Книга - Concessione D’armi

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Concessione D’armi
Morgan Rice


L’Anello Dello Stregone #8
In CONCESSIONE DARMI (Libro #8 in lAnello dello Stregone), Thor è intrappolato tra le titaniche forze del bene e del male, mentre Andronico e Rafi utilizzano tutta la loro magia nera per cercare di distruggere la sua identità e prendere il controllo della sua anima. Sotto il loro incantesimo Thor dovrà combattere la sua battaglia più dura nel tentativo di liberarsi di suo padre e liberare se stesso dalle loro catene. Ma potrebbe essere già troppo tardi. Gwendolyn, insieme ad Alistair, Steffen e Aberthol, si avventura nel Mondo Inferiore alla ricerca di Argon per liberarlo dalla sua trappola magica. Vede in lui lunica speranza di salvare Thor e lAnello, ma il Mondo Inferiore è vasto e pericoloso, e anche trovare Argon potrebbe essere una causa persa. Reece guida i membri della Legione e con loro intraprende unimpresa quasi impossibile per fare qualcosa che non è mai stato fatto prima: scendere nelle profondità del Canyon per trovare e recuperare la Spada perduta. Durante la loro discesa entrano in un altro mondo, popolato di mostri e razze esotiche, tutte volte a tenere la Spada per i propri intenti personali. Romolo, armato del suo mantello magico, persegue i suoi piani sinistri per entrare nellAnello e distruggere lo Scudo. Kendrick, Erec, Bronson e Godfrey lottano per liberarsi dal loro tradimento. Tiro e Luanda imparano cosa significhi essere dei traditori al servizio di Andronico. Micople lotta per la propria libertà. Alla fine, in un sorprendente colpo di scena, viene finalmente rivelato il segreto di Alistair.





Morgan Rice

CONCESSIONE D’ARMI (LIBRO #8 in L’ANELLO DELLO STREGONE)




C O N C E S S I O N E   D ’   A R M I




(LIBRO #8 in L’ANELLO DELLO STREGONE)




Morgan Rice




Edizione italiana


A cura di




Annalisa Lovat



Chi è Morgan Rice

Morgan Rice è l’autrice campione d’incassi di APPUNTI DI UN VAMPIRO, una serie per ragazzi che comprende al momento undici libri; autrice campione d’incassi di THE SURVIVAL TRILOGY, un thriller post-apocalittico che comprende al momento due libri; e autrice campione d’incassi della serie epica fantasy L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende al momento tredici libri.



I libri di Morgan sono disponibili in edizione stampata e in formato audio e sono stati tradotti in tedesco, francese, italiano, spagnolo, portoghese, giapponese, cinese, svedese, olandese, turco, ungherese, ceco e slovacco (prossimamente ulteriori lingue).



Morgan ama ricevere i vostri messaggi e commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.morganricebooks.com (http://www.morganricebooks.com/) per iscrivervi alla sua mailing list, ricevere un libro in omaggio, gadget gratuiti, scaricare l’app gratuita e vedere in esclusiva le ultime notizie. Connettetevi a Facebook e Twitter e tenetevi sintonizzati!



Cosa dicono di Morgan Rice

“L’ANELLO DELLO STREGONE ha tutti gli ingredienti per un successo immediato: intrighi, complotti, mistero, cavalieri valorosi, storie d’amore che fioriscono e cuori spezzati, inganno e tradimento. Vi terrà incollati al libro per ore e sarà in grado di riscuotere l’interesse di persone di ogni età. Non può mancare sugli scaffali dei lettori di fantasy.”

–-Books and Movie Reviews, Roberto Mattos



“Rice fa un bel lavoro nel trascinarvi nella storia fin dall’inizio, utilizzando una grande qualità descrittiva che trascende la mera colorazione d’ambiente… Ben scritto ed estremamente veloce da leggere…”

--Black Lagoon Reviews (parlando di Tramutata)



“Una storia perfetta per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellente creando un intreccio interessante  …Rinvigorente e unico. La serie si concentra su una ragazza… una ragazza straordinaria!… Di facile lettura, ma estremamente veloce e incalzante… Classificato PG.”

–-The Romance Reviews (parlando di Tramutata)



“Mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere…. Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dalle prime pagine. Non esistono momenti morti.”

–-Paranormal Romance Guild {parlando di Tramutata }



“Pieno zeppo di azione, intreccio, avventura e suspense. Mettete le vostre mani su questo libro e preparatevi a continuare a innamorarvi”

–-vampirebooksite.com (parlando di Tramutata)



“Un grande intreccio: questo è proprio il genere di libro che farete fatica a mettere giù la sera. Il finale lascia con il fiato sospeso ed è così spettacolare che vorrete immediatamente acquistare il prossimo libro, almeno per sapere cosa succede in seguito.”

–-The Dallas Examiner {parlando di Amata}



“È  un libro che può competere con TWILIGHT e DIARI DI UN VAMPIRO, uno di quelli che vi vedrà desiderosi di continuare a leggere fino all’ultima pagina! Se siete tipi da avventura, amore e vampiri, questo è il libro che fa per voi!”

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“Morgan Rice dà nuovamente prova di essere una narratrice di talento… Questo libro affascinerà una vasta gamma di lettori, compresi i più giovani fan del genere vampiresco/fantasy. Il finale mozzafiato vi lascerà a bocca aperta.”

–-The Romance Reviews {parlando di Amata}



Libri di Morgan Rice




L’ANELLO DELLO STREGONE


UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)


LA MARCIA DEI RE (Libro #2)


DESTINO DI DRAGHI (Libro #3)


GRIDO D’ONORE (Libro #4)


VOTO DI GLORIA (Libro #5)


UN COMPITO DI VALORE (Libro #6)


RITO DI SPADE (Libro #7)


CONCESSIONE D’ARMI (Libro #8)


UN CIELO DI INCANTESIMI (Libro #9)


UN MARE DI SCUDI (Libro #10)


UN REGNO D’ACCIAIO (Libro #11)


LA TERRA DEL FUOCO (Libro #12)


LA LEGGE DELLE REGINE (Libro #13)


GIURAMENTO FRATERNO (Libro #14)




THE SURVIVAL TRILOGY


ARENA ONE: SLAVERSUNNERS (Libro #1)


ARENA TWO (Libro #2)




APPUNTI DI UN VAMPIRO


TRAMUTATA (Libro #1)


AMATA (Libro #2)


TRADITA (Libro #3)


DESTINATA (Libro #4)


DESIDERATA (Libro #5)


BETROTHED (Libro #6)


VOWED (Libro #7)


FOUND (Libro #8)


RESURRECTED (Libro #9)


CRAVED (Libro #10)


FATED (Libro #11)












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Copyright © 2013 by Morgan Rice



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This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.



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“Il mio buon nome è la mia stessa vita;
crescono insieme sullo stesso tronco;
toglietemelo, e la mia vita è spenta.”

    --William Shakespeare
    Riccardo II






CAPITOLO UNO


Gwendolyn si teneva stretta per ripararsi dal freddo vento sferzante che la colpiva al limitare del Canyon, mentre faceva il suo primo passo sul ponte ad arco che costituiva l’Attraversamento Settentrionale. Quel ponte traballante, ricoperto di ghiaccio, era fatto di vecchie tavole di legno tenute insieme da una fune logora e non aveva l’aspetto di poterli sostenere. Gwen rabbrividì mentre si apprestava a salirvi sopra.

Scivolò e si aggrappò al corrimano che subito oscillò con forza, aiutandola ben poco. Le balzò il cuore in gola al pensiero che quel ponte così poco rassicurante fosse l’unica via possibile per attraversare la parte settentrionale del Canyon e accedere al Mondo Inferiore per trovare Argon. Gwen sollevò lo sguardo e vide, in lontananza, il Mondo Inferiore che faceva capolino dietro uno scudo di neve accecante. In quelle condizioni l’attraversamento appariva ancora più ostico e inquietante.

Giunse un’improvvisa e forte folata e la corda oscillò così violentemente che Gwendolyn dovette tenersi stretta con entrambe le mani, cadendo in ginocchio. Per un attimo pensò addirittura di non poter continuare: figurarsi se sarebbe mai riuscita ad attraversare l’intero ponte. Si rese conto che si trattava di un’impresa molto più pericolosa di quanto avesse immaginato e che avrebbero dovuto tutti mettere a repentaglio le loro vite per tentare.

“Mia signora?” la chiamò una voce.

Gwen si voltò e vide Aberthol a pochi passi da lei, affiancato da Steffen, Alistair e Krohn, tutti in procinto di seguirla. Tutti e cinque insieme costituivano un gruppo piuttosto improbabile, lì al limitare del mondo, di fronte a un futuro incerto e a una morte molto probabile.

“Dobbiamo veramente cercare di attraversare?” le chiese.

Gwendolyn si voltò a guardare la neve vorticante e il vento di fronte a lei, si strinse la pelliccia attorno alle spalle e rabbrividì. Dentro di sé, in realtà, non voleva attraversare quel ponte, non aveva la minima intenzione di intraprendere quel viaggio. Avrebbe di gran lunga preferito ritirarsi e tornare alla sicurezza della sua casa natale, la Corte del Re, ripararsi dietro le sue mura accoglienti, accanto a un fuoco, e dimenticare tutti i pericoli e le preoccupazioni che le avevano riempito la vita da quando era diventata regina.

