Книга - Giuramento Fraterno

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Giuramento Fraterno
Morgan Rice


L’Anello Dello Stregone #14
In GIURAMENTO FRATERNO, Thorgrin e i suoi fratelli escono dalla terra dei morti, più determinati che mai a trovare Guwayne, e salpano per attraversare un mare ostile che li condurrà verso luoghi che vanno ben oltre la loro immaginazione più sfrenata. Mentre si avvicinano sempre di più al ritrovamento di Guwayne, incontrano anche ostacoli mai affrontati prima, difficoltà che li metteranno alla prova oltre ogni limite e che richiederanno tutte le loro abilità e la loro forza per rimanere insieme come fossero una sola persona, come fratelli. Dario scende in campo contro l’Impero e riunisce coraggiosamente un esercito formato da schiavi liberati da un villaggio dopo l’altro. Scontrandosi con città fortificate e affrontando un esercito mille volte più grande del suo, chiama a raccolta tutto il suo istinto e il suo coraggio, determinato a sopravvivere e a vincere per conquistare la libertà a tutti i costi, anche a costo della vita. Gwendolyn, con nessun’altra scelta davanti a sé, guida il suo popolo nella Grande Desolazione, inoltrandosi nell’Impero in luoghi mai esplorati da nessuno, alla ricerca del leggendario Secondo Anello, ultima speranza di sopravvivenza per la sua gente e ultima speranza per Dario. Ma lungo il cammino incontreranno orribili mostri, tremendi paesaggi e dovrà anche far fronte a un’insurrezione in seno al suo stesso popolo, una rivolta che potrebbe anche non riuscire a sedare. Erec e Alistair si imbarcano per raggiungere l’Impero per salvare il loro popolo e lungo il viaggio si fermano in isole nascoste, determinati a mettere insieme un esercito, anche se ciò significa avere a che fare con mercenari di dubbia reputazione. Godfrey si trova nel mezzo della città di Volusia e in grossi guai man mano che il suo piano va di male in peggio. Imprigionato e condannato a morte anche per lui sembra non esserci via di scampo. Volusia stringe un patto con il più oscuro degli stregoni e guidata verso un potere sempre più grande, continua la sua ascesa conquistando tutto ciò in cui si imbatte nel suo cammino. Più potente che mai porterà la sua guerra fino al limitare della capitale dell’Impero fino a trovarsi contro l’esercito dell’Impero stesso, un esercito che supera di gran lunga il suo e che lascia prevedere una battaglia epica. Thorgrin troverà Guwayne? Gwendolyn e il suo popolo sopravviveranno? Godfrey fuggirà? Erec ed Alistair raggiungeranno l’Impero? Volusia diventerà imperatrice? Dario guiderà il suo popolo alla vittoria? Con la sua sofisticata struttura e caratterizzazione, GIURAMENTO FRATERNO è un racconto epico di amicizia e amore, di rivali e seguaci, di cavalieri e draghi, di intrighi e macchinazioni politiche, di maturazione, di cuori spezzati, di inganno, ambizione e tradimento. È un racconto di onore e coraggio, di fato e destino, di stregoneria. È un fantasy capace di portarci in un mondo che non dimenticheremo mai, in grado di affascinare persone di ogni sesso ed età.





Morgan Rice

GIURAMENTO FRATERNO (LIBRO #14 in L’ANELLO DELLO STREGONE)





EDIZIONE ITALIANA A CURA DI  ANNALISA LOVAT




Chi è Morgan Rice

Morgan Rice è l’autrice campione d’incassi di APPUNTI DI UN VAMPIRO, una serie per ragazzi che comprende al momento undici libri; autrice campione d’incassi di LA TRILOGIA DELLA SOPRAVVIVENZA, un thriller post-apocalittico che comprende al momento due libri; e autrice campione d’incassi della serie epica fantasy L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende al momento quattordici libri.

I libri di Morgan sono disponibili in edizione stampata e in formato audio e sono stati tradotti in tedesco, francese, italiano, spagnolo, portoghese, giapponese, cinese, svedese, olandese, turco, ungherese, ceco e slovacco (prossimamente ulteriori lingue).

Morgan ama ricevere i vostri messaggi e commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.morganricebooks.com per iscrivervi alla sua mailing list, ricevere un libro in omaggio, gadget gratuiti, scaricare l’app gratuita e vedere in esclusiva le ultime notizie. Connettetevi a Facebook e Twitter e tenetevi sintonizzati.



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“L’ANELLO DELLO STREGONE ha tutti gli ingredienti per un successo immediato: intrighi, complotti, mistero, cavalieri valorosi, storie d’amore che fioriscono e cuori spezzati, inganno e tradimento. Una storia che vi terrà incollati al libro per ore e sarà in grado di riscuotere l’interesse di persone di ogni età. Non può mancare sugli scaffali dei lettori di fantasy.”



    Books and Movie Reviews, Roberto Mattos

“La Rice fa un bel lavoro nel trascinarvi nella storia fin dall’inizio, utilizzando una grande qualità descrittiva che trascende la mera colorazione d’ambiente… Ben scritto ed estremamente veloce da leggere…”



    --Black LagoonReviews (parlando di Tramutata)

“Una storia perfetta per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellente creando un intreccio interessante …Rinvigorente e unico. La serie si concentra su una ragazza… una ragazza straordinaria! … Di facile lettura, ma estremamente veloce e incalzante… Classificato PG.”



    --The Romance Reviews (parlando di Tramutata)



Libri di Morgan Rice

L’ANELLO DELLO STREGONE

UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)

LA MARCIA DEI RE (Libro #2)

DESTINO DI DRAGHI (Libro #3)

GRIDO D’ONORE (Libro #4)

VOTO DI GLORIA (Libro #5)

UN COMPITO DI VALORE (Libro #6)

RITO DI SPADE (Libro #7)

CONCESSIONE D’ARMI (Libro #8)

UN CIELO DI INCANTESIMI (Libro #9)

UN MARE DI SCUDI (Libro #10)

REGNO D’ACCIAIO (Libro #11)

LA TERRA DEL FUOCO (Libro #12)

LA LEGGE DELLE REGINE (Libro #13)

GIURAMENTO FRATERNO (Libro #14)

SOGNO DA MORTALI (Libro #15)

GIOSTRA DI CAVALIERI (Libro #16)

IL DONO DELLA BATTAGLIA (Libro #17)



LA TRILOGIA DELLA SOPRAVVIVENZA

ARENA UNO: SLAVERSUNNERS (Libro #1)

ARENA DUE (Libro #2)



APPUNTI DI UN VAMPIRO

TRAMUTATA (Libro #1)

AMATA (Libro #2)

TRADITA (Libro #3)

DESTINATA (Libro #4)

DESIDERATA (Libro #5)

BETROTHED (Libro #6)

VOWED (Libro #7)

FOUND (Libro #8)

RESURRECTED (Libro #9)

CRAVED (Libro #10)

FATED (Libro #11)



Leggere adesso i libri di Morgan Rice!





Copyright © 2014 by Morgan Rice

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This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.

Jacket image Copyright RazzoomGame, used under license from Shutterstock.com.




CAPITOLO UNO


Dario guardò il pugnale insanguinato che teneva in mano, il comandante dell’Impero morto ai suoi piedi, e si chiese cosa avesse appena fatto. Il suo mondo rallentò mentre sollevava lo sguardo e guardava i volti scioccati dei soldati dell’Impero schierati davanti a lui, centinaia di uomini all’orizzonte, uomini veri, guerrieri con vere armature e vere armi, intere scorte in sella alle loro zerte. Uomini che non avevano mai conosciuto la sconfitta.

Dario sapeva che dietro di lui c’erano poche centinaia di miseri paesani, uomini e donne senza armi d’acciaio e senza armatura, soli di fronte a quell’esercito di professionisti. Lo avevano implorato di arrendersi, di accettare la menomazione. Non volevano una guerra che non avrebbero potuto vincere. Non volevano la morte. E Dario avrebbe voluto ubbidire loro.

Ma dentro di sé non poteva. Le sue mani avevano agito da sole, il suo spirito si era sollevato da solo e lui non avrebbe potuto controllare le sue azioni neanche se avesse voluto. Era la sua parte più profonda, la parte che era rimasta oppressa per tutta la sua vita, la parte che provava sete di libertà quanto un uomo morente ha sete di acqua.

Dario guardò quel mare di volti sentendosi solo come non mai, ma sentendosi anche completamente libero. Gli girava la testa, si sentiva fuori da se stesso, come se si stesse guardando dall’alto. Sembrava tutto così surreale. Capì che quello era un grande momento di svolta nella sua vita. Capì che quel momento avrebbe cambiato tutto.

Eppure non aveva rimpianti. Guardò il comandante dell’Impero morto, quell’uomo che avrebbe altrimenti ucciso Loti, che avrebbe ucciso tutti loro, che li avrebbe menomati, e provò un senso di giustizia. Si sentì anche rinvigorito. Dopotutto l’ufficiale dell’Impero era caduto e ciò significava che ogni uomo dell’Impero poteva cadere. Potevano anche essere rivestiti delle migliori armature, avere le migliori armi, ma sanguinavano come qualsiasi altro uomo. Non erano invincibili.

Dario provò un’ondata di forza dentro di sé e scattò in azione prima che qualsiasi altro potesse reagire. Pochi passi più in là c’era il piccolo seguito di ufficiali che aveva accompagnato il comandante. Erano pietrificati dallo shock: chiaramente non si aspettavano nient’altro che la resa, mai si sarebbero aspettati che il loro comandante venisse attaccato.

Dario approfittò della loro sorpresa. Si lanciò in avanti, sguainò un pugnale che teneva in vita e tagliò la gola a uno di loro, poi ruotò su se stesso e con lo stesso movimento ne uccise un altro.

I due lo guardarono con gli occhi sgranati, come increduli che una cosa del genere potesse accadere loro, mentre il sangue colava dalle loro gole e cadevano in ginocchio, collassando poi a terra, morti.

Dario si preparò: la sua mossa coraggiosa lo aveva lasciato vulnerabile ad essere attaccato e uno degli ufficiali si lanciò in avanti con la sua spada d’acciaio puntando alla sua testa. Dario avrebbe voluto in quel momento avere un’armatura, uno scudo, una spada per parare il colpo, qualsiasi cosa. Si sentiva vulnerabile all’attacco e ora sapeva che stava per pagarne il prezzo. Ma almeno sarebbe morto da uomo libero.

Un improvviso clangore squarciò l’aria e Dario guardò oltre vedendo Raj accanto a sé che bloccava il colpo di spada per lui. Dario si rese conto che Raj aveva preso la spada da uno dei soldati morti ed era corso in avanti parando il fendente avversario all’ultimo momento.

Si sentì nell’aria un altro rumore metallico e Dario vide dall’altra parte Desmond che parava un altro colpo diretto verso di lui. Raj e Desmond corsero in avanti, colpendo i loro avversari che non si erano aspettati quella difesa. Ruotavano come uomini posseduti e le loro spade sprizzavano scintille quando incontravano quelle dei nemici, facendoli arretrare con colpi mortali prima che potessero veramente difendersi.

I due soldati caddero a terra morti.

Dario fu pervaso da un’ondata di gratitudine per i suoi compagni, felice di averli lì a combattere al suo fianco. Non stava più affrontando l’esercito da solo.

Si abbassò, prese la spada e lo scudo dal comandante morto ai suoi piedi e si unì a Desmond e Raj buttandosi contro i sei ufficiali rimasti nel gruppo. Dario fece roteare la spada in aria, soddisfatto del suo peso: era così bello brandire una spada vera, fatta di vero acciaio. Si sentiva invincibile.

Si lanciò in avanti e parò un forte colpo di spada con lo scudo e nello stesso momento fece scivolare la lama tra le piastre dell’armatura di un soldato dell’Impero colpendolo alla spalla. Il soldato gemette e cadde in ginocchio.

Si voltò e fece ruotare lo scudo bloccando un colpo dall’altra parte, poi si girò e usò lo scudo come arma colpendo un altro attaccante in faccia e facendolo cadere. Poi ruotò con la spada e colpì l’altro avversario allo stomaco uccidendolo proprio prima che il soldato, con le mani sollevate sopra la testa, potesse calare un colpo sul suo collo.

Anche Raj e Desmond attaccarono al suo fianco, procedendo colpo dopo colpo contro gli altri soldati. Il clangore di spade e scudi era assordante. Dario ripensò a tutte le esercitazioni con le spade di legno e capì come ora – in battaglia – si stessero rivelando dei grandi combattenti. Mentre lui stesso lottava, si rendeva conto di quanto quell’esercizio avesse migliorato anche lui. Si chiese se avrebbe potuto vincere senza quegli allenamenti. Ed era sempre più determinato a vincere con le sue mani, senza mai e poi mai ricorrere ai suoi poteri magici che stavano in agguato da qualche parte dentro di lui e che lui non comprendeva pienamente, né voleva comprendere.

Mentre Dario, Desmond e Raj abbattevano il resto del gruppo, da soli nel mezzo del campo di battaglia, le centinaia di soldati dell’Impero in lontananza finalmente si organizzarono: si riunirono, lanciarono un forte grido di battaglia e si lanciarono contro di loro.

Dario sollevò lo sguardo rimanendo lì, respirando affannosamente, la spada insanguinata in mano, rendendosi conto che non c’era alcun luogo dove fuggire. Mentre il perfetto squadrone di soldati scattava in azione, si rese conto che quella era la morte che veniva verso di lui. Rimase al suo posto come anche Desmond e Raj, si asciugò il sudore dalla fronte e li affrontò. Non si sarebbe ritirato per niente al mondo.

Si levò un altro forte grido di battaglia, questa volta dalle sue spalle, e Dario si voltò felicemente sorpreso di vedere i suoi compaesani che si lanciavano all’attacco tutti insieme. Scorse numerosi dei suoi fratelli d’armi correre in avanti prendendo spade e scudi dai soldati dell’Impero che erano caduti e unendosi ai loro ranghi.  Era orgoglioso di vedere come i suoi compaesani subito ricoprirono il campo di battaglia come un’ondata, munendosi di armi d’acciaio: nel giro di pochi attimi diverse decine di uomini erano armati di tutto punto. Quelli che non avevano armi d’acciaio brandivano comunque spade intagliate nel legno. Decine di ragazzi più giovani, amici di Dario, avevano spade corte cui avevano affilato la punta e piccoli archi e frecce di legno: speravano evidentemente di potercela fare con quelle.

Si lanciarono all’attacco tutti insieme, come un unico uomo, combattendo per le loro proprie vite insieme a Dario, contro l’esercito dell’Impero.

In lontananza sventolava un’enorme bandiera, suonò una tromba e l’esercito dell’Impero si mise in moto. Il clangore metallico riempì l’aria mentre centinaia di soldati dell’Impero marciavano insieme, ben disciplinati: era un muro umano, spalla a spalla; mantenevano i ranghi mentre avanzavano verso la folla di paesani.

Dario guidava i suoi uomini nell’attacco, tutti temerari al suo fianco mentre si avvicinavano ai ranghi dell’Impero. Dario gridò: “LANCE!”

I suoi fecero volare le loro lance corte che gli sfrecciarono sopra la testa fendendo l’aria e trovando i loro bersagli al di là della radura. Molte lance di legno, non abbastanza affilate, colpirono le armature e rimbalzarono innocue. Ma numerose di esse trovarono fessure tra le piastre delle armature e colpirono i loro bersagli: una manciata di soldati dell’Impero gridarono e caddero in lontananza.

“FRECCE!” gridò Dario, sempre alla carica, con la spada alta, diminuendo sempre più la distanza.

Numerosi abitanti si fermarono, presero la mira e scoccarono una raffica di affilate frecce di legno: decine di esse disegnarono un arco in aria attraversando la radura con grossa sorpresa dell’Impero che evidentemente non si sarebbe mai aspettato un combattimento, né che gli abitanti del villaggio possedessero delle armi. Molte frecce rimbalzarono innocue contro le armature, ma diverse di essere andarono a segno colpendo i soldati alla gola o alle giunture e abbattendone numerosi altri.

“SASSI!” gridò Dario.

Diverse decine di uomini si fecero avanti e, usando le loro fionde, scagliarono delle pietre.

Un muro di sassi volò in cielo e l’aria fu pervasa dal rumore di roccia che colpiva le armature. Alcuni soldati, colpiti al volto, caddero. Molti altri si fermarono e sollevarono i loro scudi o le mani per bloccare quell’assalto.

Questo rallentò l’Impero e aggiunse un elemento di insicurezza ai loro ranghi, però non li fermò. Continuavano a marciare senza mai spezzare le file, anche con frecce, lance e sassi che li assalivano. Semplicemente sollevavano gli scudi, troppo arroganti per abbassarsi, marciando con le loro luccicanti alabarde d’acciaio sollevate in aria, le loro lunghe spade che oscillavano alla vita alla luce del giorno. Dario li guardava avanzare e capì che quello era un esercito di professionisti e che gli si stava avvicinando. Capì che era un’ondata di morte.

