Книга - Un Compito Di Valore

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Un Compito Di Valore
Morgan Rice


L’Anello Dello Stregone #6
In UN COMPITO DI VALORE (Libro #6 in LAnello dello Stregone), Thor continua la sua ricerca, addentrandosi sempre di più nellImpero, per rinvenire la trafugata Spada del Destino e salvare quindi lAnello. Mentre lui e i suoi amici affrontano tragedie inaspettate e perdono un membro del loro affiatato gruppo, Thor e quelli che sono rimasti diventano ancora più legati che mai, imparando che devono affrontare e superare insieme le avversità. Il loro viaggio li porta verso territori nuovi ed esotici, inclusi i desolati Campi di Sale, il Grande Tunnel e le Montagne di Fuoco, dove, ad ogni svolta, si trovano ad affrontare un sacco di mostri inimmaginabili. Le abilità di Thor si affinano e lui si assoggetta allallenamento più completo mai affrontato. Sarà costretto a richiamare poteri più grossi che mai se vorrà sopravvivere. Alla fine gli amici scoprono dove è stata nascosta la Spada e vengono a sapere che, per recuperarla, dovranno avventurarsi nel luogo più temibile dellImpero: la Terra dei Draghi. Intanto nellAnello Gwendolyn si riprende lentamente e affronta una profonda depressione dopo lattacco subito. Kendrick e gli altri giurano di combattere per il suo onore, nonostante le impossibili circostanze. Ne segue una delle più grandi battaglie della storia dellAnello, mentre tutti lottano per liberare Silesia e sconfiggere Andronico. Nel frattempo Godfrey si trova dietro le linee nemiche e inizia a raggiungere il successo, imparando cosa significhi diventare un guerriero, in un modo unico e tutto suo. Gareth riesce a rimanere in vita, utilizzando tutta la sua astuzia per evitare di essere catturato da Andronico, mentre Erec combatte con tutto se stesso per salvare Savaria dallimminente invasione di Andronico, e per salvare il proprio amore, Alistair. Argon paga un caro prezzo per fare ciò che non è consentito: immischiarsi negli affari umani.





Morgan Rice

UN COMPITO DI VALORE




un   compito   di   valore




(libro #6 in l’anello dello stregone)




Morgan Rice




EDIZIONE ITALIANA


A CURA DI




ANNALISA LOVAT



Chi è Morgan Rice



Morgan Rice è l’autrice campione d’incassi di APPUNTI DI UN VAMPIRO, una serie per ragazzi che comprende al momento undici libri; autrice campione d’incassi di THE SURVIVAL TRILOGY, un thriller post-apocalittico che comprende al momento due libri; e autrice campione d’incassi della serie epica fantasy L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende al momento tredici libri.



I libri di Morgan sono disponibili in edizione stampata e in formato audio e sono stati tradotti in tedesco, francese, italiano, spagnolo, portoghese, giapponese, cinese, svedese, olandese, turco, ungherese, ceco e slovacco (prossimamente ulteriori lingue).



Morgan ama ricevere i vostri messaggi e commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.morganricebooks.com (http://www.morganricebooks.com/) per iscrivervi alla sua mailing list, ricevere un libro in omaggio, gadget gratuiti, scaricare l’app gratuita e vedere in esclusiva le ultime notizie. Connettetevi a Facebook e Twitter e tenetevi sintonizzati!



Cosa dicono di Morgan Rice

“L’ANELLO DELLO STREGONE ha tutti gli ingredienti per un successo immediato: intrighi, complotti, mistero, cavalieri valorosi, storie d’amore che fioriscono e cuori spezzati, inganno e tradimento. Vi terrà incollati al libro per ore e sarà in grado di riscuotere l’interesse di persone di ogni età. Non può mancare sugli scaffali dei lettori di fantasy.”

–-Books and Movie Reviews, Roberto Mattos



“Rice fa un bel lavoro nel trascinarvi nella storia fin dall’inizio, utilizzando una grande qualità descrittiva che trascende la mera colorazione d’ambiente… Ben scritto ed estremamente veloce da leggere…”

--Black Lagoon Reviews (parlando di Tramutata)



“Una storia perfetta per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellente creando un intreccio interessante  …Rinvigorente e unico. La serie si concentra su una ragazza… una ragazza straordinaria!… Di facile lettura, ma estremamente veloce e incalzante… Classificato PG.”

–-The Romance Reviews (parlando di Tramutata)



“Mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere…. Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dalle prime pagine. Non esistono momenti morti.”

–-Paranormal Romance Guild {parlando di Tramutata }



“Pieno zeppo di azione, intreccio, avventura e suspense. Mettete le vostre mani su questo libro e preparatevi a continuare a innamorarvi”

–-vampirebooksite.com (parlando di Tramutata)



“Un grande intreccio: questo è proprio il genere di libro che farete fatica a mettere giù la sera. Il finale lascia con il fiato sospeso ed è così spettacolare che vorrete immediatamente acquistare il prossimo libro, almeno per sapere cosa succede in seguito.”

–-The Dallas Examiner {parlando di Amata}



“È  un libro che può competere con TWILIGHT e DIARI DI UN VAMPIRO, uno di quelli che vi vedrà desiderosi di continuare a leggere fino all’ultima pagina! Se siete tipi da avventura, amore e vampiri, questo è il libro che fa per voi!”

–-Vampirebooksite.com {parlando di Tramutata}



“Morgan Rice dà nuovamente prova di essere una narratrice di talento… Questo libro affascinerà una vasta gamma di lettori, compresi i più giovani fan del genere vampiresco/fantasy. Il finale mozzafiato vi lascerà a bocca aperta.”

–-The Romance Reviews {parlando di Amata}



Libri di Morgan Rice




L’ANELLO DELLO STREGONE


UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)


LA MARCIA DEI RE (Libro #2)


DESTINO DI DRAGHI (Libro #3)


GRIDO D’ONORE (Libro #4)


VOTO DI GLORIA (Libro #5)


UN COMPITO DI VALORE (Libro #6)


RITO DI SPADE (Libro #7)


CONCESSIONE D’ARMI (Libro #8)


UN CIELO DI INCANTESIMI (Libro #9)


UN MARE DI SCUDI (Libro #10)


UN REGNO D’ACCIAIO (Libro #11)


LA TERRA DEL FUOCO (Libro #12)


LA LEGGE DELLE REGINE (Libro #13)


GIURAMENTO FRATERNO (Libro #14)




THE SURVIVAL TRILOGY


ARENA ONE: SLAVERSUNNERS (Libro #1)


ARENA TWO (Libro #2)




APPUNTI DI UN VAMPIRO


TRAMUTATA (Libro #1)


AMATA (Libro #2)


TRADITA (Libro #3)


DESTINATA (Libro #4)


DESIDERATA (Libro #5)


BETROTHED (Libro #6)


VOWED (Libro #7)


FOUND (Libro #8)


RESURRECTED (Libro #9)


CRAVED (Libro #10)


FATED (Libro #11)












Ascoltate (http://www.amazon.it/s?_encoding=UTF8&field-author=Morgan%20Rice&search-alias=digital-text) la serie L’ANELLO DELLO STREGONE in formato audio-libro!




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Copyright © 2013 by Morgan Rice

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This ebook is licensed for your personal enjoyment only. This ebook may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this book with another person, please purchase an additional copy for each recipient. If you’re reading this book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then please return it and purchase your own copy. Thank you for respecting the hard work of this author.

This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.

Jacket image Copyright Sergii Votit, used under license from Shutterstock.com.


“Soltanto i vili muoion molte volte prima della lor morte; il valoroso solo una volta assapora la morte.”

    --William Shakespeare
    Giulio Cesare






CAPITOLO UNO


Gwendolyn giaceva a faccia in giù nell’erba e sentiva la fredda brezza invernale che le pungeva la pelle nuda. Quando aprì gli occhi, lentamente e vagamente il mondo tornò a ridipingersi davanti a lei. Era stata in qualche luogo lontano, in un prato illuminato dal sole, pieno di fiori, con Thor e suo padre accanto a lei, e tutti avevano riso felici.

Ma ora, mentre apriva a fatica gli occhi, il mondo che le si presentò davanti non avrebbe potuto essere più diverso. Il terreno era duro, freddo, e accanto a lei, a rimettersi lentamente in piedi, non c’era suo padre e nemmeno Thor, ma un mostro: McCloud. Una volta che ebbe finito con lei si alzò lentamente, si allacciò i pantaloni e la guardò con sguardo soddisfatto.

Di colpo le tornò tutto alla mente. La sua resa ad Andronico. Il tradimento di lui. L’aggressione da parte di McCloud. Le guance le avvamparono arrossendo quando si rese conto di quanto ingenua era stata.

Ora era stesa lì, tutto il corpo dolorante, il cuore spezzato e il desiderio, più intenso che mai, di morire.

Gwendolyn aprì di più gli occhi e vide l’esercito di Andronico, gruppi di soldati, tutti intenti a guardare la scena, e la sua vergogna crebbe. Non avrebbe mai dovuto arrendersi a una tale creatura: avrebbe voluto, invece, aver continuato a combattere. Avrebbe dovuto ascoltare Kendrick e gli altri. Andronico aveva giocato con il suo istinto di sacrificio e lei ci era cascata. Avrebbe voluto essersi scontrata con lui in battaglia: anche se fosse morta, almeno sarebbe caduta con dignità e onore ancora intatti.

Gwen sapeva con certezza, per la prima volta nella sua vita, che stava per morire. Ma in qualche modo non era quello che le importava. Non le importava più di morire, le interessava morire a modo suo, e certo non era pronta per farlo ora.

Mentre giaceva lì, a faccia in giù, afferrò furtivamente un pugno di terra con una mano.

“Ora puoi alzarti, donna,” le ordinò in modo burbero McCloud. “Ho finito con te. Ora tocca agli altri.”

Gwen strinse la terra con tale forza che le nocche le divennero bianche e pregò che il suo piano funzionasse.

Con un gesto fulmineo si voltò e lanciò la terra negli occhi di McCloud.

Lui non se l’era aspettato, quindi inciampò indietro gridando, sollevando le mani per strofinarsi gli occhi e liberarli dalla terra.

Gwen prese vantaggio dal momento. Essendo cresciuta al castello del re, era stata allenata dai guerrieri di corte che le avevano sempre insegnato di attaccare una seconda volta, prima che il nemico avesse il tempo di riprendersi. Le avevano anche insegnato una lezione che non si era mai dimenticata: che avesse un’arma o meno, era sempre armata. Poteva sempre usare l’arma del nemico.

Gwen allungò una mano, afferrò il pugnale dalla cintura di McCloud, lo sollevò in aria e glielo conficcò tra le gambe.

McCloud gridò ancora più forte, togliendosi le mani dagli occhi e afferrandosi l’inguine. Il sangue gli scorreva lungo le gambe, mentre lui, ansimando, estraeva il pugnale.

Era elettrizzata per aver mandato a segno il colpo e per essersi presa almeno quella piccola vendetta. Ma con sua sorpresa la ferita, che avrebbe atterrato chiunque, non lo rallentò. Quel mostro era inarrestabile. Lo aveva ferito gravemente, proprio dove si meritava, ma non lo aveva ucciso. Non lo aveva neanche fatto inginocchiare.

McCloud invece estrasse il pugnale, gocciolante di sangue, e le rivolse uno sguardo colmo di morte. Iniziò a portarsi verso di lei, stringendo il pugnale con mani tremanti, e Gwen capì che era giunta la sua ora. Almeno sarebbe morta con una piccola soddisfazione.

“Ora ti strappo il cuore e te lo faccio mangiare,” le disse. “Preparati a imparare cosa significhi il vero dolore.”

Gwendolyn si preparò a sentire il pugnale affondare, portandola a una morte dolorosa.

Si udì risuonare un urlo e, dopo un momento di shock, Gwendolyn constatò con sorpresa che non era stata lei a gridare, ma McCloud: stava strillando di agonia.

Gwen abbassò le mani a guardò confusa. McCloud aveva lasciato cadere il pugnale. Strizzò gli occhi diverse volte cercando di capire ciò che aveva davanti.

Da un occhio di McCloud spuntava una freccia e lui gridava portando le mani alla freccia per strapparla, mentre il sangue colava dall’orbita. Gwen non riusciva a capire. Era stato colpito. Ma come? E da chi?

Si voltò verso la direzione dalla quale la freccia era provenuta e con sollievo vide Steffen, lì con l’arco in mano, nascosto tra un gruppo di soldati. Prima che chiunque altro potesse capire cosa stava accadendo, Steffen scoccò altre sei frecce e uno alla volta i sei soldati che stavano accanto a McCloud caddero, colpiti alla gola.

Steffen si preparò a lanciarne di più, ma alla fine fu notato e un consistente gruppo di soldati gli balzò addosso, fermandolo e puntellandolo al suolo.

McCloud, sempre gridando, si voltò e corse tra la folla. Incredibilmente non era ancora morto. Gwen sperava che morisse dissanguato.

Il suo cuore era colmo di gratitudine per Steffen. Sapeva che sarebbe morta per mano di qualcun altro quel giorno, ma almeno non sarebbe stato McCloud a ucciderla.

I soldati fecero silenzio mentre Andronico si alzava e si avvicinava lentamente a Gwendolyn. Lei rimase a terra guardandolo: era incredibilmente alto, una specie di montagna che si muoveva verso di lei. I soldati si inchinavano al suo passaggio, il campo di battaglia in totale silenzio. L’unico rumore era quello del vento.

Andronico si fermò a qualche passo da lei e la guardò senza alcuna espressione in volto. Si portò una mano al collo e toccò le teste mozzate appese alla sua collana e uno strano suono si levò dal suo petto e dalla gola, come le fusa di un felino. Sembrava essere allo stesso tempo arrabbiato e compiaciuto.

