con un tonfo sul ponte.

Thor afferrò poi la spessa e nodosa fune che pendeva da un fianco e la provò, sentendo che gli tagliava le mani. Si issò Krohn in spalla e il peso di entrambi mise alla prova i suoi muscoli, mentre si tirava verso l’alto per raggiungere il ponte. Krohn gli mugolava nell’orecchio e si teneva stretto al suo petto con i suoi artigli affilati, graffiandolo.

In poche mosse Thor fu oltre il parapetto e Krohn balzò a terra. Gli altri li seguirono a distanza di pochi secondi. Thor lanciò un’occhiata ai cavalli sulla spiaggia, che guardavano verso di loro come fossero in attesa di un comando.

“E loro?” chiese Reece, portandosi accanto a lui.

Thor si guardò attorno ed esaminò la barca: era lunga più o meno sette metri, e larga la metà. Era abbastanza grande per loro sette,  ma non certo per i cavalli. Se avessero cercato di portarli, i cavalli avrebbero potuto rovinare il legno e danneggiare l’imbarcazione. Dovevano lasciarli lì.

“Non abbiamo scelta,” disse Thor guardandoli malinconicamente. “Dovremo trovarcene di nuovi.”

O’Connor si chinò contro il parapetto.

“Sono cavalli intelligenti,” aggiunse O’Connor. “Li ho addestrati bene. Torneranno a casa se glielo ordino.”

O’Connor fischiò con forza.

Tutti insieme i cavalli si voltarono e cominciarono ad attraversare la spiaggia al galoppo scomparendo nella foresta, diretti verso l’Anello.

Thor si voltò a guardare i suoi fratelli, la barca, il mare dinnanzi a loro. Ora erano bloccati, senza cavalli, senza alcun’altra possibilità che andare avanti. La realtà dei fatti lo atterriva. Erano veramente soli, con nient’altro che quell’imbarcazione, in procinto di lasciare le coste dell’Anello. Non c’era nessuna via di ritorno.

“E come facciamo a mettere la barca in acqua?” chiese Conval, mentre tutti guardavano verso il basso, cinque metri sotto di loro, verso lo scafo. Una piccola parte era accarezzata dalle acque del Tartuvio, ma la parte più grossa della barca era incagliata nella sabbia.

“Quaggiù!” gridò Conven.

Tutti corsero dall’altra parte dell’imbarcazione da dove si vedeva pendere una spessa catena di ferro, all’estremità della quale si trovava una palla di ferro adagiata sulla sabbia.

Conven iniziò a tirare la catena. Sbuffò e lottò, ma non riuscì a sollevarla.

“È troppo pesante,” grugnì.

Conval e Thor accorsero ad aiutarlo, e quando tutti e tre ebbero afferrato la catena per tirarla, Thor rimase scioccato dal suo peso: anche in tre non riuscivano a spostarla di un centimetro. Alla fine la lasciarono andare e ricadere sulla sabbia.

“Lasciate che vi aiuti,” disse Elden avvicinandosi.

Con la sua imponente stazza Elden torreggiava sopra di loro: si abbassò e tirò la catena da solo, riuscendo a sollevare la palla. Thor era stupefatto. Gli altri si unirono a lui e tirarono tutti insieme, sollevando l’ancora di trenta centimetri alla volta, fino a che riuscirono a issarla completamente a bordo.

La barca iniziò a muoversi, dondolando un poco tra le onde, ma rimase incagliata tra la sabbia.

“I pali!” disse Reece.

Thor si voltò e vide due pali di legno, lunghi sei o sette metri, montati sui fianchi dell’imbarcazione, e capì a cosa servivano. Corse ad afferrarne uno insieme a Reece, mentre Conval e Conven spostavano l’altro.

“Quando partiamo,” gridò Thor, “issate tutti le vele!”

I ragazzi si chinarono, conficcarono i pali nella sabbia e spinsero con tutta la loro forza. Thor gemette per lo sforzo. Lentamente la barca iniziò a muoversi, anche se di pochissimo. Nello stesso momento Elden e O’Connor corsero al centro e tirarono le funi per levare le vele, sollevandole con sforzo un poco alla volta. Fortunatamente c’era una brezza consistente e mentre Thor e gli altri remavano contro il terreno con tutte le loro forze per portare quella barca così pesante fuori dalla sabbia, le vele salirono e iniziarono a gonfiarsi.

Alla fine la barca dondolò sotto di loro e scivolò sull’acqua, oscillando priva di peso. Le spalle di Thor gli tremavano per lo sforzo. Elden e O’Connor issarono completamente le vele, e presto si trovarono ad essere trasportati al largo.

Lanciarono tutti un grido di trionfo, rimisero i pali al loro posto e corsero ad aiutare Elden e O’Connor  ad assicurare le sartie. Krohn  mugolava felice accanto a loro, eccitato da quella situazione.

La barca procedeva senza meta e Thor corse al timone, affiancato da O’Connor.

“Vuoi stare al timone?” gli chiese Thor.

O’Connor sorrise.

“Magari.”

Iniziarono ad acquistare reale velocità, fendendo le acque gialle del Tartuvio con il vento alle spalle. Finalmente si stavano muovendo, e Thor tirò un sospiro di sollievo. Erano partiti.

Thor si diresse a prua e Reece lo seguì, mentre Krohn si infilava tra loro e si appoggiava alla gamba di Thor, che si abbassò ad accarezzargli la morbida pelliccia bianca. Krohn gli leccò la mano e Thor prese da un sacco un pezzo di carne e glielo diede.

Guardò poi il vasto mare davanti a loro. L’orizzonte lontano era disseminato di nere navi dell’Impero, sicuramente dirette alla parte dell’Anello appartenente ai McCloud. Fortunatamente erano distratti e non era per niente probabile che si aspettassero di avvistare una barca solitaria diretta verso il loro territorio. Il cielo era limpido, c’era un forte vento alle loro spalle e continuarono a guadagnare velocità.

Thor si chiedeva cosa ci fosse in serbo per loro là fuori. Si chiedeva quanto ci sarebbe voluto per raggiungere il territorio dell’Impero, e cosa avrebbero trovato lì ad accoglierli. Si chiedeva come avrebbero trovato la spada e come sarebbe andata a finire. Sapeva che le probabilità erano loro sfavorevoli, eppure era entusiasta di essere finalmente in viaggio, emozionato di essere arrivato a quel punto e bramoso di recuperare la spada.

“E se non fosse lì?” chiese Reece.

Thor si voltò a guardarlo.

“La spada,” aggiunse l’amico. “Cosa facciamo se non è lì? O se è stata perduta? O distrutta? O se non la troviamo e basta? Del resto l’Impero è grande.”

“E se l’Impero ha scoperto come farne uso?” chiese Elden con voce profonda, raggiungendoli.

“E se la troviamo e non riusciamo a riportarla indietro?” chiese Conven.

Rimasero lì, oppressi da ciò che stava loro innanzi, da quel mare di domande senza risposta. Quel viaggio era una follia. Thor lo sapeva.

Una follia.




CAPITOLO QUATTRO


Gareth camminava avanti e indietro nello studio di suo padre – una piccola stanza al piano più alto del castello, una saletta che suo padre aveva amato – e poco alla volta la distruggeva.

Andava da una libreria all’altra, prendeva preziosi volumi, antichi libri rilegati in pelle che appartenevano alla sua famiglia da secoli, e ne strappava copertine e pagine facendole in mille pezzi. Li lanciava in aria e questi ricadevano sulla sua testa come fiocchi di neve, appiccicandosi al suo corpo e alla saliva che gli colava dalla bocca. Era determinato a eliminare ogni singola parte di quel luogo che suo padre aveva amato, un libro dopo l’altro.

Si avvicinò freneticamente a un tavolino d’angolo, afferrò ciò che era rimasto della sua pipa di oppio e con mano tremante se la portò alla bocca aspirando con violenza, più bisognoso che mai. Ne era ormai dipendente e fumava in ogni momento, con l’intento di bloccare le immagini di suo padre che lo perseguitavano nei suoi sogni e addirittura quando era sveglio.

Quando ripose la pipa vide suo padre nella stanza, di fronte a lui, un cadavere in via di decomposizione. Ogni volta che gli appariva il cadavere era sempre più decomposto, sempre più scheletro che carne. Gareth si voltò per non dover sopportare quella vista abominevole.

Era solito tentare di attaccare l’immagine, ma aveva imparato che non serviva a nulla. Quindi si limitò a girare la testa e a distogliere lo sguardo. Era sempre lo stesso: suo padre che indossava una corona arrugginita, la bocca aperta, gli occhi fissi su di lui con espressione di rimprovero, un dito puntato contro di lui, accusatorio. In quell’orribile sguardo Gareth sentiva che i suoi giorni erano contati, sentiva che era solo questione di tempo perché finisse a raggiungere suo padre. Odiava più di ogni altra cosa vederlo. Se c’era stato un aspetto positivo nell’ucciderlo, era proprio che non aveva più dovuto vedere la sua faccia ogni giorno. Ma ora, ironicamente, lo vedeva più che mai.

Gareth si voltò e scagliò la pipa di oppio contro la visione, sperando che – tirandola velocemente – magari l’avrebbe realmente colpito.

Ma la pipa volò semplicemente in aria e andò a sbattere contro il muro frantumandosi. E suo padre era sempre lì che lo guardava con sguardo truce.

“Quelle droghe non ti saranno di aiuto ora,” lo rimproverò.

Gareth non poteva più sopportarlo. Si lanciò contro l’apparizione, con le mani in avanti, deciso a graffiargli la faccia. Ma come sempre si scagliò contro nient’altro che aria, e questa volta inciampò in mezzo alla stanza atterrando sulla scrivania di  legno di suo padre, rovesciandola e cadendo a terra con essa.