Si udì un improvviso rombo e Dario sollevò lo sguardo vedendo tre grosse zerte che si staccavano dalle righe e correvano all’attacco verso di loro cavalcate ciascuna da un ufficiale che brandiva una lunga alabarda. Le zerte galoppavano, la furia sui loro musi, sollevando nuvole di polvere.

Dario si preparò mentre una si scagliava contro di lui e il soldato ghignava sollevando la sua alabarda lanciandola improvvisamente contro di lui. Dario venne preso alla sprovvista dalla velocità e schivò il colpo all’ultimo momento riuscendo ad evitarlo per in pelo.

Ma il compaesano dietro di lui, un ragazzo che conosceva fin da bambino, non fu altrettanto fortunato. Gridò di dolore mentre l’alabarda gli perforava il petto e il sangue gli usciva dalla bocca. Cadde a terra di schiena, con gli occhi fissi al cielo.

Dario, infuriato, si voltò verso la zerta. Rimase in attesa, sapendo che se non avesse avuto il tempismo perfetto sarebbe stato travolto.

All’ultimo momento rotolò via dalla traiettoria dell’animale e fece roteare la spada tagliando le gambe della zerta da sotto.

La zerta gemette e cadde a terra facendo volare il suo cavaliere che finì in mezzo ai paesani.

Un paesano si staccò alla folla e corse in avanti tenendo un grosso masso sollevato sopra la testa. Dario si voltò e fu sorpreso di vedere Loti che reggeva il sasso e lo sbatteva poi contro l’elmo del soldato uccidendolo.

Dario udì un rumore di zoccoli al galoppo e vide un’altra zerta lanciata al galoppo con il soldato in groppa che teneva la lancia sollevata e puntata contro di lui. Non c’era tempo per reagire.

Un ringhio squarciò l’aria e Dario fu sorpreso di vedere Dray apparire improvvisamente e balzare in avanti, in aria, mordendo il piede del soldato proprio mentre questi tirava la lancia. L’uomo si piegò in avanti e la lancia seguì la sua traiettoria finendo dritta a terra. Lui oscillò e cadde di lato e non appena colpì terra venne aggredito da diversi abitanti.

Dario guardò Dray che gli corse accanto: gli era immensamente grato.

Udì un altro grido di battaglia e si voltò trovando un altro ufficiale dell’Impero che lo attaccava, sollevando la spada e calandola contro di lui. Dario si voltò e parò, sbattendo via la spada dell’altro con un colpo secco prima che potesse raggiungergli il petto. Poi si voltò e calciò i piedi del soldato sollevandoli da terra. L’uomo cadde a terra e Dario gli diede un calcio alla mascella prima che potesse rialzarsi in piedi, mettendolo fuori combattimento.

Dario vide poi Loti che gli passava accanto di corsa lanciandosi a testa bassa nel fitto del combattimento, afferrando una spada dalla cintura di un soldato morto. Dario si lanciò davanti a lei per proteggerla: lo preoccupava vederla nella mischia e voleva tenerla al sicuro.

Loc, il fratello di Loti, lo batté sul tempo: corse in avanti e afferrò Loti da dietro facendole lasciare la lancia.

“Dobbiamo andarcene da qui!” le disse. “Questo non è posto per te!”

“Questo è l’unico posto per me!” insistette lei.

Loc però, anche con una sola mano buona era sorprendentemente forte e riuscì a trascinarla tra proteste e calci, lontana dalla battaglia. Dario gli era estremamente grato.

Udì un rumore metallico accanto a sé e si voltò per vedere uno dei suoi fratelli d’armi, Kraz, combattere contro un soldato dell’Impero. Anche se un tempo Kraz era stato un bullo e una spina nel fianco per Dario, ora doveva ammettere di essere felice di averlo al suo fianco. Lo vide andare avanti e indietro combattendo contro un soldato, un guerriero formidabile, colpo dopo colpo fino a che l’avversario con una mossa a sorpresa colpì Kraz e gli fece cadere la spada di mano.

Kraz rimase indifeso con il terrore in volto per la prima volta da quando Dario lo conosceva. Il soldato dell’Impero, con gli occhi iniettati di sangue, si fece avanti per finirlo.

Improvvisamente si udì un clangore e il soldato si immobilizzò e cadde a terra a faccia in giù. Morto.

Entrambi sollevarono lo sguardo e Dario fu scioccato di vedere Luzi lì in piedi, grande la metà di Kraz, con una fionda in mano, vuota per aver già tirato il colpo. Luzi fece un sorrisino a Kraz.

“Ti penti di avermi perseguitato adesso?” chiese a Kraz.

Kraz lo guardò senza parole.

Dario era colpito che Luzi, dopo essere stato tormentato così tanto da Kraz durante i loro allentamenti, si fosse fatto avanti per salvarlo. Questo lo ispirò a combattere con ancora maggiore forza.

Dario, vedendo la zerta abbandonata che galoppava selvaggiamente tra i loro ranghi, corse in avanti, la affiancò e riuscì a montarle in groppa.

La zerta era imbizzarrita, ma Dario riuscì a tenersi in sella, determinato. Alla fine prese il controllo dell’animale e riuscì a farlo voltare dirigendosi verso le linee dell’Impero.

La zerta galoppava così velocemente che Dario poteva a malapena mantenerne il controllo facendola passare oltre i suoi uomini e conducendola verso il fitto dell’esercito dell’Impero. Il cuore di Dario gli batteva forte nel petto mentre si avvicinava a quel muro di soldati: sembrava impenetrabile da lì. Ma allo stesso tempo non c’era modo di tornare indietro.

Dario costrinse il proprio coraggio a portarlo avanti. Andò dritto verso di loro continuando a far roteare selvaggiamente la spada.

Da quel punto più alto poteva colpire da una parte e dall’altra prendendo di sorpresa gruppi di soldati avversari che non si aspettavano di essere attaccati da una zerta. Si fece strada tra le righe a velocità accecante, tagliando a metà quel mare di soldati, trasportato dal suo slancio. Improvvisamente provò però un dolore terribile al fianco: si sentì come se le costole gli venissero spezzate a metà.

Dario, perdendo l’equilibrio, si ritrovò a volare in aria. Colpì il suolo con violenza sentendo il dolore al fianco e rendendosi conto di essere stato colpito dalla palla metallica di un mazzafrusto. Rimase a terra, in mezzo a tutti i soldati e lontano dalla sua gente.

Mentre era steso lì con la testa che rimbombava e tutto il mondo offuscato attorno a sé, guardò in lontananza e si accorse che il suo popolo veniva circondato. Combattevano valorosamente, ma erano troppo pochi e di livello troppo basso rispetto agli avversari. Li stavano massacrando e le loro grida riempivano l’aria.

La testa di Dario, troppo pesante, ricadde a terra e da lì vide tutti gli uomini dell’Impero che si chiudevano su di lui. Rimase lì, immobile, sapendo che la sua vita sarebbe presto terminata.

Almeno, pensò, sarebbe morto con onore.

Almeno era finalmente libero.




CAPITOLO DUE


Gwendolyn si trovava in cima alla collina e guardava l’alba che sorgeva nel cielo deserto e il cuore le batteva nell’attesa mentre si preparava a colpire. Guardando il confronto dell’Impero contro i paesani da lontano aveva condotto lì i suoi uomini portandosi ai bordi del campo di battaglia e posizionandosi dietro le righe dell’Impero. I soldati dell’Impero, così concentrati sui paesani e sulla battaglia, non li avevano neanche visti arrivare. E ora, mentre i paesani stavano iniziando a morire là sotto, era ora di fargliela pagare.

Fin da quando aveva deciso di far tornare indietro i suoi uomini per aiutare gli abitanti del villaggio, Gwen si era sentita pervasa da una sensazione di fatalità. Che avessero vinto o perso, sapeva che era la cosa giusta da fare. Aveva visto il duello dispiegarsi dall’alta catena di monti, aveva visto gli eserciti dell’Impero avvicinarsi con le loro zerte e i loro soldati professionisti riportandole alla mente sentimenti freschi, ricordandole l’invasione dell’Anello per mano di Andronico e poi di Romolo. Aveva visto Dario farsi avanti da solo per affrontarli e il suo cuore aveva esultato quando lo aveva visto uccidere il comandante. Era una cosa che anche Thor avrebbe fatto. Che lei stessa avrebbe fatto.

Ora Gwen stava lì, con Krohn che ringhiava sommessamente accanto a lei; Kendrick, Steffen, Brandt, Atme e decine di soldati dell’Argento e centinaia di uomini alle sue spalle, tutti con le armature che indossavano da quando avevano lasciato l’Anello, tutti con le loro armi, tutti in paziente attesa di un suo ordine. Il suo era un esercito di professionisti e non combattevano da quando erano stati esiliati dalla loro madrepatria.

Ora era giunto il momento.

“ORA!” gridò Gwen.

Si levò un grandioso grido di battaglia e tutti i suoi uomini, condotti da Kendrick, si lanciarono giù dalla collina, con le loro voci che sembravano quelle di migliaia di leoni alla luce del primo mattino.

Gwen vide i suoi uomini raggiungere le righe dell’Impero mentre i soldati nemici, preoccupati a combattere contro i paesani, si voltavano lentamente, stupiti, chiaramente senza capire chi li stesse attaccando o perché. Evidentemente quei soldati non erano mai stati presi alla sprovvista prima d’ora e sicuramente non da un esercito di professionisti.

Kendrick non diede loro il tempo di riorganizzarsi e di capire cosa stesse accadendo. Si lanciò in avanti pugnalando il primo uomo che incontrò, mentre Brandt, Atme, Steffen e decine di altri soldati dell’Argento combattevano al suo fianco, gridando e calando le loro armi contro i soldati nemici. Tutti i suoi uomini portavano un grosso rancore e tutti avevano voglia ormai da tempo di combattere, avevano sete di vendetta, desideravano scatenare la loro ira sull’Impero fin da quando avevano lasciato l’Anello, Gwen lo sapeva bene. In questa battaglia avevano trovato il loro sfogo migliore. Negli occhi di tutti i suoi uomini ardeva un fuoco, un fuoco che conteneva le anime di tutti i cari che avevano perduto nell’Anello e nelle Isole Superiori. Era un bisogno di vendetta che si erano portati attraverso l’oceano. Gwen si rendeva conto che in molti modi la causa di quegli abitanti era anche dall’altra parte del mondo la loro stessa causa.

Gli uomini gridavano mentre combattevano corpo a corpo e Kendrick e gli altri usarono il loro slancio per colpire da ogni parte nella mischia, abbattendo file di soldati dell’Impero prima che potessero anche solo rendersene conto. Gwen era estremamente fiera mentre guardava Kendrick bloccare due colpi con lo scudo, ruotare su se stesso e colpire un soldato in faccia con lo stesso e poi prenderne un altro al petto. Vide Brandt dare un calcio alle gambe del soldato facendogli perdere l’equilibrio e poi pugnalarlo alla schiena e da lì al cuore spingendo la spada con entrambe le mani fino in fondo. Vide Steffen brandire la sua spada corta e tagliare la gamba a un soldato, poi fare un passo avanti e dare un calcio al ventre a un altro, poi una testata, mettendolo al tappeto. Atme fece roteare il suo mazzafrusto e colpì due soldati con un unico giro.

“Dario!” gridò una voce.

Gwen guardò oltre e vide Sandara accanto a lei che indicava verso il campo di battaglia.

“Mio fratello!” gridò ancora.

Gwen scorse Dario a terra, sdraiato sulla schiena e circondato dai soldati dell’Impero che si stavano stringendo attorno a lui. Il cuore le fece un balzo di apprensione, ma vide con grossa soddisfazione come Kendrick si fece avanti tenendo lo scudo e salvando Dario da un colpo d’ascia che altrimenti l’avrebbe colpito al volto.

Sandara gridò e Gwen poté vedere il suo sollievo, capendo quanto amasse suo fratello.

Gwendolyn prese un arco da uno dei soldati che stavano di guardia accanto a lei. Mise una freccia in posizione, lo tese e prese la mira.

“ARCIERI!” gridò.

Tutt’attorno a lei una decina di arcieri prese la mira tendendo gli archi e aspettando un suo commando.

“FUOCO!”

Gwen scoccò una freccia in alto nel cielo, al di sopra dei suoi uomini e insieme a lei tirarono la sua decina di arcieri.

La raffica piombò nel fitto dei restanti soldati dell’Impero e le grida risuonarono mentre una decina di soldati cadevano in ginocchio.

“FUOCO!” gridò di nuovo.

Seguì un’altra raffica, poi un’altra ancora.

Kendrick e i suoi uomini entrarono nella mischia uccidendo tutti gli uomini che erano caduti in ginocchio colpiti dalle frecce.

I soldati dell’Impero furono costretti a smettere di attaccare i paesani e a fare dietrofront con il loro esercito per affrontare gli uomini di Kendrick.

Questo diede un’opportunità agli uomini del villaggio. Levarono un forte grido e attaccarono, pugnalando alla schiena i soldati dell’Impero che ora venivano macellati da ogni parte.

I nemici, schiacciati tra due forze ostili, con i numeri che calavano rapidamente, alla fine iniziarono a rendersi conto di essere in svantaggio. I loro ranghi di centinaia si ridussero presto a decine e coloro che rimanevano si voltarono cercando di fuggire a piedi, dato che le loro zerte erano state uccise o catturate.

Ma non riuscirono a percorrere molta strada prima di essere raggiunti e uccisi.

Si levò un alto grido di trionfo da entrambe le parti, abitanti del villaggio e uomini di Gwendolyn. Si unirono tutti insieme, esultando e abbracciandosi come fratelli. Gwen corse giù dalla collina e si unì a loro, con Krohn alle calcagna, lanciandosi nel fitto del gruppo, circondata da uomini, l’odore del sudore e della paura ancora forte nell’aria, il sangue che scorreva fresco sul suolo desertico. Qui, nonostante tutto ciò che era accaduto nell’Anello, Gwen provò un senso di trionfo. Era stata una vittoria gloriosa lì nel deserto, gli abitanti del villaggio e gli esiliati dell’Anello uniti contro il nemico.

I paesani avevano perso molti buoni uomini e pure Gwen ne aveva persi alcuni dei suoi. Ma Dario almeno era vivo, in piedi sebbene barcollante e lei era felice di constatarlo.

Gwen sapeva che l’Impero aveva milioni di altri uomini. Sapeva che sarebbe giunto un giorno per la resa dei conti.

Ma quel giorno non era oggi. Quel giorno non aveva preso la decisione più saggia, ma quella più coraggiosa. Quella giusta. Sentiva che era una decisione che suo padre avrebbe preso. Aveva scelto la strada più difficile. La strada di ciò che era giusto. La strada della giustizia. La strada del valore. E noncurante di ciò che sarebbe accaduto in futuro, quel giorno aveva vissuto.

Aveva vissuto sul serio.




CAPITOLO TRE


Volusia si trovava sul balcone di pietra e guardava verso il basso, verso il cortile di ciottoli di Maltolis che si dispiegava sotto di lei e là vide il corpo disteso del principe, immobile, gli arti aperti in una posizione grottesca. Sembrava così distante da lassù, così minuscolo, così debole. Volusia si meravigliò di come, solo pochi istanti prima, lui fosse uno dei più potenti sovrani dell’Impero. Era sorprendente quanto la vita fosse fragile, che genere di illusione fosse il potere e soprattutto di come lei, con il suo infinito potere, ora una vera dea, detenesse il potere di vita o di morte su chiunque. Adesso nessuno, neppure un grande principe, poteva fermarla.

Mentre stava lì a guardare, si levarono le grida, in tutta la città, delle migliaia di persone, i pazzi cittadini di Maltolis, che si lamentavano: il loro frastuono riempiva il cortile e si sollevava come fossero uno sciame di locuste. Si agitavano e gridavano, sbattevano la testa contro le pareti di pietra. Si gettavano al suolo come bambini arrabbiati e si strappavano i capelli. A vedere il loro comportamento si sarebbe potuto pensare che Maltolis fosse stato un sovrano benevolo.

“IL NOSTRO PRINCIPE!” gridò uno di loro, un urlo ripetuto da molti altri mentre accorrevano e si buttavano sul corpo del principe pazzo singhiozzando e dimenandosi stringendolo a loro.

“IL NOSTRO AMATO PADRE!”

Improvvisamente le campane risuonarono nella città, una lunga successione di rintocchi che si riecheggiavano. Volusia udì della confusione e sollevò gli occhi vedendo centinaia di soldati di Maltolis marciare di fretta attraverso i cancelli della città, entrare nel cortile in fila per due mentre la grata si sollevava per farli passare. Erano tutti diretti verso il castello di Maltolis.

Volusia capì di aver messo in moto un evento che avrebbe cambiato quella città per sempre.

Si udì un improvviso e insistente battito alla spessa porta di quercia della camera, che le fece fare un balzo. Erano colpi incessanti, il rumore di decine di soldati, clangore di armature, un ariete che veniva picchiato contro la porta della stanza del principe. Volusia ovviamente l’aveva sbarrata e la porta, spessa una trentina di centimetri, era intesa per resistere a un assalto. Tuttavia i cardini cedettero e le grida degli uomini giunsero da fuori: a ogni colpo si piegava sempre più.