“Hai sfidato il grande Andronico,” le disse lentamente, mentre tutti ascoltavano con estrema attenzione ogni singola parola, quella voce antica e profonda che risuonò con autorità e riecheggiò in tutta la campagna. “Sarebbe stato più facile se ti fossi sottomessa alla tua punizione. Ora dovrai imparare cosa significa il vero dolore.”

Andronico sguainò la spada più lunga che Gwen avesse mai visto. Doveva essere lunga più di due metri e il suo tintinnio riverberò nel campo di battaglia. Lui la tenne in alto, ruotandola nella luce, e il riflesso era talmente intenso da accecarla. La esaminò rigirandosela tra le mani, come se la vedesse per la prima volta.

“Sei una donna di nobili natali,” le disse. “È cosa appropriata che tu muoia per mezzo di una nobile spada.”

Andronico fece due passi in avanti, strinse l’elsa con entrambe le mani e sollevò la spada ancora più in alto.

Gwendolyn chiuse gli occhi. Udì il fischio del vento, il movimento di ogni filo d’erba e nella mente le lampeggiarono immagini fugaci e disordinate della sua vita. Percepì la completezza della sua vita, ogni cosa fatta, ogni cosa amata. Nei suoi ultimi pensieri pensò a Thor. Si portò le mani al collo e afferrò l’amuleto che le aveva regalato e lo tenne stretto in pugno. Sentiva il caldo potere che emanava: questo amuleto può salvarti la vita. Una volta.

Tenne la pietra più stretta, tanto che le si conficcò nel palmo, e pregò Dio con tutta se stessa.

Ti prego, Dio, fa’ che questo amuleto funzioni. Per favore, salvami, solo questa volta. Lasciami vedere Thor un’altra volta.

Gwendolyn riaprì gli occhi, aspettandosi di vedere la spada di Andronico scendere su di lei, invece ciò che vide la lasciò di stucco. Andronico era lì in piedi, immobile, e guardava oltre le sue spalle come se vedesse qualcuno che si stava avvicinando. Sembrava sbalordito, quasi confuso, e non era un’espressione che si sarebbe mai aspettata di vedergli stampata in volto.

“Ora abbassa la tua arma,” tuonò una voce alle spalle di Gwendolyn.

Gwen gioì al suono di quella voce. Era una voce che conosceva. Si voltò e fu scioccata di vedere una persona che conosceva tanto bene quanto suo padre.

Argon.

Era lì, con la sua veste bianca con il cappuccio, gli occhi scintillanti e intensi più che mai fissi su Andronico. Lei e Steffen giacevano a terra tra i due titani. Erano due creature dalla forza incredibile, una oscura e l’altra di luce, e ora erano uno di fronte all’altro. Poteva addirittura percepire la lotta spirituale che stava infuriando sopra la sua testa.

“Dovrei davvero?” lo derise Andronico, sorridendo.

Ma nel suo sorriso Gwen scorse le labbra che tremavano e poté vedere, per la prima volta, un barlume di paura nei suoi occhi. Non avrebbe mai pensato di poterla scorgere. Andronico doveva conoscere Argon. E qualsiasi cosa sapesse, era sufficiente per fare paura all’uomo più potente del mondo.

“Non farai altro male alla ragazza,” disse con calma Argon. “Accetterai la sua resa,” disse, facendo un passo in avanti, gli occhi brillanti e ipnotici. “Le permetterai di ritirarsi tra la sua gente. E permetterai al suo popolo di arrendersi, se lo sceglieranno. Ho intenzione di dirtelo una sola volta. Saresti saggio ad accettare.”

Andronico fissò Argon e sbatté le palpebre diverse volte, come se fosse indeciso.

Poi gettò la testa indietro e rise di gusto. Era la risata più sonora e tetra che Gwen avesse mai sentito. Il suono riempì il campo e sembrò raggiungere il cielo.

“I tuoi trucchetti da stregone non funzionano su di me, vecchio,” disse Andronico. “So del grande Argon. C’è stato un tempo in cui sei stato potente. Più potente di uomini, draghi, del cielo stesso, o così almeno si dice. Ma il tuo tempo è passato. Ora è un’era nuova. Ora è il tempo del grande Andronico. Ora non sei che un relitto, il rimasuglio di qualche altra era, di quando i MacGil governavano, di quando la magia era forte. Di quando l’Anello era imbattibile. Ma il tuo fato è legato all’Anello. E ora l’Anello è debole. Come te.

“Sei un pazzo ad affrontarmi, vecchio. Ora soffrirai. Ora imparerai la forza del grande Andronico.”

Andronico fece una smorfia e sollevò di nuovo la spada sopra Gwendolyn, questa volta con gli occhi fissi su Argon.

“Ucciderò questa ragazza lentamente, davanti ai tuoi occhi,” disse. “Poi ucciderò il gobbo. Poi ho intenzione di menomare te, ma lasciarti vivere come simbolo del mio potere e della mia grandezza.”

Gwendolyn si tenne stretta e tremò mentre Andronico calava la spada verso la sua testa.

Improvvisamente accadde qualcosa. Udì un suono fendere l’aria, come di migliaia di fuochi, e poi il grido di Andronico.

Aprì gli occhi incredula nel vedere il volto di Andronico contorto nel dolore. Lasciò cadere la spada e si inginocchiò a terra. Poi vide Argon che faceva un passo avanti, poi un altro, tenendo sollevata una sola mano dalla quale irradiava una palla viola chiaro. La palla divenne sempre più grande e avvolse Andronico mentre Argon continuava a camminare in avanti, imperturbato, avvicinandosi sempre di più.

Andronico si rannicchiò a terra, completamente avvolto dalla luce.

Dai suoi uomini si levò un sussulto, ma nessuno osò avvicinarsi. O erano spaventati, o Argon aveva scagliato su di loro una qualche sorta di incantesimo per renderli impotenti.

“FALLO SMETTERE!” gridò Andronico portandosi le mani alle orecchie. “TI PREGO!”

“Non farai altro male alla ragazza,” disse Argon lentamente.

“Non farò altro male alla ragazza!” ripeté Andronico, come in trance.

“La libererai ora e le permetterai di tornare dalla sua gente.”

“La libererò ora e le permetterò di tornare dalla sua gente!”

“Concederai al suo popolo la possibilità di arrendersi.”

“Concederò al suo popolo la possibilità di arrendersi!” gridò Andronico. “Per favore! Farò qualsiasi cosa!”

Argon fece un respiro profondo, poi si fermò. La luce scomparve dalla sua mano e lui abbassò lentamente il braccio.

Gwen lo guardò scioccata: non lo aveva mai visto in azione e faceva fatica a capire l’entità del suo potere. Era come vedere i cieli che si aprivano.

“Se dovremo incontrarci ancora, grande Andronico,” disse Argon lentamente, guardandolo a terra tremante, “sarà lungo il tuo tragitto verso gli oscuri regni della morte.”




CAPITOLO DUE


Thor lottava con tutte le sue forze, trattenuto saldamente dai soldati dell’Impero, e guardava impotente mentre Durs, un uomo che una volta aveva creduto essere suo fratello, levava la spada per ucciderlo.

Serrò gli occhi e si preparò, sapendo che era giunta la sua ora. Se la prese con se stesso per essere stato così stupido, per essersi fidato a tal punto. Lo avevano ingannato fin dall’inizio, un agnello condotto verso il macello. Ancora peggio: in quanto capo della spedizione, gli altri avevano guardato a lui come a una guida. Non aveva portato alla morte solo se stesso, ma anche tutti gli altri. La sua ingenuità, la sua natura fiduciosa,  li aveva messi tutti in pericolo.

Mentre si dimenava cercava con tutto se stesso di raccogliere i propri poteri, di richiamarli da qualche parte dentro di sé; giusto un briciolo di energia per potersi liberare e reagire.

Eppure, per quanto provasse, non accadeva nulla. La sua forza personale da sola non era sufficiente per liberarsi da tutti i soldati che lo tenevano stretto.

Thor sentiva il vento carezzargli la faccia mentre Durs abbassava la spada e si preparò per l’imminente impatto con la lama d’acciaio. Non era pronto a morire. Nella sua mente vide Gwendolyn, nell’Anello, che lo aspettava. Sentiva di aver fatto del male anche a lei.

Improvvisamente udì un rumore di carne che sbatteva contro altra carne, e quando aprì gli occhi con sua grande sorpresa vide che era ancora vivo. Il braccio di Durs era fermo in aria, il polso bloccato dall’enorme mano di un soldato dell’Impero, ben più alto di lui (cosa non così comune, data la stazza di Durs). Il soldato aveva afferrato il braccio di Durs appena a pochi centimetri dall’andare a segno.

Durs si voltò verso l’uomo, sorpreso.

“Il nostro capo non li vuole morti,” mormorò il soldato con voce greve. “Li vuole vivi. Come prigionieri.”

“Nessuno ce l’ha detto,” protestò Durs.

“Il patto era che li avremmo uccisi!” aggiunse Dross.

“I termini del patto sono cambiati,” rispose il soldato.

“Non potete farlo!” gridò Drake.

“Davvero?” gli rispose con tono severo, voltandosi verso di lui. “Possiamo fare tutto quello che vogliamo. In effetti, ora anche voi siete nostri prigionieri.” Il soldato sorrise. “Più membri della Legione abbiamo per il riscatto, meglio è.”

Durs guardò il soldato e il volto gli si adombrò per l’indignazione. Un attimo dopo scoppiò il caos e i tre fratelli vennero aggrediti da decine di soldati dell’Impero che li bloccarono a terra e legarono loro i polsi.

Thor prese vantaggio dalla baraonda e si voltò alla ricerca di Krohn, che scorse a pochi passi da loro, in agguato nell’ombra, lealmente sempre al suo fianco.

“Krohn, aiutami!” gridò Thor. “ORA!”

Krohn balzò in azione con un ruggito, volando in aria e affondando le zanne nella gola di un soldato dell’Impero che teneva un polso di Thor. Thor riuscì a divincolarsi e Krohn saltò da un soldato all’altro, mordendoli e graffiandoli fino a che Thor fu in grado di liberarsi del tutto e afferrare la sua spada. Thor poi ruotò su se stesso e con un solo colpo tagliò tre teste.

Poi corse da Reece, il più vicino, e pugnalò al cuore l’uomo che lo teneva, liberando l’amico e permettendogli di sguainare la sua spada e unirsi al combattimento. I due si allargarono a ventaglio e corsero verso gli altri compagni della Legione, attaccando i soldati e liberando quindi Elden, O’Connor, Conval e Conven.

Gli altri soldati erano occupati nel tener fermi Drake, Durs e Dross e quando si voltarono  e si resero conto di cosa stava accadendo era ormai troppo tardi. Thor, Reece, O’Connor, Elden e i gemelli erano liberi, tutti con le loro armi alla mano. Erano ancora in netta inferiorità numerica e Thor sapeva che la lotta non sarebbe stata facile. Ma almeno ora avevano la possibilità di combattere. Imperterriti, si lanciarono con convinzione contro il nemico.

I circa cento soldati dell’Impero attaccarono e Thor udì uno stridio provenire da sopra la sua testa: sollevando lo sguardo vide Estofele. Il falco scese in picchiata e artigliò gli occhi del soldato principale dell’Impero, che cadde al suolo dimenandosi. Estofele poi colpì diversi altri soldati, atterrandoli uno alla volta.

Mentre attaccavano, Thor mise un sasso nella sua fionda e tirò, colpendo un soldato alla tempia e mandandolo a terra prima che potesse raggiungerli. O’Connor riuscì a tirare due frecce, che andarono a segno con precisione letale. Elden scagliò una lancia, trafiggendo due soldati che caddero ai loro piedi. Era un buon inizio, ma rimanevano sempre un centinaio di soldati da uccidere.

Si scontrarono al centro con un forte grido di guerra. Come gli era stato insegnato, Thor si concentrò su un soldato in particolare, scegliendo quello più grosso e malvagio che potesse trovare, sollevando in aria la propria spada. Si levò un forte clangore metallico. La spada di Thor fu bloccata dallo scudo dell’uomo, che subito gli calò un martello contro la testa.

Thor si fece da parte e il martello andò a conficcarsi nel terreno. Thor prese poi il pugnale che aveva alla cintura e pugnalò l’avversario, che collassò a terra morto.

Thor sollevò lo scudo giusto in tempo per fermare i colpi di spada di altri due aggressori, poi tirò con la sua uccidendone uno. Stava per far roteare la spada contro l’altro quando vide con la coda dell’occhio che una spada stava calando verso di lui alle sue spalle: dovette ruotare su se stesso e bloccarla con il suo scudo.

Ora lo stavano attaccando da tutti i lati, era in netto svantaggio e tutto quello che riusciva a fare era evitare che i colpi gli piovessero addosso. Non aveva né tempo né energia per contrattaccare, ma solo per difendersi. E intanto arrivavano sempre più soldati.

Thor guardò oltre e vide i suoi fratelli della Legione nella stessa difficile situazione: ciascuno di loro era riuscito a uccidere uno o due soldati, ma pagavano il prezzo di essere in minoranza venendo attaccati e superficialmente feriti da ogni parte. Si poteva dire che stavano perdendo terreno, anche se Krohn continuava a saltare e attaccare, e addirittura con Indra che aiutava raccogliendo rocce e scagliandole contro il gruppo di soldati. Sarebbe stata solo una questione di tempo perché venissero circondati e finiti.

“Liberateci!” giunse una voce.

Thor si voltò e vide Drake, legato da funi insieme ai suoi fratelli, a pochi passi da loro.

“Liberateci!” ripeté Drake, “e vi aiuteremo a sconfiggerli! Combattiamo per la stessa causa!”