Rotolò sul pavimento, ruotò su se stesso e sollevò lo sguardo accorgendosi di essersi procurato un taglio profondo al braccio. Il sangue gli gocciolava dalla camicia, e guardandosi si rese conto di avere ancora indosso la stessa veste da camera che portava ormai  da giorni. In effetti erano settimane che non si cambiava. Vide di scorcio un riflesso di se stesso e vide i capelli arruffati: sembrava un comune mascalzone. Una parte di lui stentava a credere di essere caduto così in basso. Ma un'altra parte non se ne curava affatto. L’unica cosa che gli era rimasta dentro era l’ardente desiderio di distruggere, distruggere ogni rimasuglio di ciò che un tempo era stato di suo padre. Avrebbe voluto far radere al suolo quel castello, e la Corte del Re con esso. Sarebbe stata la vendetta per il trattamento subito da bambino. I ricordi erano indelebili in lui, come una spina che non era capace di estirpare.

La porta dello studio si aprì di scatto e un servitore di Gareth entrò guardandolo con paura.

“Mio signore,” disse. “Ho udito un colpo. State bene? Mio signore, state sanguinando!”

Gareth guardò il ragazzo con odio. Cercò di rimettersi in piedi e colpirlo, ma scivolò su qualcosa e cadde a terra, disorientato dall’ultima fumata di oppio.

“Mio signore, lasci che la aiuti!”

Il ragazzo si affrettò ad afferrare il braccio di Gareth, che era magrissimo, praticamente pelle e ossa.

Ma Gareth aveva ancora un rimasuglio di forza e quando il ragazzo gli toccò il braccio lo scrollò via, spingendolo dall’altra parte della stanza.

“Toccami un’altra volta e ti farò tagliare le mani,” lo minacciò.

Il ragazzo indietreggiò intimorito e in quel momento un altro servitore entrò nella stanza, accompagnato da un uomo più anziano che Gareth riconobbe appena. Da qualche parte nei meandri della sua mente sapeva di conoscerlo, ma in quel momento non era in grado di ricordare.

“Mio signore,” disse una voce vecchia e greve, “vi attendiamo nel consiglio da mezza giornata. I membri del consiglio non possono aspettare molto oltre. Hanno notizie urgenti che devono condividere con voi prima che il giorno volga al termine. Siete pronto?”

Gareth strinse gli occhi in due fessure guardando l’uomo e cercando di capire. Ricordava appena che aveva servito suo padre. La Sala del Consiglio… la riunione… Tutto vorticava nella sua mente.

“Chi sei?” chiese.

“Mio signore, sono Aberthol. Il consigliere più fidato di vostro padre,” gli rispose, avvicinandosi di un passo.

Lentamente gli stava tornando alla mente. Aberthol. Il consiglio. I pensieri di Gareth vorticavano, la testa gli faceva male. Voleva solo che lo lasciassero solo.

“Lasciatemi stare,” disse seccamente. “Ora arrivo.”

Aberthol annuì e uscì rapidamente dalla stanza insieme al servitore, chiudendo la porta alle loro spalle.

Gareth rimase lì in ginocchio, la testa tra le mani, cercando di pensare e ricordare. Era troppo. Le cose gli tornavano alla mente a piccoli pezzi. Lo scudo era inattivo; l’Impero stava attaccando; metà della sua corte se n’era andata; sua sorella li aveva condotti via; a Silesia… Gwendolyn… Ecco. Ecco cosa aveva cercato di ricordare.

Gwendolyn. La odiava con una veemenza che non era in grado di descrivere. Ora, più che mai, voleva ucciderla. Aveva bisogno di ucciderla. Tutti i suoi problemi erano stati causati da lei. Avrebbe trovato un modo di raggiungerla, avesse pure rischiato di morire lui stesso per farlo. E poi avrebbe ucciso anche i suoi altri fratelli.

Iniziò a sentirsi meglio a quel pensiero.

Con sforzo supremo si mise a fatica in piedi e zoppicò attraverso la camera, andando a sbattere contro un tavolo. Avvicinandosi alla porta scorse un busto di alabastro che raffigurava suo padre. Era una scultura che suo padre aveva amato: la prese afferrandola per la testa e la scagliò contro la parete.

Andò in mille pezzi e per la prima volta in quella giornata Gareth  riuscì a sorridere. Forse quel giorno, dopotutto, non era così male.


*

Gareth entrò con irruenza nella Sala del Consiglio affiancato da numerosi servitori, sbattendo il portone di quercia e facendo sobbalzare tutti i  presenti. Velocemente si alzarono tutti in piedi mettendosi sull’attenti.

Mentre normalmente un comportamento del genere gli dava una certa soddisfazione, quel giorno quasi non se ne accorse. Era tormentato dal fantasma di suo padre e pieno di rabbia per la fuga di sua sorella. Le emozioni vorticavano dentro di lui e aveva bisogno di sfogarsi.

Attraversò zoppicando la grande sala, ancora intontito dall’oppio, e raggiunse il centro dove si trovava il suo trono. Decine di uomini del consiglio si alzarono in piedi al suo passaggio. L’energia che emanava dalla sua corte era più che mai elettrica, sembrava che la gente fosse più che mai in fibrillazione per la notizia della partenza di metà degli abitanti della Corte del Re e per la novità dello scudo non più funzionante. Era come se ciò che era rimasto della Corte del Re si fosse riversato lì per avere delle risposte.

E ovviamente Gareth non ne aveva.

Salendo barcollando gli scalini fino al trono di suo padre, vide, paziente dietro ad esso, Lord Kultin, il capo mercenario del suo esercito privato, l’unico uomo rimasto a corte di cui si potesse realmente fidare. Accanto a lui erano schierate decine di guerrieri, in silenzio, le mani posate sulle loro spade, pronti a combattere fino alla morte per Gareth. Era l’unica cosa che gli desse un po’ di conforto.

Gareth si sedette sul trono e guardò la stanza. C’erano così tanti volti: un pochi li riconobbe, ma molti non li conosceva. Non si fidava di nessuno di loro. Ogni giorno eliminava qualcuno per purificare la sua corte, ne aveva già mandati un sacco nelle segrete e ancora di più sul patibolo. Non passava giorno che non uccidesse almeno una manciata di uomini. La riteneva una buona politica: teneva le persone al loro posto ed era un’ottima prevenzione contro ogni colpo di stato.

Nella sala regnava il silenzio e tutti lo guardavano stupiti. Sembravano tutti terrorizzati all’idea di prendere la parola. Ed era proprio ciò che lui desiderava. Non c’era niente di più eccitante che infondere paura nei suoi sudditi.

Alla fine fu Aberthol a fare un passo avanti, il bastone risonante contro il pavimento, schiarendosi la voce.

“Mio signore,” iniziò con voce antica, “ci troviamo in un momento di grande scompiglio nella Corte del Re. Non so quali notizie vi siano già giunte: lo Scudo è inattivo, Gwendolyn ha lasciato la Corte del Re ed ha preso con sé Kolk, Brom, Kendrick, Atme, l’Argento, la Legione e metà del vostro esercito, insieme a metà della Corte stessa. Quelli che sono rimasti guardano a voi come guida, per sapere quale sarà la nostra prossima mossa. Il popolo vuole delle riposte, mio signore.”

“Per di più,” aggiunse un altro membro del consiglio che Gareth riconobbe vagamente, “si è diffusa la notizia che il Canyon sia già stato oltrepassato. Si dice che Andronico abbia invaso la parte dei McCloud con il suo esercito di milioni di uomini.”

Un sussulto indignato si diffuse nella sala: decine di valorosi guerrieri iniziarono a bisbigliare tra loro, assaliti dalla paura, e uno stato generale di panico si espanse a macchia d’olio come un incendio.

“Non può essere vero!” esclamò un soldato.

“Invece lo è!” rispose il membro del consiglio.

“Se è così, ogni speranza è perduta,” gridò un altro. “Se i McCloud vengono conquistati, l’Impero verrà poi verso la Corte del Re. Non c’è modo di tenerli a bada.”

“Dobbiamo discutere i termini di resa, mio signore,” disse Aberthol a Gareth.

“Resa!?” gridò un altro uomo. “Non ci arrenderemo mai!”

“Se non lo facciamo,” intervenne un altro, “saremo annientati. Come possiamo fronteggiare un milione di uomini?”

Nella stanza si diffuse un brusio concitato, i soldati e i consiglieri iniziarono a discutere tra loro in un generale disordine.

Il capo del consiglio sbatté il bastone di ferro sul pavimento e gridò: “ORDINE!”

Gradualmente tutti fecero silenzio. Gli uomini si voltarono verso di lui.

“Queste sono decisioni che spettano al re, non a noi,” disse uno degli uomini del consiglio. “Gareth è il legittimo sovrano e non sta a noi discutere i termini di resa, o se arrenderci del tutto.”

Tutti si voltarono verso Gareth.

“Mio signore,” disse Aberthol con voce esausta, “come dite di comportarci con l’esercito dell’Impero?”

Un silenzio di tomba calò nella sala.

Gareth rimase seduto a guardare gli uomini che attendevano una risposta da lui. Ma era sempre più difficile schiarirsi le idee. Continuava a sentire nella sua testa la voce di suo padre che gli gridava contro, come quando era bambino. Lo stava facendo impazzire e non smetteva un solo momento.

Grattò ripetutamente i braccioli del trono con le unghie: era l’unico rumore che si poteva udire nella stanza.

I membri del consiglio si scambiarono sguardi preoccupati.

“Mio signore,” insistette un altro membro del consiglio, “se deciderete che non dobbiamo arrenderci, allora dovremo fortificare subito la Corte del Re. Dobbiamo rendere più sicuri tutti gli ingressi, le strade, i cancelli. Dobbiamo richiamare tutti i soldati e preparare la difesa. Dobbiamo prepararci a un assedio, razionare il cibo, proteggere i cittadini. C’è molto da fare. Vi prego, mio signore. Dateci degli ordini. Diteci cosa fare.”

Di nuovo scese il silenzio e tutti gli occhi rimasero fissi su Gareth.