Slam, slam, slam.

La camera di pietra tremò e l’antico candeliere di metallo che era appeso in alto a una trave di legno oscillò prima di cadere con uno schianto al suolo.

Volusia rimase a guardare tutto con calma, aspettandosi ogni cosa. Sapeva ovviamente che erano lì per lei. Volevano vendetta e non l’avrebbero mai lasciata fuggire.

“Aprite la porta!” gridò uno dei generali del principe.

Riconobbe la voce: il capo delle forze di Maltolis, un uomo serio che aveva incontrato brevemente. Aveva una voce bassa e roca; era un uomo inetto, ma un soldato professionista con duecentomila uomini a sua disposizione.

Eppure Volusia rimaneva lì calma di fronte alla porta, per nulla scossa, guardando pazientemente e aspettando che la abbattessero. Avrebbe naturalmente potuto aprirla per loro, ma non gli avrebbe dato questa soddisfazione.

Alla fine si udì un tremendo schianto e la porta di legno cedette staccandosi dai cardini e decine di soldati, con le armature che sferragliavano, entrarono di corsa nella stanza. Il comandante di Maltolis, con addosso la sua armatura decorata e con in mano uno scettro d’oro che gli conferiva il titolo di comandante dell’esercito di Maltolis, era a capo delle truppe.

Rallentarono quando la videro lì in piedi, da sola, per niente desiderosa di fuggire. Il comandante, con volto profondamente corrugato, si diresse dritto verso Volusia e si fermò bruscamente a pochi passi da lei.

Le lanciò un’occhiataccia colma di odio e dietro di lui i suoi uomini si fermarono, ben disciplinati, in attesa di un suo comando.

Volusia stava lì tranquilla, guardandolo con un sorrisino, e si rese conto che il suo atteggiamento doveva averli confusi, dato che il comandante sembrava sconvolto.

“Cos’hai fatto, donna?” le chiese stringendo la sua spada. “Sei venuta nella nostra città da ospite e hai ucciso il nostro sovrano. Il prescelto. Colui che non poteva essere ucciso.”

Volusia gli sorrise e rispose con calma: “Vi sbagliate di grosso, generale,” disse. “Sono io quella che non può essere uccisa. E oggi l’ho provato.”

L’uomo scosse la testa furiosamente.

“Come puoi essere così sciocca?” le disse. “Dovevi per certo saperlo che avremmo ucciso te e i tuoi uomini, che non c’è via di fuga né modo di lasciare questo posto. Qui le tue poche scorte sono circondate da centinaia di migliaia dei nostri. Devi per forza averlo saputo che qui oggi avresti causato la tua condanna a morte, o peggio la tua cattura e tortura. Non trattiamo con cortesia i nostri nemici, in caso tu non l’abbia notato.”

“L’ho notato di certo, generale, e lo ammiro,” rispose. “Eppure non metterete un solo dito su di me. Nessuno dei vostri uomini lo farà.”

Il generale scosse la testa scocciato.

“Sei più folle di quanto pensassi,” le disse. “Io ho lo scettro d’oro. Tutti i nostri eserciti faranno come dico. Esattamente come dico.”

“Davvero?” chiese lei lentamente, con un sorriso in volto.

Lentamente Volusia si voltò e guardò attraverso la finestra aperta, verso il corpo del principe che ora veniva sollevato sulle spalle dei pazzi e portato in giro per la città come un martire.

Dando le spalle al generale, Volusia continuò.

“Non dubito, generale,” disse, “che le vostre forze armate siano ben allenate. O che seguano gli ordini di chi possiede lo scettro. La loro fama li precede. So anche che sono molto più forti e grandi delle mie. E so che non c’è via di fuga da qui. Ma vedete, io non desidero fuggire. Non ne ho bisogno.”

Lui la guardò perplesso e Volusia si voltò e guardò fuori dalla finestra scrutando il cortile. In lontananza scorse Koolian, il suo stregone, che si trovava tra la folla ignorando gli altri e fissandola da laggiù con i suoi occhi verdi e il volto segnato dalle rughe. Aveva indosso il suo mantello nero ed era impossibile non vederlo tra la folla, con la mani conserte e il volto pallido rivolto verso di lei parzialmente nascosto dal cappuccio, in attesa di un suo comando. Era lì, l’unico pazientemente immobile nel caos della città.

Volusia fece un cenno appena percettibile e vide che lui immediatamente le rispondeva.

Lentamente Volusia si voltò, con il sorriso in volto, e guardò il generale.

“Potete passarmi lo scettro ora,” gli disse. “Oppure posso uccidervi e prenderlo da me.”

Lui la guardò confuso, poi scosse la testa e per la prima volta sorrise.

“Conosco la gente delirante,” le disse. “Ne ho servito uno per anni. Ma te… appartieni a una categoria tutta tua. Molto bene: se desideri morire in questo modo, che così sia.”

Fece un passo avanti e sguainò la spada.

“Mi divertirò ad ucciderti,” aggiunse. “Ho voluto farlo dal momento che ho visto la tua faccia. Tutta quell’arroganza basta a far venire la nausea a un uomo.”

Le si avvicinò e Volusia si voltò vedendo improvvisamente Koolian nella stanza accanto a lei.

Koolian si voltò a guardare il generale, sorpreso dalla sua improvvisa apparizione dal nulla. Rimase lì a bocca aperta, chiaramente senza aspettarselo ed evidentemente non sapendo cosa fare.

Koolian si tolse il cappuccio e fece un ghigno con la sua faccia grottesca, pallidissima, gli occhi verdi ruotati indietro. Lentamente sollevò le mani.

Quando lo fece improvvisamente il comandante e tutti i suoi uomini caddero in ginocchio. Gridarono e si portarono le mani alle orecchie.

“Fatelo smettere!” gridò l’uomo.

Lentamente il sangue iniziò a colare dalle orecchie e uno alla volta caddero tutti a terra immobili. Morti.

Volusia si fece avanti lentamente, con calma, e afferrò lo scettro d’oro dalla mano del comandante morto.

Lo sollevò in alto e lo esaminò, ammirandone il peso e il luccichio. Era un oggetto dal fascino sinistro.

Sorrise.

Era addirittura più pesante di quanto avesse immaginato.


*

Volusia si trovava oltre il fossato, all’esterno delle mura della città di Maltolis, con il suo stregone Koolian, il suo assassino Aksan e il comandante delle forze armate volusiane Soku al suo fianco. Guardava il vasto esercito di Maltolis raccolto davanti a sé. Le pianure deserte erano piene, a perdita d’occhio, di uomini di Maltolis. Ce n’erano duecentomila, un esercito che così grande lei non aveva mai visto. Ispirava un senso di ammirazione anche a lei.

Rimanevano lì pazientemente, senza un capo, e la guardavano, lei – Volusia – che si trovava in piedi su una pedana rialzata e li guardava. La tensione era densa nell’aria e Volusia poteva percepire che stavano tutti aspettando, pensierosi, decidendo se ucciderla o ubbidirle.

Volusia li guardava con fierezza, sentendo il proprio destino davanti a sé. Lentamente alzò lo scettro d’oro sopra la testa. Si voltò lentamente guardando da tutte le parti in modo che potessero vederla, che tutti potessero vedere il suo scettro che brillava al sole.

“MIO POPOLO!” disse con voce tonante. “Io sono la dea Volusia. Il vostro principe è morto. Ora sono io a tenere lo scettro, sono io quella che dovete seguire. Seguitemi e guadagnerete gloria e ricchezze e tutti i desideri del vostro cuore. Rimanete qui e vi perderete e morirete in questo luogo, all’ombra di queste mura, all’ombra del cadavere di un sovrano che non vi ha mai amati. Lo avete servito nella follia; servirete me nella gloria, nella conquista. Avrete finalmente il capo che vi meritate.”

Volusia sollevò lo scettro più in alto, guardandoli e incrociando i loro sguardi disciplinati, percependo il proprio destino. Sentì di essere invincibile, che niente poteva fermarla, neppure quelle centinaia di migliaia di uomini. Sapeva che anche loro, come tutto il mondo, si sarebbero inchinati davanti a lei. Lo vedeva accadere nell’occhio della mente: dopotutto era una dea. Viveva in un regno al di sopra degli uomini. Che scelta potevano avere?

Come aveva previsto, si udì un lento sferragliare di armature e uno alla volta tutti gli uomini di fronte a lei si misero in ginocchio, uno dopo l’altro, mentre il rumore metallico delle loro armature si diffondeva nel deserto.

“VOLUSIA!” intonarono sottovoce, continuando a ripeterlo.

“VOLUSIA!”

“VOLUSIA!”




CAPITOLO QUATTRO


Godfrey sentiva il sudore scorrergli lungo la schiena mentre stava intrufolato tra gli schiavi, cercando di rimanere con il gruppo e di non farsi vedere man mano che percorrevano le strade di Volusia. Si sentì un altro schiocco nell’aria e Godfrey gridò di dolore, colpito dalla punta della frusta. La schiava accanto a lui, cui la frustata era destinata, urlò molto più forte: venne colpita in pieno in mezzo alla schiena e inciampò in avanti.

Godfrey la afferrò prima che potesse cadere, agendo d’impulso e sapendo che così facendo rischiava la vita. Lei si ristabilizzò sui piedi e si voltò verso di lui, con il panico stampato in volto. Quando lo vide sgranò gli occhi per la sorpresa. Chiaramente non si era aspettata di vederlo: un uomo con la pelle chiara che camminava libero accanto a lei, senza catene. Godfrey scosse la testa rapidamente e si portò un dito alla bocca pregandola di fare silenzio. Fortunatamente la donna ubbidì.

Si udì un altro schiocco di frusta e Godfrey guardò oltre vedendo i supervisori che si facevano strada nel gruppo frustando gli schiavi senza particolare motivo, evidentemente solo per far sentire la loro presenza. Guardandosi alle spalle notò, proprio dietro di lui, i volti terrorizzati di Akorth e Fulton, con gli occhi che guizzavano attorno e accanto a loro le espressioni calme e determinate di Merek e Ario. Godfrey era meravigliato che quei due ragazzini mostrassero più compostezza e coraggio di Akorth e Fulton, due uomini grandi e grossi, e pure ubriachi.

Continuarono a camminare e Godfrey sentì che si stavano avvicinando alla loro destinazione, qualsiasi essa fosse. Ovviamente non poteva lasciare che arrivassero lì: doveva fare qualcosa quanto prima. Aveva ottenuto il suo scopo, era riuscito ad entrare a Volusia, ma ora doveva liberarsi da quel gruppo prima che tutti venissero scoperti.

Si guardò in giro e notò qualcosa che gli fece balzare il cuore in petto: i supervisori erano ora più raggruppati verso l’inizio della carovana di schiavi. Aveva un certo senso: dato che tutti gli schiavi erano incatenati insieme, non c’era ovviamente nessun posto dove potessero fuggire e i supervisori non sentivano giustamente la necessità di sorvegliare il retro del gruppo. A parte l’unico supervisore che camminava su e giù lungo le righe frustandoli, non c’era nessuno a impedire loro di scivolare via dal retro della carovana. Potevano scappare, svignarsela in silenzio tra le strade di Volusia.

Godfrey sapeva che dovevano agire velocemente, eppure il cuore gli batteva forte in petto ogni volta che pensava di mettere in atto quella mossa coraggiosa. La sua mente gli diceva di andare, ma il suo corpo restava esitante, incapace di raccogliere tutto il coraggio necessario.

Godfrey ancora non credeva che fossero lì, che ce l’avessero veramente fatta a passare entro le mura. Era come un sogno, un sogno che diventava sempre più brutto. L’intontimento causato dal vino si stava dissipando, e più svaniva più lui si rendeva conto che la sua idea era stata profondamente sbagliata.

“Dobbiamo uscire da qui,” bisbigliò Merek chinandosi verso di lui. “Dobbiamo fare qualcosa.”

Godfrey scosse la testa e deglutì, con il sudore che gli bruciava gli occhi. Una parte di lui sapeva che Merek aveva ragione, ma un’altra parte lo costringeva ad aspettare il momento giusto.

“No,” rispose. “Non ancora.”

Godfrey si guardò attorno e vide ogni genere di schiavi incatenati e trascinati attraverso le strade di Volusia, non solo schiavi di pelle scura. Era come se l’Impero fosse riuscito a catturare ogni sorta di razza da ogni angolo del mondo, chiunque non appartenesse alla razza dell’Impero, chiunque non avesse pelle gialla e lucida, imponente altezza, spalle larghe e le piccole corna dietro le orecchie.

“Cosa stiamo aspettando?” chiese Ario.

“Se corriamo in mezzo alle strade,” disse Godfrey, “potremmo essere troppo evidenti. Potremmo anche essere catturati. Dobbiamo aspettare.”

“Aspettare cosa?” insistette Merek con la frustrazione nella voce.

Godfrey scosse la testa disorientato. Si sentiva come se il suo piano stesse crollando.

“Non lo so,” disse.

Svoltarono a un’altra curva e così facendo l’intera città di Volusia si aprì davanti a loro. Godfrey guardò quella veduta sbalordito.

Era la città più incredibile che avesse mai visto. Godfrey, essendo figlio di un re, aveva visitato grosse città, città grandiose e ricche, fortificate. Aveva visitato alcune delle più belle città del mondo. Poche erano in grado di competere con la maestosità di Savaria, di Silesia, o ancor più della Corte del Re. Non si lasciava stupire facilmente.

Ma non aveva mai visto nulla del genere. Era una combinazione di bellezza, potere e ricchezza. Soprattutto di ricchezza. La prima cosa che colpì Godfrey furono tutti gli idoli. Ovunque in giro per la città erano collocate statue di idoli e dei che Godfrey neppure conosceva. Uno sembrava essere un dio del mare, un altro del cielo, un altro delle colline… ovunque c’erano masse di persone che si chinavano davanti ad esse adorandole. In lontananza, torreggiante sulla città, c’era un’enorme statua d’oro che si levava di una buona trentina di metri, raffigurante Volusia. Una grande folla di persone era raggruppata e china attorno ad essa.

Un’altra cosa che sorprese Godfrey furono le strade ricoperte d’oro, brillanti e immacolate, tutto meticolosamente lindo e pulito. Tutti gli edifici erano fatti di pietra perfettamente squadrata, non c’era un solo blocco fuori posto. Le strade della città si allungavano ovunque e la città sembrava distendersi all’orizzonte. Ciò che lo colpì ancora di più furono i canali e i corsi d’acqua che si intrecciavano con le vie, a volte disegnando archi, a volte cerchi, portando le azzurre correnti dell’oceano e facendo da condutture, come l’olio che faceva funzionare quella città. Tutti i canali erano pieni di vascelli dorati e decorati che si facevano aggraziatamente strada lungo quei corsi d’acqua passando tra le strade.

La città era piena di luce che rifletteva dal porto; era dominata dal sempre presente suono delle onde che si infrangevano. Disegnata a forma di ferro di cavallo la città abbracciava la linea della costa e le onde andavano a sbattere dritte contro il suo argine dorato. Tra la luce splendente dell’oceano, i raggi dei due soli sopra di loro e l’onnipresente oro, Volusia decisamente abbagliava gli occhi. A fare da cornice al tutto, all’ingresso del porto, si trovavano due torreggianti pilastri che quasi raggiungevano il cielo, come bastioni di forza.

Godfrey si rendeva conto che quella città era stata costruita per intimidire, per far vedere ricchezza, e faceva bene il suo lavoro. Era una città che mostrava progresso e civilizzazione e se Godfrey non avesse saputo a priori della brutalità dei suoi abitanti, sarebbe stata la città dove lui stesso avrebbe amato vivere. Era così diversa da qualsiasi cosa l’Anello avesse da offrire. Le città dell’Anello erano costruite per fortificare, proteggere e difendere. Erano umili e discrete, come i loro abitanti. Queste città dell’Impero, d’altro canto, erano aperte, temerarie, costruite per dimostrare abbondanza e benessere. Godfrey capiva che aveva senso: dopotutto le città dell’Impero non avevano nessuno da cui temere attacchi.

Godfrey udì del trambusto venire da davanti e quando svoltarono lungo un vicolo e dietro un altro angolo, improvvisamente si aprì un enorme cortile davanti a loro, con il porto alle spalle. Era una larga piazza di pietra, il maggior crocevia della città, con una decina di strade che da qui si dipartivano portando in direzioni diverse. Tutto questo era visibile da uno scorcio attraverso un arco di pietra che si innalzava di venti metri sulle loro teste. Godfrey capì che non appena il gruppo vi fosse passato attraverso si sarebbero tutti trovati all’esterno, esposti insieme a tutti gli altri. Non sarebbero più stati capaci di svignarsela.

Ancora più sconvolgente era il fatto che Godfrey vide schiavi che si riversavano nella piazza da ogni direzione, tutti guidati dai loro supervisori: schiavi da ogni angolo dell’Impero di ogni razza, tutti incatenati, trascinati verso un’alta piattaforma alla base dell’oceano. Gli schiavi stavano in piedi su di essa mentre ricche persone dell’Impero li osservavano attentamente e facevano delle offerte. Sembrava una vendita all’asta.