Ma ovviamente non poteva farlo. La Corte del Re non esisteva più, la sua infanzia era finita e ora era una regina. Avrebbe presto avuto un bimbo di cui prendersi cura, un futuro marito là fuori da qualche parte, ed entrambi avevano bisogno di lei. Per Thorgrin sarebbe passata anche attraverso il fuoco, se necessario. E Gwen sentiva che in qualche modo avrebbe dovuto effettivamente farlo. Avevano tutti bisogno di Argon: non solo lei e Thor, ma l’intero Anello. Non si trovavano solo contro ad Andronico, ma anche a una potente magia, forte abbastanza da intrappolare Thor, e senza Argon non aveva idea di come avrebbero potuto annientarla.

“Sì,” rispose. “Dobbiamo.”

Gwen si apprestò a fare un altro passo, ma questa volta Steffen scattò in avanti e la fermò.

“Mia signora, per favore, permetti che vada io per primo,” le disse. “Non sappiamo quali orrori ci attendano su questo ponte.”

Gwendolyn era commossa dalla sua offerta, ma allungò una mano e lo spinse da parte con delicatezza.

“No,” replicò. “Devo andare io.”

Non attese oltre e fece un passo avanti, tenendosi saldamente al corrimano di corda.

Mentre avanzava fu colpita dal freddo: le attanagliava la mano, il ghiaccio scavava in lei, il senso di gelo le scorreva attraverso mano e braccio. Fece un respiro profondo, non certa di poter continuare a tenersi.

La raggiunse un’altra folata di vento, che fece dondolare il ponte da una parte all’altra, costringendola a stringere ulteriormente la presa, tollerando il dolore provocatole dal ghiaccio. Lottò con tutte le sue forze per rimanere in equilibrio mentre i piedi scivolavano sulle tavole ricoperte di ghiaccio sotto di lei. Il ponte sbandò violentemente a sinistra e per un momento Gwen si sentì certa che sarebbe caduta di lato. Poi il ponte si raddrizzò e ruotò dalla parte opposta.

Gwen si inginocchiò di nuovo. Aveva avanzato appena di tre metri e già il cuore le stava battendo così forte in petto da riuscire a malapena a respirare. Le sue mani erano talmente intorpidite che le sentiva appena.

Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Pensò a Thor. Si immaginò il suo volto, ogni singolo particolare. Pensò intensamente al suo amore per lui. Alla sua determinazione di liberarlo. A ogni costo.

A ogni costo.

Gwendolyn aprì gli occhi e si sforzò di fare altri passi in avanti, tenendosi salda alla fune e non volendosi fermare per nulla al mondo. Il vento e la neve potevano anche spingerla nelle profondità del Canyon: non le interessava più nulla. Non si trattava più di lei, ma dell’amore della sua vita. Per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Gwendolyn sentì il peso portarsi sul ponte dietro di lei e guardandosi alle spalle vide Steffen, Aberthol, Alistair e Krohn che la seguivano. Krohn scivolò sulle zampe mentre correva in avanti oltrepassando gli altri, sbandando da una parte all’altra fino a che si trovò accanto a Gwen.

“Non so se posso farcela,” disse Aberthol, la voce stanca, dopo aver fatto pochi passi tremolanti.

Rimase fermo, aggrappato alla fune, con le braccia che tremavano. Un uomo debole e vecchio, appena capace di tenersi in piedi.

“Ce la puoi fare,” gli disse Alistair, portandosi accanto a lui e cingendogli la vita con un braccio. “Ci sono qui io, non ti preoccupare.”

Alistair camminò insieme a lui, aiutandolo ad avanzare mentre il gruppo riprendeva il cammino, lungo il ponte, un passo alla volta.

Gwen ancora una volta si meravigliò della forza di Alistair di fronte alle avversità, della sua natura calma, della sua temerarietà. Inoltre emanava un potere che Gwendolyn proprio non comprendeva. Non era in grado di spiegare perché sentisse un tale attaccamento a lei, ma per quanto la conoscesse da brevissimo tempo già la sentiva come una sorella. La sua presenza – e quella di Steffen – le davano forza.

Il vento si calmò un poco e loro poterono accelerare il passo. Presto giunsero alla metà del ponte, ora muovendosi più veloci, Gwen ormai abituata alle tavole scivolose. L’estremità opposta del Canyon iniziò ad apparire davanti ai loro occhi, ora ad ormai solo una cinquantina di metri, e il cuore di Gwendolyn cominciò a battere più forte, traboccante di ottimismo. Dopotutto ce la potevano fare.

Una folata fresca li colpì, questa volta più forte delle altre, tanto potente che Gwen dovette piegarsi sulle ginocchia e afferrare la fune con entrambe le mani. Si tenne ben salda mentre il ponte oscillava di quasi novanta gradi, tornando poi violentemente alla posizione iniziale. Sentì una tavola che cedeva sotto i suoi piedi e gridò mentre una gamba affondava nell’improvvisa apertura nel ponte, rimanendo incastrata all’altezza della coscia. Si dimenò ma non riuscì a liberarsi.

Gwendolyn si voltò a guardare Aberthol che perdeva la presa e lasciava andare Alistair, iniziando a scivolare verso il bordo del ponte. Alistair reagì velocemente, allungando una mano e afferrandogli il polso, trattenendolo proprio un attimo prima che precipitasse dal ponte.

Alistair si chinò oltre il bordo, tenendo Aberthol che oscillava sotto di lei con nient’altro sotto di sé se non il fondo del Canyon. Alistair stringeva i denti e Gwen pregò che la corda non cedesse. Si sentiva così inutile, incastrata com’era, con la gamba bloccata tra le tavole. Il cuore le batteva all’impazzata mentre cercava di liberarsi.

Il ponte oscillava selvaggiamente e Alistair ed Aberthol ondeggiavano con esso.

“Lascia andare!” le gridò Aberthol. “Salvati!”

Il bastone gli cadde dalle mani e precipitò nel vuoto, ruotando su se stesso, verso le profondità del Canyon. Ora tutto ciò che gli era rimasto era il bastone che teneva legato alla schiena.

“Andrà tutto bene,” disse Alistair con calma.

Gwen era sorpresa di vedere Alistair così composta e fiduciosa.

“Guardami negli occhi,” gli disse con fermezza.

“Cosa?” le chiese Aberthol cercando di sovrastare l’ululare del vento.

“Guardami negli occhi,” gli ordinò nuovamente Alistair, con ancora maggiore forza nella propria voce.

C’era qualcosa nel suo tono che era in grado di dettare ordini agli uomini, e Aberthol la guardò, obbediente. I loro occhi si fissarono gli uni negli altri e in quel momento Gwendolyn vide una luce partire da quelli di Alistair e raggiungere quelli di Aberthol. Guardò incredula mentre quel bagliore avvolgeva Aberthol e mentre Alistair si raddrizzava con un colpo, tirandolo su, fino al ponte.

Aberthol, confuso, giaceva ora lì, con il fiatone, e guardava Alistair con estrema meraviglia. Subito si voltò e si aggrappò alla fune con entrambe le mani, prima che un’altra folata di vento sopraggiungesse.

“Mia signora!” gridò Steffen.

Si inginocchiò su di lei, la afferrò per le spalle e la tirò con tutte le sue forze.

Gwen iniziò lentamente a estrarre la gamba dalle tavole, ma proprio quando stava per liberarsi completamente, scivolò sul ghiaccio e ricadde nella medesima posizione di prima, incastrandosi ancora più a fondo. Improvvisamente un’altra tavola si spezzò sotto di lei e Gwen gridò sentendo che stava iniziando a cadere.

Si allungò in avanti e si aggrappò con forza alla fune con una mano e al polso di Steffen con l’altra. Le sembrava che le spalle le si stessero staccando mentre oscillava nel vuoto. Ora anche Steffen ondeggiava, così sporto oltre il bordo, le gambe intrecciate dietro di sé, rischiando al sua vita per evitare che lei cadesse. Le funi che si stavano per spezzare dietro di lui erano le uniche cose che li tenevano sospesi.

Si udì un ruggito e Krohn fece un balzo in avanti affondando le zanne nella pelliccia di Gwen e tirando indietro con tutte le sue forze, ringhiando e ruggendo.

Lentamente Gwen fu sollevata, un centimetro alla volta, fino a che riuscì ad aggrapparsi alle tavole del ponte. Si tirò su e giacque sul ponte, a faccia in giù, respirando affannosamente.

Krohn le leccò ripetutamente la faccia e lei si sentì così grata nei suoi confronti e in quelli di Steffen che giaceva accanto a lei. Era così felice di essere viva, di essere stata tratta in salvo da una morte orribile.

Ma improvvisamente si udì il suono di uno strappo e l’intero ponte fu scosso. Gwen si sentì gelare il sangue quando si voltò a guardare: una delle funi che tenevano il ponte legato al Canyon si era spezzata.

Tutto il ponte si muoveva a strattoni e Gwen guardò con orrore mentre anche l’altra fune, ora ridotta a un filo, si spezzava.

Gridarono tutti mentre metà del ponte si staccava dalla parete del Canyon e li faceva oscillare a tale velocità che Gwen poté a malapena respirare mentre volavano in aria, diretti a folle velocità contro la parete opposta del Canyon.

Gwen sollevò lo sguardo e vide una parete di roccia che le compariva davanti, e capì che nel giro di pochi istanti sarebbero morti nell’impatto, i loro corpi maciullati, e chiunque fosse sopravvissuto sarebbe comunque precipitato nel cuore della terra.

“Roccia, apriti. TE LO ORDINO!” gridò una voce densa di una primordiale autorità, una voce che Gwen non aveva mai sentito.

Si guardò alle spalle e vide Alistair, aggrappata alla corda, che teneva un palmo sollevato e teso verso la parete rocciosa che stavano per colpire. Dalla mano di Alistair si generava una luce gialla e mentre si avvicinavano al muro di pietra, mentre Gwendolyn già si preparava all’impatto, fu scioccata da ciò che accadde.