Alla fine Gareth sollevò il mento e li guardò.

“Non combatteremo contro l’Impero,” dichiarò. “Ma neppure ci arrenderemo.”

Tutti si guardarono confusi.

“E allora cosa faremo, mio signore?” chiese Aberthol.

Gareth si schiarì la voce.

“Uccideremo Gwendolyn!” dichiarò. “È tutto ciò che conta ora.”

Seguì un silenzio scioccato.

“Gwendolyn?” chiese un membro del consiglio mentre gli altri erompevano nuovamente in un mormorio incontrollato.

“Le manderemo contro tutte le nostre forze armate, faremo massacrare lei e quelli che la stanno seguendo prima che raggiungano Silesia,” continuò.

“Ma, mio signore, come può esserci d’aiuto questo?” chiese un membro del concilio. “Se ci avventuriamo all’attacco di Gwendolyn, questo non farà che lasciare esposti i nostri eserciti. Saranno presto circondati e massacrati dall’Impero.”

“E anche la Corte del Re verrà così lasciata libera di essere attaccata,” aggiunse un altro. “Se non abbiamo intenzione di arrenderci, dobbiamo fortificare la città il prima possibile!”

Un gruppo di uomini iniziarono a discutere a voce alta.

Gareth si voltò a guardare i membri del consiglio con occhi di ghiaccio.

“Useremo tutti gli uomini che abbiamo per uccidere mia sorella,” disse con tono cupo. “Non ne risparmieremo neanche uno.”

Nella sala calò nuovamente il silenzio e uno dei membri del consiglio spinse indietro la sua sedia, facendola strisciare rumorosamente sul pavimento e alzandosi in piedi.

“Non starò a guardare la Corte del Re rovinata dalla vostra ossessione personale. Io, per me, non sto dalla vostra parte!

“Neppure io!” gli fecero eco la metà degli uomini che si trovavano nella sala.

Gareth fumava di rabbia e stava per alzarsi in piedi quando improvvisamente le porte si aprirono di schianto ed entrò in fretta e furia l’unico comandante dell’esercito rimasto. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Trascinava dietro di sé un uomo, un mascalzone dai capelli arruffati e sporchi, la barba incolta, i polsi legati dietro la schiena. Lo portò fino al centro della stanza, fermandosi di fronte al re.

“Mio signore,” disse il comandante freddamente. “Dei sei ladri giustiziati per il furto della Spada della Dinastia, questo è il settimo, quello che era riuscito a fuggire. Racconta la storia più fantasiosa riguardo a ciò che è accaduto. Parla!” gli intimò il comandante, scuotendolo.

Il mascalzone guardava nervosamente in ogni direzione, i capelli appiccicati alle guance, lo sguardo incerto. Alla fine disse: “Ci hanno ordinato di rubare la spada!”

I presenti iniziarono a mormorare in modo concitato.

“Eravamo diciannove!” continuò l’uomo. “In dodici dovevano portarla via, nell’oscurità, oltre il ponte sul Canyon, nelle Terre Selvagge. L’hanno nascosta in un carro che hanno scortato attraverso il ponte così che i soldati non potessero avere idea di cosa celasse. Gli altri, noi sette, hanno ricevuto l’ordine di rimanere indietro dopo il furto. Ci hanno detto che saremmo stati imprigionati, come dimostrazione, ma che poi ci avrebbero liberati. Invece i miei amici sono stati tutti giustiziati. Sarebbe successo anche a me se non fossi scappato.”

Il brusio nella sala si fece più agitato.

“E dove stanno portando la spada?” insistette il comandante.

“Non ne ho idea. Da qualche parte nell’Impero.”

“E chi ha ordinato una cosa del genere?”

“Lui!” disse il malvivente, girandosi di scatto e puntando un dito ossuto contro Gareth. “Il nostro re! Ce l’ha ordinato lui!”

Il brusio si tramutò in un vociare concitato, si levarono delle grida, fino a che alla fine un membro del consiglio batté il bastone di ferro diverse volte e gridò di fare silenzio.

Tutti tacquero, anche se a fatica.

Gareth già tremava di paura e di rabbia, si alzò lentamente dal trono e tutti gli occhi si puntarono su di lui.

Un gradino alla volta scese i gradini d’avorio, facendoli risuonare sotto i suoi passi. Il silenzio era così fitto che lo si sarebbe potuto tagliare con un coltello.

Attraversò la stanza e raggiunse il mascalzone. Lo guardò con freddezza, a solo un passo da lui, mentre l’uomo si dimenava tra le braccia del comandante, guardando da ogni parte, ma non Gareth.

“I ladri e i bugiardi vengono trattati in un unico modo nel mio regno,” disse Gareth sottovoce.

Estrasse un pugnale dalla cintura e lo conficcò nel cuore dell’uomo.

Questi gridò, strabuzzò gli occhi e poi si afflosciò sul pavimento, morto.

Il comandante lo guardò con occhi cupi.

“Avete appena ucciso un uomo che era testimone contro di voi,” disse. “Non vi rendere conto che questo rafforza i sospetti sulla vostra colpa?”

“Quale testimone?” chiese Gareth sorridendo. “Gli uomini morti non parlano.”

Il comandante arrossì.

“Se non se ne è dimenticato, io sono comandante di metà dell’Esercito del Re. Non mi piace che ci si prenda gioco di me. Da come vi comportate e dalle vostre azioni posso solo presumere che siete colpevole del crimine per cui quest’uomo vi ha accusato. Detto questo, io e il mio esercito non siamo più al vostro servizio. Anzi, vi prendo in custodia, sulla base di sospetto tradimento dell’Anello!”

Il comandante fece un cenno ai suoi uomini, che tutti insieme – decine di soldati – sguainarono le spade e avanzarono verso Gareth per arrestarlo.

Ma Lord Kultin fece lo stesso con il doppio degli uomini, tutti con le spade pronte, disponendosi alle spalle del re.

Rimasero tutti lì, di fronte ai soldati del comandante, Gareth al centro.

Gareth sorrise trionfante. Gli uomini dell’Esercito del Re erano in netta minoranza rispetto alla forza armata privata di Gareth, e lui lo sapeva.

“Non verrò preso in custodia proprio da nessuno,” disse con una smorfia. “E non certo da te. Prendi i tuoi uomini e andatevene dalla mia corte, oppure scontratevi pure con la collera del mio esercito personale.”

Dopo diversi secondi di tensione, il comandante si voltò, fece un cenno ai suoi uomini, e tutti insieme si ritirarono, camminando all’indietro con le spade sguainate, andandosene dalla stanza.

“Da questo giorno in poi,” tuonò il comandante, “sia ben chiaro che non vi serviremo più” affronterete l’esercito dell’Impero da solo. E spero che vi tratteranno bene. Meglio di quanto voi abbiate trattato vostro padre!”

I soldati lasciarono la stanza con grande clangore di armi e armature.

I membri del consiglio e i numerosi presenti rimasero in piedi pietrificati, bisbigliando fra loro.

“Andatevene!” gridò Gareth. “TUTTI!”

Tutti  lasciarono velocemente la sala, anche l’esercito personale di Gareth.

Solo una persona rimase.

Lord Kultin.

Ora lui e Gareth erano soli nella sala. Si avvicinò a Gareth, fermandosi a pochi passi da lui, e lo guardò come se lo stesse studiando. Come sempre il suo volto era privo di espressione. Era un vero mercenario.

“Non mi importa cosa hai fatto o perché,” iniziò, la voce greve e cupa. “Non mi interessa la politica. Io sono un guerriero. Mi interessa solo il denaro con cui pagherai me e i miei uomini.”

Fece una pausa.

“Eppure mi piacerebbe sapere, per pura curiosità personale: hai veramente ordinato a quegli uomini di portare via la spada?”

Gareth lo fissò. C’era qualcosa nei suoi occhi in cui riconosceva se stesso: erano freddi, privi di rimorso, sfrontati.

“E se anche l’avessi fatto?” gli chiese.

Lord Kultin lo guardò a lungo.

“Ma perché?” gli chiese.

Gareth lo guardò in silenzio.

Kultin sgranò gli occhi capendo.

“Non sei riuscito a sollevarla tu, e così hai evitato che qualcun altro ci riuscisse?” gli chiese. “È per questo?” Prese in considerazione le implicazioni. “Però anche fosse così,” aggiunse, “sapevi di certo che eliminarla avrebbe disattivato lo scudo, rendendoci vulnerabili all’attacco.”

Kultin sgranò gli occhi.

“Tu volevi che ci attaccassero, vero? C’è qualcosa in te che vuole che la Corte del Re venga distrutta,” disse, ora consapevole.

Gareth gli sorrise.

“Non tutti i posti,” disse lentamente, “sono destinati a durare per sempre.”




CAPITOLO CINQUE


Gwendolyn marciava a capo del grande seguito di soldati, consiglieri, servitori, uomini dell’Argento e della Legione e metà della gente della Corte del Re, allontanandosi – come una sorta di enorme città in viaggio – dalla Corte del Re. Gwen era schiacciata dalle emozioni. Da una parte era emozionata per essersi finalmente liberata di suo fratello Gareth, felice di essere lontana dalle sue grinfie, circondata da guerrieri fidati che potevano proteggerla, senza più la costante paura dei suoi complotti o di finire sposata a qualcun altro. Finalmente non avrebbe più dovuto guardarsi costantemente alle spalle per la paura di un qualche assassino.

Si sentiva anche stimolata e allo stesso tempo imbarazzata per essere stata scelta come guida, per dirigere quel vasto contingente di gente. Tutti la seguivano come se fosse una sorta di profeta, diretti lungo l’infinita strada che conduceva a Silesia. La riconoscevano come loro sovrana – lei glielo leggeva negli sguardi – e guardavano a lei con mille aspettative. Lei dal canto suo si sentiva colpevole e avrebbe preferito che quell’onore fosse stato riservato a uno dei suoi fratelli, a chiunque altro ma non a lei. Eppure vedeva quanta speranza il popolo traesse dalla consapevolezza di avere una guida giusta e corretta, e ciò la rendeva felice. Se per loro era in grado di ricoprire quel ruolo, soprattutto in tempi bui come quelli, allora l’avrebbe fatto.