Alzando lo scudo per bloccare l’ennesimo colpo, questa volta da un’ascia da guerra, Thor si rese conto che altre tre coppie di  mani sarebbero state di grande aiuto. Senza di loro non avevano chiaramente alcuna possibilità di sconfiggere tutti quei soldati. Thor non sentiva di potersi più fidare dei tre fratelli, ma giunto a quel punto, pensava anche che non ci sarebbe stato nulla da perdere nel tentare. Dopotutto anche loro tre erano motivati a combattere.

Thor bloccò un altro colpo di spade, poi cadde in ginocchio e rotolò a terra, tra la folla, per diversi metri, fino a raggiungere i tre fratelli. Balzò in piedi e tagliò le funi una alla volta, proteggendoli dai colpi mentre ciascuno di loro sguainava la propria spada e si lanciava nella mischia.

Drake, Dross e Durs si buttarono nel fitto gruppo di soldati dell’Impero e attaccarono, fendendo, spingendo, colpendo. Erano tutti robusti e abili e colsero i soldati dell’Impero alla sprovvista, uccidendone subito diversi e ribaltando le sorti dello scontro. Thor provava sentimenti contrastanti riguardo all’averli liberati, soprattutto dopo quello che avevano fatto, ma date le circostanze, sembrò essere la scelta più saggia. Meglio questo piuttosto che morire.

Ora erano in nove contro la restante ottantina di soldati.  Le probabilità erano ancora terribilmente scarse per loro, ma sempre meglio di prima.

I ragazzi della Legione fecero affidamento sulle loro esercitazioni, sull’addestramento ricevuto durante il Cento, le innumerevoli volte che erano stati allenati a combattere circondati e in minoranza. Fecero come Kolk e Brom avevano insegnato loro: ripiegarono e formarono un cerchio serrato, schiena contro schiena, affrontando il violento Impero come un tutt’uno. Si sentivano incoraggiati dall’arrivo dei tre guerrieri in più, e tutti ebbero un secondo slancio, combattendo con maggior vigore di prima.

Conval prese il suo mazzafrusto e lo fece roteare, colpendo ripetutamente il nemico e riuscendo ad annientare tre soldati dell’Impero prima che la catena gli venisse strappata di mano. Suo fratello Conven usò una normale mazza, mirando basso e colpendo le gambe dei soldati con la palla di ferro chiodata. O’Connor non poteva usare il suo arco a così breve distanza, ma riuscì a prendere due pugnali da lancio dalla cintura e a tirarli nel gruppo, uccidendo altrettanti soldati. Elden fece roteare con ferocia il suo martello da guerra, scagliando colpi tutt’attorno a sé. E Thor e Reece pararono e colpirono espertamente con le loro spade. Per un momento Thor si sentì ottimista.

Poi, con la coda dell’occhio, scorse qualcosa che lo disturbò. Scorse uno dei tre fratelli che si girava e si metteva a correre attraverso il cerchio della Legione: era Durs. Si stava per avventare non contro un soldato dell’Impero, ma contro di lui. Contro Thor. Mirando proprio alla sua schiena.

Accadde molto velocemente e Thor, impegnato contro i due soldati dell’Impero che aveva davanti, non poté voltarsi in tempo.

Sapeva che stava per morire, pugnalato alla schiena da un ragazzo che una volta aveva pensato fosse suo fratello, da un ragazzo di cui si era fidato, ingenuamente, ben due volte.

Improvvisamente Conval apparve di fronte a Thor per proteggerlo.

E quando Durs abbassò la spada contro al schiena di Thor, andò a colpire invece il petto di Conval.

Thor si girò e gridò: “CONVAL!”

Conval rimase lì, immobile, gli occhi aperti in uno sguardo di morte, guardando la spada che si era conficcata nel suo cuore e il sangue che gli colava lungo il corpo.

Durs rimase lì a guardare con uguale sorpresa.

Conval cadde sulle ginocchia, mentre il sangue sgorgava copioso dal suo petto. Thor guardava, come se tutto accadesse al rallentatore, mentre Conval, un caro compagno della Legione, un ragazzo che aveva amato come un vero fratello, cadeva a faccia in giù nella terra, morto. E tutto per salvargli la vita.

Durs stava sopra di lui e lo fissava, apparentemente scioccato per ciò che aveva appena fatto.

Thor si lanciò in avanti per uccidere Durs, ma Conven lo batté sul tempo. Il gemello di Conval corse in avanti e fece roteare la spada decapitando Durs, il cui corpo floscio cadde molle a terra.

Thor si sentiva svuotato, distrutto dal senso di colpa. Aveva fatto un altro errore di giudizio. Se non avesse liberato Durs, probabilmente Conval sarebbe stato vivo.

Con le schiene esposte all’Impero, i soldati nemici ebbero un’opportunità. Balzarono tutti  nel cerchio aperto e Thor si sentì colpire una scapola da un martello da guerra e la forza del colpo lo mandò a terra.

Prima che riuscisse a rialzarsi, diversi soldati gli balzarono addosso: sentì i loro piedi sulla schiena e sentì un soldato che lo afferrava per i capelli e si chinava su di lui con un pugnale.

“Puoi dire addio, giovanotto,” disse il soldato.

Thor chiuse gli occhi e, appena lo fece, si sentì trasportato in un altro mondo.

Ti prego Dio, disse parlando tra sé e sé. Permettimi di sopravvivere oggi. Dammi solo la forza di uccidere questi soldati. Di morire un altro giorno, in qualche altro posto, con onore. Di vivere abbastanza da vendicare queste morti. Di vedere Gwendolyn un’ultima volta.

Mentre giaceva lì e guardava il pugnale che scendeva verso di lui, sentì che il tempo rallentava fino quasi a fermarsi. Sentì un’improvvisa ondata di calore risalirgli lungo le gambe, il busto e le braccia, fino alle mani, alle punte delle dita: un formicolio così intenso da non poter neanche chiudere le mani. Quell’incredibile ondata di calore ed energia era pronta ad esplodere attraverso lui.

Thor ruotò, sentendosi carico di una nuova forza, e diresse la mano contro il suo aggressore. Una sfera bianca scaturì dal suo palmo e lanciò il soldato in aria, attraverso il campo di battaglia, mandandolo a sbattere contro diversi altri soldati, atterrandoli.

Thor si alzò, straripante di energia, e diresse le mani verso il campo di battaglia. Le sfere bianche di luce vennero scagliate ovunque, creando onde di distruzione, così rapide e intense che nel giro di pochi minuti tutti i soldati dell’Impero si ammassarono in un grande cumulo di corpi, morti.

Quando l’istantaneo calore si fu calmato, Thor fece il punto della situazione. Lui, Reece, Elden e Conven erano vivi. Vicini a loro c’erano anche Krohn e Indra, il leopardo con il fiatone. Tutti i soldati dell’Impero erano morti. E ai loro piedi giaceva Conval, morto anche lui.

Anche Dross era morto, una spada dell’Impero conficcata nel cuore.

Dei tre fratelli l’unico rimasto vivo era Drake. Giaceva a terra gemente, ferito allo stomaco da un pugnale. Thor gli si avvicinò, mentre Reece, O’Connor ed Elden lo tiravano in piedi tra lamenti di dolore.

Drake fece loro una smorfia, in stato di non completa coscienza a causa del dolore lancinante.

“Avresti dovuto ucciderci dall’inizio,” disse Drake, il sangue che gli colava dalla bocca, tossendo. “Sei sempre stato troppo ingenuo. Troppo stupido.”

Thor si sentì arrossire, più furioso con se stesso che altro, sapendo che il ragazzo diceva la verità. Era in collera soprattutto perché la sua ingenuità aveva avuto come risultato la morte di Conval.

“Te lo chiederò solo una volta,” disse furente a Drake. “Rispondimi sinceramente e ti lasceremo vivere. Menti, e seguirai i tuoi fratelli. A te la scelta.”

Drake tossì diverse volte.

“Dov’è la Spada?” gli chiese. “La verità questa volta.”

Drake continuò a tossire, poi riuscì finalmente a sollevare la testa. Incontrò lo sguardo di Thor e i suoi occhi si riempirono di odio.

“Neversink,” rispose infine Drake.

Thor guardò gli altri, che ricambiarono tutti il suo sguardo, confusi.

“Neversink?” chiese.

“È un lago senza fondo,” si intromise Indra, facendo un passo avanti. “Al limitare del Grande Deserto. È un lago dall’infinita profondità.”

Thor scosse la testa.

“Perché?” chiese a Drake.

Drake tossì, sempre più debole.

“Ordini di Gareth,” rispose. “La voleva al sicuro in un posto da cui non sarebbe mai più tornata.”

“Ma per quale motivo?” insistette Thor, confuso. “Perché distruggere la Spada?”

Drake sollevò la testa e incontrò i suoi occhi.

“Se non era riuscito a sollevarla lui,” disse, “allora non poteva sollevarla nessun altro.”

Thor lo guardò a lungo e duramente, e alla fine fu soddisfatto perché stava dicendo la verità.

“Allora abbiamo poco tempo,” disse Thor, preparandosi a partire.

Drake scosse la testa.

“Non arriverete mai lì in tempo,” disse Drake. “Sono giorni avanti. La Spada è già perduta per sempre. Arrendetevi e tornate all’Anello, risparmiatevi.”

Thor scosse la testa.

“Non la pensiamo come te,” rispose. “Noi non viviamo per avere le nostre vite salve. Noi viviamo per il valore, per il nostro codice. E andremo ovunque esso ci porti.”

“Vedi bene fino a dove ti ha portato il tuo valore adesso,” disse Drake. “Anche con il tuo valore, sei uno stupido, proprio come tutti gli altri. Il valore non ha alcun senso.”

Thor fece una smorfia. Non poteva credere di essere cresciuto e aver trascorso la sua infanzia con una tale creatura.

Le nocche gli divennero bianche mentre stringeva l’elsa della spada, bramoso più che mai di ucciderlo. Gli occhi di Drake seguirono la sua mano.

“Fallo,” gli disse. “Uccidimi. Fallo una volta per tutte.”

Thor lo fissò a lungo con rabbia, desideroso di farlo sul serio. Ma gli aveva dato la sua parola che se avesse detto la verità non lo avrebbe ucciso. E Thor manteneva sempre la sua parola.

“Non lo farò,” gli disse alla fine. “Per quanto tu te lo meriti. Non morirai per mano mia, perché altrimenti dovrei abbassarmi al tuo livello.”

Quando Thor stava per voltarsi e andarsene, Conven corse verso di loro strillando:

“Per mio fratello!”

Prima che chiunque potesse reagire, Conven sollevò la sua spada e la conficcò nel cuore di Drake. Gli occhi di Conven erano infuocati di pazzia e di dolore mentre sorreggeva Drake in un abbraccio di morte e guardava poi il suo corpo afflosciarsi al suolo, morto.

Thor abbassò lo sguardo e capì che la morte sarebbe stata una magra consolazione per la perdita di Conval. Una perdita per tutti loro. Ma almeno era qualcosa.

Thor sollevò lo sguardo osservando la vasta distesa di deserto davanti a loro e seppe che la Spada era là fuori da qualche parte, oltre i suoi confini. Proprio quando pensava che il loro viaggio fosse giunto al termine, si rese conto che non era neppure cominciato.




CAPITOLO TRE


Erec sedeva tra i cavalieri nella sala delle armi del duca, all’interno del castello, al sicuro all’interno dei cancelli di Savaria. Erano tutti feriti e ammaccati dopo l’incontro con quei mostri. Accanto a lui sedeva l’amico Brandt che si teneva la testa tra le mani, come molti degli altri. L’umore nella stanza era piuttosto cupo.

Lo sentiva anche Erec. Ogni muscolo del suo corpo doleva per la battaglia del giorno contro gli uomini del signorotto prima, e contro quei mostri dopo. Era stato uno dei più duri giorni di battaglia che potesse ricordare e il duca aveva perso moltissimi dei suoi uomini. Mentre rifletteva, Erec si rese conto che se non fosse stato per Alistair lui, Brandt e gli altri ora sarebbero morti.

Le era immensamente grato e la amava ancor di più, con rinnovato slancio. Era anche incuriosito da lei più che mai. Aveva sempre percepito che era un essere speciale, potente. Ma gli eventi di quel giorno gliene avevano dato la prova. Sentiva un cocente desiderio di sapere più di lei, del suo segreto e delle sue origini. Ma le aveva giurato di non intromettersi e lui manteneva sempre la parola data.

Erec non vedeva l’ora che quella riunione fosse terminata, così da poterla vedere.

I cavalieri del duca erano seduti lì da ore, cercando di riprendersi, di capire ciò che era successo e di discutere su cosa fosse opportuno fare come prossima mossa. Lo Scudo era inattivo ed Erec stava ancora analizzando le possibili conseguenze. Significava che Savaria era ora soggetta all’attacco; peggio ancora, i messaggeri erano accorsi con la notizia dell’invasione di Andronico, di ciò che era successo alla Corte del Re e a Silesia. Il cuore di Erec gli sprofondò nel petto. Avrebbe voluto essere con i suoi fratelli dell’Argento per poter difendere le città della sua patria. E invece era lì, a Savaria, dove il fato lo aveva collocato. Ora c’era bisogno di lui in quel luogo: la città e il popolo del duca erano dopotutto una zona strategica del regno di MacGil e avevano bisogno di difesa anche loro.

Ma con i nuovi rapporti appena giunti di un nuovo battaglione spedito lì da Andronico, all’attacco di Savaria, Erec sapeva che il suo esercito da un milione di uomini si sarebbe presto sparpagliato in ogni angolo dell’Anello. Un volta terminato, Andronico non avrebbe lasciato nulla. Erec aveva udito storie di conquiste di Andronico in tutta la sua vita e sapeva che era un uomo crudele senza eguali. Per la semplice regola dei numeri le poche centinaia di uomini del duca non sarebbero state di alcun aiuto contro di loro. Savaria era una città spacciata.