Un grido di esultanza di levò e Godfrey vide un nobile dell’Impero esaminare la mandibola di uno schiavo, uno schiavo con pelle bianca e lunghi capelli filamentosi e castani. Il nobile annuì soddisfatto e il supervisore si avvicinò slegando lo schiavo, come se avesse appena concluso una transazione d’affari. Il supervisore afferrò lo schiavo per la camicia e lo gettò giù dalla piattaforma. L’uomo volò colpendo con violenza il suolo e la folla esultò soddisfatta mentre diversi soldati si avvicinavano e lo trascinavano via.

Un altro gruppo di schiavi emerse da un altro angolo della città e Godfrey guardò uno schiavo che veniva spinto in avanti: era il più grande, più alto degli altri, forte e in salute. Un soldato dell’Impero sollevò l’ascia e lo schiavo si preparò.

Ma il supervisore si limitò a tagliare le catene e il rumore del metallo che colpiva la pietra riverberò attraverso il cortile.

Lo schiavo fissò il supervisore, confuso.

“Sono libero?” gli chiese.

Ma diversi soldati accorsero e gli afferrarono le braccia trascinandolo alla base della grossa statua dorata che si trovava nel porto, un’altra statua di Volusia con un dito puntato verso il mare e le onde che si infrangevano ai suoi piedi.

La folla si racchiuse attorno a loro mentre i soldati tenevano l’uomo giù, con la testa spinta in basso, il volto schiacciato contro i piedi della statua.

“NO!” gridò lo schiavo.

Un soldato dell’Impero si fece avanti e brandì nuovamente l’ascia, questa volta decapitando l’uomo.

La folla esultò deliziata e tutti si misero in ginocchio inchinandosi a terra, adorando la statua mentre il sangue scorreva sui suoi piedi.

“Un sacrificio alla nostra grande dea!” gridò un soldato. “Ti dedichiamo il primo e più prelibato dei nostri frutti!”

La folla esultò di nuovo.

“Non so te,” giunse la voce nervosa di Merek all’orecchio di Godfrey, “ma io non ho intenzione di farmi sacrificare per qualche idolo. Non oggi.”

Si udì un altro schicco di frusta e Godfrey vide che l’ingresso alla piazza si faceva sempre più vicino. Gli batteva forte il cuore mentre considerava le parole di Merek, capendo che aveva ragione. Sapeva che doveva fare qualcosa, e velocemente anche.

Godfrey si voltò di scatto: con la coda dell’occhio vide cinque uomini con mantelli e cappucci rosso brillante, che percorrevano velocemente la strada diretto verso di loro. Notò che avevano pelle bianca, mani e volti pallidi, la corporatura più minuta rispetto agli enormi bruti della razza dell’Impero. Capì subito chi erano: Finiani. Una delle migliori doti di Godfrey era quella di ricordare i racconti a memoria, anche se ubriaco. Ricordava di aver ascoltato, nel corso delle passate lune, il popolo di Sandara raccontare storie di Volusia mentre sedevano attorno al fuoco. Aveva sentito la loro descrizione della città, la sua storia, di tutte le razze che erano tenute schiave e dell’unica razza libera, i Finiani. L’unica eccezione alla regola. Gli era stato concesso di vivere liberamente, generazione dopo generazione, perché troppo ricchi per essere uccisi, troppo legati, troppo abili nel rendersi indispensabili e di contrattare nel potere degli affari. Erano facilmente riconoscibili, gli era stato detto, per la pelle pallidissima, i mantelli rosso brillante e i capelli rosso fuoco.

A Godfrey venne un’idea. Ora o mai più.

“MUOVETEVI!” disse ai suoi amici.

Si voltò e scattò in azione, correndo via dal retro del gruppo sotto gli sguardi sorpresi degli schiavi incatenati. Fu sollevato di vedere che gli altri lo seguirono appresso.

Godfrey correva sbuffando, appesantito dalle grosse sacche di oro che aveva alla vita, come anche gli altri, facendole tintinnare mentre si muoveva. Davanti a sé scorse i cinque Finiani che svoltavano in uno stretto vicolo. Corse dritto verso di loro e pregò di poter svoltare nella stradina senza essere scorto dagli uomini dell’Impero.

Godfrey, con il cuore che gli martellava nelle orecchie, svoltò a un angolo e vide i Finiani di fronte a sé. Senza neanche pensarci balzò in aria e atterò sul gruppo alle loro spalle.

Riuscì a bloccarne due a terra, con le costole che gli dolevano per il colpo contro terra mentre rotolava con loro. Sollevò lo sguardo e vide Merek che seguiva il suo esempio e ne bloccava un altro. Akorth fece un salto e ne bloccò al suolo un altro e Fulton balzò addosso all’ultimo, il più piccoletto del gruppo. Ma Godfrey fu seccato di vedere che Fulton mancava il colpo, cadendo ansimante a terra.

Godfrey ne eliminò uno tenendo l’altro fermo a terra, ma si spaventò vedendo che il piccoletto correva, libero, e stava per svoltare all’angolo. Vide poi Ario con la coda dell’occhio che si faceva tranquillamente avanti, raccoglieva una pietra, la esaminava e la lanciava.

Con un tiro perfetto colpì il Finiano alla tempia mentre stava svoltando all’angolo, mandandolo al tappeto. Ario gli corse accanto e lo spogliò della tunica iniziando a indossarla, capendo le intenzioni di Godfrey.

Godfrey, che ancora lottava con l’altro Finiano, alla fine riuscì a dargli una gomitata in faccia e ad annientarlo. Alla fine anche Akorth afferrò il suo Finiano per la camicia e gli sbatté la testa contro il pavimento di pietra, eliminando anche lui. Merek strinse il collo del suo abbastanza a lungo da fargli perdere conoscenza. Poi Godfrey vide Merek rotolare sull’ultimo Finiano puntandogli il pugnale alla gola.

Godfrey stava per gridargli di smettere, ma una voce squarciò l’aria anticipandolo.

“No!” disse la voce seccamente.

Godfrey sollevò lo sguardo e vide Ario davanti a Merek, guardandolo torvo.

“Non ucciderlo!” gli ordinò.

Merek lo guardò accigliato.

“Gli uomini morti non parlano,” disse Merek. “Se lo lascio andare moriremo tutti.”

“Non mi interessa,” rispose Ario. “Non ti ha fatto nulla. Non devi ucciderlo.”

Merek, sprezzante, si alzò in piedi e si portò di fronte ad Ario, fissandolo in volto.

“Sei la metà di me, ragazzino,” gli sibilò contro. “E il ho il pugnale dalla parte del manico. Non tentarmi.”

“Sarò anche la metà di te,” rispose Ario con calma, “ma sono doppiamente veloce. Vienimi vicino e ti strapperò il pugnale dalle mani e ti taglierò la gola prima che tu te ne possa rendere conto.”

Godfrey era stupito da quello scambio di battute, tanto più vedendo quanto calmo fosse Ario. Era una situazione surreale. Non batté ciglio né mosse un muscolo: parlava come se stesse avendo al conversazione più calma al mondo. Questo rendeva le sue parole ancora più convincenti.

Probabilmente Merek la pensò allo stesso modo perché non si mosse. Godfrey capì che doveva separarli, e presto.

“Il nemico non è qui,” disse correndo avanti e abbassando il polso di Merek. “È là fuori. Se litighiamo fra di noi non abbiamo alcuna possibilità.”

Fortunatamente Merek gli premise di abbassargli il braccio e rinfoderò il pugnale.

“Svelti ora,” aggiunse Godfrey. “Tutti voi. Togliete loro i vestiti e infilateveli. Ora siamo Finiani.”

Tutti tolsero gli abiti ai Finiani e indossarono i loro mantelli e cappucci rosso brillante.

“È ridicolo,” disse Akorth.

Godfrey lo esaminò e vide che aveva la pancia troppo grossa ed era troppo alto. Il mantello gli stava corto e gli lasciava le caviglie scoperte.

Merek ridacchiò.

“Avresti dovuto bere un boccale di meno,” gli disse.

“Io questa cosa non me la metto,” disse Akorth.

“Non si tratta di una sfilata di moda,” ribatté Godfrey. “Vuoi che ti scoprano?”

Akorth cedette con riluttanza.

Godfrey rimase a guardare, tutti e cinque con indosso le tuniche rosse, in quella città ostile, circondati dal nemico. Sapeva che le loro possibilità erano ben magre.

“E adesso?” chiese Akorth.

Godfrey si voltò e guardò verso l’estremità del vicolo che portava alla città. Sapeva che era giunto il momento.

“Andiamo a vedere com’è fatta Volusia.”




CAPITOLO CINQUE


Thor si trovava a prua nella piccola imbarcazione, Reece, Selese, Elden, Indra, Mati e O’Connor seduti accanto a lui. Nessuno di loro remava: un misterioso vento e la corrente rendevano vano ogni sforzo. Li trasportava dove voleva e Thor si era reso conto che ogni tentativo di remare o muovere le vele non avrebbe sortito alcuna differenza. Thor si guardò alle spalle, guardando l’enorme scogliera nera che demarcava l’ingresso alla Terra dei Morti farsi sempre più lontana. Si sentiva sollevato. Era ora di guardare avanti, di trovare Guwayne, di dare inizio a un nuovo capitolo della sua vita.

Thor si guardò accanto e notò Selese seduta nella barca accanto a Reece, tenendogli la mano. Doveva ammettere che quell’immagine era sconcertante. Era felice di rivederla tra loro, di nuovo nella terra dei vivi, e felice di vedere il suo migliore amico così contento. Però doveva anche ammettere che gli trasmetteva una sensazione di inquietudine. Selese ora era lì, una volta morta e ora di nuovo in vita. Sembrava che avessero in qualche modo cambiato l’ordine naturale delle cose. Mentre la guardava, notò che aveva delle caratteristiche translucide, eteree: anche se era veramente lì, in carne e ossa, non poteva fare a meno di vederla come morta; non riusciva a fare a meno di chiedersi, nonostante tutto, se fosse veramente tornata tra loro e quanto tempo sarebbe passato prima che se ne tornasse nel regno dei morti.

Ma Reece, d’altro canto, non la vedeva a quel modo. Era totalmente innamorato di lei, felice per la prima volta dopo tempo immemore. Thor lo capiva: dopotutto chi non avrebbe voluto rettificare i torti, riparare gli errori passati e rivedere qualcuno che si era certi di non incontrare mai più? Reece le stringeva la mano guardandola negli occhi e lei gli carezzava il viso mentre lui la baciava.

Notò che gli altri apparivano persi, come se fossero stati nelle profondità dell’inferno, un luogo che non si sarebbero facilmente scrollati dalla mente. Le ragnatele pendevano pesanti su di loro e anche Thor le sentiva, come ricordi che gli lampeggiavano in testa. C’era un’aura di tenebra mentre tutti piangevano la perdita di Conven. Soprattutto Thor rivedeva continuamente tra i propri ricordi la scena, pensando e ripensando se avrebbe mai potuto rifare qualcosa per fermarlo. Guardò verso il mare, scrutando il grigio orizzonte, l’oceano sconfinato, chiedendosi come avesse potuto Conven prendere una decisione del genere. Capiva la sua profonda pena per il fratello, ma lui non avrebbe mai fatto una scelta del genere. Thor sentiva una sensazione di dolore per la perdita di Conven, la cui presenza era sempre stata sentita, che era sempre sembrato essere al suo fianco fin dai primi giorni della Legione. Thor ricordò quando gli aveva fatto visita in prigione, quando gli aveva parlato spingendolo verso una seconda possibilità nella sua vita. Ricordava tutti i suoi tentativi di tirargli su il morale, di risvegliarlo, di farlo tornare quello di un tempo.

Ora si rendeva conto che non importava quanto avesse fatto: niente avrebbe potuto riportare completamente indietro il Conven di un tempo. La miglior parte di Conven era sempre con suo fratello. Thor riportò alla memoria l’espressine di Conven quando era rimato indietro e gli altri se n’erano andati. Non era un’espressione pentita, ma di pura gioia. Thor sentiva che era felice. E sapeva che non poteva avere grandi rimpianti. Conven aveva preso la sua decisione e questo era ben più di quanto la maggior parte della gente otteneva nel mondo. Dopotutto Thor sapeva che si sarebbero incontrati di nuovo. Infatti forse ci sarebbe stato proprio Conven a dargli il benvenuto quando fosse morto. Thor sapeva bene che la morte sarebbe giunta per tutti loro. Forse non oggi o domani. Ma sicuramente un giorno.

Thor cercò di cacciare i pensieri tristi e guardò avanti sforzandosi di concentrarsi sull’oceano, scrutando le acque da ogni parte, cercando un qualsiasi segno di Guwayne. Sapeva che era piuttosto inutile cercarlo lì, in mare aperto, ma si sentiva in moto, pieno di un nuovo ottimismo. Ora almeno sapeva che Guwayne era vivo e questo era tutto ciò che gli bastava sapere. Non si sarebbe fermato davanti a nulla per ritrovarlo.

“Dove pensi che la corrente ci stia portando?” chiese O’Connor sporgendosi oltre il bordo della barca e accarezzando l’acqua con la punta delle dita.

Anche Thor si allungò a toccare l’acqua calda. Scorreva troppo veloce, come se l’oceano non potesse portarli da nessuna parte se non così rapidamente.

“Fintanto che è lontano da qui, non mi interessa,” disse Elden guardandosi alle spalle, ancora impaurito dalla scogliera.

Thor udì il verso di un uccello venire dall’alto e sollevò lo sguardo, felice di vedere la vecchia amica Estofele che volava in cerchio sopra le loro teste. Estofele scese verso di loro disegnando un ampio cerchio, poi si risollevò in aria. Thor sentiva che li stava guidando, incoraggiandoli a seguirla.

“Estofele, amica mia,” sussurrò Thor rivolto verso il cielo. “Facci da occhi. Portaci da Guwayne.”

Estofele gracchiò di nuovo, come a rispondere, e allargò le ali. Si voltò e volò verso l’orizzonte, nella stessa direzione verso cui la corrente li stava spingendo. Thor si sentì certo che si stavano avvicinando.

Voltandosi sentì un lieve tintinnio al suo fianco e abbassando lo sguardo vide la spada della morte appesa alla cintura: fu scioccato dal vederla lì. Questo faceva sembrare ancora più reale il suo viaggio nella terra dei morti. Thor la toccò, sentendo l’elsa d’avorio attraversata da teschi e ossa. Strinse il pugno su di essa percependone l’energia. La lama era decorata da piccoli diamanti neri e mentre la reggeva per osservarla, li vide luccicare alla luce.

Mentre la teneva la sentiva giusta nella sua mano. Non si era sentito in quel modo con un arma dai tempi della Spada della Dinastia. Quest’arma significava per lui ben più di quanto potesse dire: dopotutto era riuscito a fuggire da quel mondo e così aveva fatto quella spada. Erano entrambi sopravvissuti a una guerra orribile. L’avevano attraversata insieme. Entrare nella Terra dei Morti e uscirne era stato come camminare attraverso un’immensa ragnatela per poi scrollarsela di dosso. Non c’era più, Thor lo sapeva, eppure se la sentiva ancora appiccicosa addosso. Almeno ora aveva quella spada per eliminarla.

Thor rifletteva sulla sua uscita, sul prezzo che aveva pagato, sui demoni che aveva liberato nel mondo. Provò una fitta allo stomaco, sentendo di aver scatenato una forza oscura nel mondo, una forza non facile da contenere. Sentiva che aveva lanciato qualcosa che come un boomerang un giorno in qualche modo gli sarebbe tornato contro. Forse anche prima di quanto si aspettasse.

Strinse la spada, pronto. Qualsiasi cosa fosse l’avrebbe affrontata temerariamente in battaglia, l’avrebbe uccisa non appena si fosse messa sulla sua strada.

Ma ciò che realmente temeva erano le cose che non poteva vedere, il caos invisibile che i demoni avrebbero potuto scatenare. Ciò che temeva di più erano gli spiriti che non conosceva, gli spiriti che combattevano di nascosto.

Thor udì dei passi e sentì la barca che dondolava. Si voltò e vide Mati che gli si avvicinava. Mati rimase lì triste, guardando l’orizzonte di fronte a loro. Era una giornata oscura e cupa e mentre guardavano ciò che avevano attorno era difficile dire se fosse mattina o pomeriggio. Il cielo era uniforme, come se tutta quella parte del mondo fosse in lutto.

Thor pensò a come Mati fosse rapidamente diventato un caro amico. Soprattutto ora che Reece era insieme a Selese. Thor sentiva la parziale perdita di un amico e l’acquisto di un altro. Ricordò come Mati l’avesse salvato più di una volta là sotto e si sentiva già completamente leale a lui, come se fosse sempre stato uno dei suo fratelli.

“Questa barca,” disse Mati sottovoce, “non è adatta al mare aperto. Una buona tempesta e saremo tutti morti. È solo una scialuppa di una nave di Gwendolyn, non è fatta per attraversare l’oceano. Dobbiamo trovare una barca più grande.”

“E terra,” si intromise O’Connor avvicinandosi dall’altra parte. “E provviste.”