Pensò a Thor, al loro lacrimevole addio presso il Canyon, e il ricordo le spezzò il cuore: lo rivedeva scomparire, attraversare il ponte sul Canyon, venire avvolto dalla nebbia, in un viaggio che lo avrebbe condotto quasi sicuramente alla morte. Era un’impresa nobile e valorosa – un’impresa che non avrebbe mai potuto negargli – un’impresa che lui doveva intraprendere per il bene del regno, e per il bene dell’Anello. Eppure continuava a chiedersi perché doveva essere lui. Avrebbe preferito che si trattasse di qualsiasi altro. Ora più che mai lo avrebbe voluto al suo fianco. In quel periodo di confusione, di grandi cambiamenti, lasciata completamente sola a governare, a portare in grembo suo figlio, lo avrebbe voluto lì con lei. Più di ogni altra cosa era preoccupata per lui. Non poteva immaginare una vita senza di lui: il solo pensiero le faceva venire voglia di piangere.

Ma fece un respiro profondo e rimase forte, consapevole che tutti gli occhi erano puntati su di lei mentre marciavano, una carovana infinita su quella strada polverosa, diretti verso il lontano nord, verso la remota Silesia.

Gwen era ancora scioccata, combattuta riguardo alla propria madre patria. Si rendeva conto a malapena che l’antico Scudo fosse inattivo e che il Canyon fosse stato oltrepassato. Erano giunte voci da lontane spie che Andronico fosse già approdato sulle coste del regno dei McCloud. Non era sicura di potervi credere. Faceva fatica a concepire che tutto fosse accaduto così in fretta. Dopotutto Andronico doveva ancora probabilmente inviare la sua intera flotta attraverso l’oceano. A meno che, in qualche modo, McCloud non fosse stato a caccia della spada e avesse organizzato di disattivare così lo Scudo. Ma come? Come era riuscito a rubarla? Dove la stava portando?

Gwen percepiva come tutti attorno a lei fossero abbattuti, e non poteva certo biasimarli. Tra quella gente aleggiava un’aria di scoraggiamento, e per una buona ragione: senza lo scudo erano tutti indifesi. Era solo questione di tempo: se non oggi, allora domani o il giorno seguente Andronico avrebbe invaso. E quando l’avesse fatto, non c’era modo per loro di poter tenere a bada i suoi uomini. Presto quel luogo – ogni cosa che aveva sempre amato e apprezzato – sarebbe stato conquistato e tutti quelli che amava sarebbero stati uccisi.

Mentre marciavano, era come se procedessero contro la morte. Andronico non era ancora lì, ma era come se loro fossero già stati catturati. Le tornò alla mente una cosa che una volta le aveva detto suo padre: conquista il cuore di un esercito e la battaglia è vinta.

Gwen sapeva che era suo compito stimolarli, farli sentire al sicuro e, in qualche modo, renderli ottimisti. Era determinata a riuscirci. Non poteva permettere alle proprie paure personali o a un certo senso di pessimismo di avere la meglio su di lei in un momento come quello. E si rifiutava di concedersi di crogiolarsi nell’autocommiserazione. Non si trattava più solo di lei. Si trattava di quel popolo, delle loro vite, delle loro famiglie. Avevano bisogno di lei. Guardavano tutti a lei perché li aiutasse.

Pensò a suo padre e si chiese cosa avrebbe fatto lui. Il pensiero la fece sorridere. Lui avrebbe assunto la sua espressione più coraggiosa in qualsiasi situazione. Le aveva sempre detto di nascondere la paura dietro la spacconeria, e ripensando alla sua vita, ricordò che in effetti non era mai apparso spaventato. Neanche una volta. Forse era solo apparenza, ma era una buona apparenza. In quanto guida, sapeva di essere in ogni momento davanti agli occhi di tutti, sapeva che era l’aspetto ciò di cui le persone avevano bisogno, forse ancor più del fare da guida. Lui era stato troppo altruista per concedersi di tentennare tra le sue paure. E lei avrebbe seguito il suo esempio. Anche lei non si sarebbe lasciata sopraffare dal timore.

Si guardò attorno e vide Godfrey che camminava accanto a lei, con Illepra – la guaritrice –  al suo fianco. Erano impegnati in una fitta conversazione ed entrambi, aveva notato, sembravano piacersi sempre di più, fin da quando Illepra aveva salvato la vita di Godfrey. Gwen avrebbe voluto che anche gli altri fratelli fossero lì. Ma Reece era andato con Thor, Gareth ovviamente si era allontanato da lei per sempre, e Kendrick si trovava ancora nella sua postazione, da qualche parte a est, impegnato nei lavori di ricostruzione di qualche remota cittadina. Gli aveva inviato un messaggero – era stata la prima cosa che aveva fatto – e sperava lo raggiungesse in tempo per recuperarlo, portarlo a Silesia con lei, per aiutarla a difendere la nuova corte. Almeno allora due dei suoi fratelli – Kendrick e Godfrey – si sarebbero rifugiati a Silesia con lei, il che valeva a dire con tutti loro. Mancava solamente la sua sorella maggiore Luanda.

Per la prima volta dopo tanto tempo i pensieri di Gwen tornarono a Luanda. C’era sempre stata un’aspra rivalità fra lei e sua sorella. Gwen non si era sorpresa che Luanda avesse colto la prima occasione buona per andarsene dalla Corte del Re e sposare quel McCloud. Luanda era sempre stata ambiziosa e aveva sempre voluto essere la prima. Gwendolyn l’aveva amata, e l’aveva guardata come un esempio quando era più giovane. Ma Luanda, sempre competitiva, non aveva ricambiato il suo affetto. E dopo un po’ Gwen aveva smesso di tentare.

Eppure ora si sentiva in pena per lei: si chiedeva cosa ne fosse stato di lei, con i McCloud invasi da Andronico. Sarebbe stata uccisa? Rabbrividì al pensiero. Erano rivali, ma alla fine erano pur sempre sorelle, e Gwen non voleva vederla morta anzi tempo.

Gwen ripensò anche a sua madre, l’unico altro membro della famiglia rimasto alla Corte del Re, con Gareth, ancora in quello stato in cui riversava dalla morte di re MacGil. Raggelò al pensiero. Nonostante tutta la rabbia che provava per sua madre, Gwen non voleva che finisse a quel modo. Cosa le sarebbe successo se la Corte del Re fosse stata invasa? Sua madre sarebbe stata uccisa?

Gwen non poteva fare a meno di sentirsi come se la sua vita prima così sicura e solida si stesse ora sgretolando attorno a lei. Era come se solo ieri fosse ancora il cuore dell’estate: il matrimonio di Luanda, una festa meravigliosa, la Corte del Re traboccante di abbondanza, lei e la sua famiglia tutti insieme a festeggiare, e l’Anello inespugnabile. Era sembrato come se tutto fosse potuto durare per sempre.

Ora tutto si era spezzato. Niente era più come era stato.

Si levò una fredda brezza e Gwen si strinse la maglia di lana blu attorno alle spalle. L’autunno era stato troppo breve quell’anno e stava già sopraggiungendo l’inverno. Lo sentiva dai venti gelidi, pregni di umidità, mentre procedevano verso nord lungo il Canyon. Il cielo si stava facendo scuro e l’aria si era riempita di un nuovo suono: il pianto degli Uccelli d’Inverno, gli avvoltoi rossi e neri che volavano in basso quando scendevano le temperature. Gracchiavano incessantemente e talvolta il loro verso infastidiva Gwen. Sembrava il suono della morte che si avvicinava.

Da quando avevano salutato Thor avevano sempre camminato lungo il Canyon, andando verso nord e sapendo che in quel modo sarebbero arrivati alla città posta all’estremità occidentale dell’Anello: Silesia. Mentre procedevano la nebbia inquietante del Canyon si levava a folate attanagliando le caviglie di Gwen.

“Non siamo tanto distanti ormai, mia signora,” disse una voce.

Gwen si voltò e vide Srog vicino a lei, vestito con l’armatura rossa caratteristica di Silesia e affiancato da parecchi guerrieri, tutti in maglia di ferro e stivali rossi. Gwen era commossa per la gentilezza che Srog le riservava, per la sua lealtà nei confronti di suo padre, per aver offerto Silesia come rifugio. Non aveva idea di cosa avrebbero fatto altrimenti lei e tutta quella gente. Forse sarebbero stati ancora, anche il quel momento, incastrati alla Corte del Re, succubi della slealtà di Gareth.

Srog era uno dei signori più onorevoli che lei avesse mai incontrato. Con migliaia di soldati a sua disposizione, con il controllo della famigerata fortezza occidentale, Srog non aveva certo bisogno di rendere omaggio a nessuno. Ma aveva deciso di rendere omaggio a suo padre. Era sempre stato un delicate equilibrio di potere. Ai tempi del padre di suo padre Silesia aveva avuto bisogno della Corte de Re, ai tempi di suo padre un po’ meno, e ora proprio per niente. In effetti, con la caduta dello Scudo e la confusione presente alla Corte del Re, erano loro ad aver bisogno di Silesia.

Ovviamente l’Argento e la Legione comprendevano i migliori guerrieri che ci fossero, e c’erano migliaia di uomini al seguito di Gwen, compresa una buona metà dell’Esercito del Re. Eppure Srog, come la maggior parte degli altri signori, avrebbe potuto semplicemente chiudere i cancelli e badare a se stesso.

Invece aveva cercato Gwen, aveva stretto alleanza con lei, e aveva insistito per ospitarli tutti. Era stata una gentilezza che Gwen era determinata a ripagare in qualche modo prima o poi. Ovviamente, se fossero tutti sopravvissuti.