“Io dico di arrenderci,” disse un consigliere del duca, un vecchio guerriero brizzolato che sedeva fiaccamente accanto a un lungo tavolo rettangolare, perso in un boccale di birra, sbattendo il suo guanto di ferro sul ripiano di legno. Tutti gli altri soldati si ammutolirono e lo guardarono.

“Che scelta abbiamo?” aggiunse. “Siamo poche centinaia contro un milione dei suoi uomini.”

“Forse potremmo difenderci, almeno mantenere la città,” disse un altro soldato.

“Ma per quanto?” chiese un altro ancora.

“Abbastanza perché MacGil mandi rinforzi, se riusciamo a resistere abbastanza a lungo.”

“MacGil è morto,” disse un altro guerriero. “Non verrà nessuno ad aiutarci.”

“Ma sua figlia è viva,” si intromise un altro. “E anche i suoi uomini lo sono. Non ci abbandonerebbero mai qui!”

“Ma se possono a malapena difendere se stessi!” protestò un altro.

Gli uomini eruppero in un agitato chiacchiericcio, tutti discutendo tra loro, parlando a voce alta e camminando per la stanza.

Erec guardava la scena, seduto, e si sentiva svuotato. Era giunto un messaggero, solo poche ore prima, portando la spaventosa notizia dell’invasione di Andronico e anche – per Erec la notizia ancora peggiore – che MacGil era stato assassinato. Erec era stato talmente tanto tempo lontano dalla Corte del Re, che la notizia lo aveva raggiunto solo ora: quando la udì si sentì come se un pugnale gli fosse stato conficcato nel cuore. Aveva amato MacGil come un padre e la sua perdita lo faceva sentire indicibilmente vuoto.

La stanza si acquietò e il duca si schiarì la voce, mentre tutti gli occhi si voltavano verso di lui.

“Possiamo difendere la nostra città contro un attacco,” disse lentamente. “Con le nostre capacità e la forza delle nostre mura possiamo contenere un esercito cinque volte più grande del nostro, forse anche dieci volte più grande. E abbiamo scorte a sufficienza per sopportare un assedio di settimane. Contro qualsiasi normale esercito, vinceremmo.”

Sospirò.

“Ma l’Impero non detiene un esercito normale,” aggiunse. “Non siamo in grado di difenderci contro un milione di uomini. Sarebbe inutile.”

Fece una pausa.

“Ma lo sarebbe anche arrendersi. Sappiamo tutti ciò che Andronico fa alle sue prede. Mi è chiaro che moriremmo in ogni caso. La questione è se morire in piedi o seduti. Io dico di morire in piedi!”

Nella stanza si levò un grido di approvazione. Erec non sarebbe potuto essere più d’accordo.

“Quindi non ci resta altro corso d’azione da seguire,” continuò il duca. “Difenderemo Savaria. Non ci arrenderemo mai. Probabilmente moriremo, ma lo faremo tutti insieme.”

Calò un denso silenzio e tutti annuirono l’un l’altro, gravemente. Sembrava che stessero tutti cercando un’altra soluzione.

“C’è un altro modo,” disse infine Erec, prendendo la parola.

Sentì che tutti gli occhi si voltavano verso di lui e lo fissavano.

Il duca gli rivolse un cenno di assenso, spronandolo ad andare avanti.

“Possiamo attaccare,” disse Erec.

“Attaccare’” risposero i soldati sorpresi. “Le poche centinaia dei nostri uomini, attaccare un milione di soldati? Erec, sappiamo che sei un temerario. Ma sei pazzo?”

Erec scosse la testa, completamente serio.

“Quello che non considerate è che gli uomini di Andronico non si aspetterebbero mai un attacco. Ci guadagneremmo nell’elemento sorpresa. Come dite, stare qui a difenderci ci porterebbe a morte certa. Se attaccassimo, potremmo annientare un sacco di uomini. Cosa ancora più importante, se attacchiamo nel modo giusto, e nel posto giusto, potremmo fare ben più che tenerli a bada, potremmo addirittura vincere.”

“Vincere?!” gridarono tutti, guardando Erec con assoluto stupore.

“Cosa intendi dire?” chiese il duca.

“Andronico si aspetterà di trovarci qui, pronti ad arretrare e difendere la nostra città,” spiegò Erec. “I suoi uomini non si aspettano di trovarci appostati in un qualche posto di blocco a caso fuori dalle mura della città. Qui nella città abbiamo il vantaggio delle mura forti, ma là fuori, nel campo di battaglia, abbiamo il vantaggio della sorpresa. E la sorpresa è sempre più efficace della forza. Se riusciamo a creare un luogo di congestione naturale, possiamo incanalarli tutti in un medesimo posto da dove possiamo attaccarli. Mi sto riferendo alla Gola Orientale.”

“La Gola Orientale?” chiese un soldato.

Erec annuì.

È un ripido crepaccio tra due pareti di roccia, l’unico passaggio scavato tra i Monti di Cavonia, a una giornata buona di viaggio da qui. Se gli uomini di Andronico vengono verso di noi, la via più diretta è attraverso la gola. Altrimenti dovrebbero scalare le montagne. La strada dal nord è troppo stretta e troppo fangosa in questo periodo dell’anno, perderebbero settimane. E da sud dovrebbe oltrepassare il Fiume Fiordo.”

Il duca guardò Erec con ammirazione, strofinandosi la barba pensieroso.

“Può darsi che tu abbia ragione. È possibile che Andronico faccia passare i suoi uomini attraverso al gola. Per qualsiasi altro esercito sarebbe un atto di suprema supponenza. Ma per lui, con un milione di uomini, può veramente essere che lo faccia.”

Erec annuì.

“Se riusciamo ad arrivare lì, se li battiamo sul tempo, possiamo sorprenderli e tendere loro un’imboscata. Con una tale posizione, pochi possono tenerne a bada migliaia.”

Tutti gli altri soldati guardarono Erec con sguardi pieni di speranza e rispetto, mentre nella stanza calava un denso silenzio.

“Un piano coraggioso, amico,” disse il duca. “Ma ripeto, tu sei un guerriero coraggioso. Lo sei sempre stato.” Il duca fece un cenno a un servitore. “Portami una mappa!”

Un ragazzo uscì di corsa dalla stanza e tornò da un’altra porta reggendo un grande rotolo di pergamena. La srotolò sul tavolo e i soldati si riunirono attorno per studiarla.

Erec allungò una mano e indicò Savaria sulla mappa, poi tracciò una linea con il dito, a est, fermandosi sulla Gola Orientale. Un crepaccio stretto, circondato da montagne che si estendevano a perdita d’occhio.

“È perfetto,” disse un soldato.

Gli altri annuirono, strofinandosi le barbe.

“Ho sentito storie di poche decine di uomini tenere a bada migliaia di nemici nella gola,” disse un soldato.

“È una vecchia storiella, una favola,” disse un altro, scetticamente. “Certo, avremo a favore l’elemento sorpresa. Ma cos’altro? Non avremo la protezione delle mura.”

“Avremo la protezione di pareti naturali,” rispose un altro. “Quelle montagne sono metri e metri di solida roccia.”

“Niente è sicuro,” aggiunse Erec. “Come ha detto il duca, o moriamo qui o moriamo là fuori. Io dico di morire là fuori. La vittoria va ai coraggiosi.”

Il duca, dopo un lungo momento di riflessione, annuì e arrotolò di nuovo la mappa.

“Preparate le armi!” gridò. “Partiamo stanotte!”


*

Erec, vestito di tutto punto con l’armatura, la spada attaccata alla cintura, percorreva il corridoio del castello del duca, nella direzione opposta a quella degli altri uomini. Aveva un compito importante prima di partire per quella che poteva essere la sua ultima battaglia.

Doveva vedere Alistair.

Da quando erano tornati dall’ultimo scontro, Alistair aveva aspettato nel castello, in fondo al corridoio nella sua camera personale, attendendo che Erec andasse da lei. Era in attesa di un felice incontro, e ad Erec si spezzò il cuore quando si rese conto che le stava portando la notizia di una nuova partenza. Provava un certo senso di pace almeno sapendo che lei sarebbe stata lì al sicuro, all’interno delle mura della città, e si sentì più determinato che mai a tenerla in salvo, a contenere l’Impero. Le faceva male il cuore all’idea di lasciarla: non avrebbe voluto niente di più che trascorrere del tempo con lei dopo il loro giuramento di matrimonio. Ma sembrava non dovesse andare così.

Quando Erec svoltò l’angolo, gli speroni tintinnanti, gli stivali riecheggianti contro il pavimento nei corridoi vuoti del castello, si preparava a dirle addio, e sapeva che sarebbe stato doloroso. Alla fine raggiunse una vecchia porta di legno e bussò delicatamente con il suo guanto di ferro.

Si udirono dei passi nella stanza e un attimo dopo la porta si aprì. Il cuore gli si gonfiò di gioia, come sempre quando vedeva Alistair. Eccola lì, sulla soglia, con i suoi biondi capelli lunghi e fluenti e i grandi occhi di cristallo che lo guardavano come fosse una visione. Ogni volta che la vedeva sembrava sempre più bella.

Erec entrò e la abbracciò e anche lei lo strinse. Lo tenne stretto a sé a lungo, non volendo lasciarlo andare. Neanche lui l’avrebbe lasciata. Desiderava più di ogni altra cosa poter chiudere la porta e rimanere lì con lei tanto quanto voleva. Ma non era possibile.

Il calore e la sensazione che gli dava il contatto con lei faceva sembrare che tutto andasse perfettamente nel mondo, ed Erec era riluttante a lasciarla andare. Alla fine si discostò e la guardò negli occhi, che stavano scintillando. Lei guardò la sua armatura e l’espressione del volto si fece seria quando si rese conto che non si sarebbe fermato.

“Te ne stai andando di nuovo, mio signore?” gli chiese.

Erec abbassò la testa.

“Non è un mio desiderio, mia signora,” le rispose. “L’Impero sta avanzando. Se rimango qui, moriremo tutti.”

“E se te ne vai?” gli chiese.

“È probabile che morirò comunque,” ammise. “Ma almeno ci sarà una probabilità per tutti noi. Una piccola probabilità, ma pur sempre una probabilità.”

Alistair si voltò e andò alla finestra, guardando il cortile del duca al tramonto del sole, il volto illuminato da una tenue luce. Erec scorse la tristezza che le segnava il viso, si avvicinò a lei e le scostò i capelli dal collo, carezzandola.

“Non essere triste, mia signora,” le disse. “Se sopravviverò a questo, tornerò da te. E poi saremo insieme, per sempre, liberi da ogni pericolo e da ogni minaccia. Liberi finalmente di vivere insieme.”

Lei scosse tristemente la testa.

“Ho paura,” disse.

“Dell’esercito che si sta avvicinando?” le chiese.

“No,” gli disse voltandosi verso di lui. “Di te.”

Erec la guardò confuso.

“Ho paura che mi guarderai diversamente adesso,” gli disse, “dopo che hai visto quello che è successo sul campo di battaglia.”

Erec scosse la testa.

“Non ti penso per niente come diversa,” le disse. “Mi hai salvato la vita e per questo ti sono grato.”

Lei scosse la testa.

“Ma hai anche visto una parte diversa di me,” disse lei. “Hai visto che non sono normale. Non sono come qualsiasi altro. Ho in me poteri che non capisco. E ora temo che tu penserai di me come una specie di mostro. Come una donna che non vuoi più come tua moglie.”

Il cuore di Erec si spezzò a quelle parole, fece un passo avanti e le prese con franchezza le mani, guardandola negli occhi con tutta la serietà che gli era possibile.

“Alistair,” le disse. “Ti amo con tutto me stesso. Non c’è mai stata donna che io abbia amato di più. E mai ci sarà. Amo tutto quello che sei. Non ti vedo diversa da chiunque altro. Qualsiasi genere di potere tu abbia, chiunque tu sia, anche se non lo capisco, ti accetto totalmente. Ti sono grato per tutto. Ho giurato di non fare domande e manterrò la parola. Non ti chiederò mai niente. Qualsiasi cosa tu sia, io lo accetto.”

Lei lo guardò a lungo, poi lentamente sorrise e gli occhi le si riempirono di lacrime di sollievo e gioia. Si voltò e lo abbracciò, stringendolo con forza e con tutta se stessa.

Gli sussurrò in un orecchio: “Torna da me.”




CAPITOLO QUATTRO


Gareth si trovava all’ingresso della grotta e guardava il tramonto del sole, in attesa. Si leccò le labbra secche e cercò di concentrarsi: gli effetti dell’oppio si stavano finalmente attenuando. Si sentiva la testa leggera ed erano giorni che non mangiava o beveva. Gareth ripensò alla rocambolesca fuga dal castello, sgattaiolando fuori attraverso il passaggio segreto dietro al caminetto, proprio prima che Lord Kultin gli tendesse l’imboscata. Sorrise. Kultin era stato furbo nel suo piano, ma Gareth lo era stato di più. Come tutti gli altri anche Kultin lo aveva sottovalutato: non si era reso conto che le spie di Gareth erano ovunque e che lui era venuto quindi a conoscenza del complotto praticamente all’istante.

Gareth era fuggito giusto in tempo, proprio prima che Kultin gli tendesse l’imboscata e che Andronico invadesse la Corte del Re radendola al suolo. Lord Kultin gli aveva fatto un favore.

Gareth aveva preso l’antico passaggio segreto per uscire dal castello, fra curve e svolte sotterranee, uscendo in superficie in mezzo alla campagna, in un remoto villaggio a miglia di distanza dalla Corte del Re. Era arrivato vicino a quella grotta ed era collassato appena l’aveva raggiunta, dormendo un giorno intero, rannicchiato e infreddolito dall’implacabile aria invernale. Avrebbe voluto essersi portato più vestiti.