“E una mappa,” aggiunse Elden.

“E comunque dove siamo diretti?” chiese Indra. “Dove stiamo andando? Hai idea di dove possa essere tuo figlio?”

Thor esaminò l’orizzonte, come aveva già fatto migliaia di volte, e rifletté su quella domanda. Sapeva che avevano tutti ragione e lui stesso stava pensando la stessa cosa. Di fronte a loro c’era un vasto mare e loro avevano una barchetta, senza provviste. Erano vivi ed era riconoscente per questo, ma la loro situazione era precaria.

Thor scosse la testa lentamente. Mentre stava lì, immerso nei suoi pensieri, iniziò a vedere qualcosa all’orizzonte. Mentre si avvicinavano iniziò a vedersi in modo più distinto e si sentì certo che non si trattasse di uno scherzo giocato dai suoi occhi. Il cuore iniziò a battergli più forte per la trepidazione.

Il sole fece irruzione tra le nuvole e un raggio di luce scese sull’orizzonte illuminando una piccola isola. Era una piccola massa di terra nel mezzo del vasto oceano, con nient’altro attorno.

Thor sbatté le palpebre chiedendosi se fosse reale.

“Che cos’è?” chiese Mati ponendo la domanda che era nella mente di tutti, mentre stavano in piedi a guardare.

Quando furono più vicini Thor vide la nebbia che circondava l’isola, brillando alla luce, e percepì un’energia magica provenire da quel luogo. Sollevò lo sguardo e vide che si trattava di un posto brullo, con scogliere che si innalzavano in aria per decine di metri. Era un’isola ripida e spietata, con le onde che si infrangevano contro gli scogli che la circondavano, emergendo dall’oceano come bestie antiche. Thor sentiva in ogni parte del suo essere che era lì che dovevano andare.

“È una bella arrampicata,” disse O’Connor. “Se mai ce la faremo.”

“E non sappiamo cosa ci sia là sopra,” aggiunse Elden. “Potrebbe essere ostile. Siamo senza armi, eccetto che per la tua spada. Non possiamo permetterci una battaglia lì.”

Ma Thor stava studiando il posto e pensava, percependo che lì c’era qualcosa di forte. Sollevò lo sguardo in alto e guardò Estofele che volava in cerchio, sentendosi sempre più certo che quello era il posto giusto.

“Nessuna pietra deve essere lasciata al suo posto nella nostra ricerca di Guwayne,” disse. “Nessun posto è troppo remoto. L’isola sarà la nostra prima tappa.” Strinse la presa attorno all’elsa della spada. “Ostile o no.”




CAPITOLO SEI


Alistair si ritrovò nel mezzo di uno strano paesaggio che non conosceva. Era una sorta di deserto e mentre guardava in basso il suolo desertico si trasformò da nero a rosso, seccandosi e screpolandosi sotto i suoi piedi. Sollevò lo sguardo e i lontananza scorse Gwendolyn di fronte a un esercito messo insieme alla buona, solo poche decine di soldati, membri dell’Argento che Alistair ricordava, tutti con le facce insanguinate e le armature mezze rotte. Gwendolyn aveva tra le braccia un neonato e Alistair sentì che si tratta di suo nipote Guwayne.

“Gwendolyn!” gridò Alistair, sollevata di vederla. “Sorella mia!”

Ma mentre la guardava, improvvisamente sentì un suono orribile, il rumore di milioni di ali che sbattevano, sempre più forte, seguito da fortissimi squittii. L’orizzonte si fece nero ed emersero dal cielo un sacco di corvi che si dirigevano verso di lei.

Alistair guardò con orrore mentre i corvi arrivavano in un grosso stormo, un muro nero che calava su Gwendolyn e le strappava Guwayne dalle braccia. Gracchiando si levarono poi di nuovo in cielo.

“NO!” gridò Gwendolyn allungando le braccia verso il cielo mentre gli uccelli le tiravano i capelli.

Alistair guardò senza poter fare nulla, nient’altro che guardarli portare via il bimbo urlante. Il suolo del deserto di spaccò e seccò ancora di più e iniziò a dividersi fino a che uno alla volta tutti gli uomini di Gwen vi caddero dentro.

Rimase solo Gwendolyn, immobile a guardarla con gli occhi che mostravano un’espressione che Alistair non avrebbe voluto mai vedere.

Alistair sbatté le palpebre e si trovò in piedi in una grande nave nel mezzo dell’oceano, con le onde che si infrangevano attorno a lei. Si guardò in giro e vide che era sola nella nave. Davanti a lei c’era un’altra nave. A prua si trovava Erec che la guardava, insieme a centinaia di soldati delle Isole del Sud. Era avvilita di vederlo su un’altra barca mentre si allontanava da lei.

“Erec!” gridò.

Lui la guardò allungando le braccia verso di lei.

“Alistair!” le rispose lui. “Torna da me!”

Alistair guardò con orrore come le navi si allontanavano sempre più, l’imbarcazione di Erec trascinata dalla corrente: iniziò a ruotare nell’acqua prima lentamente poi sempre più veloce. Erec si allungava verso di lei, ma Alistair non poteva fare altro che guardare inerme mentre la nave di Erec veniva risucchiata in un vortice e sprofondava sempre più giù fino a scomparire alla vista.

“EREC!” gridò Alistair.

Si udì un altro gemito, simile al suo, ed Alistair abbassò lo sguardo vedendo che stava tenendo in braccio un bimbo, il figlio di Erec. Era un maschio e il suo vagito si levò fino al cielo coprendo il rumore del vento e della pioggia e le grida degli uomini.

Alistair si svegliò strillando. Si mise a sedere e si guardò attorno, chiedendosi dove si trovava e cosa fosse successo. Respirando affannosamente e riprendendosi lentamente le ci vollero diversi minuti per rendersi conto che si era trattato solo di un sogno.

Si alzò in piedi e guardò in basso verso i bordi screpolati del ponte, capendo che si trovava ancora sulla nave. Tutto le tornò alla mente: la loro partenza dalle Isole del Sud, la loro impresa per liberare Gwendolyn.

“Mia signora?” chiese una voce gentile.

Alistair si voltò e vide Erec in piedi accanto a lei che la guardava preoccupato. Fu sollevata di vederlo.

“Un altro incubo?” le chiese.

Lei annuì distogliendo lo sguardo imbarazzata.

“I sogni sono più vividi in mare,” disse un’altra voce.

Alistair si voltò e vide il fratello di Erec, Strom, vicino a loro. Si guardò meglio in giro e vide centinaia di abitanti delle Isole del Sud, tutti imbarcati su quella nave, e le tornò tutto alla mente. Ricordò la loro partenza, il loro abbandono di una sofferente Dauphine a cui avevano affidato, insieme alla madre, la cura dell’isola. Da quando avevano ricevuto quel messaggio tutti avevano sentito che non c’era altra scelta che salpare per raggiungere l’Impero, per cercare Gwendolyn e tutti gli altri dell’Anello, moralmente obbligati a salvarli. Sapevano che sarebbe stata una missione impossibile, ma non interessava a nessuno. Era un loro dovere.

Alistair si strofinò gli occhi e cercò di cacciare l’incubo dalla mente. Non sapeva quanti giorni fossero già passati in quel mare infinito e ora guardava verso l’orizzonte non vedendo molto. Era tutto oscurato dalla nebbia.

“La nebbia ci segue dalle Isole del Sud,” disse Erec osservando il suo sguardo.

“Speriamo non sia un presagio,” aggiunse Strom.

Alistair si accarezzò delicatamente la pancia, rassicurata di stare bene e che anche il bambino stesse bene. Il suo sogno le era sembrato troppo reale. Fece il gesto velocemente e discretamente non volendo che Erec sapesse. Non gliel’aveva ancora detto. Una parte di lei voleva, ma un’altra parte preferiva aspettare il momento perfetto, quando tutto fosse a posto.

Prese la mano di Erec, sollevata di vederlo vivo.

“Sono felice che tu stia bene,” gli disse.

Lui le sorrise, la strinse a sé e la baciò.

“E perché non dovrei esserlo?” le chiese. “I tuoi sogni sono solo illusioni della notte. Per ogni incubo c’è anche un uomo che è salvo. Sono al sicuro qui con te e con il mio leale fratello e tutti gli uomini più di quanto potrei mai sperare di essere.”

“Almeno fino a quando raggiungeremo l’Impero,” aggiunse Strom con un sorriso. “Poi saremo tanto al sicuro come saremmo con una piccola flotta contro diecimila navi.”

Strom sorrideva mentre parlava, apparentemente in gioiosa attesa della lotta che ci sarebbe stata.

Erec scrollò le spalle, serio.

“Con gli dei dalla nostra parte,” disse, “non possiamo perdere. Qualsiasi siano le probabilità.”

Alistair si ritrasse e si accigliò, cercando di trovare un senso in tutto ciò.

“Ho visto che tu e la tua nave venivate risucchiati nel profondo dell’oceano. Ti ci ho visto a bordo,” gli disse. Avrebbe voluto aggiungere la parte che riguardava il bambino, ma si trattenne.

“I sogni non sono sempre ciò che appaiono,” rispose lui. Ma nel profondo dei suoi occhi lei vide un lampo di preoccupazione. Sapeva che lei vedeva le cose e rispettava le sue visioni.

Alistair fece un respiro profondo, guardò verso l’acqua e seppe che aveva ragione. Erano tutti lì, vivi dopotutto. Eppure era sembrato così vero.

Mentre stava lì Alistair provò ancora la tentazione di portarsi la mano al ventre, di sentire la pancia e rassicurare se stessa e il bambino che stava crescendo dentro di lei. Ma con Erec e Strom lì vicino non voleva essere smascherata.

Il suono basso e sommesso di un corno si sentiva nell’aria, a intermittenza a distanza di pochi minuti, avvisando le altre navi della flotta della presenza della nebbia.

“Il corno potrebbe farci scoprire,” disse Strom ad Erec.

“Da chi?” chiese Erec.

“Non sappiamo cosa ci sia in agguato dietro la nebbia,” disse Strom.

Erec scosse la testa.

“Sarà,” rispose. “Ma il nostro più grande nemico non è il nemico, ma noi stessi. Se andiamo a sbattere l’uno contro l’altro possiamo far affondare l’intera flotta. Dobbiamo continuare a far risuonare il corno fino a che la nebbia non si solleverà. Tutta la flotta più comunicare in questo modo e, cosa più importante, le navi non rischiano di allontanarsi troppo dal gruppo.”

Nella nebbia i corni da ogni nave della flotta riecheggiavano, confermando la posizione delle navi.

Alistair guardò nella nebbia e pensò. Sapeva che dovevano percorrere molta strada, che erano ancora dall’altra parte del mondo rispetto all’Impero, e si chiese come avrebbero mai potuto raggiungere Gwendolyn e suo fratello in tempo. Si chiedeva quanto tempo ci avessero messo i falchi per portare il messaggio e si chiedeva pure se fossero ancora vivi, si chiedeva cosa ne fosse stato del suo amato Anello. Che modo orribile di morire per tutti loro, pensò, su un lido straniero, lontani dalla loro madrepatria.

“L’Impero è dall’altra parte del mondo, mio signore,” disse Alistair ad Erec. “Sarà un lungo viaggio. Perché rimani qui sul ponte? Perché non andare sottocoperta, al sicuro, e dormire? Non dormi da giorni,” gli disse, osservando i cerchi scuri che aveva sotto gli occhi.

Erec scosse la testa.

“Un comandante non dorme mai,” le disse. “Inoltre siamo quasi a destinazione.”

“A destinazione?” chiese confusa.

Erec annuì e guardò nella nebbia.

Lei seguì il suo sguardo ma non vide nulla.

“L’Isola del Masso,” le rispose. “La nostra prima tappa.”

“Ma perché?” gli chiese. “Perché fermarsi prima di raggiungere l’Impero?”

“Abbiamo bisogno di una flotta più grande,” si intromise Strom rispondendo per lui. “Non possiamo affrontare l’Impero con poche decine di navi.”

“E troveremo questa flotta nell’Isola del Masso?” chiese Alistair.

Erec annuì.

“Può darsi,” rispose. “Gli uomini di quell’isola hanno navi e uomini. Più di quanti ne abbiamo noi. Odiano l’Impero. E hanno servito mio padre in passato.”

“Ma perché dovrebbero aiutarci ora?” chiese Alistair confusa. “Chi sono questi uomini?”

“Mercenari,” si intromise Strom. “Uomini rozzi, forgiati da un’isola rozza e da mari rozzi. Combattono per chi offre di più.”

“Pirati,” disse Alistair con tono di disapprovazione, capendo.

“Non proprio,” rispose Strom. “I pirati si danno da fare per un bottino. Gli uomini del masso vivono per uccidere.”

Alistair guardò attentamente Erec in viso e vide dalla sua espressione che era tutto vero.

“È nobile combattere per una giusta causa insieme ai pirati?” chiese. “Mercenari?”

“È nobile vincere una guerra,” rispose Erec, “e combattere per un giusta causa come la nostra. I mezzi per pagare una guerra del genere non sono sempre nobili come dovrebbero.”

“Non è nobile morire,” aggiunse Strom. “E il giudizio sulla nobiltà viene deciso dai vincitori, non dai perdenti.”

Alistair si accigliò ed Erec si voltò verso di lei.

“Non tutti sono nobili come te, mia signora,” le disse. “O come me. Che non è così che il mondo funziona. Che non e il modo in cui si vincono le guerre.”

“Puoi fidarti di uomini del genere?” chiese alla fine Alistair.

Erec sospirò e si girò nuovamente verso l’orizzonte, con le mani sui fianchi, guardandolo come se si stesse chiedendo la stessa cosa.

“Nostro padre si fidava di loro,” disse alla fine “E suo padre prima di lui. Non sono mai stati traditi.”

“E questo significa che non tradiranno neanche voi adesso?” chiese Alistair.

Erec scrutò l’orizzonte e improvvisamente la nebbia si sollevò e il sole fece irruzione. Il panorama cambiò drasticamente, improvvisamente si riusciva a vedere e in lontananza apparve la terra e il cuore di Alistair le balzò in gola. Lì all’orizzonte sorgeva un’isola fatta di solide scogliere che si levavano dritte verso il cielo. Non sembrava esserci un posto dove attraccare, nessuna spiaggia, nessun ingresso. Ma quando Alistair guardò più in alto vide un arco, una sorta di porta ricavata nella montagna stessa, con l’oceano che vi sbatteva contro. Era un ingresso alto e imponente, chiuso da un cancello di ferro: un muro di solida roccia con una porta intagliata al centro. Una cosa mai vista.

Erec guardò l’orizzonte attentamente: la luce del sole colpiva l’ingresso come ad illuminare l’entrata di un altro mondo.

“La fiducia, mia signora,” rispose alla fine, “nasce dalla necessità, non dalla volontà. Ed è un concetto molto precario.”




CAPITOLO SETTE


Dario si trovava nel campo di battaglia con la sua spada di metallo in mano e si guardava attorno, osservando il paesaggio. C’era qualcosa si surreale. Anche vedendolo con i propri occhi non poteva credere a ciò che era appena successo. Avevano sconfitto l’Impero. Lui da solo con poche centinaia di abitanti del villaggio, senza vere armi e con l’aiuto delle poche centinaia di uomini di Gwendolyn: avevano insieme sconfitto quell’esercito professionista di centinaia di soldati dell’Impero. Indossavano le migliori armature, maneggiavano le migliori armi, avevano zerte a disposizione. E lui, Dario, armato appena, aveva condotto la battaglia che li aveva sconfitti tutti, la prima vittoria della storia contro l’Impero.

Lì in quel luogo, dove si era aspettato di morire difendendo l’onore di Loti, ora era invece vittorioso.

Un conquistatore.

Mentre scrutava il campo, Dario vide mescolati ai cadaveri dell’Impero corpi delle reclute dei suoi stessi compaesani, decine di morti. La sua gioia venne temperata dal dolore. Flesse i muscoli e si sentì addosso le ferite fresche, i colpi di spada sulle braccia e sulle gambe. Sentiva ancora anche i colpi di frusta sulla schiena. Pensò alla rappresaglia che c’era stata e capì che la vittoria era avvenuta a un prezzo.

Però, pensò, la libertà lo richiedeva sempre.

Dario percepì del movimento e si voltò vedendo i suoi amici che si avvicinavano – Raj e Desmond – feriti ma, come fu felice di constatare, vivi. Vide nei loro occhi che lo guardavano in modo diverso: tutto il suo popolo lo guardava ora in modo diverso. Lo guardavano con rispetto; più che rispetto, con ammirazione. Come una leggenda vivente. Avevano visto tutti cosa aveva fatto, da solo contro l’Impero. Sconfiggendoli tutti.

Non lo guardavano più come fosse un ragazzino. Ora lo guardavano come un capo. Un guerriero. Erano sguardi che mai si sarebbe aspettato di vedere sui volti di quei ragazzi più grandi, negli occhi dei paesani. Era sempre stato quello non considerato, quello da cui nessuno si aspettava nulla.