Di fronte ai suoi occhi la solida facciata di roccia del Canyon si tramutò in neve e quando tutti vi sbatterono contro Gwendolyn non sentì lo schianto delle ossa che si era aspettata. Sentì invece l’intero corpo immerso in un muro di neve morbida e leggera. Era gelida e la ricoprì completamente, entrandole negli occhi, nel naso e nelle orecchie, ma non le fece alcun male.

Era viva.

Rimasero tutti lì penzolanti, attaccati alla fune appesa in cima al versante del Canyon, immersi nel muro di neve, e Gwen sentì una mano forte che le afferrava il polso. Alistair. La sua mano era stranamente calda nonostante il freddo gelido che li circondava. Alistair in qualche modo aveva già afferrato anche gli altri e presto tutti, incluso Krohn, furono trascinati da lei, mentre si arrampicava lungo la fune come niente fosse.

Alla fine raggiunsero la cima e Gwen collassò sulla terra ferma, dall’altra parte del Canyon. Nel momento in cui lo fecero, quel che era rimasto della fune si spezzò e il ponte precipitò, scomparendo nella nebbia, verso il fondo del Canyon.

Gwendolyn rimase ferma lì, con il fiato corto, felice di trovarsi di nuovo sulla terra solida e chiedendosi cosa fosse appena accaduto. Il terreno era gelido, ricoperto di neve e ghiaccio, ma almeno era terraferma. Si trovava fuori dal ponte ed era viva. Ce l’avevano fatta. Grazie ad Alistair.

Gwendolyn si voltò a guardarla con un nuovo senso di meraviglia e rispetto. Era più che grata a lei per essere al suo fianco. La sentiva veramente come la sorella che non aveva mai avuto e aveva la sensazione di non aver visto che una parte del suo profondo potere.

Gwen non aveva idea di come avrebbero fatto a tornare dall’altra parte del Canyon, nell’Anello, una volta portata a termine la loro missione – sempre che ce la facessero – se mai avessero ritrovato Argon e fossero tornati. E mentre scrutava il muro di neve accecante davanti a sé, l’ingresso del Mondo Inferiore, ebbe il terribile presentimento che gli ostacoli più grossi dovessero ancora presentarsi.




CAPITOLO DUE


Reece si trovava presso il Passaggio Orientale del Canyon, le mani strette attorno al parapetto di pietra, e guardava con orrore oltre il precipizio. Riusciva a malapena a respirare. Non poteva ancora credere a ciò che aveva appena visto: la Spada della Dinastia, conficcata in un masso, era caduta oltre il bordo ed era precipitata roteando in aria, scomparendo inghiottita dalla nebbia.

Aveva aspettato e aspettato, pronto a sentire il tonfo o una scossa sotto i piedi. Ma con suo grande shock non era giunto alcun rumore. Forse il Canyon era senza fondo? Le voci al riguardo erano vere?

Alla fine Reece lasciò la presa sul parapetto, le nocche ormai bianche per lo sforzo, ricominciò a respirare e si voltò a guardare i suoi compagni della Legione. Stavano tutti lì – O’Connor, Elden, Conven, Indra, Serna e Krog – e anche loro guardavano il Canyon inorriditi. Tutti e sette erano immobili, incapaci di comprendere ciò che era appena accaduto. La Spada della Dinastia, la leggenda con la quale tutti loro erano cresciuti, l’arma più famosa al mondo, la proprietà dei re. E l’unica cosa rimasta con la capacità di mantenere lo Scudo.

Era semplicemente scivolata dalla loro presa ed era scesa verso l’oblio.

Reece sentiva di aver fallito. Sentiva di aver abbandonato non solo Thor, ma l’intero Anello. Perché non erano arrivati giusto qualche minuto prima? Appena qualche passo di anticipo e sarebbe riuscito a salvare la Spada.

Si rigirò a guardare l’estremità opposta del Canyon, la parte dell’Impero, e si preparò. Senza la Spada era ovvio che lo Scudo si sarebbe disattivato e quindi i soldati dell’Impero che si trovavano dall’altra parte avrebbero fatto presto irruzione dal loro lato, invadendo l’Anello. Ma accadde una cosa curiosa: mentre guardava, nessuno osò accedere al ponte. Uno dei soldati tentò, ma venne disintegrato.

In qualche modo lo Scudo era ancora attivo. Reece non capiva.

“Non ha senso,” disse Reece agli altri. “La Spada ha lasciato l’Anello. Come fa lo Scudo a funzionare ancora?”

“La Spada non ha lasciato l’Anello,” suggerì O’Connor. “Non è ancora passata dall’altra parte. È caduta giù dritta. È incastrata tra due mondi.”

“E allora cosa ne è dello Scudo se la Spada non è né qui né là?” chiese Elden.

Si guardarono tutti con sguardi dubbiosi. Nessuno di loro aveva la risposta: si trattava di un territorio inesplorato.

“Ma non possiamo andarcene e basta,” disse Reece. “L’Anello è salvo con la Spada dalla nostra parte, ma non sappiamo cosa accadrà se la Spada rimarrà la sotto.”

“Fino a che non sarà in nostro possesso, non potremo mai sapere se finirà dall’altra parte,” aggiunse Elden, d’accordo con loro.

“Non è un rischio che possiamo correre,” disse Reece. “Il fato dell’Anello dipende da questo. Non possiamo fare ritorno a mani vuote, da falliti.”

Reece si voltò a guardare gli altri, convinto.

“Dobbiamo recuperarla,” concluse. “Prima che lo faccia qualcun altro.”

“Recuperarla?” chiese Krog, esterrefatto. “Sei impazzito? E come pensi di poterlo fare?”

Reece si voltò e fissò Krog, che continuò a guardarlo con aria di sfida come sempre. Krog era veramente diventato una spina nel fianco per Reece, disobbedendo ai suoi ordini in ogni momento, sfidando ad ogni occasione la sua posizione di comando. Reece sentiva che stava per perdere la pazienza con lui.

“Lo faremo,” insistette, “scendendo fino al fondo del Canyon.”

Gli altri sussultarono e Krog si portò le mani ai fianchi, guardandolo con una smorfia.

“Tu sei pazzo,” gli disse. “Nessuno è mai sceso fino al fondo del Canyon.”

“Nessuno neppure sa se veramente ci sia un fondo,” si intromise Serna. “Per quanto ne sappiamo la Spada è caduta all’interno di una nuvola e potrebbe essere ancora in volo mentre stiamo qui a parlare.”

“Sciocchezze,” li rimbeccò Reece. “Tutto deve avere un fondo. Anche il mare più profondo ce l’ha.”

“Va bene, ammesso che il fondo esista,” lo rimbrottò Krog, “che beneficio ne traiamo a scendere così a fondo da non sapere neanche quanto? Non la vediamo né l’abbiamo udita atterrare. Potrebbero volerci giorni per raggiungerla, magari settimane.”

“Senza aggiungere che certo non si tratterebbe di una piacevole passeggiatina,” aggiunse Serna. “Non hai visto la parete rocciosa?”

Reece si voltò a guardare il baratro, le antiche pareti di roccia del Canyon, parzialmente nascoste dalla nebbia vorticante. Erano dritte, praticamente verticali. Sapeva che avevano ragione: non sarebbe stato facile. Eppure sapeva anche che non avevano scelta.

“E ancora peggio,” disse Reece, “quelle pareti sono scivolose per la nebbia. E anche se dovessimo riuscire a raggiungere il fondo, può darsi che non riusciremo più a tornare su.”

Tutti lo guardarono confusi.

“Quindi ammetti anche tu che è una pazzia tentare,” disse Krog.

“Sono d’accordo che è una follia,” disse Reece, la voce tonante di autorità e sicurezza. “Ma la follia è ciò per cui siamo nati. Non siamo semplici uomini, non siamo semplici abitanti dell’Anello. Siamo una razza speciale: siamo soldati. Siamo guerrieri. Siamo uomini della Legione. Abbiamo fatto un voto, un giuramento. Abbiamo giurato di non abbandonare mai un’impresa se questa appare troppo difficile o pericolosa, di non esitare di fronte a uno sforzo che possa arrecarci danno. È cosa da deboli nascondersi e fuggire, non è da noi. È questo che ci rende guerrieri. È la vera essenza del valore: ci si imbarca in un’impresa più grande di se stessi perché è la cosa giusta da fare, la cosa più onorevole, anche se può apparire impossibile. Dopotutto non è il risultato che rende qualcosa valoroso, ma il tentativo. È più grande di noi. È questo che siamo noi.”

Seguì un teso silenzio mentre il vento soffiava e gli altri riflettevano sulle sue parole.

Alla fine Indra fece un passo avanti.

“Io sono con Reece,” disse.

“Anche io,” aggiunse Elden, facendosi avanti a sua volta.

“E pure io,” aggiunse O’Connor portandosi accanto a Reece.

Conven si avvicinò a Reece in silenzio, afferrando l’elsa della sua spada, e si voltò a guardare gli altri. “Per Thorgrin,” disse, “andrei fino alla fine del mondo.”

Reece si sentì rinvigorito dall’avere i suoi veri e fidati membri della Legione al proprio fianco, persone che aveva con il tempo imparato ad amare come membri della stessa famiglia, fratelli che si erano avventurati con lui fino agli estremi confini dell’Impero. Tutti e cinque rimasero lì a fissare i due nuovi compagni, Krog e Serna, e Reece si chiese se si sarebbero unito a loro. Sarebbero state utili mani in più, ma se avessero voluto tornare indietro, che così fosse. Non gliel’avrebbe chiesto due volte.

Krog e Serna rimasero fermi a fissarli, insicuri sul da farsi.