Una volta sveglio, Gareth si era accucciato spiando, in distanza, il piccolo villaggio di agricoltori: c’erano una manciata di casupole, il fumo si levava dai camini, e ovunque c’erano soldati di Andronico che marciavano attraverso il villaggio e in mezzo alla campagna. Gareth aveva atteso pazientemente fino a che erano scomparsi. Lo stomaco gli faceva male per la fame e sapeva di aver bisogno di raggiungere una di quelle case. Sentiva l’odore del cibo che si stava cucinando anche da lì.

Partì di corsa dalla grotta, guardando da tutte le parti mentre avanzava, respirando affannosamente, oppresso dalla paura. Erano anni che non correva e ora rantolava per lo sforzo: questo gli faceva capire quanto magro e malaticcio era diventato. La ferita alla testa, dove sua madre lo aveva colpito con il busto di marmo, pulsava. Se fosse sopravvissuto a tutto questo, giurò che l’avrebbe uccisa con le sue mani.

Gareth corse nella città, sfuggendo fortunatamente gli sguardi dei pochi soldati dell’Impero che gli davano le spalle. Si diresse rapidamente verso la prima casa che vide, una semplice dimora con un’unica stanza, proprio come le altre: un caldo bagliore proveniva dall’interno. Vide una ragazza, forse della sua età, oltrepassare la porta aperta con un pezzo di carne, sorridendo, accompagnata da una bambina, probabilmente la sorellina di forse dieci anni. Decise che quello era il posto giusto.

Gareth attraversò di scatto l’uscio insieme a loro, seguendole e sbattendo la porta alle loro spalle, afferrando la ragazzina più giovane da dietro e tenendole un braccio attorno alla gola. La bambina gridò e la sorella maggiore lasciò cadere il piatto di cibo mentre Gareth estraeva un pugnale e lo puntava alla gola del suo ostaggio.

Lei gridò e si mise a piangere.

“PAPÀ!”

Gareth si voltò e si guardò attorno nell’accogliente casetta, illuminata da candele e inondata dal profumo di cibo e vide, accanto alla ragazza più grande, madre e padre in piedi vicino a un tavolo, fissi a guardarlo con gli occhi colmi di paura e rabbia.

“State indietro e non la ucciderò!” gridò Gareth, disperato, allontanandosi da loro e tenendo sempre stretta la bambina.

“Chi sei?” chiese la ragazza più grande. “Io mi chiamo Sarka. Mia sorella è Larka. Siamo una famiglia pacifica. Cosa vuoi da mia sorella? Lasciala stare!”

“Io so chi sei,” disse il padre strizzando gli occhi e guardandolo con disapprovazione. “Eri il precedente re. Il figlio di MacGil.”

“Sono ancora il re,” gridò Gareth. “E voi siete miei sudditi. E farete quello che dico!”

L’uomo lo guardò con espressione accigliata.

“Se sei il re, dov’è il tuo esercito?” gli chiese. “E se sei il re, che interesse hai a prendere in ostaggio una bambina piccola e innocente, usando un pugnale di corte? Magari lo stesso pugnale che hai usato per uccidere tuo padre?” disse l’uomo sogghignando. “Ho sentito cosa si racconta.”

“Hai la lingua lunga,” disse Gareth. “Continua a parlare e ucciderò la tua figlioletta.”

Il padre deglutì e gli occhi gli si allargarono per la paura. Poi tacque.

“Cosa vuoi da noi?” chiese la madre piangendo.

“Cibo,” disse Gareth. “E riparo. Avvisate i soldati della mia presenza e vi prometto che la ucciderò. Niente scherzi, chiaro? Lasciatemi stare e lei vivrà. Voglio trascorrere la notte qui. Tu, Sarka, portami un piatto di carne. E tu, donna, attizza il fuoco e dammi un mantello da buttarmi sulle spalle. Muovetevi lentamente!” li allertò.

Gareth vide il padre fare un cenno di assenso alla donna. Sarka raccolse della carne mettendola sul piatto, mentre la madre si avvicinava con uno spesso mantello e glielo posava sulla spalle. Gareth, ancora tremante, arretrò lentamente verso il fuoco lasciando che il fuoco scoppiettante gli scaldasse la schiena, e si sedette sul pavimento, tenendo con sicurezza Larka, che stava ancora piangendo. Sarka si avvicinò con il piatto.

“Mettilo sul pavimento vicino a me!” le ordinò Gareth. “Lentamente!”

Accigliata, Sarka ubbidì, guardando la sorellina con preoccupazione e sbattendo il piatto a terra.

Gareth fu sopraffatto dal profumo del cibo. Allungò la mano libera e afferrò un pezzo di carne, sempre tenendo il pugnale puntato contro la gola di Larka. Masticò ripetutamente, chiudendo gli occhi e gustandosi ogni singolo boccone. Masticava e deglutiva con foga e il cibo quasi gli usciva dalla bocca.

“Vino!” gridò.

La madre gli portò un otre di vino e Gareth se lo spremette nella bocca piena, svuotandolo completamente. Fece un respiro profondo, masticò e bevve ancora e iniziò a sentirsi finalmente di nuovo in forma.

“Ora lasciala andare!” disse il padre.

“Non se ne parla,” rispose Gareth. “Dormirò qui questa notte, così, con lei tra le braccia. Sarà al sicuro, fino a che lo sarò io. Vuoi essere un eroe? O vuoi avere la tua bambina sana e salva?”

I membri della famiglia si guardarono tra loro, senza parole, esitanti.

“Posso farti una domanda?” gli chiese Sarka. “Se sei un re tanto bravo, perché mai tratti i tuoi sudditi in questo modo?”

Gareth la guardò, confuso, poi buttò la testa indietro e rise fragorosamente.

“Chi ha mai detto che sono un bravo re?”




CAPITOLO CINQUE


Gwendolyn aprì gli occhi sentendo il mondo che si muoveva attorno a lei e si sforzò di capire dove si trovava. Vide passarle vicino le enormi arcate dei cancelli di Silesia, vide le migliaia di soldati dell’Impero che la guardavano con meraviglia. Vide Steffen che le camminava accanto e vide il cielo che sobbalzava su e giù. Si rese conto che qualcuno la stava trasportando. Che si trovava tra le braccia di qualcuno.

Piegò il collo e vide gli scintillanti e intensi occhi di Argon. Capì quindi che era lui a portarla, Steffen era al suo fianco e tutti e tre attraversavano in tutta calma i cancelli di Silesia, passando tra migliaia di soldati dell’Impero che si facevano da parte per lasciar loro libero il passaggio e li fissavano immobili. Erano circondati da un bagliore bianco e Gwendolyn si sentiva immersa in una sorta di scudo protettivo di energia tra le braccia di Argon. Si rese conto che lo stregone stava scagliando un qualche genere di incantesimo per tenere a bada i soldati.

Si sentiva confortata e protetta. Tutti i muscoli del corpo le facevano male, era esausta e non sapeva se sarebbe stata in grado di camminare. A tratti chiudeva gli occhi mentre avanzavano, quindi vedeva il mondo che le passava accanto in piccoli ritagli. Vide un pezzo di muro abbattuto, un parapetto collassato, una casa bruciata, una catasta di macerie. Attraversarono il cortile, raggiunsero i cancelli dalla parte opposta, sul bordo del Canyon, e li attraversarono, mentre i soldati anche qui si facevano da parte.

Raggiunsero il Canyon, la piattaforma ricoperta di punte di metallo e, quando Argon si trovò lì, quella si abbassò portandoli nelle profondità di Silesia bassa.

Quando entrarono nella città bassa, Gwendolyn vide decine di volti, i volti preoccupati e cordiali dei Silesiani, che la osservavano passare come se fosse uno spettacolo. La guardavano tutti con sguardi colmi di meraviglia e preoccupazione, mentre continuavano a scendere verso la piazza principale della città.

Quando la raggiunsero, centinaia di persone si riunirono attorno a loro. Vide dei volti familiari: Kendrick, Srog, Godfrey, Brom, Kolk, Atme, decine di soldati dell’Argento e della Legione… si raccolsero tutti attorno a lei, i volti tesi illuminati dal primo sole della mattina, mentre la nebbia vorticava nel Canyon e una fredda brezza le pungeva la pelle. Gwen chiuse gli occhi, cercando di far scomparire tutto. Si sentiva un oggetto in mostra, oppressa nel profondo. Era umiliata. Li aveva fatti fallire.

Continuarono ad avanzare tra tutta la gente, attraverso le strette vie della città bassa, oltre un altro arco, fino al piccolo palazzo di Silesia bassa. Gwen perdeva e riprendeva coscienza: entrarono nel meraviglioso castello rosso, salirono una rampa di scale e percorsero un lungo corridoio, passando sotto un altro ingresso ad arco. Alla fine entrarono in una piccola stanza.

La stanza era buia. Sembrava una grande camera da letto con un antico letto a baldacchino al centro e un fuoco scoppiettante in un vecchio caminetto di marmo poco distante. Nella stanza si trovavano diversi servitori e Gwendolyn sentì che Argon la portava accanto al letto e ve la adagiava sopra con delicatezza. A quel punto molte persone si radunarono attorno a lei guardandola con volti preoccupati.

Argon si scostò, fece diversi passi indietro e scomparve tra la folla. Lei lo cercò con lo sguardo, sbattendo le palpebre, ma non riuscì a vederlo. Se n’era andato. Percepì l’assenza della sua energia protettiva che l’aveva avvolta come uno scudo. Sentiva freddo e insicurezza senza lui vicino.

Si leccò le labbra screpolate e un momento più tardi sentì che le sollevavano la testa, vi mettevano sotto un cuscino e le porgevano una caraffa d’acqua alle labbra. Lei bevve a grandi sorsate, rendendosi conto di quanto assetata era. Sollevò lo sguardo e vide una donna che riconobbe.

Illepra, la guaritrice reale. Illepra la guardava, i suoi dolci occhi nocciola pieni di preoccupazione, e le diede dell’acqua. Poi le strofinò la fronte con un panno caldo, togliendole i capelli dalla faccia. Le mise un palmo sulla fronte e Gwen si sentì pervadere da una forte energia guaritrice. Sentì che gli occhi le si facevano pesanti e ben presto li chiuse contro la propria volontà.


*

Gwendolyn non sapeva quanto tempo fosse passato quando riaprì gli occhi. Si sentiva ancora esausta e disorientata. Nei suoi sogni aveva sentito una voce, e ora la udì di nuovo.

“Gwendolyn,” le disse la voce. La sentì riecheggiarle nella mente e si meravigliò di quante volte avesse chiamato il suo nome.

Sollevò lo sguardo e riconobbe Kendrick, che la fissava. Accanto a lui c’era il fratello Godfrey, insieme a Srog, Brom, Kolk e diversi altri. Dall’altra parte c’era Steffen. Odiò l’espressione sui loro volti. La guardavano con pietà, come se fosse tornata dal regno dei morti.

“Sorella mia,” le disse Kendrick sorridendo. Udì la preoccupazione nella sua voce. “Dicci cosa è successo.”

Gwen scosse la testa, troppo stanca per raccontare tutto.

“Andronico,” disse con voce roca, una specie di sussurro. Si schiarì la gola. “Ho cercato… di arrendermi… per avere in cambio la città… Mi sono fidata di lui. Stupida. …”

Scosse la testa diverse volte e una lacrima le scivolò lungo la guancia.

“No, sei nobile,” la corresse Kendrick, stringendole la mano. “Sei la più coraggiosa di tutti noi.”

“Hai fatto ciò che qualsiasi grande capo avrebbe fatto,” disse Godfrey, facendosi avanti.

Gwen scosse la testa.

“Ci ha ingannati…” disse, “… e mi ha aggredita. Mi ha fatta attaccare da McCloud.”

Gwen non poté farne a meno: iniziò a piangere mentre parlava, incapace di trattenersi. Sapeva che non era un comportamento da sovrana, ma non riusciva a farne a meno.

Kendrick le strinse di più la mano.

“Stavano per uccidermi…” disse. “… ma Steffen mi ha salvato…”

Tutti guardarono Steffen con nuovo rispetto. Lui era lealmente al suo fianco, il capo chino.

“Ciò che ho fatto era troppo poco e troppo tardi,” rispose umilmente. “Ero uno contro molti.”

“Ciononostante hai salvato nostra sorella e per questo ti saremo debitori in eterno,” gli disse Kendrick.

Steffen scosse la testa.

“Io devo a lei un favore ancora più grande,” rispose.

Gwen si intromise.

“Argon ci ha poi salvati entrambi,” concluse.

Il volto di Kendrick si adombrò.

“Ti vendicheremo,” disse.

“Non è per me che sono preoccupata,” disse Gwen. “È la città… la nostra gente… Silesia… Andronico… attaccherà…”

Godfrey le accarezzò una mano.

“Non preoccuparti di questo ora,” le disse. “Riposati. Parliamone in un altro momento. Ora stai bene e sei qui con noi.”

Gwen sentì gli occhi chiudersi. Non sapeva più se era sveglia o se stava sognando.

“Ha bisogno di dormire,” disse Illepra, facendosi avanti protettiva.

Gwendolyn sentì appena queste parole, mentre diventava sempre più pesante e scivolava fuori dallo stato di coscienza. Nella mente le lampeggiarono immagini di Thor e poi di suo padre. Faceva fatica a capire cos’era reale e cosa un sogno, e sentiva solo frammenti della conversazione vicino a lei.

“Quanto gravi sono le ferite?” disse una voce, forse quella di Kendrick.

Sentì la mano di Illepra che le accarezzava la fronte. Poi le ultime parole che udì, prima che gli occhi le si chiudessero del tutto, furono quelle di Illepra stessa: “Le ferite del corpo sono leggere, mio signore. Sono quelle dello spirito ad essere profonde.”