“Non c’è bisogno di preoccuparsi,” gli rispose con calma, posando delicatamente una mano sul suo polso. “Marceremmo anche fino ai confini della terra per entrare nella vostra città. Siamo estremamente fortunati per la vostra gentilezza in questo momento difficile.”

Srog sorrise. Era un guerriero di mezz’età, con un po’ troppe rughe a segnargli il volto dopo innumerevoli battaglie, i capelli castani, una mascella dai contorni decisi e priva di barba. Srog era un vero uomo, non solo un signore, ma un vero guerriero.

“Per vostro padre io passerei attraverso il fuoco,” le rispose. “I ringraziamenti non sono nell’ordine del giorno. È un grande onore per me poter ripagare il mio debito nei suoi confronti mettendomi al servizio di sua figlia. Dopotutto il suo desiderio era che foste voi a regnare. Quindi, quando servo voi, è come se rispondessi a lui.”

Accanto a Gwen marciavano anche Kolk e Brom, e dietro di loro si udiva l’incessante clangore di migliaia di speroni, di spade che tintinnavano nei loro foderi, di scudi che sfregavano contro le armature. Era una grandiosa cacofonia di rumore che si dispiegava sempre più lontano lungo il bordo del Canyon.

“Mia signora,” disse Kolk, “sono oppresso dal senso di colpa. Non avremmo dovuto lasciare che Thor, Reece e gli altri se ne andassero da soli verso l’Impero. Più uomini avrebbero dovuto offrirsi volontari. Sarà una mia responsabilità se succederà loro qualcosa.”

“È l’impresa che hanno scelto,” rispose Gwen. “È una questione di onore. Chi era destinato ad andare è andato. Il senso di colpa non fa bene a nessuno.”

E cosa potrebbe succedere se non tornassero in tempo con la Spada?” chiese Srog. “Non ci vorrà molto perché l’esercito di Andronico appaia alle nostre porte.”

“Allora opporremo resistenza,” disse Gwen con sicurezza, mostrando quanto più coraggio poteva nella propria voce, sperando di mettere gli altri a proprio agio. Notò che gli altri generali si voltavano a guardarla.

“Ci difenderemo fino all’ultimo colpo,” aggiunse. “Non ci sarà nessuna ritirata, nessuna resa.”

Percepì che i generali erano colpiti. Lei stessa era colpita dalla sua voce: la forza cresceva dentro di lei, sorprendendola. Era la forza di suo padre, di sette generazioni di re MacGil.

Mentre continuavano a marciare, la strada svoltò bruscamente verso sinistra e Gwen girò e, una volta terminata la curva, rimase pietrificata e senza fiato alla vista di ciò che aveva di fronte.

Silesia.

Ricordava che suo padre l’aveva portata in viaggio lì, da bambina. Era un luogo che da allora era stato presente nei suoi sogni, un luogo che allora aveva sentito come magico. Ora, guardando la città con l’occhio di una donna adulta, le toglieva ancora il fiato.

Silesia era la cittadina più insolita che Gwen avesse mai visto. Tutti gli edifici, tutte le fortificazioni, tutta la pietra: ogni cosa era costruita con pietra antica, rossa e scintillante. La metà più elevata di Silesia, a picco, verticale, ben fortificata con parapetti e decorata da guglie, si ergeva sulla terraferma, mentre la parte bassa era incastonata nel fianco del Canyon. La vorticante nebbia del Canyon soffiava qua e là, avvolgendola e facendo scintillare e brillare alla luce il rosso delle costruzioni, facendola apparire come se fosse costruita tra le nuvole.

Le fortificazioni si ergevano di oltre trenta metri, coronate da parapetti e sostenute da un’interminabile linea di mura. Quel luogo era una fortezza. Anche se in qualche modo un esercito avesse valicato le sue mura, avrebbe poi dovuto scendere nella parte bassa della città, direttamente giù lungo il dirupo, e combattere sul bordo del Canyon. Era di sicuro una guerra che nessun esercito invasore avrebbe voluto intraprendere. Ed era per questo che la città non era mai stata toccata in migliaia di anni.

I suoi uomini si fermarono e guardarono a bocca aperta. Gwen sentiva che anche loro erano tutti in contemplazione reverenziale.

Per la prima volta dopo un po’ di tempo, Gwen si sentì ottimista. Quello era un posto nel quale sarebbero potuti rimanere, lontano dalle grinfie di Gareth, un posto che potevano difendere. Un posto dove lei avrebbe potuto governare. E forse – solo forse – il regno di MacGil sarebbe potuto rinascere.

Srog rimase lì, le mani ai fianchi, esaminando la sua stessa città come se la vedesse per la prima volta, e i suoi occhi brillarono di orgoglio.

“Benvenuti a Silesia.”




CAPITOLO SEI


Thor aprì gli occhi alle prime luci dell’alba e vide le quiete onde dell’oceano che salivano e scendevano schiumando, ammantate dalla tenue luce del primo sole. L’acqua giallo chiaro del Tartuvio luccicava nella nebbia mattutina. La barca galleggiava silenziosamente nell’acqua e l’unico rumore era quello delle onde che sciabordavano contro lo scafo.

Thor si mise a sedere e si guardò in giro. Aveva gli occhi pesanti per la stanchezza: effettivamente non si era mai sentito così stanco in vita sua. Stavano navigando da giorni e ogni cosa in quel luogo, da quella parte del mondo, sembrava diverso. L’aria era così densa di umidità, la temperatura così calda: era come respirare in un continuo flusso d’acqua. Lo infiacchiva e gli rendeva gli arti pesanti. Era come se fosse scoppiata l’estate.

Guardandosi in giro vide che tutti i suoi amici, normalmente svegli prima dell’alba, erano accasciati sopraccoperta, ancora addormentati. Addirittura Krohn, di solito sempre sveglio, dormiva accanto a lui. Quel tempo particolarmente tropicale aveva i suoi effetti su tutti loro. Nessuno di loro si preoccupava neanche più di mettere mano al timone: avevano desistito giorni prima. Non aveva senso: le vele erano sempre gonfie di vento che spingeva verso ovest, e le magiche correnti dell’oceano trascinavano incessantemente la barca nella medesima direzione. Era come essere trasportati verso una direzione fissa. Avevano tentato più di una volta di virare e cambiare rotta, ma era stato inutile. Si erano tutti rassegnati a lasciare che il Tartuvio li portasse dove doveva.

In ogni caso non è che avessero idea di dove andare nell’Impero, pensò Thor. Fintanto che le maree li avessero portati alla terraferma, andava bene così.

Krohn si svegliò, gemendo, poi si sollevò e andò a leccare la faccia di Thor. Thor infilò una mano nel sacco, ormai quasi vuoto, e ne prese l’ultimo pezzo di carne secca per dargliela. Con sua grande sorpresa Krohn non gliela strappò dalle mani come di suo solito. Si limitò invece a guardarla, volgendo poi lo sguardo al sacco vuoto e di nuovo a Thor. Esitò a prendere il cibo e Thor si rese conto che il leopardo non voleva privarlo dell’ultimo pezzo.

Fu colpito dal gesto, ma tentò di insistere, spingendogli la carne in bocca. Thor sapeva che presto sarebbero stati a corto di cibo e pregò di raggiungere presto la terraferma. Non aveva idea di quanto ancora il viaggio potesse durare: e se ci fossero voluti mesi? Come avrebbero fatto a nutrirsi?

Il sole sorgeva velocemente, diventando brillante e intenso troppo presto. Thor si alzò mentre la nebbia iniziava a svanire dall’acqua e andò a prua, da dove scrutò l’orizzonte. La barca dondolava sotto i suoi piedi e la nebbia si stava dissipando tutt’attorno. Sbatté le palpebre, chiedendosi se stesse avendo una visione, dato che vide apparire in lontananza il contorno di una costa. Il cuore accelerò. Era terraferma. Vera terraferma!

La costa aveva una forma insolita: due lunghe e strette penisole incastonate tra le onde, come due punte di un forcone. Mentre la nebbia si sollevava Thor guardò alla sua sinistra e poi alla sua destra e si stupì di vedere due strisce di terra da entrambi i lati della barca, ciascuna lunga una cinquantina di metri. Erano risucchiati proprio nel mezzo di una profonda baia.

Thor fischiò e i compagni della Legione si svegliarono. Balzarono in piedi e lo raggiunsero di corsa, portandosi a prua e guardando verso il mare aperto.

Rimasero tutti senza fiato: le coste erano le più esotice che avessero mai visto, ricoperte di una sorta di giungla: fitti e altissimi alberi abbarbicati lungo la riva, una foresta così fitta che era impossibile vedere cosa ci fosse dietro. Thor scorse delle grandi felci, alte una decina di metri, protese verso l’acqua, alberi gialli e viola che sembravano toccare il cielo, ovunque il verso continuo e sconosciuto  di bestie, insetti e chissà cos’altro tra ringhi, guaiti e canti.

Thor deglutì a fatica. Si sentiva come se stessero entrando in un impenetrabile regno animale. Ogni cosa sembrava diversa qui, l’aria aveva un odore differente, sconosciuto. Niente ricordava neanche lontanamente l’Anello. Gli altri membri della Legione si voltarono tutti guardandosi l’un l’altro e Thor scorse l’incertezza nei loro occhi. Tutti si stavano chiedendo quali creature ci fossero ad attenderli in quella giungla.

Non sembrava che comunque avessero altra scelta. La corrente li portava in un’unica direzione e chiaramente era lì che dovevano sbarcare per accedere alle terre dell’Impero.

“Quaggiù!” gridò O’Connor.

Corsero al suo fianco, accanto al parapetto e lui si sporse indicando in basso, verso l’acqua. Lì c’era un enorme insetto che nuotava lungo il bordo della nave: era di color viola brillante, lungo almeno tre metri e aveva centinaia di zampe. Luccicava sott’acqua, poi affiorò in superficie. In quel momento le sue ali – ne aveva migliaia – iniziarono a ronzare e l’insetto si sollevò al di sopra delle onde. Poi tornò a galleggiare sul pelo dell’acqua, infine si immerse di nuovo. Continuò a ripetere queste operazioni diverse volte.