“Io sono una donna,” disse loro Indra, “e voi prima vi siete presi gioco di me. Ed ora eccomi qui, pronta a una sfida da guerriero, mentre voi ve ne state lì impalati, tutti muscoli, timidi e spaventati.”

Serna sbuffò, irritato, spingendo indietro i lunghi capelli castani che gli coprivano gli occhi grandi e allungati e facendo un passo avanti.

“Verrò,” disse, “ma solo per il bene di Thorgrin.”

Krog era ora l’unico a rimanere indietro, rosso in volto, con aria di sfida.

“Siete dei dannati folli,” disse. “Tutti quanti.”

Ma alla fine fece un passo avanti e accettò di unirsi a loro.

Reece, soddisfatto, si voltò e li condusse verso il bordo del Canyon. Non c’era altro tempo da perdere.


*

Reece si teneva stretto al versante del Canyon mentre scendeva verso il basso, gli altri qualche metro sopra di lui, tutti intenti in una discesa dolorosa e faticosa ormai da ore. Il cuore di Reece batteva a mille mentre arrancava per mantenere il passo, le dita ferite e intorpidite dal freddo, i piedi che scivolavano sulla roccia viscida. Non si era aspettato che fosse difficile fino a quel punto. Aveva guardato giù e aveva valutato il terreno, la forma della roccia, notando che in alcuni punti la parete scendeva a strapiombo, perfettamente liscia e impossibile da scalare; in altri punti la pietra era ricoperta da un fitto muschio; in altri ancora aveva una netta pendenza ma buchi, sporgenze e scanni dove poter appoggiare i piedi e aggrapparsi con le mani. Aveva anche adocchiato alcuni pianerottoli dove potersi riposare.

Ma l’effettiva scalata si era rivelata molto più complicata di quanto fosse sembrata. La nebbia gli oscurava continuamente la vista e mentre deglutiva e guardava in giù trovava sempre più difficile mantenere l’equilibrio. Senza menzionare il fatto che, anche dopo tutto quel tempo passato a scendere, il fondo – se mai esisteva – non si era ancora visto.

Dentro di sé Reece sentiva crescere una sempre maggiore paura, la gola gli si fece secca. Una parte di lui si chiese se per caso avesse fatto un grave errore.

Ma non osava mostrare il suo timore agli altri. Senza Thor era lui ora il loro capo e doveva essere loro da esempio. Sapeva anche che dare corda alla paura non gli avrebbe fatto alcun bene. Doveva assolutamente rimanere forte e concentrato: sapeva che il timore aveva il potere di offuscare le sue abilità.

Le mani gli tremavano mentre riprendeva il controllo sulle proprie emozioni. Si disse che doveva dimenticare ciò che c’era sotto di loro e concentrarsi invece in cosa aveva davanti.

Un passo alla volta, si disse. Si sentì meglio con quel pensiero.

Trovò un altro punto d’appoggio per il piede e fece un altro passo verso il basso, poi un altro ancora, trovandosi a procedere secondo un ritmo definito.

“ATTENTO!” gridò qualcuno.

Reece si tenne stretto mentre alcuni piccoli ciottoli cadevano improvvisamente dall’alto, come una pioggia attorno a lui, rimbalzando sulla sua testa e sulle sue spalle. Sollevò lo sguardo e vide un grosso masso che stava precipitando e fece appena in tempo a scansarlo evitandolo.

“Scusa!” gridò O’Connor. “Roccia instabile!”

Il cuore di Reece batteva forte quando tornò a guardare in basso cercando di calmarsi. Moriva dalla voglia di sapere dove fosse il fondo. Allungò una mano, afferrò un sasso che gli era atterrato sulla spalla e guardando in basso lo scagliò giù.

Rimase in attesa, aspettando di sentirne il rumore.

Non udì nulla.

La sua inquietudine si accentuò. Ancora non c’era un senso definito di dove il Canyon finisse. E con mani e piedi già tremanti non sapeva se ce l’avrebbero mai fatta. Deglutì e ogni genere di pensiero gli passò per la mente mentre procedeva. E se Krog avesse avuto ragione? E se veramente non c’era un fondo? E se quella fosse un’incauta missione suicida?

Fece un altro passo e scese di parecchi metri, prendendo nuovo slancio, poi improvvisamente udì il rumore di un corpo che grattava sulla roccia, poi un grido. Accanto a lui si verificò un certo caos e guardando in alto vide Elden che iniziava a cadere, scivolando e passandogli oltre.

Istintivamente Reece allungò una mano e riuscì ad afferrare un polso di Elden mentre gli passava accanto. Fortunatamente Reece aveva una presa salda sulla roccia con l’altra mano e riuscì a tenere con forza Elden, evitandogli di scivolare giù del tutto. Elden tuttavia rimase a penzoloni, incapace di trovare un appoggio. Era troppo grande e pesante e Reece iniziava già a sentire che le forze lo abbandonavano.

Apparve Indra, che scese verso il basso velocemente e allungò una mano per afferrare l’altro polso di Elden. Elden si dimenò ma non riuscì a trovare alcun appiglio.

“Non so dove aggrapparmi!” gridò con il panico nella voce. Calciò con forza e Reece temette di perdere la presa e cadere giù con lui. Cercò di pensare velocemente a una soluzione.

Ripensò alla corda uncinata che O’Connor gli aveva mostrato prima della discesa, l’attrezzo di emergenza che usavano generalmente per scalare le mura durante un assedio. In caso dovesse servire, aveva detto O’Connor.

“O’Connor! La tua fune!” gli gridò Reece. “Lanciamela!”

Reece sollevò lo sguardo e vide O’Connor estrarre la fune dalla cintura, raddrizzarsi e conficcare l’uncino in una fenditura della parete rocciosa. Lo spinse con tutta la sua forza, ne testò diverse volte la tenuta e poi lanciò giù la corda, che si srotolò oltre Reece.

Non sarebbe potuta arrivare in un momento più appropriato. Il palmo sudato di Elden stava scivolando dalla presa di Reece e proprio mentre iniziava a cadere all’indietro, Elden allungò il braccio e afferrò la fune. Reece trattenne il fiato pregando che tenesse.

E così fu. Elden lentamente si tirò su, fino a che trovò un saldo punto d’appoggio. Si mise in piedi su un pianerottolo, con il fiatone, di nuovo in equilibrio. Fece un profondo sospiro di sollievo e lo stesso fece Reece. C’era veramente mancato poco.


*

Continuarono la discesa fino a che Reece non seppe quanto tempo fosse passato. Il cielo si fece più scuro e Reece era madido di sudore nonostante il freddo. Gli sembrava che ogni momento potesse essere l’ultimo della propria vita. Le mani e i piedi gli tremavano violentemente e il suono del suo respiro affannoso gli riempiva le orecchie. Si chiese quanto ancora avrebbe potuto resistere. Sapeva che se non avesse trovato presto il fondo avrebbero dovuto fermarsi a riposare, soprattutto con il calare della notte. Ma il problema era che non c’era un posto dove potersi fermare.

Reece non poteva fare a meno di chiedersi se, in caso fossero diventati troppo stanchi, avrebbero iniziato a cadere tutti, uno alla volta.

Si sentì improvvisamente un forte rumore di roccia e poi una piccola frana, decine di sassi, iniziarono a piovere verso il basso cadendo sulla testa di Reece, sul viso e negli occhi. Gli si fermò il cuore quando udì un grido, diverso questa volta: un grido di morte. Con la coda dell’occhio vide precipitare accanto a sé, quasi troppo velocemente per poterlo vedere, un corpo.

Reece allungò una mano per afferrarlo, ma accadde tutto troppo in fretta: tutto ciò che poté fare fu voltarsi e vedere Krog, in volo che si dimenava e gridava, cadendo di schiena verso il nulla.




CAPITOLO TRE


Kendrick era in groppa al suo cavallo, affiancato da Erec, Bronson e Srog, di fronte alle loro migliaia di uomini mentre si apprestavano ad affrontare gli uomini di Tiro e l’Impero. Erano finiti dritti in trappola. Erano stati venduti da Tiro e Kendrick si era reso conto troppo tardi di aver fatto un errore madornale a fidarsi di lui.

Kendrick guardò in alto alla propria destra e vide diecimila soldati dell’Impero proprio al limitare della valle, con le frecce pronte. A sinistra ce n’erano altrettanti. E davanti a loro ancora di più. Le poche migliaia di uomini che costituivano il suo esercito non avrebbero mai potuto sovrastare una tale quantità di nemici. Sarebbero stati macellati solo per aver tentato. E con tutti quegli archi spiegati la minima mossa avrebbe determinato il massacro dei suoi uomini. Logisticamente neppure trovarsi alla base della valle costituiva un aiuto. Tiro aveva scelto accuratamente il luogo per la sua imboscata.

Mentre Kendrick sedeva lì, impossibilitato a fare qualsiasi cosa, il volto contratto per la rabbia e l’indignazione, fissò Tiro che sedeva in groppa al suo cavallo, fiero e con un sorriso di pieno compiacimento in volto. Accanto a lui si trovavano i quattro figli e lì vicino un comandante dell’Impero.

“Il denaro è talmente importante per te?” chiese Kendrick a Tiro, a poco più di tre metri da lui, la voce fredda come l’acciaio. “Hai il coraggio di vendere la tua stessa gente, il tuo stesso sangue?”

Tiro non mostrava alcun rimorso e sorrise ancor più soddisfatto.

“Il tuo popolo non sono il mio sangue, ricordi?” disse. “È per questo che, secondo la tua legge, non sono designato ad avere il trono di mio fratello.”

Erec si schiarì la voce furente.

“Le leggi dei MacGil fanno passare il trono di padre in figlio, non di fratello in fratello.”