*

Quando Gwen si risvegliò fu per il rumore scoppiettante del fuoco. Non sapeva dire quanto tempo fosse passato. Sbatté le palpebre diverse volte e si guardò attorno nella camera scura, vedendo che la folla di gente se n’era andata. Le uniche persone rimaste erano Steffen, seduto su una sedia accanto a lei, Illepra, che stava invece in piedi, intenta a spalmarla un unguento sul polso, e un’altra persona. Era un uomo gentile e anziano che la guardava con preoccupazione. Lo riconobbe appena, ma faceva fatica a collocarlo nella memoria. Si sentiva così stanca, troppo stanca, come se non dormisse da anni.

“Mia signora?” disse l’anziano, chinandosi su di lei. Teneva tra le mani un grosso oggetto, e guardando meglio Gwen si rese conto che si trattava di un libro rilegato in pelle.

“Sono Aberthol,” disse. “Il tuo insegnante. Mi senti?”

Gwen deglutì e annuì lentamente, aprendo gli occhi appena un po’.

“Sono ore che aspetto di vederti,” le disse. “Ho visto che ti stavi risvegliando.”

Gwen annuì lentamente, ricordando, grata della sua presenza.

Aberthol si chinò verso di lei e aprì il grosso libro. Gwen ne percepiva il peso in grembo. Udì il fruscio delle pesanti pagine mentre lui le sfogliava.

“È uno dei pochi libri che ho salvato,” le disse, “prima che la Casa dei Sapienti andasse a fuoco. È il quarto annale dei MacGil. Lo hai letto. Nascoste al suo interno ci sono storie di conquiste, trionfi e sconfitte, ovviamente, ma ci sono anche altre storie. Storie di grandi capi feriti. Di ferite del corpo e di ferite dello spirito. Tutti i generi di danni immaginabili, mia signora. Ed è questo ciò che sono venuto a dirti: anche i migliori uomini e donne hanno sofferto i trattamenti, i colpi e le torture più inimmaginabili. Non sei la sola. Non sei che un granello nella ruota del tempo. Ci sono innumerevoli altri che hanno sofferto molto più di te, e molti che sono sopravvissuti e che ne sono usciti ancora più grandi.

“Non provare vergogna,” le disse, afferrandole il polso. “È questo quello che intendo dire. Non provare mai vergogna. Non dovrebbe esistere la vergogna in te, ma solo l’onore e il coraggio per ciò che hai fatto. Sei il capo più grande che l’Anello abbia mai avuto. E quello che è successo non diminuisce neanche un  po’ il tuo valore.”

Gwen, commossa dalle sue parole, sentì una lacrima scenderle lungo la guancia. Le sue parole erano proprio ciò che aveva bisogno di udire e gli era estremamente grata. Logicamente sapeva e capiva che aveva ragione.

Eppure, emotivamente, le era ancora difficile sentirsi così. Una parte di lei non poteva fare a meno di sentirsi come se i danni subiti fossero eterni. Sapeva che non era vero, ma era così che si sentiva.

Aberthol le sorrise e le porse un libriccino.

“Ricordi questo?” le chiese, rigirando la copertina di pelle rossa. “Era il tuo preferito quando eri bambina. Le leggende dei tuoi padri. C’è una storia in particolare qui che ho pensato di poterti leggere per aiutarti a passare il tempo.”

Gwen fu toccata dal gesto, ma non poteva accettare oltre. Scosse tristemente la testa.

“Grazie,” disse con voce roca, mentre un’altra lacrima le rigava il viso. “Ma non riesco a sentirla adesso.”

Il volto di Aberthol mostrò un velo di disappunto, ma poi annuì comprensivo.

“Un’altra volta,” gli disse, sentendosi sconfortata. “Ho bisogno di stare da sola. Se poteste andarvene tutti, per favore,” disse, voltandosi a guardare anche Steffen e Illepra.

Tutti si alzarono in piedi e si inchinarono, poi si voltarono e uscirono velocemente dalla stanza.

Gwen si sentì in colpa, ma non poteva fare altrimenti: avrebbe voluto rannicchiarsi lì e morire. Ascoltò i loro passi che attraversavano la stanza, udì la porta chiudersi dietro di loro e poi guardò per accertarsi che la stanza fosse vuota.

Ma con sorpresa vide che non lo era: c’era ancora una figura solitaria, in piedi sulla soglia, con una postura perfetta, come sempre. Avanzò lentamente e con sicurezza verso di lei, fermandosi a pochi passi dal letto e guardandola priva di espressione.

Sua madre.

Gwen fu sorpresa di vederla lì, la precedente regina, più sicura e orgogliosa che mai, che la guardava con espressione fredda e intensa. Non c’era compassione nei suoi occhi, come in quelli degli altri visitatori.

“Perché sei qui?” le chiese Gwen.

“Sono venuta a trovarti.”

“Ma io non voglio vederti,” le disse Gwen. “Non voglio vedere nessuno.”

“Non mi importa cosa vuoi,” le disse con tono freddo e sicuro. “Sono tua madre e ho il diritto di vederti quando voglio.”

Gwen sentì la vecchia rabbia nei confronti di sua madre che si ravvivava. Era l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento. Ma conosceva sua madre e sapeva che non se ne sarebbe andata fino a che non le avesse detto ciò che aveva in mente.

“E allora parla,” le disse. “Parla e poi vattene, facciamola finita.”

La madre sospirò.

“Tu non lo sai,” iniziò, “ma quando ero giovane e avevo la tua età, sono stata aggredita nello stesso modo che è successo a te.”

Gwen la fissò scioccata: era una cosa che veramente non sapeva.

“Tuo padre lo sapeva,” continuò la donna. “Ma non gliene importò. Mi sposò lo stesso. Al tempo mi sentivo come se il mio mondo fosse crollato. Ma non era così.”

Gwen chiuse gli occhi, sentendo scendere un’altra lacrima e cercando di fermare eliminare dalla sua testa quell’argomento. Non voleva sentire la storia di sua madre. Era un po’ troppo tardi per mostrarle reale compassione. Si aspettava davvero che si sarebbe messa a ballare dalla gioia, dopo essere stata trattata aspramente per tanti anni, solo perché le offriva una storia del genere? Credeva che così avrebbe risolto tutto?

“Hai finito adesso?” le chiese.

La madre si avvicinò: “No, non ho finito,” disse con decisione. “Adesso sei regina, ed è ora che ti comporti da tale,” le disse con voce dura come l’acciaio. Gwen vi percepì un forza mai sentita prima. “Tu ti autocommiseri. Ma le donne ogni giorno, in ogni luogo, soffrono destini ben peggiori del tuo. Quello che ti è successo non è niente nello schema della vita. Mi hai capito? Non è niente.”

La donna sospirò.

“Se vuoi sopravvivere e sentirti a casa in questo mondo, devi essere forte. Più forte di un uomo. Gli uomini ti prenderanno, in un modo o nell’altro. Ma non si tratta di quello che ti succede: si tratta di come tu lo percepisci. Di come tu reagisci. Su questo devi avere il controllo. Puoi accasciarti e morire. Oppure puoi essere forte. È questa la differenza tra una ragazza e una donna.”

Gwen sapeva che sua madre stava cercando di aiutarla, ma era ferita dalla mancanza di compassione nel suo atteggiamento. E odiava questo suo modo di impartirle una lezione.

“Ti odio,” le disse. “Ti ho sempre odiata.”

“Lo so,” rispose la madre. “E anche io ti odio. Ma questo non significa che non possiamo capirci. Non voglio il tuo amore, quello che voglio è che tu sia forte. Questo mondo non è governato da persone deboli e spaventate, ma da quelli che scuotono la testa di fronte alle avversità come se fossero un nonnulla. Puoi crollare e morire, se vuoi. Hai un sacco di tempo per farlo. Ma è una cosa noiosa. Sii forte e vivi. Vivi veramente. Sii un esempio per gli altri. Perché un giorno, te lo assicuro, morirai comunque. Quindi, mentre se in un vita, vivi.”

“Lasciami stare!” le gridò Gwendolyn, incapace di udire un’altra sola parola.

La madre la guardò con freddezza, poi alla fine, dopo un interminabile silenzio, si voltò e se ne andò dalla stanza, impettita come un pavone, sbattendo la porta alle sue spalle.

Nel vuoto silenzio Gwen iniziò a piangere, e continuò a lungo ininterrottamente. Più che mai avrebbe voluto che tutto quanto scomparisse.




CAPITOLO SEI


Kendrick si trovava sull’ampio ripiano ai bordi del Canyon e guardava la nebbia vorticante. Mentre osservava, sentiva di avere il cuore spezzato. Lo divorava vedere sua sorella in quelle condizioni e si sentiva affranto, come se fosse stato aggredito lui stesso. Vedeva sui volti di tutti i Silesiani che guardavano a Gwen non solo come a una sovrana, ma come a una della loro famiglia. Anche loro erano distrutti. Era come se Andronico li avesse colpiti tutti.

Kendrick si sentiva in colpa. Avrebbe dovuto sapere che sua sorella avrebbe fatto una cosa del genere, sapendo quanto coraggiosa fosse. Avrebbe dovuto prevedere che avrebbe tentato di arrendersi prima che qualcuno di loro avesse la possibilità di fermarla, e avrebbe dovuto trovare un modo di evitare una cosa del genere. Conosceva la sua natura, sapeva quanto ci si poteva fidare di lei, conosceva il suo buon cuore e conosceva pure meglio di lei – essendo un guerriero – la brutalità di certi sovrani. Lui era più grande e più saggio di lei, e sentiva di averla abbandonata.

Si sentiva in colpa anche perché tutto quello, quella situazione disastrata, era troppo per essere messo sulle spalle di una singola persona, una regina appena incoronata, una ragazza di sedici anni. Non sarebbe stata tenuta a sopportare da sola tutto quel peso. Una decisione così importante sarebbe stata difficile anche per lui stesso, anche per suo padre. Gwendolyn aveva fatto del suo meglio in quelle circostanza, forse ancora meglio di come avrebbero agito altri al suo posto. Kendrick stesso non aveva idea di come si sarebbe comportato con Andronico. Nessuno di loro ne aveva idea.

Pensò ad Andronico e avvampò di rabbia. Era un capo senza morale, senza principi, senza umanità. Era chiaro che se si fossero arresi in quel momento, sarebbero andati tutti incontro allo stesso destino: Andronico li avrebbe uccisi o resi schiavi tutti, senza eccezioni.

Qualcosa era cambiato nell’aria. Kendrick poteva vederlo negli occhi di tutti gli uomini e lo poteva percepire lui stesso. I Silesiani non erano più semplicemente impegnati a sopravvivere o a difendersi. Ora volevano vendetta.

“SILESIANI!” tuonò una voce.

Tutti fecero silenzio e sollevarono gli sguardi. Nella città superiore, ai bordi del Canyon, c’era Andronico che guardava verso di loro, circondato dai suoi sgherri.

“Vi do una possibilità!” disse con voce rimbombante. Ridatemi Gwendolyn e vi lascerò vivere! Se non lo farete vi colpirò: inizierò al tramonto e saranno raffiche così intense che nessuno di voi sopravviverà.”

Fece una pausa, sorridendo.

“È un’offerta molto generosa. Non pensateci troppo a lungo.”

Detto questo, Andronico si voltò e si dileguò.

I Silesiani si voltarono lentamente l’uno verso l’altro guardandosi.

Srog si fece avanti.

“Amici Silesiani!” disse al grande gruppo di soldati, più serio di quanto Kendrick l’avesse mai visto. “Andronico ha aggredito la nostra sovrana più cara e acclamata. La figlia del nostro amato re MacGil, una grande regina. Ha attaccato lei e, così facendo, ciascuno di noi. Ha cercato di porre una pietra sul nostro onore, ma ha invece colpito il suo!”



“SIGNORSÌ!” esclamò la folla. Gli uomini misero le mani alle spade e c’era fuoco nei loro occhi.

“Kendrick,” disse Srog guardandolo. “Cosa proponi di fare?”

Kendrick guardò lentamente negli occhi degli uomini che aveva di fronte.

“ATTACCHEREMO!” gridò, ardente di rabbia.

La folla esultò con approvazione, una folla sempre più fitta, impavida. Ogni singola persona era pronta a combattere fino alla morte.

“MORIREMO DA UOMINI E NON DA CANI!” gridò di nuovo Kendrick.

“SIGNORSÌ!” rispose la folla.

“COMBATTEREMO PER GWENDOLYN! PER TUTTE LE MADRI, PER TUTTE LE SORELLE, PER TUTTE LE MOGLI!”

“SIGNORSÌ!”

“PER GWENDOLYN!” gridò Kendrick.

“PER GWENDOLYN!” rispose la folla.

Si levò un boato di approvazione e il gruppo di gente si fece ogni minuto più folto.

Con un grido finale tutti seguirono Kendrick e Srog che fecero loro strada lungo la stretta via, sempre più su verso Silesia superiore. Era arrivato il momento di far vedere ad Andronico di che pasta era fatto l’Argento.




CAPITOLO SETTE


Thor si trovava insieme a Reece, O’Connor, Elden, Conven, Indra e Krohn alla foce del fiume, e tutti guardavano il cadavere di Conval. L’umore era cupo. Thor lo sentiva lui stesso, ne percepiva il peso nel petto, schiacciante, mentre guardava il fratello della Legione. Conval. Morto. Non sembrava possibile. Erano stati in sei durante quel viaggio per tutto il tempo. Non avrebbe  mai immaginato che sarebbero diventati cinque. Questo gli faceva sentire la sua stessa mortalità.