Ad avvicinarsi a lui insieme a Raj e Desmond c’erano decine di fratelli d’armi, ragazzi con cui si era allenato e aveva tirato di spada ogni giorno. Erano forse una cinquantina: si alzarono in piedi, si diedero una strofinata alle ferite e si raccolsero attorno a lui. Lo guardavano tutti con ammirazione – e con speranza – mentre teneva la sua spada d’acciaio in mano, ricoperto di ferite.

Raj si fece avanti ad abbracciarlo e uno alla volta anche gli altri ragazzi fecero lo stesso.

“È stata una cosa spericolata,” disse Raj sorridendo. “Non pensavo che potessi fare un cosa del genere.”

“Ero certo che ti saresti arreso,” disse Desmond.

“Non riesco a credere che siamo tutti qui,” disse Luzi.

Si guardavano in giro meravigliati, scrutando il paesaggio come se fossero stati tutti appena calati su un pianeta sconosciuto. Dario guardò tutti i corpi morti, tutte le belle armature e armi che scintillavano al sole. Udì gli uccelli che gracchiavano e sollevando lo sguardo vide gli avvoltoi che già volavano in cerchio.

“Raccogliete le loro armi,” Dario sentì ordinare alla sua voce. Era una voce profonda, più profonda di un tempo, e aveva una certa autorità che lui stesso non aveva mai riconosciuto in sé. E seppellite i vostri morti.”

I suoi uomini lo ascoltarono e si sparpagliarono andando di soldato in soldato e frugando fra di loro scegliendo le armi migliori: alcuni presero delle spade, altri delle mazze, mazzafrusti, pugnali, asce e martelli da guerra. Dario sollevò la spada che aveva in mano, quella che aveva preso al comandante, e la osservò al sole. Ne ammirò il peso, l’elaborata impugnatura e la lama. Vero acciaio. Qualcosa che pensava di non avere mai l’occasione di tenere in mano in vita sua. Dario intendeva farne buon uso, utilizzandola per uccidere quanti uomini dell’Impero fosse possibile.

“Dario!” gridò una voce che conosceva bene.

Si voltò e vide Loti correre tra la folla con le lacrime agli occhi, che andava verso di lui tra tutti gli uomini. Gli corse incontro e lo abbracciò tenendolo stretto, le calde lacrime che scivolavano sul suo collo.

Lui la tenne a sé.

“Non dimenticherò mai,” disse Loti tra le lacrime, chinandosi verso di lui e sussurrandogli nell’orecchio. “Non dimenticherò mai ciò che hai fatto oggi.”

Lo baciò e lui ricambiò il bacio mentre lei continuava a piangere e ridere allo stesso tempo. Era così felice di vederla viva, di stringerla, di sapere che quell’incubo, almeno per ora, se l’erano lasciato alle spalle. Di sapere che l’Impero non poteva toccarla. Mentre la teneva tra le braccia capì che l’avrebbe rifatto un milione di volte per lei.

“Fratello,” disse una voce.

Dario si voltò e fu emozionato di vedere sua sorella Sandara farsi avanti insieme a Gwendolyn e all’uomo che Sandara amava, Kendrick. Dario notò il sangue che scorreva lungo il braccio di Kendrick, i graffi freschi sulla sua armatura e sulla sua spada, e provò un’ondata di gratitudine. Sapeva che se non fosse stato per Gwendolyn. Kendrick e il loro popolo, lui e la sua gente sarebbero morti sicuramente sul campo.

Loti si fece da parte mentre Sandara si avvicinava e abbracciava Dario.

“Sono in debito con voi tutti,” disse Dario guardandoli. “Io e tutto il mio popolo. Siete tornati indietro ad aiutarci quando non eravate tenuti a farlo. Siete dei veri guerrieri.”

Kendrick si fece avanti e gli mise una mano sulla spalla.

“Sei tu il vero guerriero, amico mio. Hai dimostrato grande valore oggi sul campo di battaglia. Dio ha ricompensato il tuo valore con questa vittoria.”

Gwendolyn si avvicinò e Dario chinò la testa.

“La giustizia ha trionfato sulla malvagità e sulla brutalità,” disse. “Traggo un piacere personale, per molti motivi, dal guardare la tua vittoria e il tuo permesso di poterne fare parte. So che mio marito, Thorgrin, farebbe lo stesso.”

“Grazie, mia signora,” le disse commosso. “Ho sentito raccontare grandi cose di Thorgrin e spero di incontrarlo un giorno.”

Gwendolyn annuì.

“Quali sono i tuoi piani per il tuo popolo oggi?” gli chiese.

Dario ci pensò, rendendosi conto di non averne idea: non ci aveva pensato. Non credeva neppure di poter sopravvivere.

Prima che potesse rispondere si udì un improvviso trambusto e dalla folla emerse un volto che conosceva bene: era Zirk, uno degli allenatori di Dario, insanguinato per la battaglia, senza camicia e con i grossi muscoli in mostra. Era seguito da mezza dozzina di anziani del villaggio e da un grosso numero di paesani che non sembravano per niente soddisfatti.

Zirk guardò Dario con sguardo torvo e con aria di sufficienza.

“Sei fiero di te?” gli chiese con tono denigratorio. “Guarda cos’hai fatto. Guarda quanti di noi sono morti qui oggi. Hanno subito tutti delle morti insensate. Erano tutti bravi uomini e sono morti a causa tua. Tutto per il tuo orgoglio, per la tua arroganza, per il tuo amore per questa ragazza.”

Dario arrossì e si sentì avvampare di rabbia: Zirk ce l’aveva sempre avuta con lui, fin dal primo giorno che l’aveva incontrato. Per qualche motivo aveva sempre dato l’idea di sentirsi minacciato da Dario.

“Non sono morti a causa mia,” rispose Dario. “Hanno avuto una possibilità di vita grazie a me. Di vivere sul serio. Sono morti per mano dell’Impero, non per mano mia.”

Zirk scosse la testa.

“Sbagliato,” ribatté. “Se ti fossi arreso, come ti avevamo detto di fare, a tutti noi mancherebbe un pollice adesso. Invece ad alcuni di noi manca la vita. Il loro sangue macchia le tue mani.”

“Tu non capisci niente!” gridò Loti in sua difesa. “Eravate semplicemente tutti troppo spaventati da ciò che Dario faceva per voi!”

“Pensi che sia finita qui?” continuò Zirk. “L’Impero ha milioni di uomini dietro a questo. Ne hai uccisi un pochi. Quando verranno a saperlo torneranno con un esercito cinque volte più grande. E la prossima volta ciascuno di noi verrà macellato, e prima torturato. Hai siglato una sentenza di morte per tutti noi.”

“Sbagli!” disse Raj. “Ti ha dato una possibilità di vivere. Una possibilità d’onore. Una vittoria che non meritavi.”

Zirk si voltò verso Raj lanciandogli un’occhiataccia.

“Queste sono state le azioni di un ragazzino folle e avventato,” rispose. “Un gruppo di ragazzi che avrebbe dovuto ascoltare i propri anziani. Non avrei mai dovuto allenare nessuno di voi!”

“Sbagliato!” esclamò Loc portandosi accanto a Loti. “Queste sono state le azioni valorose di un uomo. Un uomo che conduce i ragazzi a diventare uomini. L’uomo che tu fingi di essere ma non sei. Non è l’età a fare l’uomo, ma il valore.”

Zirk arrossì e lo guardò torvo, stringendo la presa attorno all’elsa della sua spada.

“Così parla lo storpio,” rispose Zirk avvicinandoglisi minacciosamente.

Bokbu emerse dalla folla e portò una mano avanti fermandolo.

“Non vedi cosa ci sta facendo l’Impero?” disse. “Creano divisione tra noi. Ma noi siamo un popolo. Siamo uniti nella nostra causa. Sono loro il nemico, non noi stessi. Ora più che mai vediamo che dobbiamo stare uniti.”

Zirk mise le mani sui fianchi e guardò Dario con serietà.

“Sei solo un ragazzino stupido che dice scemenze,” disse. “Non potrai mai sconfiggere l’Impero. Mai. E noi non siamo uniti. Io disapprovo tutte le tue azioni di oggi, le disapproviamo tutti,” disse, indicando metà degli anziani e un largo gruppo di abitanti. “Unirsi a te significa unirsi alla morte. E noi intendiamo sopravvivere.”

“E come pensi di farlo?” chiese Desmond con rabbia, portandosi accanto a Dario.

Zirk arrossì e rimase in silenzio: a Dario apparve chiaro che non aveva un piano, proprio come gli altri. Stava parlando per la paura, per la frustrazione e l’impotenza.

Bokbu alla fine si fece avanti, si portò tra loro e spezzò la tensione. Tutti gli occhi si voltarono verso di lui.

“Siete entrambi nel giusto e nel torto,” disse. “Ciò che conta ora è il futuro. Dario, qual è il tuo piano?”

Dario sentì tutti gli occhi voltarsi verso di lui in un teso silenzio. Rifletté e lentamente un piano iniziò a delinearsi nella sua mente. Sapeva che c’era un’unica strada da prendere. Troppo era accaduto.

“Porteremo questa guerra alla soglia d’accesso dell’Impero,” disse rinvigorito. “Prima che possano riorganizzarsi gliela faremo pagare. Raccoglieremo gli altri villaggi di schiavi, formeremo un esercito ed insegneremo loro cosa significhi soffrire. Può darsi che moriremo, ma moriremo tutti da uomini liberi, combattendo per la nostra causa.”

Si levò un forte grido di esultanza da dietro Dario, dalla maggior parte degli abitanti, e vide che molti di loro si raggruppavano alle sue spalle. Un piccolo gruppo si raccolse invece attorno a Zirk, guardandolo con incertezza.

Zirk, chiaramente infuriato e in minoranza, arrossì e lasciò la presa sulla spada. Si voltò e se ne andò di corsa, scomparendo nella folla. Un piccolo gruppo di persone se ne andò insieme a lui.

Bokbu si fece avanti guardando Dario con solennità, la faccia segnata dalla preoccupazione, dall’età, da rughe che avevano visto troppo. Guardò Dario con occhi colmi di saggezza. E di paura.

“Il nostro popolo si rivolge a te perché li guidi,” disse sottovoce. “È una cosa molto sacra. Non perdere la loro fiducia. Stai per guidare un esercito. Il compito è ricaduto su di te. Hai dato inizio a questa guerra: ora devi portarla a termine.”


*

Gwendolyn si fece avanti mentre gli abitanti iniziavano a dileguarsi, affiancata da Kendrick e Sandara, Steffen, Brandt, Atme, Aberthol, Stara e decine di altri uomini. Guardò Dario con rispetto e vide la gratitudine nei suoi occhi per aver deciso di andare in suo aiuto sul campo di battaglia. Dopo la loro vittoria si sentiva vendicata. Sapeva di aver preso la decisione giusta, per quanto fosse stata dura. Aveva perso decine dei suoi uomini e piangeva la loro perdita. Eppure sapeva anche che se non fosse tornata indietro Dario e tutti gli altri che ora erano lì sarebbero sicuramente morti.

Vedendo Dario lì in piedi, così coraggioso nell’affrontare l’Impero, le era venuto in mente Thorgrin e si sentiva spezzare il cuore al pensiero. Si sentiva determinata a ricompensare il coraggio di Dario a qualsiasi costo.

“Siamo qui pronti a sostenere la vostra causa,” disse Gwendolyn. Ordinò l’attenzione di Dario, Bokbu e di tutti gli altri, dato che ciascuno si voltò verso di lei. “Ci avete accolti quando ne abbiamo avuto bisogno, e ora noi siamo pronti a sostenervi nella vostra necessità. Vi prestiamo le nostre armi e la nostra causa è la vostra. Dopotutto è una causa unica. Noi desideriamo tornare liberi nella nostra patria, e voi desiderate liberare la vostra. Abbiamo in comune il medesimo oppressore.”

Dario la guardò, chiaramente toccato, e Bokbu si fece avanti nel mezzo del gruppo portandosi di fronte a lei nel denso silenzio, sotto gli sguardi di tutti.

“Qui oggi vediamo la grande decisione presa accettandovi,” disse con fierezza. “Ci avete ricompensati ben oltre i nostri sogni, siamo stati grandiosamente ricompensati. La vostra reputazione – tua e dell’Anello – in quanto onorevoli e veri guerrieri, è vera. E saremo in debito con voi per sempre.”

Fece un profondo respiro.

“Abbiamo bisogno del vostro aiuto,” continuò. “Ma non ci servono più uomini sul campo di battaglia. I tuoi uomini non saranno sufficienti, non con la guerra che sta per scatenarsi. Se desideri veramente aiutare la nostra causa, ciò che realmente ci serve e che trovi dei rinforzi per noi. Se abbiamo anche una minima possibilità, avremo bisogno di decine di migliaia di uomini che vengano in nostro aiuto.”

Gwen lo guardò con gli occhi sgranati.

“E dove le troviamo queste decine di migliaia di cavalieri?”

Bokbu si guardò alle spalle cupamente.

“Se esiste da qualche parte una città di uomini liberi nell’Impero, una città che possa venire in nostro aiuto – e questo è un gande se – allora questa città si trova nel Secondo Anello.”

Gwen lo guardò confusa.

“Cosa ci stai chiedendo?” gli domandò.

Bokbu la guardò solennemente.

“Se desideri veramente aiutarci,” le disse, “ti chiedo di imbarcarti in una missione impossibile. Ti chiedo di fare qualcosa di addirittura più duro e pericoloso dell’unirti a noi in battaglia. Ti chiedo di mettere in atto il tuo primo piano, di intraprendere l’impresa per la quale stavi per partire oggi. Ti chiedo di attraversare la Grande Desolazione, di cercare il Secondo Anello, e se ce la farai e sopravviverai, se davvero il Secondo Anello esiste, ti chiedo di convincere i loro eserciti ad unirsi a noi nella nostra causa. È l’unica possibilità che abbiamo di vincere questa causa.”

La guardò mestamente, il silenzio così denso che Gwen poteva udire il vento che soffiava nel deserto.

“Nessuno ha mai attraversato la Grande Desolazione,” continuò. “Nessuno ha mai confermato che il Secondo Anello esiste. È un compito impossibile. Una marcia verso il suicidio. Odio chiederti una cosa del genere. Ma è quello di cui abbiamo più bisogno.”

Gwendolyn osservò attentamente Bokbu notando la serietà sul suo volto, e considerò le sue parole a lungo e a fondo.

“Faremo tutto ciò di cui c’è bisogno,” gli disse. “Ciò che meglio serva la vostra causa. Se gli alleati si trovano dall’altra parte della Grande Desolazione, che così sia. Vi andremo subito. E torneremo con eserciti da mettere a vostra disposizione.”

Bokbu, con le lacrime agli occhi, fece un passo avanti e abbracciò Gwendolyn.

“Sei una vera regina,” disse. “Il tuo popolo è fortunato ad averti.”

Gwen si voltò verso la sua gente e vide che tutti la guardavano solennemente, impavidi. Sapeva che l’avrebbero seguita ovunque.

“Preparatevi a mettervi in marcia,” disse. “Attraverseremo la Grande Desolazione. Troveremo il Secondo Anello. Oppure moriremo nel tentativo.”


*

Sandara stava lì sentendosi spezzare in due mentre guardava Kendrick e il suo popolo che si preparavano per il loro viaggio nella Grande Desolazione. Dall’altra parte c’erano Dario e i suoi uomini, la gente con cui era cresciuta, l’unica gente che avesse mai conosciuto, che si preparavano ad andarsene, a raccogliere i loro averi per combattere contro l’Impero. Si sentiva lacerata nel profondo e non sapeva da che parte mettersi. Non poteva sopportare di vedere Kendrick scomparire per sempre, ma allo stesso tempo non poteva neppure sopportare di abbandonare il suo popolo.

Kendrick, terminando di preparare le sue armi e rinfoderando la spada, sollevò lo sguardo e incontrò i suoi occhi. Sembrò capire quello che stava pensando, come sempre. Vide anche la durezza nel suo sguardo, una certa diffidenza nei suoi confronti. Non lo biasimava: per tutto quel tempo nell’Impero lei aveva tenuto le distanze da lui, aveva vissuto nel villaggio mentre lui stava nelle grotte. Si era concentrata nell’onorare i suoi anziani e la loro idea di non permettere i matrimoni misti.

Ma si rendeva conto che così facendo non aveva onorato l’amore. Cos’era più importante? Onorare le leggi di una famiglia od onorare il cuore di una persona? Ci aveva meditato sopra con sofferenza ogni giorno.

Kendrick si fece strada verso di lei.

“Immagino che rimarrai qui con la tua gente,” le disse con voce circospetta.

Lei lo guardò, in conflitto e in pena non sapendo cosa dire. Lei stessa non conosceva la risposta. Si sentiva immobilizzata sul posto, nel tempo, sentiva i suoi piedi attaccati al suolo.

Improvvisamente Dario le si avvicinò.

“Sorella mia,” le disse.

Lei si voltò e gli fece cenno con la testa, riconoscente per la distrazione mentre le metteva un braccio attorno alle spalle e guardava Kendrick.

“Kendrick,” disse.

Kendrick gli fece un cenno di rispetto.