Tiro scosse la testa.

“Del tutto irrilevante ora. Le vostre leggi non contano più. La forza trionfa sempre al di sopra della legge. Sono quelli che detengono il potere a dettare legge. E ora, come potete vedere, sono io il più forte. Il che significa che da ora in poi sono io a dettare la legge. Le generazioni future non ricorderanno nessuna delle vostre leggi. Tutto ciò che ricorderanno sarà che io, Tiro, sono stato re. Non tu, né tua sorella.”

“I troni presi illegalmente non durano mai a lungo,” lo rimbeccò Kendrick. “Puoi anche ucciderci, puoi anche convincere Andronico a garantirti un trono. Ma sia tu che io sappiamo bene che non regnerai a lungo. Verrai tradito dalla medesima slealtà che hai usato contro di noi.”

Tiro rimase al suo posto, per niente scosso.

“E allora mi godrò questi brevi giorni di potere finché durano e applaudirò l’uomo che mi tradirà con la medesima abilità che ho saputo usare io con voi.”

“Basta parole!” gridò il comandante dell’Impero. “Arrendetevi ora o i vostri uomini moriranno!”

Kendrick lo fissò furioso, sapendo che doveva arrendersi, ma per niente desideroso di farlo.

“Deponete le armi,” disse Tiro con voce calma e rassicurante, “e vi tratterò bene, da guerriero a guerriero. Sarete miei prigionieri di guerra. Posso anche non condividere le vostre leggi, ma onoro il codice di battaglia di un guerriero. Vi prometto che sotto la mia sorveglianza non vi verrà fatto alcun male.”

Kendrick guardò Bronson, poi Srog ed Erec, che ricambiarono lo sguardo. Rimasero tutti lì, tutti valorosi guerrieri in groppa a cavalli scalpitanti, in silenzio.

“Perché dovremmo fidarci di te?” chiese Bronson a Tiro. “Tu che hai già provato che la tua parola non significa nulla. Ho intenzione di morire qui sul campo di battaglia, giusto per spazzare via quel sorrisetto spavaldo dalla tua faccia.”

Tiro si voltò e guardò Bronson con espressione accigliata.

“Parli anche se non sei un MacGil. Sei un McCloud. Non hai il diritto di immischiarti negli affari dei MacGil.”

Kendrick venne in difesa dell’amico: “Bronson è tanto un MacGil quanto ciascuno di noi, ora. Le sue parole danno voce ai pensieri dei nostri uomini.”

Tiro digrignò i denti, chiaramente irritato.

“A te la scelta. Guardati attorno e vedi le nostre migliaia di arcieri già pronti in posizione. Sei stato fregato. Se solo allunghi le mano alla spada, i tuoi uomini si troveranno morti sul posto all’istante. Chiaramente puoi vederlo. Ci sono momenti per combattere e momenti per arrendersi. Se vuoi proteggere i tuoi uomini farai ciò che qualsiasi bravo comandante farebbe. Deponi le armi.”

Kendrick serrò la mandibola, sentendosi avvampare. Per quanto odiasse ammetterlo, sapeva che Tiro aveva ragione. Si diede un’occhiata attorno e capì all’istante che la maggior parte dei suoi uomini, se non tutti, sarebbero morti lì se solo avesse provato a combattere. Per quanto volesse lottare, sarebbe stata una scelta egoista, e per quanto disprezzasse Tiro, sentiva che diceva la verità e che ai suoi uomini non sarebbe stato fatto del male. Fino a che sarebbero vissuti, avrebbero sempre potuto lottare in un altro momento, in qualche altro luogo o su qualche altro campo di battaglia.

Kendrick guardò Erec, un uomo con il quale aveva combattuto innumerevoli volte, il campione dell’Argento, e capì che anche lui stava pensando la medesima cosa. Era diverso essere un capitano o un semplice guerriero: un guerriero poteva combattere con abbandono e avventatezza, ma un capitano doveva pensare per prima cosa agli altri.

“C’è un tempo per le armi e un tempo per la resa,” dichiarò Erec. “Prenderemo per buona la tua parola di guerriero che ai nostri uomini non venga fatto alcun male, e a questa condizione deporremo le nostre armi. Ma se violerai la tua parola, che Dio abbia pietà dell’anima tua, tornerò dall’inferno per vendicare ciascuno dei miei uomini.”

Tiro annuì soddisfatto ed Erec allungò la mano lasciando cadere a terra la spada e il fodero, che atterrarono con un tonfo metallico.

Kendrick lo imitò e così fecero anche Bronson e Srog, tutti riluttanti ma sapendo che era la cosa più saggia da fare.

Dietro di loro si udì lo schianto di migliaia di armi che cadevano al suolo mentre tutti i MacGil e i Silesiani si arrendevano.

Tiro sorrise.

“Ora scendete da cavallo,” ordinò loro.

Uno alla volta scesero e si misero davanti ai loro cavalli.

Tiro sorrise assaporando la vittoria.

“Per tutti gli anni durante i quali sono stato esiliato nelle Isole Superiori e ho invidiato la Corte del Re, il mio fratello maggiore e tutto il suo potere. Ma ora quale fra i MacGil detiene tutto il potere?”

“Il potere della slealtà non è potere per niente,” gli rispose Bronson.

Tiro si accigliò e fece un cenno ai suoi uomini.

Quelli scattarono in avanti e con delle rozze funi legarono a tutti i polsi. Poi iniziarono a trascinarli via in qualità di prigionieri.

Mentre Kendrick veniva tirato, improvvisamente gli vene in mente suo fratello, Godfrey. Erano partiti tutti insieme, eppure non aveva ancora visto né lui né i suoi uomini da nessuna parte. Si chiese se in qualche modo fosse riuscito a fuggire e pregò che trovasse un destino migliore del loro. In qualche modo si sentiva ottimista.

Con Godfrey non si poteva mai sapere.




CAPITOLO QUATTRO


Godfrey cavalcava a capo dei suoi uomini, affiancato da Akorth, Fulton e il suo generale Silesiano, procedendo accanto al comandante dell’Impero che aveva deliberatamente pagato. Godfrey cavalcava con il sorriso stampato in viso, ben più che soddisfatto mentre osservava la divisione degli uomini dell’Impero, diverse migliaia di forti soldati che cavalcavano con loro, spinti dalla stessa causa.

Rifletté con soddisfazione sulla paga che aveva dato loro – infinite borse d’oro – richiamando alla memoria l’espressione sui loro volti, felice che il suo piano avesse funzionato. Non ne era stato certo fino all’ultimo momento, e per la prima volta poteva tirare un sospiro di sollievo. C’erano molti modi di vincere una battaglia, dopotutto, e lui ne aveva appena vinta una senza spargere una sola goccia di sangue. Probabilmente questo non lo rendeva cavalleresco o coraggioso come gli altri guerrieri. Ma era pur sempre vittorioso. E a conti fatti non era forse quello l’obiettivo? Preferiva mantenere i suoi uomini in vita usando un po’ di corruzione che vederne metà uccisi nel  mezzo di qualche avventato atto di cavalleria. Era così che era fatto.

Godfrey aveva lavorato sodo per ottenere ciò che aveva. Aveva utilizzato tutte le sue conoscenze del mercato nero attraverso bordelli, vicoli secondari e taverne per scoprire chi dormiva con chi, quali bordelli venivano frequentati dai comandanti dell’Impero nell’Anello e quale comandante in particolare fosse più disponibile ad vendersi per denaro. Godfrey aveva una sacco di contatti illeciti – in effetti aveva trascorso tutta la sua vita a raccoglierli – e ora gli erano tornati utili. E non gli aveva nuociuto per nulla pagare profumatamente ciascuno dei suoi contatti. Alla fine aveva fatto buon uso dell’oro di suo padre.

Ciononostante non poteva sapere se fossero veramente affidabili, non fino all’ultimissimo momento. Non c’era nessuno capace di imbrogliare quanto un ladro, e lui aveva dovuto cogliere l’occasione che gli si offriva. Sapeva che si trattava di un terno al lotto e che quelle persone erano tanto affidabili quanto l’oro con il quale li pagava. Ma li aveva comprati con oro veramente molto fino e loro si erano dimostrati più affidabili di quanto avesse immaginato.

Ovviamente non sapeva per quanto tempo quella divisione di truppe dell’Impero gli sarebbero rimasti leali. Ma almeno avevano scampato una battaglia e per il momento li avevano dalla loro parte.

“Mi ero sbagliato sul vostro conto,” disse una voce.

Godfrey si voltò e vide il generale Silesiano portarsi accanto a lui e guardarlo con ammirazione.

“Devo ammettere che ho dubitato di voi,” continuò. “Mi scuso. Non potevo immaginare il piano che avevate programmato. Ingegnoso. Non metterò più in dubbio le vostre parole.”

Godfrey sorrise, sentendosi rivendicato. Tutti i generali, tutti i tipi dell’esercito, avevano dubitato di lui per tutta la vita. Alla corte di suo padre, una corte di guerrieri, era sempre stato guardato con disdegno. Ora, finalmente, si stavano rendendo conto che, a modo suo, anche lui poteva essere competente quanto loro.

“Non ti preoccupare,” disse Godfrey. “Mi metto in dubbio io stesso. Sto imparando strada facendo. Non sono un comandante e non ho alcun piano geniale se non quello di sopravvivere in ogni modo possibile.”

“E ora dove andiamo?” chiese il generale.

“A raggiungere Kendrick, Erec e gli altri e fare ciò che possiamo per supportare la loro causa.”