Mentre lo guardavano, l’animale improvvisamente si sollevò in aria al livello dei volti dei ragazzi, volteggiando e fissandoli con i suoi grandi occhi verdi. Sibilò e tutti involontariamente fecero un salto all’indietro, mettendo mano alle spade.

Elden si fece avanti e cercò di colpirlo. Ma quando la sua spada fu in aria, l’insetto era già di nuovo in acqua.

Thor e gli altri volarono di colpo e caddero sul pontile quando la barca improvvisamente si fermò, incagliandosi contro la terra con uno scossone.

Il cuore di Thor batteva forte mentre guardava oltre il bordo: sotto di loro c’era una stretta fascia di spiaggia composta di migliaia di sassi appuntiti, tutti viola chiaro.

Terra. Ce l’avevano fatta.

Elden fece strada verso l’ancora, tutti insieme la sollevarono e la lasciarono cadere al di fuori dell’imbarcazione. Scesero uno alla volta lungo la catena e si trovarono quindi sulla costa. Thor passò Krohn a Elden perché lo portasse giù.

Thor sospirò quando i suoi piedi toccarono il terreno. Era una bella sensazione avere della terra – terra asciutta e stabile – sotto i piedi. Si sarebbe sentito bene all’idea di non doversi più imbarcare su una nave.

Afferrarono le funi e trascinarono la barca più a riva che poterono.

“Pensi che le correnti la porteranno via?” chiese Reece osservando la nave.

Thor la guardò: sembrava sicura sulla sabbia.

“Non con quell’ancora,” disse Elden.

“Non sarà la corrente a portarla via,” aggiunse O’Connor. “La questione è se qualcun altro lo farà.”

Thor diede un’ultima lunga occhiata alla barca e si rese conto che l’amico aveva ragione. Anche se avessero trovato la spada, poteva capitare che tornassero a riva e non trovassero più l’imbarcazione.

“E allora come faremo a tornare?” chiese Conval.

Thor non poteva fare a meno di sentirsi come se, a ogni passo che facevano, stessero recidendo i ponti dietro di loro.

“Troveremo un modo,” disse. “Dopotutto ci saranno pure altre navi nell’Impero, no?”

Cercò di avere un tono autoritario, in modo da rassicurare i suoi amici. Ma dentro di sé non ne era così certo lui stesso. Tutto quel viaggio gli stava apparendo sempre più infausto.

Tutti insieme si voltarono a guardare la giungla. Era un muro di vegetazione, dietro il quale si vedeva solo buio. I versi animali crebbero in una totale cacofonia tutt’attorno a loro, così forti che Thor faceva fatica a sentire anche i propri pensieri. Sembrava che ogni bestia dell’Impero li stesse salutando.

O forse mettendo in guardia.


*

Thor e gli altri camminavano fianco a fianco, cautamente, tutti in guardia, attraverso la fitta giungla tropicale. Era difficile per Thor concentrarsi, tanto erano insistenti le grida e le urla dell’orchestra di insetti e animali attorno a loro. Eppure, guardando nell’oscurità della vegetazione, non riusciva a vedere nessuna creatura.

Krohn camminava dietri di lui, ringhiando, con il pelo ritto sulla schiena. Thor non lo aveva mai visto così all’erta. Guardò i suoi compagni e vide che tutti, come lui, avevano una mano posata sull’elsa della spada, tesi come corde di violino pure loro.

Erano ormai ore che camminavano, inoltrandosi sempre più nella giungla, l’aria sempre più calda e densa, più umida, più pesante da respirare. Avevano seguito le tracce di quello che pareva essere un sentiero: qualche ramo rotto indicava il passaggio che il gruppo di uomini arrivati lì aveva probabilmente preso. Thor sperava solo che fosse il tracciato segnato dal gruppo che aveva preso la spada.

Sollevò lo sguardo contemplando quella natura selvaggia: tutto era cresciuto oltremisura, raggiungendo proporzioni epiche, anche una sola foglia era grande come lui stesso. Si sentiva come un insetto in una terra di giganti. Scorse qualcosa che si muoveva dietro alcune foglie, ma non riuscì a vedere effettivamente di cosa si trattasse. Aveva l’infausta sensazione che qualcuno li stesse spiando.

Il sentiero davanti a loro improvvisamente terminò contro un fitto muro di vegetazione. Si fermarono e si guardarono confusi.

“Ma non è possibile che il sentiero finisca così!” disse O’Connor perdendo le speranze.

“Non è finito,” disse Reece esaminando le foglie. “Solo che la giungla è ricresciuta.”

“Quindi da che parte andiamo adesso?” chiese Conval.

Thor si guardò in giro, chiedendosi la stessa cosa. In ogni direzione non c’era nient’altro che fitto fogliame e sembrava non esserci via d’uscita. Iniziava ad avere un terribile presentimento e a sentirsi perduto.

Poi gli venne un’idea.

“Krohn,” disse inginocchiandosi e sussurrando nell’orecchio del leopardo. “Arrampicati su quell’albero. Guarda tu e dicci da che parte andare.”

Krohn lo guardò con occhi pieni di amore per lui e Thor capì che aveva compreso.

Infatti il leopardo corse verso un enorme albero, il tronco  largo come dieci uomini, e senza la minima esitazione vi balzò sopra risalendolo con i suoi artigli. Salì e balzò sopra uno dei rami più alti. Camminò fino all’estremità e guardò, le orecchie ritte per l’attenzione. Thor aveva sempre avuto la sensazione che Krohn lo capisse, e ora ne aveva la certezza.

Krohn rialzò la testa ed emise uno strano verso simile a delle fusa, poi si voltò, ridiscese velocemente il tronco e partì verso una precisa direzione. I ragazzi si scambiarono occhiate incuriosite, poi si voltarono tutti a seguirlo, diretti verso quella parte di giungla, spingendo indietro le spesse foglie in modo da poter camminare.

Dopo pochi minuti Thor fu sollevato dal vedere che il sentiero riprendeva, con i segni ben evidenti dei rami rotti e della vegetazione schiacciata o tagliata che facevano capire dove fosse passato il gruppo. Thor accarezzò Krohn e gli diede un bacio sulla testa.

“Non so cosa avremmo fatto senza di lui,” disse Reece.

“Neanche io,” confermò Thor.

Krohn fece le fusa, soddisfatto e orgoglioso.

Inoltrandosi sempre di più nella giungla, svoltando e girando, giunsero a un'altra distesa di vegetazione, con fiori tutt’attorno a loro. Erano enormi, grandi quanto Thor, e di ogni colore. Altri alberi avevano frutti grandi quanto macigni che pendevano dai rami.

Tutti si fermarono dubbiosi mentre Conval si avvicinava a uno dei frutti, di un rosso brillante, e allungava una mano per toccarlo.

Subito si udì un ringhio profondo e minaccioso.

Conval fece un passo indietro e afferrò la spada, mentre gli altri si guardavano ansiosi.

“Cos’è stato?” chiese Conval.

“Veniva da laggiù,” disse Reece, indicando una parte della giungla.

Tutti si voltarono a guardare. ma Thor non riuscì a vedere altro che foglie. Krohn ringhiò. Il rumore si fece più forte, più persistente, e alla fine i rami iniziarono a scuotersi. Thor e gli altri fecero un passo indietro, sguainarono le spade e rimasero in attesa, aspettandosi il peggio.

Ciò che sbucò dalla giungla superava le peggiori aspettative di Thor. Lì di fronte a loro c’era un enorme insetto, grande cinque volte Thor. Sembrava una specie di mantide, con due zampe posteriori, due più piccole zampe anteriori che roteavano nell’aria, e lunghi artigli alle estremità. Il corpo era verde fluorescente, ricoperto di squame e aveva delle piccole ali che ronzavano e vibravano. In cima alla testa c’erano due occhi, un terzo si trovava sulla punta del naso. Si allungò mostrando altri artigli – nascosti sotto la gola – che vibravano e schioccavano.

Rimase lì, incombendo si di loro, e un altro artiglio gli uscì dalla pancia: una lunga zampa che sporgeva. Improvvisamente, talmente veloce che nessuno di loro poté reagire, afferrò O’Connor  per la vita allungando i tre artigli e lo sollevò in aria come fosse una foglia.

O’Connor fece roteare la sua spada, ma non era sufficientemente vicino per poterlo colpire. La bestia lo scosse diverse volte, poi aprì improvvisamente la bocca, mostrando diverse file di denti affilati, ruotò O’Connor a testa in giù e iniziò ad abbassarlo verso le sue fauci.

O’Connor strillò mentre gli si profilava davanti una morte istantanea e dolorosa.

Thor reagì. Senza pensarci due volte mise un sasso nella fionda, prese la mira e tirò contro il terzo occhio del mostro, sulla punta del naso.

Fu un centro diretto. La bestia gridò, un verso orrendo, tanto forte da poter spezzare un albero, poi lasciò cadere O’Connor che precipitò ruotando in aria e andando ad atterrare sul soffice terreno della giungla con un tonfo.

L’insetto si infuriò, poi si voltò verso Thor.

Thor sapeva che opporre resistenza e combattere contro quella creatura sarebbe stato inutile. Almeno uno dei suoi compagni ne sarebbe rimasto ucciso e probabilmente anche Krohn. Ciò avrebbe diminuito le loro preziose energie. Capì che probabilmente erano degli intrusi nel suo territorio e che se fossero riusciti ad andarsene abbastanza velocemente, forse li avrebbe lasciati stare.

“CORRIAMO!” gridò.

Si voltarono, iniziarono a correre e la bestia iniziò a inseguirli.