“Sai il bene che ti voglio,” le disse. “Egoisticamente vorrei che tu rimanessi.”

Fece un respiro profondo.

“Eppure ti imploro di andare con Kendrick.”

Sandara lo guardò scioccata.

“Perché?” gli chiese.

“Vedo l’amore che hai per lui, e lui per te. Un amore del genere non si presenta due volte. Devi seguire il tuo cuore, noncurante di cosa pensi la gente, noncurante delle nostre leggi. Questo è ciò che conta di più.”

Sandara guardò il fratello commossa: era impressionata dalla sua saggezza.

“Sei davvero cresciuto da quando me ne sono andata,” gli disse.

“Non osare abbandonare la tua gente, non osare andare con lui,” disse una voce seria.

Sandara si voltò e vide Zirk che aveva sentito tutto e veniva verso di loro insieme a diversi anziani.

“Il tuo posto è qui con noi. Se vai con quest’uomo non sarai più la benvenuta qui.”

“E tu cosa centri?” gli chiese Dario arrabbiato, difendendola.

“Attento, Dario,” disse Zirk. “Può anche darsi che tu adesso conduca questo esercito, ma non guidi noi. Non pretendere di fare da portavoce del nostro popolo.”

“Parlo per mia sorella,” disse Dario. “E parlo per tutti quelli che voglio.”

Sandara notò che Dario stringeva il pugno attorno all’elsa della spada mentre fissava Zirk e subito allungò una mano posandola con fare rassicurante sul suo polso.

“Questa è una decisione che devo prendere io,” disse a Zirk. “E l’ho già presa,” disse sentendo un’ondata di indignazione e improvvisa determinazione. Non avrebbe permesso che quella gente decidesse per lei. Aveva lasciato che gli anziani regolassero la sua vita da sempre e ora era giunto il tempo di cambiare.

“Kendrick è il mio amato,” disse voltandosi verso Kendrick che la guardò sorpreso. Mentre diceva quelle parola Sandara le sentiva vere e provò un forte slancio d’amore per lui, accompagnato da un’ondata di colpa per non averlo abbracciato prima degli altri. “Il suo popolo è il mio popolo. Lui è mio e io sono sua. E niente e nessuno, nemmeno te, potrà dividerci.”

Si voltò verso Dario.

“Arrivederci fratello mio,” gli disse. “Andrò con Kendrick.”

Dario sorrise, mentre Zirk si accigliava.

“Non guardarci più in faccia,” disse seccamente, poi si voltò e se ne andò insieme agli anziani.

Sandara andò da Kendrick e fece ciò che aveva voluto fare da quando erano arrivati lì. Lo baciò apertamente, senza paura, di fronte a tutti, finalmente capace di esprimere il suo amore per lui. Con sua grande gioia lui ricambiò il bacio stringendola tra le braccia.

“Abbi cura di te, fratello,” disse Sandara.

“Anche tu, sorella mia. Ci rivedremo.”

“In questo mondo o nel prossimo,” rispose lei.

Detto questo Sandara si voltò, prese il braccio di Kendrick e insieme si unirono al suo popolo, diretti verso la Grande Desolazione, verso morte certa ma pronta ad andare ovunque nel mondo fintanto che Kendrick era al suo fianco.




CAPITOLO OTTO


Godfrey, Akorth, Fulton, Merek ed Ario, con indosso gli abiti dei Finiani, percorrevano le scintillanti vie di Volusia, tutti in guardia, raggruppati insieme e decisamente tesi. La sbornia di Godfrey era svanita da un bel pezzo e lui percorreva quelle strade sconosciute con il sacco d’oro alla vita, maledicendosi per essersi offerto volontario per quella missione e scervellandosi per pensare alla mossa successiva. Avrebbe dato qualsiasi cosa per un goccio in quel momento.

Che tremenda e orribile idea aveva avuto a venire lì. Perché diavolo aveva avuto un tale stupido momento di cavalleria? E in ogni caso cos’era la cavalleria? Un momento di passione, di incoscienza, di follia. Gli faceva venire la gola secca, gli faceva battere il cuore e girare la testa. Odiava quella sensazione, ne odiava ogni singolo momento. Avrebbe tanto voluto aver tenuto la sua boccaccia chiusa. La cavalleria non era cosa per lui.

O forse sì?

Non era più tanto sicuro di niente. Tutto quello che ora sapeva era che voleva sopravvivere, vivere, bere, essere in qualsiasi posto ma non lì. Cosa mai avrebbe dato per un birra. Avrebbe barattato la più eroica delle gesta per un boccale di birra.

“E chi esattamente abbiamo intenzione di pagare?” chiese Merek avvicinandoglisi mentre continuavano a camminare attraverso le vie.

Godfrey si stava scervellando.

“Abbiamo bisogno di qualcuno che faccia parte dell’esercito,” disse alla fine. “Un comandante. Non di grado troppo elevato. Qualcuno del grado giusto. Qualcuno a cui interessi più l’oro che uccidere.”

“E dove lo troviamo uno del genere?” chiese Ario. “Non possiamo entrare direttamente nelle loro caserme.”

“Nella mia esperienza c’è solo un luogo affidabile dove trovare qualcuno di dubbia moralità,” disse Akorth. “Nelle taverne.”

“Ora sì che parli bene” disse Fulton. “Finalmente qualcuno che dice qualcosa di sensato.”

“A me sembra un’idea orrenda,” controbatté Ario. “Pare che vogliate semplicemente farvi una bevuta.”

“Beh, io sì,” disse Akorth. “E cosa c’è da vergognarsi?”

“Cosa pensate?” ribatté ancora Ario. “Di andarvene tranquillamente in una taverna, trovare un comandante e corromperlo? Credete che sia così semplice?”

“Bene, quel ragazzino finalmente ha ragione su qualcosa,” intervenne Merek. “È una cattiva idea. Darebbero un’occhiata al nostro oro, ci ucciderebbero e se lo terrebbero.”

“È per questo che non porteremo il nostro oro,” disse Godfrey, finalmente deciso.

“Eh?” chiese Merek voltandosi verso di lui. “E cosa ne faremo allora?”

“Lo nascondiamo,” disse Godfrey.

“Nascondere tutto quell’oro?” chiese Ario. “Sei pazzo? Ne abbiamo portato troppo. È abbastanza per comprare mezza città.”

“È proprio per questo che lo nasconderemo,” disse Godfrey rallegrandosi sempre più dell’idea. “Troviamo la persona giusta, al giusto prezzo, qualcuno di cui poterci fidare, e lo portiamo dai soldi.”

Merek scrollò le spalle.

“È una missione folle. Sta andando di male in peggio. Ti abbiamo seguito fin qui Dio solo sa perché. E tu ci stai portando nella fossa.”

“Mi avete seguito fin qui perché credete nell’onore, nel coraggio,” disse Godfrey. “Mi avete seguito fino a qui perché, dal momento che l’avete fatto, siamo diventati tutti fratelli. Fratelli di valore. E i fratelli non si abbandonano.”

Gli altri fecero silenzio mentre continuavano a camminare e Godfrey fu sorpreso di se stesso. Non capiva pienamente questa sua vena che di tanto in tanto veniva in superficie. Era suo padre a parlare? O lui?

Svoltarono a una curva, la città si aprì davanti a loro e Godfrey fu nuovamente sopraffatto dalla sua bellezza. Ogni cosa riluceva, le strade erano decorate d’oro, intrecciate con canali di acqua marina; c’era luce ovunque che si rifletteva sull’oro accecandoli. Le strade erano trafficate anche qui e Godfrey osservò le masse, stupefatto. Lo colpirono più di una volta alle spalle e lui ebbe sempre cura di tenere la testa bassa così che i soldati dell’Impero non potessero riconoscerlo.

Soldati con ogni genere di armatura marciavano avanti e indietro in ogni direzione, mescolati a nobili e cittadini dell’Impero, uomini grandi e grossi dalla facilmente riconoscibile pelle gialla e con le piccole corna. Molti di essi avevano delle bancarelle e vendevano mercanzia lungo le strade di Volusia. Godfrey scorse per la prima volta anche delle donne dell’Impero: erano alte come gli uomini e con la stessa ampiezza di spalle; sembravano avere la stazza di un uomo dell’Anello. Avevano le corna più lunghe, più appuntite, di color blu acqua. Sembravano più selvagge degli uomini e Godfrey non avrebbe mai voluto trovarsi a combattere con nessuno di loro.

“Magari potremmo riuscire ad andare a letto con alcune donne mentre siamo qui,” disse Akorth ruttando.

“Penso che sarebbero ben felici di tagliarti la gola, piuttosto,” disse Fulton.

Akorth scrollò le spalle.

“Magari possono fare entrambe le cose,” rispose. “Almeno morirei da uomo felice.”

Mentre la folla si faceva sempre più fitta e loro si facevano strada lungo altre vie cittadine, Godfrey sudava e tremava per l’ansia, sforzandosi di essere forte, di essere coraggioso, di pensare a tutti quelli che erano al villaggio e a sua sorella che avevano bisogno del loro aiuto. Considerò i numeri che avevano contro. Se fosse riuscito a portare a termine quella missione forse avrebbe fatto la differenza, forse avrebbe veramente potuto aiutarli. Non erano i metodi gloriosi usati dai suoi fratelli guerrieri, ma era il suo modo, l’unico che conosceva.

Quando svoltarono a un angolo Godfrey sollevò lo sguardo davanti a sé e vide esattamente ciò che stava cercando: lì in lontananza un gruppetto di uomini stava uscendo da un edificio di pietra, spingendosi a vicenda e litigando mentre la folla si raccoglieva attorno a loro incitandoli. Tiravano pugni e barcollavano in un modo che Godfrey subito riconobbe: ubriachi. Pensò che gli ubriachi erano fatti allo stesso modo in ogni parte del mondo. Era una confraternita di folli. Scorse una piccola bandiera nera che sventolava sopra l’edificio e capì all’istante di cosa si trattava.

“Lì,” disse Godfrey come se stesse guardando una mecca sacra. “Ecco cosa vogliamo.”

“La taverna dall’aspetto più pulito che abbia mai visto,” disse Akorth.

Godfrey notò la facciata elegante e si sentì incline ad essere d’accordo con lui.

Merek scrollò le spalle.

“Tutte le taverne sono uguali una volta che ci sei dentro. Sono sicuramente ubriachi e stupidi qui come in qualsiasi altro posto.”

“Il mio genere di gente,” disse Fulton leccandosi le labbra come se stesse già guastando la birra.

“E come intendete arrivarci?” chiese Ario.

Godfrey abbassò lo sguardo e capì a cosa si stava riferendo: la strada terminava in un canale. Non c’era modo di arrivare a piedi.

Godfrey vide una piccola barca dorata che veniva trascinata ai loro piedi con due uomini dell’Impero all’interno. Li vide balzare fuori, legare la barca con una corda a un palo e lasciarla lì mentre si dirigevano verso la città senza mai voltarsi indietro. Godfrey scorse l’armatura di uno di loro e capì che erano ufficiali, quindi non avevano motivo di preoccuparsi della loro barca. Sapevano ovviamente che nessuno sarebbe stato così stupido da osare rubare loro la barca.

Godfrey e Merek si scambiarono una chiara occhiata nello stesso istante. Grandi menti, pensò Godfrey, sebbene così diverse. O almeno grandi menti che avevano entrambi visto la loro parte di prigioni e vicoli secondari.

Merek si fece avanti, prese il pugnale e tagliò la corda. Uno alla volta entrarono tutti nella piccola imbarcazione che oscillò notevolmente mentre salivano. Godfrey allungò una gamba e con il piede diede una spinta allontanandoli tutti dal pontile. Scivolarono lungo il corso d’acqua e Merek afferrò il lungo remo e mantenne la giusta direzione.

“Questa è una follia,” disse Ario guardandosi alle spalle per vedere se scorgeva gli ufficiali. “Potrebbero tornare indietro.”

Godfrey guardò dritto davanti a sé e annuì.

“Allora sarà meglio remare più forte.”




CAPITOLO NOVE


Volusia si trovava nel mezzo del grande deserto, il suolo verde screpolato e riarso, duro come la roccia sotto i suoi piedi. Guardava dritto davanti a sé, pronta ad affrontare l’esercito di Dansk. Stava lì fiera con una decina dei suoi più fidati consiglieri dietro di lei, di fronte a una ventina di uomini, tipici abitanti dell’Impero, alti e con le spalle ampie, con la pelle gialla, gli occhi rossi luccicanti e due piccole corna. L’unica evidente differenza di questa gente di Dansk era che nel tempo avevano iniziato a far crescere le loro corna di lato e non dritte verso l’alto.

Volusia guardò oltre le loro spalle e vide all’orizzonte la città desertica di Dansk, alta e supremamente imponente: si levava verso il cielo per decine di metri con mura verdi dello stesso colore del deserto, fatte di roccia o mattone. La città era di forma perfettamente circolare, con parapetti in cima alle mura tra i quali i soldati erano posizionati ogni tre metri, rivolti verso ogni direzione, di guardia, scrutando ogni angolo del deserto. Sembrava impenetrabile.

Dansk si trovava subito a sud di Maltolis, a metà strada tra la città del principe pazzo e la capitale meridionale ed era considerate una roccaforte, un crocevia di primaria importanza. Volusia ne aveva sentito parlare molte volte da sua madre, ma non l’aveva mai visitata di persona. Le aveva sempre detto che nessuno poteva conquistare l’Impero se non conquistava Dansk.

Volusia guardò verso il loro capo che stava di fronte a lei con il suo emissario, inorgoglito e sorridendole con arroganza. Sembrava diverso dagli altri ed era chiaramente il loro capo. Aveva un’aria di fiducia, con più cicatrici in volto e con due lunghe trecce che gli scendevano dalla testa fino alla vita.

Erano fermi in quel modo, in silenzio, entrambi in attesa che l’altro parlasse, con nessun rumore se non l’ululato del vento nel deserto.

Alla fine l’uomo, evidentemente stanco di attendere, parlò: “Così vorresti entrare nella nostra città?” le chiese. “Tu e i tuoi uomini?”

Volusia lo guardava fiera e sicura, inespressiva.

“Non desidero entrare,” disse. “Desidero conquistarla. Sono qui per offrirvi condizioni di resa.”

Lui la guardò impassibile per diversi secondi, come se stesse cercando di capire le sue parole, poi sgranò gli occhi per la sorpresa. Si piegò indietro e rise fragorosamente. Volusia arrossì.

“Noi?!” chiese. “Arrenderci?!”

Rise di gusto, come se avesse sentito la barzelletta più divertente al mondo. Volusia lo guardava con calma e notò che tutti i soldati che stavano con lui non ridevano, non sorridevano neppure. La guardavano con serietà.

“Non sei che una ragazza,” le disse alla fine, apparentemente divertito. “Non sai nulla della storia di Dansk, del nostro deserto, del nostro popolo. Se sapessi qualcosa, sapresti che non ci siamo mai arresi. Non una sola volta. Mai in diecimila anni. Mai a nessuno. Neanche agli eserciti di Atlow il Grande. Dansk non è mai stata conquistata una sola volta.”

Il suo sorriso si mutò in una smorfia.

“E ora arrivi tu,” disse, “una stupida ragazzina che compare dal nulla con una decina di soldati e ci chiede di arrenderci? Perché non dovrei ucciderti subito o portarti nelle nostre prigioni? Penso che dovresti essere tu a negoziare per te stessa dei termini di resa. Se ti mando via questo deserto ti ucciderà. E se ti faccio entrare potrei essere proprio io ad ucciderti.”

Volusia lo guardava sempre con estrema calma, senza scomporsi.

“Non ti offrirò le mie condizioni due volte,” gli disse con tranquillità. “Arrendetevi adesso e risparmierò tutte le vostre vite.”

Lui la guardò completamente spiazzato, come a rendersi conto finalmente che era seria.

“Sei pazza, ragazzina. Hai sofferto troppo il sole del deserto.”

Lei continuò a guardarlo con occhi che si facevano più scuri.

“Non sono una ragazzina,” gli rispose. “Sono la grande Volusia della grandiosa città di Volusia. Sono la dea Volusia. E tu, insieme a tutti gli essere della terra, sei un mio suddito.”

Lui la guardò con espressione mutevole, fissandola come fosse pazza.

“Tu non sei Volusia,” le disse. “Volusia ha più anni di te. L’ho incontrata io stesso ed è stata un’esperienza molto spiacevole. Eppure scorgo una somiglianza. Tu sei… sua figlia. Sì, ora capisco. Perché non è venuta tua madre a parlare con noi? Perché ha mandato te, sua figlia?”

“Io sono Volusia,” rispose. “Mia madre è morta. Me ne sono assicurata.”

La guardò facendosi sempre più serio in volto. Per la prima volta sembrò incerto.

“Sarai anche stata capace di assassinare tua madre,” le disse. “Ma sei una pazza a minacciarci. Non siamo una donnina indifesa e i tuoi uomini di Volusia sono lontani da qui. Hai fatto una follia ad avventurarti così lontano dalla tua fortezza. Pensi di poter conquistare la nostra città con una decina di soldati?” le chiese stringendo e rilasciando l’elsa della spada come se stesse pensando a ucciderla.