Continuarono a galoppare, migliaia di uomini, una sgraziata e turbolenta alleanza tra i soldati dell’Impero e quelli di Godfrey, salendo e scendendo dalle colline, percorrendo lunghe, aride e polverose pianure, diretti verso la valle dove Kendrick aveva dato loro appuntamento.

Mentre avanzavano un milione di pensieri si rincorrevano nella mente di Godfrey. Si chiese come se la fossero cavata Kendrick ed Erec; si chiese quanto si fossero trovati in minoranza numerica e si chiese come se la sarebbe cavata lui stesso nella battaglia successiva, una battaglia vera. Non c’era più modo di evitarla, non aveva altri assi nella manica e aveva finito l’oro.

Deglutì nervoso. Sentiva di non avere lo stesso livello di coraggio che tutti gli altri sembravano avere e per cui sembravano essere tutti nati. Tutti gli altri sembravano così impavidi in battaglia e anche nella vita. Ma Godfrey doveva ammettere che aveva paura. Quando si veniva al sodo, alla battaglia vera e propria, sapeva che non si sarebbe tirato indietro. Ma era tuttavia goffo e impacciato, non aveva le abilità degli altri e non sapeva per quante altre volte gli dei della fortuna lo avrebbero assistito.

Agli altri sembrava non interessare se sarebbero morti: sembravano tutti desiderosi di donare le loro vite per la gloria. Godfrey apprezzava la gloria. Ma amava di più la vita. Amava la sua birra, il suo cibo: anche ora sentiva lo stomaco che brontolava, avvertiva l’urgenza di tornarsene alla salvezza della taverna da qualche parte. Una vita di battaglia non faceva per lui, punto e basta.

Ma poi pensò a Thor, là fuori da qualche parte, prigioniero. Pensò a tutti i suoi parenti che combattevano per la medesima causa e capì che lì il suo onore, per quanto macchiato, lo costringeva ad andare.

Continuarono a galoppare e finalmente giunsero alla sommità di un picco da cui riuscirono a vedere l’intera vallata che si apriva sotto di loro. Si fermarono e Godfrey strizzò gli occhi, accecato dal sole, cercando di ricomporsi e trovare un senso a ciò che aveva di fronte. Sollevò una mano per fare schermo contro  la luce e guardò, confuso.

Poi, con orrore, tutto divenne chiaro. Gli si fermò il cuore: là sotto migliaia di uomini di Kendrick, di Srog e di Erec venivano trascinati via, legati come prigionieri. Quelle erano le forze armate con le quali avrebbe dovuto incontrarsi. Erano completamente circondati da un numero di soldati dell’Impero almeno dieci volte superiore al loro esercito. Erano a piedi, i polsi legati, tutti prigionieri, tutti condotti via. Godfrey sapeva che Kendrick ed Erec non si sarebbero mai arresi a meno che non ci fosse una buona ragione. Sembrava che fossero stati incastrati.

Godfrey rimase impietrito, paralizzato dal panico. Si chiese come potesse essere successo. Si era aspettato di trovarli tutti nel bel mezzo di una battaglia ad armi pari, si era aspettato di lanciarsi alla carica e unirsi a loro. Invece ora stavano scomparendo all’orizzonte, ormai a mezza giornata di cammino da loro.

Il generale dell’Impero si portò accanto a Godfrey e lo sbeffeggiò.

“Sembra che i tuoi uomini abbiano perso,” gli disse. “Questo non faceva parte del nostro patto.”

Godfrey si voltò verso di lui e vide quanto ansioso sembrasse.

“Ti ho pagato bene,” gli disse nervosamente, ma cercando di mostrare una voce più sicura possibile mentre sentiva che il suo patto si stava sgretolando. “E tu hai promesso di unirti a me nella mia causa.”

Ma il generale dell’Impero scosse la testa.

“Ti ho promesso di seguirti in battaglia, non in una missione suicida. Le mie poche migliaia di uomini non potrebbero mai prevalere contro un intero battaglione di soldati di Andronico. Il nostro patto cambia. Puoi attaccarli da solo, io mi tengo comunque il tuo oro.”

Il generale dell’Impero si voltò e gridò spronando il proprio cavallo e partendo verso la direzione opposta, con tutti i suoi uomini alle calcagna. Presto scomparvero dall’altra parte della valle.

“Ha il nostro oro!” disse Akorth. “Non dovremmo seguirlo?”

Godfrey scosse la testa mentre li guardava scomparire.

“E che cosa ci guadagniamo? L’oro è oro. Non ho intenzione di rischiare la vita per esso. Lasciamoli andare. Ci sarà dell’altro.”

Godfrey si voltò e guardò l’orizzonte, il gruppo di uomini di Kendrick ed Erec che scomparivano in lontananza, cosa che gli stava più a cuore. Ora era senza riserve e si trovava ancora più isolato di prima. Sentì che tutti i suoi piani gli crollavano addosso.

“E adesso?” gli chiese Fulton.

Godfrey scrollò le spalle.

“Non ne ho idea,” rispose.

“Non dovresti dire una cosa del genere,” disse Fulton. “Ora sei un comandante.”

Ma Godfrey non fece che scrollare le spalle un’altra volta. “Dico la verità.”

“Questa cosa del guerriero è roba tosta,” disse Akorth, grattandosi la pancia mentre si toglieva l’elmo. “Non sembra funzionare come vorresti, giusto?”

Godfrey stava fermo a cavallo, scuotendo la testa e soppesando il da farsi. La sorte era girata in un modo che non aveva previsto un piano di riserva.

“Dobbiamo girarci e tornare indietro?” chiese Fulton.

“No,” Godfrey udì rispondere dalla sua stessa voce, sorprendendo addirittura se stesso.

Gli altri si voltarono a guardarlo, scioccati. Altri si avvicinarono di più per udire i suoi ordini.

“Potrò anche non essere un grande guerriero,” disse, “ma quelli laggiù sono miei fratelli. E li stanno portando via. Non possiamo tornare indietro. Anche se questo significa morire.”

“Siete impazzito?” chiese il generale Silesiano. “Tutti quegli ottimi guerrieri dell’Argento, dei MacGil, dei Silesiani, tutti insieme non sono riusciti a sconfiggere gli uomini dell’Impero. Come potete pensare che poche migliaia dei nostri uomini, sotto il vostro comando, possano farcela?”

Godfrey si voltò a guardarlo, irritato. Era stanco di essere messo in dubbio.

“Non ho mai detto che potremmo vincere,” ribatté. “Dico solo che questa è la cosa giusta da fare. Non li abbandonerò. Ora, se voi intendete girarvi e tornare a casa, sentitevi liberi di farlo. Li attaccherò da solo.”

“Siete un comandante senza esperienza,” disse accigliandosi. “Non avete idea di che cosa state parlando. Condurrete questi uomini a morte certa.”

“Lo so,” disse Godfrey. “È vero. Ma hai promesso di non mettere più in dubbio la mia parola. E io non ho intenzione di tornare indietro.”

Godfrey si portò diversi metri avanti, salendo su un promontorio in modo da poter essere ben visto da tutti i suoi uomini.

“UOMINI!” gridò con voce tonante. “So che non mi considerate un comandante provetto, come Kendrick, Erec o Srog. Ed è vero, non possiedo le loro abilità. Ma ho cuore, almeno all’occorrenza. E anche voi. Quello di cui sono certo è che quelli sono nostri fratelli, fatti prigionieri. E io stesso preferisco fare a meno di vivere, che rimanere a guardare mentre li portano via davanti ai nostri occhi per poi tornare a casa come cani, alle nostre città, aspettando che l’Impero venga a uccidere anche noi. Siatene certi: un giorno ci uccideranno.  Ora possiamo morire tutti, sui nostri piedi, combattendo, attaccando il nemico da uomini liberi. Oppure possiamo morire in vergogna e disonore. A voi la scelta. Venite con me e, vivi o no, andrete verso gloria certa!”

Si levò tra i suoi uomini un grido, talmente entusiasta da sorprendere Godfrey. Sollevarono tutti le spade in aria e questo gli diede maggiore coraggio.

E gli fece anche capire la verità di ciò che aveva appena detto. Non aveva realmente pensato alle parole che pronunciava: era semplicemente stato trascinato dal momento. Ora si rendeva conto che aveva preso un impegno e se ne sentiva un poco scioccato. Il suo coraggio intimidiva lui stesso.

Mentre gli uomini erano ormai incontenibili sui loro cavalli, sistemavano le armi e si preparavano per l’ultimo attacco, Akorth e Fulton gli si avvicinarono.

“Un goccio?” chiese Akorth.

Godfrey abbassò lo sguardo e lo vide allungare un otre di vino. Glielo strappò dalle mani, gettò la testa indietro e bevve a grosse sorsate, fino quasi a svuotarlo interamente, senza quasi fermarsi per prendere fiato. Alla fine Godfrey si asciugò la bocca con il dorso della mano e porse nuovamente l’otre all’amico.

Cos’ho mai fatto? Si chiese. Si era impegnato, e con sé aveva vincolato gli altri, in una battaglia che non poteva vincere. Aveva pensato la cosa giusta?

“Non pensavo che avessi tanto fegato,” gli disse Akorth, dandogli una forte pacca sulla schiena e ruttando. “Bel discorso. Meglio che a teatro!”

“Avremmo dovuto chiedere il biglietto!” si intromise Fulton.

“Sono convinto che non ti sbagli,” disse Akorth. “Meglio morire in piedi che sulla schiena.”

“Anche se sulla schiena non sarebbe poi così male, se fosse nel letto di un bordello,” aggiunse Fulton.

“Ben detto!” disse Fulton. “Oppure che ne direste di morire con un boccale di birra in mano e la testa reclinata indietro?”

“Anche questa non sarebbe male,” disse Akorth, bevendo.