Ripensò a tutte le volte che Conval era stato lì per lui, ricordò la sua presenza, a ogni passo del viaggio, dal primo giorno che Thor era arrivato nella Legione. Era come un fratello per lui. Conval aveva sempre preso le difese di Thor, aveva sempre avuto una buona parola per lui. Diversamente da alcuni altri, aveva accettato Thor come amico dall’inizio. Vederlo lì morto, soprattutto come risultato di un suo errore, gli dava un senso di nausea. Se non si fosse mai fidato di quei tre fratelli, forse Conval ora sarebbe stato lì tra loro, vivo.

Thor non riusciva a pensare a Conven senza Conval, i due gemelli identici, inseparabili, sempre pronti a completare a vicenda i propri pensieri. Non riusciva a immaginare la sofferenza che Conven stava provando. Conven sembrava non essere più in condizioni appropriate: il Conven felice e spensierato che aveva conosciuto un tempo sembrava essersene andato in un colpo solo.

Stavano ancora tutti al limitare del campo di battaglia, dove tutto era successo, i cadaveri dei soldati dell’Impero ammassati attorno a loro. Stavano lì pietrificati a guardare Conval e nessuno sembrava avere intenzione di muoversi, se non dopo avergli offerto una degna sepoltura. Avevano trovato delle pellicce di qualità addosso ad alcuni ufficiali dell’Impero, le avevano strappate e vi avevano avvolto il cadavere di Conval. Lo avevano adagiato sulla piccola barca, quella che avevano usato per giungere fino a lì, e il suo corpo ora era steso lì, lungo e immobile, con il volto rivolto al cielo. Il funerale di un guerriero. Conval sembrava già così irrigidito, il corpo fermo e blu, come se non avesse mai vissuto.

Erano lì in piedi da chissà quanto tempo, tutti persi nel loro dolore, nessuno veramente intenzionato a vedere il corpo andarsene. Indra mosse la mano sopra la testa di Conval disegnano nell’aria dei piccoli cerchi e cantando qualcosa in una lingua che Thor non capiva, con gli occhi chiusi. Era evidente, da come conduceva la solenne cerimonia funebre, che teneva a lui, e Thor sentì un senso di pace a quel suono. Nessuno dei ragazzi sapeva cosa dire, quindi rimasero tutti cupi, in silenzio, e lasciarono che fosse Indra a condurre il rito.

Alla fine Indra terminò e fece un passo indietro. Conven si fece avanti, le lacrime che gli scorrevano lungo le guance, e si inginocchiò accanto al fratello. Mise una mano sulla sua e chinò la testa.

Poi diede una spinta alla barca, che ondeggiò sulle acque quiete del fiume. Infine, come se le correnti avessero capito, la presero e iniziarono a trasportarla via, lentamente e con delicatezza. Scivolò sempre più lontano da loro e Krohn piagnucolò mentre se ne andava. Dal nulla sorse una nebbia che avvolse l’imbarcazione e la fece scomparire.

Thor si sentiva come se anche il suo corpo fosse stato risucchiato dal mondo sotterraneo.

Lentamente i ragazzi si voltarono l’uno verso l’altro e poi guardarono oltre, verso il campo di battaglia e i terreni al di là. Alle loro spalle c’era il mondo sotterraneo dal quale erano giunti: da una parte un esteso campo d’erba, dall’altro un deserto vuoto e secco. Si trovavano a un bivio.

Thor si voltò verso Indra.

“Per raggiungere Neversink dobbiamo attraversare il deserto?” le chiese.

Lei annuì.

“Non c’è altro modo?” le chiese.

Lei scosse la testa.

“Ci sono altre strade, ma meno dirette. Sprechereste delle settimane. Se sperate di battere i ladri, questa è l’unica via.”

Gli altri fissarono il deserto a lungo e intensamente: il sole sembrava cuocere il terreno ondeggiante.

“Sembra un posto che non lascia scampo,” disse Reece portandosi accanto a Thor.

“Non conosco nessuno che lo abbia attraversato e sia rimasto in vita,” disse Indra. “È immenso e pieno di creature ostili.”

“Non abbiamo abbastanza provviste,” disse O’Connor. “Non possiamo farcela.”

“Eppure è la strada che porta alla Spada,” aggiunse Thor.

“Sempre ammesso che la Spada esista ancora,” disse Elden.

“Se i ladri hanno raggiunto Neversink,” disse Indra, “allora la vostra preziosa Spada è perduta per sempre. Rischiereste la vostra vita per un sogno. La cosa migliore che potete fare ora è girarvi e tornare verso l’Anello.”

“Non torneremo indietro,” disse Thor, determinato.

“Soprattutto non ora,” aggiunse Conven facendo un passo avanti, gli occhi infuocati e accesi dal dolore.

“Troveremo quella Spada oppure moriremo provandoci,” disse Reece.

Indra scosse la testa e sospirò.

“Non mi sarei aspettata un risposta diversa da voi, ragazzi,” disse. “Cocciuti e dissennati fino in fondo.”


*

Thor marciava fianco a fianco insieme agli altri attraverso il deserto, strizzando gli occhi per il forte sole e annaspando per il caldo incessante. Aveva pensato con eccitazione al fatto che si sarebbe finalmente sbarazzato del mondo sotterraneo, della sua persistente oscurità, della loro incapacità di vedere i sole. Ma erano passati da un estremo all’altro. Qui nel deserto non c’era altro che sole: sole e cielo gialli che li colpivano, e nessun luogo dove ripararsi. Gli faceva male la testa e si sentiva stordito. Stava trascinando i piedi e gli sembrava di essere in marcia da una vita. Guardandosi attorno vide che anche gli altri erano nella sua stessa condizione.

Stavano camminando da mezza giornata e non aveva idea di come avrebbero fatto a continuare. Guardò Indra che teneva il cappuccio sulla testa e si chiese se avesse ragione. Forse erano stati avventati a tentare un’impresa del genere. Ma lui aveva giurato di trovare la Spada, quindi quale altra scelta avevano?

Mentre procedevano i loro piedi sollevavano nuvole di polvere che vorticavano in ogni direzione, rendendo difficile anche respirare. All’orizzonte non si vedeva altro che sabbia cotta dal sole, suolo completamente piatto che si estendeva a perdita d’occhio. Non c’era il minimo cenno di edifici, strade o montagne, nulla. Nient’altro che deserto. A Thor sembrava che fossero giunti alla fine del mondo.

Mentre proseguivano Thor era felice di una cosa: almeno adesso, per la prima volta, si fidava di dove stavano andando. Non era più alla mercé di ciò che dicevano quei tre fratelli con la loro stupida mappa. Ora ascoltavano Indra, e lui si fidava di lei più di chiunque altro. Era certo che stavano andando nella direzione giusta, solo non era sicuro se sarebbero sopravvissuti al viaggio.

Thor iniziò a udire un sottile fruscio e, guardando con attenzione, vide che la sabbia attorno a loro iniziava a muoversi in piccoli vortici. Anche gli altri se ne accorsero e Thor si sentì confuso mentre vedeva che la sabbia si raccoglieva, che i cerchi si facevano più intensi ai suoi piedi, sollevandosi poi in aria. Presto si creò una grande nuvola che si levò dal terreno desertico, alzandosi sempre di più.

Thor sentì tutto il corpo diventare improvvisamente più asciutto. Si sentì come se ogni singola goccia d’acqua venisse estirpata dal suo corpo e iniziò ad avere un’estrema necessità di bere: non era mai stato così assetato.

Cominciò ad avere paura, cercò la sua borraccia e la sollevò premendosela contro la bocca. Ma quando lo fece l’acqua ruotò e salì verso l’alto, verso il cielo, senza neanche sfiorare le sue labbra.

“Cosa succede?” chiese Thor a Indra, annaspando.

Lei guardò il cielo con terrore, tirando indietro il cappuccio.

“Una pioggia inversa!” gridò.

“Che cos’è?” le chiese Elden, annaspando stringendosi la gola.

“Sta piovendo verso l’alto!” gridò lei. “Tutta l’umidità viene risucchiata verso il cielo!”

Thor osservò mentre tutta la sua acqua veniva sparata in alto dalla borraccia, poi vide che lo stesso contenitore si accartocciava rinsecchendosi e cadendo poi a terra come una patatina secca.

Thor cadde in ginocchio e si afferrò la gola quasi incapace di respirare. Tutt’attorno a lui gli altri fecero lo stesso.

“Acqua!” implorò Elden accanto a lui.

Si udì un forte boato, come il suono di migliaia di tuoni, e Thor sollevò lo sguardo vedendo che il cielo si oscurava. Apparve una sola nuvola di temporale che si portò verso di loro a velocità strabiliante.

“ABBASSATEVI!” gridò Indra. “Il cielo si sta rigirando!”

Aveva appena finito di parlare quando il cielo si aprì e un muro d’acqua si riversò scrosciando, schiacciando Thor e gli altri con la forza di un’ondata.

Thor rotolò nell’onda d’acqua innumerevoli volte. Alla fine riemerse di nuovo sul terreno desertico e l’onda passò oltre. Seguirono altri scrosci di acqua a catinelle, e Thor sollevò la testa bevendo copiosamente insieme agli altri, fino a che si sentirono nuovamente idratati.

Lentamente si rimisero in piedi, affannati e abbattuti. Si scambiarono un’occhiata. Erano tutti sopravvissuti. Quando lo shock e la paura furono svaniti, si misero a ridere.

“Siamo vivi!” gridò O’Connor.

“È questa la cosa peggiore che il deserto ha in serbo per noi?” chiese Reece, felice di essere vivo.

Indra scosse la testa, scura in volto.

“Festeggiate troppo presto,” disse preoccupata. “Dopo le piogge, gli animali del deserto escono a bere.”

Un suono tremendo si levò e Thor abbassò lo sguardo vedendo con orrore un esercito di strane creature che emergevano dalla sabbia e si dirigevano verso di loro. Thor si guardò alle spalle e vide il lago di acqua lasciato dalla pioggia, rendendosi conto che si trovavano proprio nelle traiettoria di quelle creature assetate.

Decine di animali che Thor non aveva mai visto in vita sua correvano verso di loro. Erano bestie grandi e gialle, simili ai bufali, ma due volte più grandi, con quattro zampe e quattro corna, si muovevo su due gambe. Avanzavano in un modo buffo, rimettendosi su quattro zampe di tanto in tanto, poi saltando nuovamente su due. Ruggivano e le vibrazioni da loro emesse facevano vibrare il terreno.

Thor sguainò la spada e così fecero anche gli altri, pronti a difendersi. Quando il primo animale fu vicino, Thor rotolò di lato, levandosi dalla sua traiettoria senza colpirlo, sperando che sarebbe semplicemente passato oltre per raggiungere l’acqua.

La creatura abbassò la testa come per scornarlo e lo mancò di un soffio quando Thor si fece da parte. Ma purtroppo non gli bastò: ruotò su se stesso, rabbioso, e si avventò contro di lui. Sembrava gli importasse più la sua morte che l’acqua.

Mentre correva contro di lui con le corna abbassate, Thor saltò in aria e fece roteare la spada, tagliando un corno al suo passaggio. L’animale gridò, saltò su due gambe e ruotò su se stesso, colpendo Thor e bloccandolo a terra.

L’animale sollevò una zampa con l’intento di calpestarlo, ma Thor rotolò di lato così che la zampa andò a colpire il terreno lasciando una profonda impronta nella sabbia e sollevando una nuvola di polvere. La bestia sollevò il piede di nuovo e questa volta Thor levò la spada e gliela conficcò nel petto.

La creatura gridò, trafitta dalla spada fino all’elsa, e Thor riuscì a levarsi da sotto prima che cadesse a terra, morta. Fu fortunato a riuscirci perché il peso lo avrebbe sicuramente schiacciato.

Quando si rimise in piedi, un altro animale si avventò contro di lui, ma Thor riuscì a saltare di lato, non prima però che un corno gli graffiasse un braccio, facendolo gridare di dolore e facendogli perdere la presa sulla spada. Caduta la spada, Thor prese la fionda, posizionò un sasso e tirò.

La bestia barcollò e gridò quando la pietra gli colpì un occhio, ma continuò a correre.

Thor correva a destra e a sinistra, cercando di zigzagare fuori dalla traiettoria, ma la creatura era troppo veloce. Non c’era posto dove scappare e Thor capì che l’avrebbe colpito. Mentre correva lanciò un’occhiata ai suoi compagni della  Legione a cui non stava andando molto meglio: tutti scappavano da quelle creature.

La bestia si avvicinò, a pochi centimetri da lui, l’orribile sbuffo nelle orecchie di Thor e il suo odore nel naso, e abbassò le corna. Thor si preparò all’impatto.

Improvvisamente la bestia gridò e Thor si voltò vedendola sollevata in aria. Sorpreso e non capendo cosa stesse accadendo, guardò meglio e vide dietro ad essa un enorme mostro verde limone, grande come un dinosauro, alto una trentina di metri, con file di denti affilati come rasoi. Teneva la bestia tra le zanne come se fosse un nonnulla e la sollevò. La teneva stretta lì mentre si dimenava, poi la masticò e ingoiò in tre grossi bocconi, leccandosi le labbra.

Attorno a Thor le creature gialle si girarono e scapparono dal mostro. Questo le inseguì, roteando e facendo schioccare la sua lunga coda, che colpì Thor alla schiena e lo fece volare a terra insieme agli altri. Ma la bestia continuò oltre, più interessata alle creature gialle.

Thor si voltò e guardò gli altri che sedevano lì vicino, intontiti, fissandolo.

Indra si sollevò e scosse la testa.

“Non preoccupatevi,” disse, “andrà ancora peggio.”




CAPITOLO OTTO


Kendrick camminava lentamente attraverso il cortile devastato di Silesia superiore con al suo fianco Srog, Brom, Kolk, Atme, Godfrey e una decina di soldati dell’Argento. Marciavano tutti con cautela, attenti, le mani intrecciate dietro la testa in segno di resa.