Thor sentiva il rumore degli artigli del mostro che tagliavano la fitta vegetazione alle loro spalle, fendendo l’aria e mancando di poco proprio la sua testa. Pezzi di foglia volavano in aria e piovevano attorno a lui. Corsero tutti insieme e Thor sentiva che se fossero riusciti a guadagnare sufficiente distanza, avrebbero potuto trovare un modo per ripararsi. Altrimenti avrebbero dovuto lottare.

Ma Reece improvvisamente scivolò dietro di lui, inciampando in un ramo e cadendo lungo disteso tra le foglie. Thor sapeva che non si sarebbe rialzato in tempo. Si fermò, sguainò la spada e si mise tra Reece e la bestia.

“CONTINUATE A CORRERE!” gridò agli altri, rimanendo lì pronto a difendere Reece.

La bestia balzò su di lui, strillando e agitando i suoi artigli mirando alla sua faccia. Thor si abbassò e fece roteare la spada. Il mostro lanciò un grido orribile quando Thor riuscì a tagliare una delle sue zampe. Un liquido verde spruzzò ovunque e Thor vide con orrore che l’artiglio ricresceva tanto veloce quanto era stato tagliato. Era come se Thor non l’avesse mai ferito.

Thor deglutì. Sarebbe stato impossibile uccidere quella bestia. E ora l’aveva anche fatta arrabbiare.

La bestia sferrò un colpo con un’altra zampa spuntata da un’altra parte del suo corpo, colpendo con violenza Thor alle costole e mandandolo a cadere tra degli alberi. Il mostro abbassò un altro artiglio per colpirlo di nuovo e Thor si rese conto di trovarsi in seria difficoltà.

Elden, O’Connor e i gemelli corsero verso di lui e, mentre la bestia stava per colpirlo, O’Connor gli tirò in bocca una freccia che andò a conficcarglisi in gola facendola gridare. Elden prese la sua ascia doppia e la piantò nella schiena dell’insetto, mentre Conven e Conval tiravano una lancia ciascuno, trafiggendogli anche loro la gola. Reece si rimise in piedi e conficcò la spada nella pancia della bestia. Anche Thor balzò in piedi e fece roteare la spada tagliando un’altra zampa del mostro. Infine Krohn si unì a loro, saltando in aria e affondandogli le zanne nel collo.

La bestia continuava a gridare mentre tutti la attaccavano e la ferivano meglio che potevano. Thor si meravigliò che stesse ancora in piedi, le ali ancora vibranti. Sembrava non voler morire.

La guardarono con orrore mentre, una alla volta, si toglieva di dosso le lance e spade e l’ascia e tutte le ferrite si rimarginavano sotto i loro occhi.

Era una bestia imbattibile.

L’animale ringhiò e tutti la guardarono scioccati. Avevano fatto tutto il possibile e non l’avevano minimamente scalfita.

La bestia si preparò ad attaccarli di nuovo, con i suoi denti e artigli affilati come rasoi, e Thor si rese conto che non c’era nulla che potessero fare. Stavano tutti per morire.

“LEVATEVI DI MEZZO!” disse improvvisamente una voce.

La voce proveniva da dietro le loro spalle e sembrava giovane. Thor si voltò e vide un ragazzino di forse undici anni correre portando ciò che sembrava essere una caraffa d’acqua. Thor si abbassò e il ragazzo lanciò l’acqua bagnando completamente il muso della bestia.

L’animale si inarcò all’indietro e stridette, del vapore si levò dal suo muso mentre lei si portava gli artigli alle guance, agli occhi e alla testa. Continuò a strillare, un rumore così potente che Thor dovette ripararsi le orecchie con le mani.

Alla fine la bestia si voltò e sfrecciò via, nel fitto della giungla, scomparendo tra la vegetazione.

Si voltarono tutti a guardare il ragazzino con espressione carica di meraviglia e gratitudine. Era vestito di stracci, aveva lunghi capelli castani e occhi intelligenti di colore verde chiaro. Era ricoperto di polvere e sembrava, a giudicare dai piedi scalzi e dalle mani sporche, che vivesse là fuori.

Thor non aveva mai provato una tale gratitudine per qualcuno.

“Le armi non servono a nulla contro un belvagatore,” disse sollevando gli occhi al cielo. “Fortunati voi che ho sentito le grida e che ero qui vicino. Sennò oramai eravate morti. Non lo sapete che non si affronta mai un belvagatore?”

Thor guardò i suoi amici, tutti senza parole.

“Non l’abbiamo affrontato,” disse Elden. “È stato lui ad affrontare noi.”

“Loro non affrontano mai,” ribatté il ragazzino, “a meno che non vi introduciate nel suo territorio.”

“E cosa avremmo dovuto fare?” chiese Reece.

“Beh, come prima cosa non guardatelo mai negli occhi,” rispose il ragazzo. “E se vi attacca, stendetevi a faccia in giù fino a che non vi lascia stare. E soprattutto, non cercate mai di scappare correndo.”

Thor fece un passo avanti e mise una mano sulla spalla del ragazzo.

“Ci hai salvato la vita,” gli disse. “Ti siamo immensamente debitori.”

Il ragazzo scrollò le spalle.

“Non sembrate soldati dell’Impero,” disse. “Sembra veniate da qualche altra parte del mondo. Quindi perché non avrei dovuto aiutarvi? Sembrate come quelli che sono venuti dalla nave qualche giorno fa.”

Thor e gli altri si scambiarono uno sguardo d’intesa, poi si voltarono verso il ragazzino.

“Sai dove sono andate quelle persone?” chiese Thor.

Il ragazzo scrollò le spalle.

“Era un bel gruppetto, e trasportavano un’arma. Sembrava pesante: ce la mettevano tutta per portarla. Li ho seguito per giorni. Erano facili da pedinare. Si muovevano lentamente. Ed erano pure distratti e approssimativi. So dove sono andati, anche se non li ho seguiti molto dopo il villaggio. Posso portarvi lì e indicarvi la direzione giusta, se volete. Ma non oggi.”

Gli altri si guardarono confusi.

“Perché no?” chiese Thor.

“Tra poche ore scenderà la notte. Non potete stare fuori al buio.”

“Perché?” chiese Reece.

Il ragazzo lo guardò come se fosse un folle.

“Gli etasetti,” disse.

Thor si avvicinò al ragazzo e lo guardò. Gli era piaciuto da subito. Era intelligente, sincero, coraggioso e aveva un grande cuore.

“Conosci un posto dove possiamo trovare riparo per la notte?”

Il ragazzino lo guardò e scrollò le spalle, incerto. Ponderò la situazione.

“Penso che non dovrei,” disse. “Il nonno si arrabbierà un sacco.”

Improvvisamente Krohn apparve alle spalle di Thor e camminò verso il ragazzino, i cui occhi si accesero di gioia.

“Wow!” esclamò.

Krohn gli leccò la faccia e il ragazzino rise divertito accarezzandogli la testa. Poi si inginocchiò, abbassò la lancia e lo abbracciò. Krohn sembrò apprezzare e quasi ricambiare e il ragazzino rise istericamente.

“Come si chiama?” chiese. “Cos’è?”

“Si chiama Krohn,” disse Thor sorridendo. “È un raro leopardo bianco. Viene dall’altra parte dell’oceano. Dall’Anello. Da dove veniamo noi. Gli piaci.”

Il ragazzino baciò Krohn ripetutamente e alla fine si rialzò in piedi e guardò Thor.

“Bene,” disse incerto, “Credo di potervi portare alla mia casa. Speriamo che il nonno non si arrabbi troppo. Se lo farà, la vostra fortuna sarà finita. Seguitemi. Dobbiamo sbrigarci. Presto sarà notte.”

Il ragazzo si voltò e velocemente li guidò attraverso la giungla. Thor e gli altri lo seguirono. Thor era sorpreso dalla sua destrezza e da quanto bene conoscesse quella foresta. Era difficile stargli dietro.

“C’è gente che passa di qui di tanto in tanto,” disse il ragazzino. “L’oceano e le correnti li conducono dritti al porto. Alcuni vengono dal mare e tagliano per di qua, diretti in qualche altro luogo. La maggior parte di loro non ce la fanno. Vengono mangiati o gli capita qualcos’altro nella giungla. Voi siete stati fortunati. Ci sono cose ben peggiori dei belvagatori, qui.”

Thor deglutì.

“Peggio di quello? Cosa per esempio?”

Il ragazzino scosse la testa e continuò a camminare.

“Non credo vogliate saperlo. Ho visto cose piuttosto sgradevoli qui.”

“Da quanto sei qui?” gli chiese Thor curioso.

“Da sempre,” rispose. “Mio nonno ci ha fatto trasferire quando ero ancora piccolo.”

“Ma perché qui, in questo posto? Sicuramente ci sono luoghi mille volte più ospitali.”

“Non conoscete l’Impero, vero?” chiese loro il ragazzo. “Le truppe sono ovunque. Non è così facile rimanere inosservati. Se mai ci catturassero, ci farebbero schiavi. Vengono raramente da queste parti e comunque non si addentrano mai così tanto nella giungla.”

Mentre attraversavano una folta macchia di vegetazione, Thor allungò una mano per spostare una foglia dal cammino, ma il ragazzo si voltò e gli spinse via il braccio gridando: “NON TOCCARLA!”

Tutti si fermarono e Thor fissò la foglia che aveva quasi toccato. Era grande e gialla, e sembrava piuttosto innocua.

Il ragazzo allungò un bastone e la sfiorò appena con la punta. Improvvisamente la foglia si avvolse attorno al bastone, con incredibile velocità, e ne seguì un sibilo: il bastoncino evaporò.

Thor era scioccato.

“Una foglia bruciante,” disse. “Veleno. Se l’avessi toccata, saresti senza mano ora.”

Thor si guardò attorno esaminando tutti i tipi di foglie con nuova circospezione. Si meravigliò di quanto fortunati fossero stati a incontrare quel ragazzino.

Proseguirono lungo il loro tragitto e Thor mantenne le mani vicine al corpo, così come gli altri. Cercarono di prestare maggiore attenzione a ogni cosa che calpestavano.