“Ma dopo un po’ credo che diventerebbe tutto noioso,” disse Fulton. “Quanti boccali può bere un uomo e quante donne può portarsi a letto?”

“Beh, un sacco se ci pensi bene,” disse Akorth.

“Ma nonostante tutto penso possa essere più divertente morire in un modo diverso. Non così noioso.”

Akorth sospirò.

“Bene, se sopravviveremo a tutto questo, almeno avremo un motivo per farci veramente una bella bevuta. Per una volta nella nostra vita, potremo dire di essercela guadagnata.”

Godfrey si voltò da un’altra parte, cercando di non dare retta al continuo chiacchiericcio di Akorth e Fulton. Aveva bisogno di concentrarsi. Era giunto il tempo per lui di diventare un uomo, di lasciarsi alle spalle astuti scambi di battute e scherzi da taverna. Era arrivato il momento di prendere decisioni reali, che avessero effetto su uomini reali in  un mondo reale. Si sentiva una certa pesantezza addosso e non poteva fare a meno di chiedersi se anche suo padre si fosse sentito così. In qualche strano modo, anche se odiava quell’uomo, stava iniziando a provare una certa empatia con lui. E forse addirittura, con suo orrore, stava cominciando ad assomigliargli.

Dimenticando il pericolo davanti a lui, Godfrey venne sopraffatto da un impeto di sicurezza. Improvvisamente spronò il cavallo e con un grido di guerra si lanciò al galoppo verso la valle.

Dietro di lui si levò il grido di battaglia di migliaia di uomini e i passi dei loro cavalli gli riempirono le orecchie mentre lo seguivano.

Godfrey già si sentiva la testa leggera, il vento tra i capelli, il vino che gli dava alla testa mentre galoppava incontro a morte sicura, chiedendosi in cosa diavolo si fosse invischiato.




CAPITOLO CINQUE


Thor era in sella al suo cavallo, suo padre da una parte e McCloud dall’altra, Rafi poco più in là. Dietro di loro sedevano decine di migliaia di soldati dell’Impero, la divisione principale dell’esercito di Andronico, tutti disciplinati e pazienti in attesa di un ordine da parte di Andronico. Si trovavano tutti in cima a un crinale e guardavano verso l’Altopiano, con le sue vette ricoperte di neve. In cima all’Altopiano si trovava la città di McCloud – Highlandia – e Thor si irrigidì vedendo migliaia di uomini che uscivano dalle mura dirigendosi verso di loro, pronti alla battaglia.

Non erano uomini di MacGil e neppure dell’Impero. Indossavano un’armatura che Thor riconobbe a malapena, ma mentre stringeva la presa sull’elsa della sua nuova spada, non si sentiva perfettamente sicuro di chi fossero o del perché stessero attaccando.

“Uomini dei McCloud. I miei soldati di un tempo,” spiegò McCloud ad Andronico. “Tutti ottimi guerrieri. Tutti uomini che un tempo ho allenato e con i quali ho combattuto.”

“Ma ora ti si sono rivoltati contro,” osservò Andronico. “Si stanno lanciando alla carica per scontrarsi con te in battaglia.”

McCloud si accigliò. Senza un occhio e con metà del volto marchiato con il sigillo dell’Impero, aveva un aspetto grottesco.

“Mi spiace, mio signore,” disse. “Non è colpa mia. È tutta opera di mio figlio, Bronson. Ha scagliato la mia stessa gente contro di me. Se non fosse per lui, ora sarebbero tutti qui al mio fianco per sostenere la tua grandiosa causa.”

“Non dipende da tuo figlio,” lo corresse Andronico, la voce tagliente come l’acciaio, voltandosi verso di lui. “È perché sei un comandante debole e un padre ancora più debole. Il fallimento in tuo figlio è il tuo fallimento. Avrei dovuto sapere che saresti stato incapace di controllare i tuoi stessi uomini. Avrei dovuto ucciderti molto tempo fa.”

McCloud deglutì, nervoso.

“Mio signore, devi anche considerare che non stanno combattendo solo contro di me, ma anche contro di te. Vogliono sbarazzarsi dell’Impero e liberare l’Anello.”

Andronico scosse la testa, portando una mano alla sua collana di teste mozzate.

“Ma ora tu sei dalla mia parte,” disse. “Quindi combattere contro di me significa anche combattere contro di te.”

McCloud sguainò la spada, guardando con sguardo torvo l’esercito che si avvicinava.

“Andrò a combattere e uccidere ogni singolo uomo del mio precedente esercito,” dichiarò.

“So che lo farai,” disse Andronico. “Se così non fosse, ti ucciderei con le mie stesse mani. Non che abbia bisogno del tuo aiuto. I miei uomini possono creare ben più danni di quanti tu possa mai neanche sognarne, soprattutto se guidati dal mio stesso figlio, Thornico.”

Thor sedeva a cavallo e sentiva vagamente la conversazione tra i due, a tratti non ascoltandola per niente. Era come intontito. La sua mente brulicava di pensieri sconosciuti dei quali non aveva ricordo, pensieri che gli pulsavano nel cervello e gli ricordavano continuamente l’alleanza che aveva giurato a suo padre, il dovere di combattere per l’Impero, il suo destino di figlio di Andronico. Questi pensieri vorticavano senza sosta nella sua testa e per quanto ci provasse era impossibile riuscire a liberare la mente e avere pensieri propri. Era come trovarsi preso in ostaggio nel proprio stesso corpo.

Mentre Andronico parlava, ognuna delle sue parole diventava un suggerimento nella mente di Thor, tramutandosi poi in un ordine. Poi in qualche modo diventava il suo stesso pensiero. Thor combatté con se stesso, dato che una parte di sé avrebbe voluto sbarazzarsi di quei sentimenti invasivi e raggiungere così un punto di chiarezza. Ma più lottava, più difficile diveniva liberarsi.

Mentre sedeva a cavallo, guardando l’esercito che avanzava verso di loro al galoppo attraversando la piana, sentiva il sangue che gli scorreva vorticosamente nelle vene e tutto ciò a cui riusciva a pensare era la sua lealtà a suo padre, il suo bisogno di annientare chiunque si mettesse in mezzo ai piedi nel loro cammino. Il suo destino di comandare l’Impero.

“Thornico, mi hai sentito?” lo richiamò Andronico. “Sei pronto a dare prova di te in battaglia per tuo padre?”

“Sì, padre mio,” rispose Thor guardando fisso davanti a sé. “Combatterò contro chiunque si schieri contro di te.”

Andronico sorrise soddisfatto. Si voltò e si rivolse ai suoi uomini.

“UOMINI!” gridò con voce tonante. “È venuto il tempo di affrontare il nemico, di sbarazzare l’Anello dei suoi sopravvissuti ribelli una volta per tutte. Inizieremo da questi uomini di McCloud che osano sfidarci. Thornico, mio figlio, vi guiderà in battaglia. Lo seguirete come seguireste me. Darete la vostra vita per lui come fareste per me. Ogni tradimento contro di lui è un tradimento contro di me!”

“THORNICO!” gridò Andronico.

“THORNICO!” gli fece eco il coro di decine di migliaia di soldati dell’Impero alle sue spalle.

Thor, incoraggiato, sollevò in aria la sua nuova spada, la spada dell’Impero, quella che l’adorato padre gli aveva dato. Sentì il potere scorrergli dentro, il potere della sua linea di sangue, del suo popolo, di tutto ciò che gli dava significato. Finalmente era di nuovo a casa, di nuovo con suo padre. Per suo padre avrebbe fatto qualsiasi cosa. Si sarebbe anche gettato contro la morte.

Thor lanciò un alto grido di battaglia, spronò il cavallo e scese al galoppo verso la valle, il primo a lanciarsi in battaglia. Dietro di lui si levò un forte grido di battaglia mentre decine di migliaia di uomini lo seguivano, tutti pronti a seguirlo fino alla morte.




CAPITOLO SEI


Micople sedeva rannicchiata, rinchiusa nell’immensa rete di acdonio, incapace di allungarsi e di sbattere le ali. Si trovava a bordo della nave dell’Impero e nonostante tutti gli sforzi non riusciva a sollevare il collo, a muovere le zampe o ad allungare gli artigli. Non si era mai sentita peggio di così in vita sua, non aveva mai fatto esperienza di una simile mancanza di libertà e di forza. Era accoccolata a forma di palla, sbatteva lentamente le palpebre e si sentiva abbattuta, più per Thor che per se stessa.

Micople poteva percepire l’energia di Thor, anche a quella distanza, anche se la nave stava attraversando l’oceano, oscillando tra onde mostruose che la facevano salire e ridiscendere infrangendosi contro lo scafo. Micople poteva anche avvertire il cambiamento di Thor: sentiva che stava diventando qualcun altro, non più l’uomo che aveva conosciuto. Questo le spezzava il cuore. Non poteva fare a meno di sentirsi come se in qualche modo lo avesse abbandonato. Tentò un’altra volta di divincolarsi, così desiderosa di andare da lui e salvarlo. Ma semplicemente era impossibile liberarsi.

Un’onda enorme si abbatté sul ponte e l’acqua schiumante del Tartuvio arrivò fin sotto alla rete facendola scivolare e mandandola a sbattere la testa contro il legno dello scafo. Micople tremò e ringhiò, avendo ormai perso lo spirito e la forza di un tempo. Si stava rassegnando al suo nuovo destino, sapendo che la stavano portando lontano per ucciderla o peggio per tenerla in cattività. Non le interessava cosa ne sarebbe stato di lei. Voleva solo che Thor stesse bene. E voleva un’occasione, solo un’ultima possibilità di vendetta contro i suoi aggressori.