Il piccolo gruppo si fece così strada tra le migliaia di guerrieri dell’Impero che li osservavano, procedendo verso Andronico che li attendeva al cancello della città. Kendrick sentiva tutti gli occhi su di loro mentre avanzavano e la tensione nell’aria era particolarmente densa. Il cortile, nonostante fosse occupato da migliaia di uomini, era tanto silenzioso da poter sentire uno spillo se fosse caduto.

Un’ora prima Kendrick aveva gridato la sua resa ad Andronico e lui e i suoi uomini erano saliti insieme, mostrando di non avere armi con loro mentre camminavano tra la folla di soldati dell’Impero che si facevano da parte per farli passare, diretti verso Andronico per inginocchiarsi davanti a lui. Il cuore di Kendrick gli batteva a mille nel petto e aveva la gola secca mentre vedeva le migliaia di nemici ostili che li circondavano.

Kendrick e gli altri avevano rivisto e ripassato un piano e mentre si avvicinavano ad Andronico, vedendo per la prima volta che aspetto imponente e selvaggio avesse, Kendrick pregò che il piano funzionasse. Se non l’avesse fatto, le loro vite erano finite.

Marciavano, gli speroni tintinnanti, fino a che uno dei generali di Andronico si fece avanti – un uomo imponente e particolarmente accigliato – e tese un palmo aperto verso di loro, colpendo Kendrick al petto. Li fece fermare a neanche dieci metri da Andronico, probabilmente una forma di cautela. I loro soldati erano più saggi di quanto Kendrick avesse immaginato. Aveva sperato di camminare fino ad Andronico, ma evidentemente non era una cosa concessa. Il cuore iniziò a battergli più forte e sperò che la distanza non intaccasse il loro piano.

Mentre stavano lì in silenzio uno di fronte all’altro, Kendrick si schiarì la gola.

“Siamo qui per arrenderci al grande Andronico,” annunciò con voce tonante, cercando di usare il tono più convincente possibile, immobile insieme agli altri, guardando Andronico negli occhi.

Andronico portò una mano alla collana di teste mozzate che aveva al collo e guardò il gruppetto con una sorta di smorfia, o forse un sorriso.

“Accettiamo le tue condizioni,” continuò Kendrick. “Ammettiamo la sconfitta.”

Andronico si chinò in avanti, appena un po’, seduto su un’enorme panca di pietra, e continuò a guardarli con quel sorrisino.

“So che lo farete,” disse, la voce rimbombante nel cortile. “Dov’è la ragazza?”

Kendrick era preparato a quella domanda.

“Siamo venuti qui in qualità di contingente di uomini più esperti e valorosi,”  gli rispose. “Siamo venuti prima noi per pronunciare la nostra resa. Quando avremo finito, arriveranno gli altri, con il tuo permesso.”

Kendrick pensava che aggiungere “con il tuo permesso” fosse un tocco perfetto e avrebbe aiutato a rendere la situazione più plausibile. Aveva imparato una grande lezione tempo prima, da uno dei suoi consiglieri militari: quando si tratta con un comandante narcisista, fare sempre appello al suo ego. Non c’erano limiti agli errori che un comandante poteva fare sentendosi adulato, quando veniva tirata in ballo la sua grandezza.

Andronico si raddrizzò un poco, rispondendo appena.

“Certo che lo faranno,” disse. “Altrimenti voi sareste piuttosto stupidi a farvi vedere qui.”

Andronico rimase seduto, osservandoli, come se stesse cercando di prendere una decisione. Sembrava che percepisse che c’era qualcosa di strano. Il cuore di Kendrick batteva follemente.

Alla fine, dopo una lunga attesa, Andronico sembrò essersi deciso.

“Fate un passo avanti e inginocchiatevi,” disse. “Tutti.”

Gli altri guardarono Kendrick e lui fece loro un cenno di assenso.

Fecero tutti un passo avanti e si inginocchiarono di fronte ad Andronico.

“Ripetete dopo di me,” disse il comandante. “Noi, rappresentanti di Silesia…”

“Noi, rappresentanti di Silesia…”

“Ci arrendiamo qui al grande Andronico…”

“Ci arrendiamo qui al grande Andronico…”

“e gli giuriamo lealtà per il resto dei nostri giorni e oltre…”

“e gli giuriamo lealtà per il resto dei nostri giorni e oltre…”

“E di servirlo come schiavi per quanto vivremo.”

Le ultime parole risultarono difficili da dire per Kendrick, che deglutì a fatica e alla fine riuscì a ripetere parola per parola: ““E di servirlo come schiavi per quanto vivremo.”

Gli dava alla nausea comportarsi in quel modo e il cuore gli martellava nelle orecchie. Alla fine lo fece.

Seguì un teso silenzio e Andronico sorrise.

“Voi MacGil siete più deboli di quanto pensassi,” li sbeffeggiò. “Sarà per me un grande piacere rendervi schiavi e insegnarvi come funziona l’Impero. Ora andate a prendere la ragazza, prima che cambi idea e vi uccida tutti qui sul posto.”

Mentre stava lì inginocchiato, Kendrick si vide passare davanti agli occhi tutta la vita. Sapeva che questo era uno di quei momenti decisivi nella vita. Se tutto fosse andato come sperato, sarebbe sopravvissuto per raccontare ciò che era accaduto quel giorno ai suoi nipoti; se non fosse andata bene, nel giro di pochi istanti si sarebbe ritrovato lì in qualità di cadavere. Sapeva che le probabilità erano contro di lui, ma era un’occasione che doveva prendere. Per se stesso, per i MacGil e per sua sorella Gwendolyn. Ora o mai più.

In un veloce movimento Kendrick portò una mano dietro la schiena, afferrò una spade corta nascosta sotto la camicia e gridò mentre la scagliava con tutte le sue forze.

“SILESIANI, ALL’ATTACCO!”

La spada di Kendrick fendette l’aria roteando su se stessa, diretta verso il petto di Andronico. Era stato un colpo potente e con una mira perfetta: un colpo talmente ben assestato da poter uccidere qualsiasi guerriero.

Ma Andronico non era un guerriero qualsiasi. Kendrick si trovava troppo lontano di qualche metro e Andronico era piuttosto veloce di suo: riuscì ad abbassarsi levandosi dalla traiettoria per un soffio. Gridò lo stesso di dolore quando la lama gli colpì il braccio, lasciandolo sanguinante. La spada continuò poi a volare e andò a uccidere il generale che si trovava accanto a lui, conficcandoglisi nello stomaco.

Al grido di Kendrick scoppiò il caos. Tutt’attorno a lui gli altri afferrarono le loro spade nascoste e decapitarono i soldati che si trovavano tra loro. Brom prese il suo pugnale dalla cintura, fece un passo di lato e lo conficcò nella gola del soldato che gli stava vicino. Kolk prese una piccola fionda, vi mise un sasso e tirò, colpendo un soldato in lontananza che reggeva un arco. Lo prese alla testa proprio prima che potesse scoccare una freccia. Godfrey lanciò un pugnale, ma la sua mira non era buona come quella degli altri, quindi la lama mancò il bersaglio e andò invece a conficcarsi nella gamba di un giovane soldato.

Tutt’attorno si levarono urla di soldati dell’Impero feriti: nessuno di loro si era aspettato l’attacco.

Contemporaneamente, da tutti i lati del cortile, i soldati Silesiani apparvero improvvisamente dal terreno e dalle mura. Si presentarono con un grande grido di guerra, tirando frecce e oscurando con esse il cielo. Migliaia di frecce attraversarono il cortile, abbattendo soldati dell’Impero  in ogni direzione. Furono attaccati da talmente tante parti che i soldati di trovarono spaesati, senza sapere da che parte voltarsi: molti di loro, nel panico, finirono con l’attaccarsi l’un l’altro.

Kendrick era felice di vedere che il suo piano stava funzionando alla perfezione. Srog l’aveva informato del tunnel nascosto che collegava Silesia alla città superiore, costruito per i casi di assedio, come elemento di sorpresa. Tutti i soldati avevano pazientemente atteso, tutti in postazione, il segnale di Kendrick.

Ora migliaia di loro erano emersi e tiravano con una tale rapidità e mira da non concedere agli uomini dell’Impero un solo minuto pe reagire. Kendrick si lanciò alla carica ed entrò nella mischia, strappando una spada dalle mani di un soldato morto, raggiunto subito dall’amico Atme e dagli altri. I soldati dell’Impero, confusi e terrorizzati nella baraonda, si voltavano e correvano in ogni direzione, incerti anche su dove andare.

I Silesiani stavano guadagnando vantaggio. Kendrick atterrò una decina di uomini prima ancora di dover alzare lo scudo per difendersi. Atme combatteva schiena contro schiena insieme a lui, come sempre, ottenendo gli stessi risultati. Ad ogni colpo pensava a Gwendolyn e alla vendetta.

Le migliaia di soldati dell’Impero erano così sconcertati che si ritirarono, correndo verso i cancelli che conducevano fuori dal cortile. La calca travolse Andronico e i suoi uomini, urtandoli: cercarono di rimanere fermi e impassibili, ma furono costretti dalla numerosa folla ad arretrare anch’essi. Come una mandria di bestiame fuggirono tutti disordinatamente attraverso il cancello, cercando disperatamente di scampare alle frecce, che continuavano a piovere da ogni direzione. Quando i Silesiani esaurirono le frecce, sguainarono tutti le loro spade e si lanciarono all’attacco al fianco dei loro fratelli d’armi.

I soldati dell’Impero erano tantissimi, ma non erano guerrieri ben allenati: la maggior parte di loro erano semplicemente dei corpi, gente schiavizzata al servizio di Andronico. I Silesiani, invece, erano pochi ma ciascuno di loro era un guerriero d’élite, un soldato duro e ben allenato, del valore di dieci uomini dell’Impero. Avevano dalla loro anche l’elemento sorpresa, ma soprattutto avevano il sangue nelle vene. Le spalle al muro. Un’urgenza di vita. Un’urgenza di proteggere i loro cari. Rabbia per Gwendolyn. Dopotutto quella era la loro città. E sapevano che se non avessero vinto, avrebbero trovato lì la morte.

Alcuni Silesiani suonarono i corni, un suono terrificante che riverberò come un esercito infinito, e sempre più soldati emersero dal tunnel. Correvano tutti in avanti, come se da ciò dipendessero le loro vite, e in migliaia si scontrarono con i soldati dell’Impero.

Il combattimento fu serrato e crudele, il sangue si riversò sul cortile mentre le spade si scontravano con altre spade, i pugnali con altri pugnali, mentre gli uomini si affrontavano e si guardavano negli occhi, combattendo a corpo libero e uccidendosi faccia a faccia. Velocemente la corrente si rivoltò nella direzione dei Silesiani.

Risuonò un altro corno e dai cancelli inferiori sopraggiunse alla carica la Legione: centinaia di forti e giovani soldati che sopraggiunsero lanciando un loro personale grido di guerra. Brandivano fionde e frecce, lance e spade. Si lanciarono nella mischia uccidendo soldati dell’Impero a destra e a manca, aiutando a rivoltare nuovamente la corrente. I ragazzi della Legione erano già dei forti guerrieri, anche se giovani, e mentre correvano gridavano per Gwendolyn e per Thor.

La Legione riuscì a creare danni pari agli altri, unendosi a loro in maniera organica e spingendo l’Impero sempre più indietro verso i cancelli della città. Presto la corrente della battaglia tornò a loro favore, mentre cadaveri di uomini dell’Impero cadevano ovunque, e quelli che rimanevano venivano colti dal panico e fuggivano. Oltre i cancelli c’erano in attesa un milione di uomini dell’Impero, ma i soldati in fuga si erano imbottigliati all’ingresso e gli altri non riuscivano a passare.

Andronico si infuriò, saltò nella mischia respingendo la calca di soldati che lo attaccavano, scontrandosi con la sua stessa gente, afferrando soldati a mani nude e battendo le loro teste l’una contro l’altra, spezzando i loro colli e uccidendoli sul colpo.





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In UN COMPITO DI VALORE (Libro #6 in LAnello dello Stregone), Thor continua la sua ricerca, addentrandosi sempre di più nellImpero, per rinvenire la trafugata Spada del Destino e salvare quindi lAnello. Mentre lui e i suoi amici affrontano tragedie inaspettate e perdono un membro del loro affiatato gruppo, Thor e quelli che sono rimasti diventano ancora più legati che mai, imparando che devono affrontare e superare insieme le avversità. Il loro viaggio li porta verso territori nuovi ed esotici, inclusi i desolati Campi di Sale, il Grande Tunnel e le Montagne di Fuoco, dove, ad ogni svolta, si trovano ad affrontare un sacco di mostri inimmaginabili. Le abilità di Thor si affinano e lui si assoggetta allallenamento più completo mai affrontato. Sarà costretto a richiamare poteri più grossi che mai se vorrà sopravvivere. Alla fine gli amici scoprono dove è stata nascosta la Spada e vengono a sapere che, per recuperarla, dovranno avventurarsi nel luogo più temibile dellImpero: la Terra dei Draghi. Intanto nellAnello Gwendolyn si riprende lentamente e affronta una profonda depressione dopo lattacco subito. Kendrick e gli altri giurano di combattere per il suo onore, nonostante le impossibili circostanze. Ne segue una delle più grandi battaglie della storia dellAnello, mentre tutti lottano per liberare Silesia e sconfiggere Andronico. Nel frattempo Godfrey si trova dietro le linee nemiche e inizia a raggiungere il successo, imparando cosa significhi diventare un guerriero, in un modo unico e tutto suo. Gareth riesce a rimanere in vita, utilizzando tutta la sua astuzia per evitare di essere catturato da Andronico, mentre Erec combatte con tutto se stesso per salvare Savaria dallimminente invasione di Andronico, e per salvare il proprio amore, Alistair. Argon paga un caro prezzo per fare ciò che non è consentito: immischiarsi negli affari umani.

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