Lei sorrise.

“Non la posso conquistare con una decina,” disse. “Ma con duecentomila sì.”

Volusia sollevò un pugno in aria, stringendo lo scettro d’oro e sollevandolo in alto senza mai distogliere gli occhi dal comandante, vedendo così il volto dell’emissario guardare oltre le sue spalle e assumere un’espressione di panico e shock. Volusia non aveva bisogno di voltarsi per sapere cosa stava guardando: i sue duecentomila soldati di Maltolis erano comparsi da dietro la collina al suo segnale e si allargavano ora all’orizzonte. Ora il capo di Dansk sapeva qual era il pericolo che minacciava la loro città.

Tutto il gruppo fremette, apparentemente terrorizzato e ansioso di correre in salvo dentro la città.

“L’esercito di Maltolis,” disse il comandante per la prima volta con voce impaurita. “Cosa ci fanno qui con te?”

Volusia gli sorrise.

“Sono una dea,” disse. “Perché non dovrebbero servirmi?”

L’uomo ora la guardava con espressione di rispetto e sorpresa.

“Eppure non puoi osare attaccare Dansk,” le disse con voce tremante. “Siamo sotto la protezione diretta della capitale. L’esercito dell’Impero ha milioni di uomini. Se conquistassi la nostra città sarebbero costretti a contraccambiare. Verreste tutti massacrati a tempo debito. Non potresti mai vincere. Sei avventata fino a questo punto? Oppure tanto stupida?”

Lei continuò a sorridere, godendo del suo disagio.

“Forse un po’ di entrambe le cose,” gli rispose. “O forse non vedo semplicemente l’ora di provare il mio nuovo esercito e affinare su di voi le loro doti. È vostra grossa sfortuna che vi troviate lungo la via, tra i miei uomini e la capitale. E niente, assolutamente niente mi metterà i bastoni tra le ruote.”

L’uomo la guardò e il volto si mutò in un ghigno. Ma ora, per la prima volta, Volusia poté vedere panico vero e proprio nei suoi occhi.

“Siamo venuti qui per discutere delle condizioni e non le accettiamo. Ci prepareremo per la guerra, se è questo quello che desideri. Ma ricorda: te la sei cercata tu.”

Improvvisamente spronò la sua zerta lanciando un grido e si voltò, insieme agli altri, galoppando via e sollevando una nuvola di polvere.

Volusia smontò noncurante dalla sua zerta, afferrò una lancia corta d’oro che il suo comandante Soku le porgeva.

Alzò una mano per sentire il vento, socchiuse gli occhi e prese la mira.

Poi si inarcò e tirò.

Guardò la lancia volare disegnando un arco alto in aria per cinquanta metri buoni, poi udì un forte grido e il soddisfacente tonfo della lancia che perforava la carne. Guardò deliziata mentre si conficcava nella schiena del capo. L’uomo gridò cadendo dalla sua zerta e atterrando al suolo, rotolando.

Il gruppo di solati si fermò guardando a terra, inorriditi. Rimasero seduti sulle loro zerte, come se dibattuti se fermarsi a prenderlo. Si guardarono poi alle spalle e videro gli uomini di Volusia all’orizzonte, ora in marcia, e chiaramente presero la decisione migliore. Si voltarono e galopparono via, diretti verso i cancelli della città, abbandonando il loro comandante a terra.

Volusia cavalcò con il suo esercito fino a che raggiunse il comandante morente e smontò al suo fianco. In lontananza udì un tonfo metallico e notò che il piccolo contingente in fuga stava entrando a Dansk richiudendo il pesante cancello di ferro alle proprie spalle. Dopodiché si chiuse anche l’enorme doppia porta sigillando la città e rendendola una fortezza di ferro.

Volusia abbassò lo sguardo sul comandante morente che era disteso sulla schiena e la guardava con angoscia e paura.

“Non puoi ferire un uomo che viene a parlare di condizioni,” le disse indignato. “Va contro ogni legge dell’Impero! Una cosa del genere non è mai stata fatta prima!”

“Non intendevo ferirti,” gli disse inginocchiandosi accanto a lui e toccando l’impugnatura della lancia. Spinse l’arma più a fondo nel cuore dell’uomo senza lasciare la presa fino a che smise di agitarsi ed esalò il suo ultimo respiro.

Volusia sorrise.

“Intendevo ucciderti.”




CAPITOLO DIECI


Thor si trovava a prua nel piccolo vascello, con i suoi fratelli accanto e il cuore che gli batteva per l’anticipazione mentre la corrente li trasportava verso la piccola isola che avevano di fronte. Thor sollevò lo sguardo, studiò le scogliere con meraviglia: non aveva mai visto nulla del genere. Le pareti erano perfettamente lisce, bianco e solido granito che luccicava sotto i due soli, e si levavano in alto per decine di metri. L’isola aveva forma circolare, la base era circondata da scogli ed era difficile pensare nel mezzo dell’incessante fragore delle onde. Sembrava inespugnabile, impossibile da scalare per ogni esercito.

Thor si portò una mano agli occhi e scrutò contro sole. Le scogliere sembravano interrompersi a un certo punto e terminare in una piana a decine di metri dal livello del mare. Chiunque vivesse là sopra, in cima, avrebbe vissuto sano e salvo per sempre. Sempre ammesso che qualcuno ci vivesse là sopra.

Proprio in cima, al di sopra dell’isola come un alone, si trovava un anello di nuvole rosa e viola chiaro che la riparavano dai forti raggi del sole come se quel luogo fosse stato incoronato da Dio stesso. Soffiava una leggera brezza e l’aria era piacevole e mite. Anche da lì Thor poteva percepire che c’era qualcosa di speciale in quel luogo. Sembrava magico. Non si sentiva così da quando era stato nel castello di sua madre.

Anche tutti gli altri sollevarono lo sguardo con espressioni di meraviglia in volto.

“Chi pensi che ci viva?” chiese O’Connor ad alta voce ponendo la domanda che era nella mentre di tutti.

“Chi… o cosa?” chiese Reece.

“Magari nessuno,” disse Indra.

“Forse dovremmo proseguire,” disse O’Connor.

“E rifiutare l’invito?” chiese Mati. “Vedo sette funi e noi siamo sette.”

Thor guardò attentamente le scogliere e vide sette corde dorate penzolare dalla cima fino alla costa, luccicanti al sole. Rimase pensieroso.

“Magari qualcuno ci sta aspettando,” disse Elden.

“O ci sta tentando,” aggiunse Indra.

“Ma chi?” chiese Reece.

Thor guardò di nuovo verso la cima mentre tutti quegli stessi pensieri gli vorticavano in mente. Si chiese chi potesse sapere che loro stavano arrivando. Qualcuno li stava osservando in qualche modo?

Rimasero tutti in silenzio nella barca che dondolava nell’acqua mentre la corrente li portava sempre più vicini.

“La vera domanda è,” chiese Thor a voce alta spezzando finalmente il silenzio, “se sono amichevoli o se si tratti di una trappola.”

“Fa forse qualche differenza?” chiese Mati avvicinandoglisi.

Thor scosse la testa.

“No,” rispose stringendo la presa sull’elsa della spada. “Gli faremo visita comunque. Se sono amici li abbracceremo, se sono nemici li uccideremo.”

La corrente si fece più forte e lunghe onde arrotondate trasportarono la barca per tutto il tragitto fino alla stretta spiaggia di sabbia nera che circondava l’isola. La barca approdò delicatamente incastrandosi a terra così che tutti potessero scendere.

Thor strinse l’elsa della spada, teso, e si guardò attorno in ogni direzione. Non c’era alcun movimento sulla spiaggia, nient’altro che le onde che si infrangevano.

Thor raggiunse a piedi la base della scogliera, vi pose sopra una mano e sentì quanto liscia fosse, percepì il calore e l’energia che irradiavano dalla roccia. Esaminò le funi che portavano verso l’alto rinfoderando la spada e afferrandone una.

La tirò ed essa non cedette.

Uno alla volta gli altri lo raggiunsero e ognuno afferrò una fune e la strattonò.

“Terrà?” si chiese O’Connor pensando a voce alta e guardando verso l’alto.

Sollevarono tutti lo sguardo, chiaramente chiedendosi la stessa cosa.

“C’è solo un modo per scoprirlo,” disse Thor.

Thor afferrò la fune con entrambe le mani, fece un salto e iniziò a salire. Tutt’attorno a lui gli altri fecero lo stesso, tutti scalando le scogliere come capre di montagna.

Thor continuò a risalire, con i muscoli che gli facevano male e bruciando sotto il sole. Il sudore scorreva lungo il collo e gli bruciava negli occhi mentre tutte le membra tremavano.

Allo stesso tempo però c’era qualcosa di magico in quelle funi, una qualche energia che lo sosteneva – come anche gli altri – e gli permetteva di scalare più veloce che mai, come se le funi stesse li stessero tirando.

Molto prima di quanto avesse creduto possibile, Thor si ritrovò in cima: si trascinò fino al ripiano e fu sorpreso di trovarsi aggrappato a erba e terra. Si tirò su rotolando su un fianco sull’erba morbida, esausto, con il fiatone e con tutti gli arti doloranti. Tutt’attorno a lui vide che anche gli altri arrivavano. Ce l’avevano fatta. Qualcosa aveva voluto che raggiungessero la cima. Thor non sapeva se questo dovesse essere causa di rassicurazione o preoccupazione.

Si alzò su un ginocchio e sguainò la spada, subito in guardia, non sapendo cosa aspettarsi lassù. Tutt’attorno a lui i suoi fratelli fecero lo stesso e tutti si misero istintivamente in piedi formando un semicerchio e guardandosi vicendevolmente alle spalle.

Eppure mentre Thor stava lì a guardare fu scioccato da ciò che vide. Si era aspettato di trovarsi di fronte un avversario, si era aspettato di vedere un luogo roccioso, arido e desolato.

Invece non c’era nessuno ad accoglierli. E al posto della roccia vide il posto più bello sul quale avesse mai messo occhio: verdi colline ondeggianti ricche di fiori, foglie e frutti che scintillavano al sole. La temperatura là in cima era perfetta, mitigata da una lieve brezza marina. C’erano frutteti, vigne, luoghi di tale abbondanza e bellezza che presto fecero dissipare tutta la tensione. Thor rinfoderò la spada e anche gli altri si rilassarono, tutti intenti ad osservare la perfezione di quel luogo. Per la prima volta da quando avevano salpato dalla terra dei morti, Thor si sentiva come se potesse veramente rilassarsi e abbassare la guardia. Non era certo un posto che avesse fretta di lasciare.

Thor era sorpreso. Come poteva un luogo così meraviglioso e temperato trovarsi nel mezzo di un oceano infinito e spietato? Si guardò attorno e vide una lieve nebbia sospesa su ogni cosa. Poi sollevò lo sguardo e vide, in alto, l’anello di nuvole violette che ricoprivano quel posto proteggendolo ma permettendo anche al sole di filtrare qua e là. Capì con tutto se stesso che quel posto era magico. Era un luogo di tale bellezza da mettere in secondo piano anche l’abbondanza dell’Anello.

Si sorprese quando udì in lontananza un distante stridio: in un primo momento pensò che fosse stata la sua mente a giocargli uno scherzo, ma poi rabbrividì sentendolo di nuovo.

Si portò una mano agli occhi e guardò verso l’alto, scrutando i cielo. Poteva giurare che si trattasse del verso di un drago, ma allo stesso tempo sapeva che non era possibile. Gli ultimi draghi, lo sapeva bene, erano morti con Ralibar e Micople. Ne era stato testimone lui stesso e quel fatale momento della loro morte era ancora vivido in lui come un pugnale nel cuore. Non c’era giorno che passava che lui non pensasse alla cara amica Micople e che non desiderasse averla ancora al suo fianco.

Era solo un suo pensiero misto a desiderio che gli faceva udire quel grido? L’eco di qualche sogno dimenticato?

Il verso improvvisamente si ripropose, squarciando il cielo e perforando l’essenza stessa dell’aria. Il cuore di Thor ebbe un guizzo e lui si sentì vibrare di emozione e meraviglia. Poteva essere?

Quando si fu portato una mano agli occhi ed ebbe spostato lo sguardo verso i due soli, in alto al di sopra delle scogliere, pensò di scorgere la sfocata sagoma di un piccolo drago che volava disegnando cerchi in aria. Rimase pietrificato chiedendosi se gli occhi gli stessero giocando qualche scherzo.

“Non è un drago quello?” chiese improvvisamente Reece a voce alta.

“Non è possibile,” disse O’Connor. “Non ci sono draghi rimasti vivi.”

Ma Thor non ne era più così certo mentre guardava quelle figura scomparire tra le nuvole. Si guardò alle spalle e osservò attentamente i dintorni. Rifletté.

“Che posto è questo?” chiese a voce alta.

“Un luogo di sogni, un luogo di luce,” rispose una voce.

Thor, sorpreso da quella voce sconosciuta, si voltò insieme agli altri e fu scioccato di vedere di fronte a loro un anziano vestito con una tunica gialla con cappuccio e un lungo bastone luccicante in mano, tempestato di diamanti e con un amuleto nero all’estremità. Brillava con tale forza che Thor faceva fatica a guardarlo.

L’uomo sorrideva rilassato e camminò verso di loro in modo che lasciava trasparire benevolenza, tirandosi indietro il cappuccio e svelando lunghi capelli ondulati e dorati e un volto senza età. Thor non era in grado di dire se avesse diciotto o cento anni. Il suo volto emanava luce e Thor fu sorpreso dalla sua intensità. Non aveva mai visto niente di simile da quando aveva posato gli occhi su Argon.

“Fai bene,” gli disse fissando gli occhi in quelli di Thorgrin e andando dritto verso di lui. Si fermò a pochi passi da lui e i suoi lucidi occhi verdi sembrarono ardere nei suoi, “a pensare a mio fratello.”

“Tuo fratello?” chiese Thor confuso.

L’uomo annuì.

“Argon.”

Thor guardò l’uomo a bocca aperta, scioccato.

“Argon!?” chiese Thor. “Tuo fratello?” aggiunse, incapace di comprendere quelle parole.





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In GIURAMENTO FRATERNO, Thorgrin e i suoi fratelli escono dalla terra dei morti, più determinati che mai a trovare Guwayne, e salpano per attraversare un mare ostile che li condurrà verso luoghi che vanno ben oltre la loro immaginazione più sfrenata. Mentre si avvicinano sempre di più al ritrovamento di Guwayne, incontrano anche ostacoli mai affrontati prima, difficoltà che li metteranno alla prova oltre ogni limite e che richiederanno tutte le loro abilità e la loro forza per rimanere insieme come fossero una sola persona, come fratelli. Dario scende in campo contro l’Impero e riunisce coraggiosamente un esercito formato da schiavi liberati da un villaggio dopo l’altro. Scontrandosi con città fortificate e affrontando un esercito mille volte più grande del suo, chiama a raccolta tutto il suo istinto e il suo coraggio, determinato a sopravvivere e a vincere per conquistare la libertà a tutti i costi, anche a costo della vita. Gwendolyn, con nessun’altra scelta davanti a sé, guida il suo popolo nella Grande Desolazione, inoltrandosi nell’Impero in luoghi mai esplorati da nessuno, alla ricerca del leggendario Secondo Anello, ultima speranza di sopravvivenza per la sua gente e ultima speranza per Dario. Ma lungo il cammino incontreranno orribili mostri, tremendi paesaggi e dovrà anche far fronte a un’insurrezione in seno al suo stesso popolo, una rivolta che potrebbe anche non riuscire a sedare. Erec e Alistair si imbarcano per raggiungere l’Impero per salvare il loro popolo e lungo il viaggio si fermano in isole nascoste, determinati a mettere insieme un esercito, anche se ciò significa avere a che fare con mercenari di dubbia reputazione. Godfrey si trova nel mezzo della città di Volusia e in grossi guai man mano che il suo piano va di male in peggio. Imprigionato e condannato a morte anche per lui sembra non esserci via di scampo. Volusia stringe un patto con il più oscuro degli stregoni e guidata verso un potere sempre più grande, continua la sua ascesa conquistando tutto ciò in cui si imbatte nel suo cammino. Più potente che mai porterà la sua guerra fino al limitare della capitale dell’Impero fino a trovarsi contro l’esercito dell’Impero stesso, un esercito che supera di gran lunga il suo e che lascia prevedere una battaglia epica. Thorgrin troverà Guwayne? Gwendolyn e il suo popolo sopravviveranno? Godfrey fuggirà? Erec ed Alistair raggiungeranno l’Impero? Volusia diventerà imperatrice? Dario guiderà il suo popolo alla vittoria? Con la sua sofisticata struttura e caratterizzazione, GIURAMENTO FRATERNO è un racconto epico di amicizia e amore, di rivali e seguaci, di cavalieri e draghi, di intrighi e macchinazioni politiche, di maturazione, di cuori spezzati, di inganno, ambizione e tradimento. È un racconto di onore e coraggio, di fato e destino, di stregoneria. È un fantasy capace di portarci in un mondo che non dimenticheremo mai, in grado di affascinare persone di ogni sesso ed età.

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