“Rimanete vicini e camminate esattamente dove metto i piedi io,” disse il ragazzo. “Non toccate nulla. Non cercate di mangiare quella frutta. E non annusate neanche i fiori, a meno che non vogliate andare all’altro mondo.”

“Ehi, e quello cos’è?” chiese O’Connor voltandosi e guardando un enorme frutto che pendeva da un ramo, lungo e stretto, di un bel giallo brillante. O’Connor vi si avvicinò, allungando una mano.

“NO!” strillò il ragazzino.

Ma era troppo tardi. Non appena O’Connor l’ebbe toccato il terreno si aprì sotto di loro e Thor si sentì scivolare, come correndo giù da una collina ricoperta di fango e acqua. Erano intrappolati in una colata di fango e non riuscivano a fermarsi.

Continuarono a gridare mentre scivolavano per decine di metri, giù verso i bui e profondi recessi della giungla.




CAPITOLO SETTE


Erec era in groppa al cavallo, respirava affannosamente e si preparava ad attaccare i duecento soldati che gli stavano di fronte. Aveva combattuto valorosamente ed era riuscito ed abbattere i primi cento, ma ora le sue spalle erano più deboli e gli tremavano le mani. La sua mente era pronta a combattere per sempre, ma non aveva idea di quanto a lungo il suo corpo avrebbe retto. Eppure era deciso a continuare a battersi con tutte le sue forze, come aveva fatto per tutta la vita, e lasciare che fosse il fato a decidere per lui.

Erec gridò e spronò quel cavallo sconosciuto che aveva rubato a uno dei suoi avversari, lanciandosi contro i soldati.

Quelli a loro volta galoppavano verso di lui e risposero al suo grido solitario con i loro, feroci. Molto sangue era già stato versato su quel campo di battaglia, ma era evidente che nessuno se ne sarebbe andato senza aver prima ucciso l’altra parte.

Mentre avanzava Erec estrasse un coltello da lancio dalla cintura, prese la mira e lo tirò al soldato che stava a capo dell’esercito davanti a lui. Fu un lancio perfetto che gli perforò la gola. L’uomo si portò le mani al collo, lasciò andare le redini e cadde da cavallo. Come Erec aveva sperato, il soldato cadde davanti agli zoccoli degli altri cavalli obbligandone molti a passare sul suo corpo, cadendo a terra a loro volta.

Poi Erec sollevò con una mano un giavellotto, tenendo lo scudo nell’altra, abbassò il para volto e si lanciò alla carica con tutta la sua forza. Aveva intenzione di attaccare quell’esercito quanto più velocemente e violentemente fosse stato capace, sferrare quanti più colpi possibili e tagliarlo a metà.

Lanciò un grido mentre si lanciava nel gruppo. Tutti i suoi anni di tornei gli erano stati utili, e usò il giavellotto lungo con destrezza abbattendo un soldato dopo l’altro, mandandoli a terra in rapida successione. Si accucciò sul cavallo e con l’altra mano si coprì con lo scudo. Sentì una raffica di colpi cadergli addosso – sullo scudo e sull’armatura – da ogni direzione. Fu colpito da spade, asce e mazze, una tempesta di metallo, e pregò che l’armatura reggesse. Stava aggrappato al suo giavellotto, eliminando quanti più soldati poteva nella sua avanzata, creando un passaggio proprio nel mezzo dell’enorme gruppo.

Non rallentò e, dopo circa un minuto, alla fine sgusciò dall’altra parte, all’aperto, avendo creato un canale di devastazione in mezzo all’esercito di soldati. Aveva atterrato almeno una decina di guerrieri, ma aveva anche sofferto parecchio. Respirava affannosamente, il corpo gli doleva, il clangore metallico ancora gli risuonava nelle orecchie. Gli sembrava di essere stato messo in una macina. Si guardò e vide che era ricoperto di sangue: fortunatamente non sentiva di avere ferite gravi. Sembravano per lo più graffi e tagli superficiali.

Fece un ampio cerchio, una sorta di inversione di marcia, preparandosi a riaffrontare l’esercito. Anche loro si erano girati e si preparavano nuovamente all’attacco. Erec era fiero delle sue vittorie fino a quel momento, ma stava diventando più difficile riprendere fiato e sapeva che un altro passaggio attraverso quel gruppo avrebbe potuto finirlo. Eppure si ripropose di lanciarsi nuovamente all’attacco, determinato a non fuggire mai da una battaglia.

Da dietro l’esercito si levò improvvisamente un grido diverso, ed Erec fu inizialmente confuso nel vedere un contingente di soldati che attaccavano dalle retrovie. Ma poi riconobbe l’armatura e il cuore gli si gonfiò di sollievo: era il suo grande amico dell’Argento, Brandt, insieme al duca e a decine di uomini. Il cuore gli balzò in gola quando scorse anche Alistair tra loro. Le aveva chiesto di rimanere al sicuro al castello e lei non lo aveva ascoltato. Per questo la amava più di quanto riuscisse ad esprimere.

Gli uomini del duca attaccarono l’esercito lanciando un feroce grido di battaglia e scatenando il caos. Metà dell’esercito si voltò per affrontarli, e si scontrarono con loro con forte clangore di metallo. Brandt era a capo dei rinforzi brandendo la sua ascia doppia. La fece roteare contro il soldato a capo dell’esercito nemico e gli tagliò la testa di netto, poi, senza interrompere il movimento, andò a colpire anche il petto di un altro uomo.

Erec, spronato, ebbe un  nuovo momento di slancio: prese vantaggio dal caos e si avventò contro l’altra metà dell’esercito. Mentre galoppava si chinò in avanti e afferrò una lancia che era conficcata in terra, poi la scagliò con la forza di dieci uomini. La lancia perforò la gola di un soldato e continuò poi il suo volo conficcandosi nel petto di un altro.

Erec poi sollevò la spada e la calò sul primo soldato che gli capitò a tiro, tagliando a metà il manico della sua mazza, poi roteando gli mozzò la testa.

Continuò a combattere, gettandosi nel gruppo con tutta l’energia che gli rimaneva, spingendo, bloccando, parando, attaccando tutti i soldati che gli arrivavano addosso da ogni parte. Alternatamente sollevava lo scudo per fermare dei colpi e attaccava. Nel giro di pochi istanti tutti i soldati – decine di uomini – stavano convergendo su di lui attaccandolo da ogni direzione.

Ne uccise più di quanti riuscì a contarne, ma ce n’erano troppi, anche con gli uomini del duca che tenevano a bada il resto. Uno di loro mirò ad Erec con la sua mazza e andò a colpirlo alla schiena, tra le lamine della spalle. Erec gridò di dolore quando la palla di metallo gli piombò sulla colonna vertebrale. Cadde da cavallo e rotolò a terra.

Ma non si arrese. Il suo istinto lo spinse ad andare avanti ed ebbe la prontezza di ruotare subito su se stesso, sollevare lo scudo e bloccare il colpo successivo che mirava alla sua testa. Poi parò con la spada e andò a tagliare il braccio dell’uomo.

Un altro soldato cercò di calpestargli la testa, ma Erec ruzzolò via dalla sua traiettoria, fece ruotare la spada e tagliò le gambe del cavallo, mandando a terra il cavaliere. Subito si alzò e pugnalò l’uomo al petto.

Sempre più uomini convergevano su di lui ed Erec, in ginocchio, bloccava un colpo dopo l’altro, controbattendo quando poteva. Le spalle gli si stavano indebolendo. Un cavaliere piuttosto corpulento, con una barba lunga e liscia, gli si avvicinò e sollevò un’ascia. Erec alzò lo scudo per bloccarla, ma un altro soldato glielo calciò via dalle mani e, prima che lui potesse reagire, un terzo gli piombò sul petto, bloccandolo a terra. Erano troppo per lui ed Erec era ormai troppo esausto. Non c’era altro da fare ormai che restare a guardare mentre il grosso cavaliere iniziava a calare la sua ascia.





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In VOTO DI GLORIA (Libro #5 in LAnello dello Stregone), Thor si imbarca con i suoi compagni della Legione per unimpresa epica nelle vaste Terre Selvagge dellImpero per cercare di trovare lantica Spada della Dinastia e salvare quindi lAnello. Le amicizie di Thor si fanno sempre più profonde mentre viaggiano in luoghi nuovi, affrontano mostri inimmaginabili e combattono fianco a fianco in incredibili battaglie. Incontrano territori esotici, creature e persone che non avrebbero mai immaginato, mentre ogni ulteriore passo del loro viaggio si presenta carico di pericoli sempre più grandi. Dovranno chiamare a raccolta tutta la loro abilità se vorranno sopravvivere mentre seguono il sentiero dei ladri, sempre più a fondo nel territorio dellImpero. La loro ricerca li porterà direttamente fino al cuore del Mondo Sotterraneo, un dei sette regni dellinferno, dove regnano i morti viventi e i campi sono disseminati di ossa. Qui più che mai Thor chiama a raccolta i suoi poteri e lotta per capire la sua stessa natura. Tornata nellAnello, Gwendolyn deve condurre metà della Corte del Re verso la roccaforte occidentale di Silesia, unantica città arroccata ai confine del Canyon che domina da quella postazione da oltre mille anni. Le fortificazioni di Silesia le hanno permesso di sopravvivere a ogni attacco nel corso dei secoli, ma la città non ha mia dovuto affrontare un assalto da parte di un capo quale Andronico e da un esercito di un milione di uomini. Gwendolyn impara cosa significhi essere regina nel momento in qui assume il ruolo di guida. Srog, Kolk, Brom, Steffen, Kendrick e Godfrey sono al suo fianco e si preparano a difendere la città dalla violenta guerra che sta per scatenarsi. Nel frattempo, Gareth sta impazzendo sempre di più, cercando di respingere un colpo di stato che lo vorrebbe morto nella Corte del Re.

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