“Guarda dov’è! Scivolata per mezzo pontile!” gridò uno dei soldati dell’Impero.

Micople sentì un improvviso dolore pungente tra le sensibili scaglie del muso e vide due soldati dell’Impero, con lance lunghe dieci metri, che la pungolavano attraverso la rete mantenendosi a distanza di sicurezza. Micople cercò di ritrarsi dai loro colpi, ma la rete la teneva immobile. Ringhiò mentre continuavano a punzecchiarla ripetutamente, chiaramente divertiti.

“Non fa più paura adesso, vero?” chiese uno all’altro.

Il compagno rise, pungendola con la lancia vicino all’occhio. Micople si spostò all’ultimo momento, evitando così di essere accecata.

“È innocua come una mosca,” disse uno.

“Ho sentito dire che la metteranno in mostra nel nuovo edificio del congresso dell’Impero.

“Io ho sentito una cosa diversa,” disse un altro. “Dicono che le taglieranno le ali e la tortureranno per tutto il male che ha fatto ai nostri uomini.”

“Mi piacerebbe poterlo vedere.”

“Dobbiamo veramente consegnarla intatta?” chiese uno.

“Ordini.”

“Ma non vedo perché non possiamo almeno maltrattarla un poco. Dopotutto non ha bisogno di entrambi gli occhi, giusto?”

Gli altri risero.

“Beh, se la metti così, direi di no,” rispose il compagno. “E che così sia. Divertiamoci.”

Uno di loro si avvicinò e sollevò un’alta lancia.

“Stai ferma ora, ragazzina!” disse il soldato.

Micople trasalì, impotente, mentre il soldato le si avventava contro, pronto a conficcarle la lancia nell’occhio.

Improvvisamente un’altra ondata si abbatté sulla nave. L’acqua fece cadere il soldato che scivolò dritto verso il suo muso, con gli occhi sgranati per il terrore. Con un grosso sforzo Micople riuscì a sollevare un artiglio giusto per permettere che il soldato le finisse sotto, poi lo abbassò calandolo sulla sua gola.

L’uomo gridò mentre il sangue sgorgava ovunque, mescolandosi con l’acqua e lasciandolo morire dissanguato. Micople sentì una sferzata di soddisfazione.

I soldati rimasti si voltarono e corsero via, gridando impauriti. Nel giro di pochi istanti sopraggiunsero una decina di uomini dell’Impero, tutti con lunghe lance in mano.

“Uccidete la bestia!” gridò uno di loro.

Si avvicinarono tutti per ucciderla e Micople si sentì certa che fosse la sua fine.

Ma poi sentì un’improvvisa rabbia sorgerle dentro, diversa da qualsiasi cosa avesse mai provato. Chiuse gli occhi e pregò Dio di darle un ultimo sprazzo di forza.

Lentamente sentì un forte calore salirle dalla pancia e scorrerle fino alla gola. Sollevò la bocca ed emise un ruggito. Con sua sorpresa dalla bocca le uscì un’enorme fiammata.

Il fuoco attraversò la rete e anche senza distruggerla avvolse gli uomini che le si stavano avvicinando.

Gridarono tutti mentre i loro corpi andavano a fuoco. La maggior parte di essi collassò a terra mentre quelli che non morirono all’istante corsero e saltarono in mare. Micople era soddisfatta.

Apparvero altre decine di soldati, questa volta con delle mazze, e Micople cercò di raccogliere ancora delle fiamme.

Ma questa volta non funzionò. Dio aveva risposto alle sue preghiere e le aveva concesso la grazia di un colpo. Ma ora non c’era nulla che potesse fare. Era grata almeno per ciò che aveva appena fatto.

Decine di soldati si gettarono su di lei, colpendola con le mazze e lentamente Micople si sentì sprofondare, sempre più in basso, chiudendo gli occhi. Si rannicchiò stretta, rassegnata, chiedendosi se il suo tempo in questo mondo fosse giunto al termine.

Presto tutto divenne nero.




CAPITOLO SETTE


Romolo si trovava al timone della sua enorme nave, lo scafo dipinto di nero e oro, con la bandiera dell’Impero – il leone con l’aquila in bocca – che sventolava fiera nel vento. Stava lì con le mani ai fianchi, la sua struttura muscolosa ancora più larga, come se fosse ancorato sul pontile, e guardava le onde impetuose e brillanti del Mar Ambrek. In lontananza si scorgevano le sponde dell’Anello.

Finalmente.

Il cuore di Romolo fremette di attesa quando mise occhio sull’Anello per la prima volta. Sulla sua nave viaggiavano i suoi migliori uomini, diverse decine di soldati di prima scelta, e dietro di loro navigavano migliaia delle migliori navi dell’Impero esistenti. Una vasta armata che riempiva il mare sotto l’egida dell’Impero. Stavano compiendo un lungo viaggio, girando attorno all’Anello determinati a sbarcare dalla parte di McCloud. Romolo aveva programmato di entrare nell’Anello da solo, cogliere di sorpresa il suo vecchio comandante – Andronico – e assassinarlo quando meno se lo aspettasse.

Sorrise al pensiero. Andronico non aveva idea del potere e dell’astuzia del suo numero due al comando, e stava per capirlo nel modo più duro. Non avrebbe mai dovuto sottovalutarlo.

Enormi onde continuavano a sollevarsi e Romolo gioiva tra gli schizzi d’acqua sul volto. Teneva stretto in mano il mantello magico che aveva recuperato nella foresta e sentiva che avrebbe funzionato, che gli avrebbe fatto attraversare il Canyon. Sapeva che quando l’avrebbe messo sarebbe stato invisibile, capace di penetrare oltre lo Scudo ed entrare da solo nell’Anello. La sua missione gli richiedeva di essere furtivo, astuto e di giocare sull’effetto sorpresa. I suoi uomini ovviamente non potevano seguirlo, ma non gli servivano: una volta dentro avrebbe trovato gli uomini di Andronico – uomini dell’Impero – e li avrebbe assoldati per sostenerlo nella sua causa. Li avrebbe divisi e si sarebbe creato il suo esercito, scatenando una guerra civile. Dopotutto i soldati dell’Impero amavano Romolo tanto quanto Andronico. Avrebbe usato gli uomini di Andronico contro di lui.

Poi avrebbe trovato un MacGil, lo avrebbe riportato dall’altra parte del Canyon, come il mantello richiedeva di fare, e se la leggenda era vera lo Scudo sarebbe stato distrutto. Senza lo Scudo avrebbe poi potuto raccogliere tutti i suoi uomini e l’intero esercito si sarebbe riversato all’interno, annientando l’Anello una volta per tutte. Poi, finalmente, Romolo sarebbe stato l’unico sovrano dell’intero universo.

Fece un respiro profondo. Poteva già assaporare la sensazione. Stava combattendo da una vita per un momento come quello.

Guardò il cielo rosso sangue, il secondo sole ormai al tramonto, un’enorme palla all’orizzonte, che a quell’ora del giorno emetteva una luce blu scintillante. Era l’ora del giorno in cui Romolo pregava i suoi dei: il dio della terra, il dio del mare, il dio del cielo, il dio del vento e, soprattutto, il dio della guerra. Sapeva di doverli placare tutti. Era pronto: aveva portato molti schiavi da sacrificare, sapendo che il loro sangue gli avrebbe dato potere.

Le onde continuavano a infrangersi attorno a loro mentre si avvicinavano alla costa. Romolo non attese che gli altri calassero le funi, ma balzò giù dallo scafo non appena la nave toccò la sabbia, un salto di sette metri buoni, atterrando in piedi con l’acqua fino alla vita. Non rabbrividì neppure.

Romolo passeggiava sulla riva come se fosse di sua proprietà lasciando profonde impronte sulla sabbia. Dietro di lui i suoi uomini abbassarono le funi e iniziarono a fissare le navi mentre una barca dopo l’altra arrivavano a destinazione.

Romolo osservò tutto il suo lavoro e sorrise. Il cielo si stava facendo scuro e lui aveva raggiunto la costa nel momento più appropriato per presentare un sacrificio. Sapeva che doveva ringraziare gli dei per questo. Si voltò e si rivolse ai suoi uomini.

“FUOCO!” gridò.

Gli uomini si affrettarono a costruire un’enorme pira, alta cinque metri: una massiccia pila di legno che attendeva solo di essere accesa, sagomata nella  forma di una stella a tre punte.

Romolo annuì e i suoi uomini trascinarono avanti una decina di schiavi, uno legato all’altro. Li legarono attorno al legno della pira, stringendo per bene le funi. I prigionieri guardavano con gli occhi sgranati per il panico. Gridavano e si dimenavano, terrorizzati, vedendo le torce pronte e rendendosi conto che stavano per essere bruciati vivi.

“NO!” gridò uno di loro. “Per favore! Ti prego! Questo no. Qualsiasi altra cosa, ma questo no!”

Romolo li ignorò. Voltò la schiena a tutti e fece diversi passi avanti, aprì le braccia e piegò il collo guardando il cielo.

“OMARUS!” gridò. “Dacci la luce per vedere! Accetta questo mio sacrificio questa notte. Stai con me nel mio viaggio nell’Anello. Dammi un segno. Fammi sapere se avrò successo!”

Romolo abbassò le mani e nello stesso istante i suoi uomini corsero in avanti e lanciarono le torce nel legno.

Si levarono grida di orrore mentre tutti gli schiavi venivano bruciati vivi. Le scintille volavano ovunque e Romolo rimase lì in piedi, il volto illuminato dalla luce delle fiamme, godendosi lo spettacolo.

Fece un cenno con la testa e i suoi uomini portarono avanti una vecchia donna, priva di occhi, il volto rugoso, il corpo rinsecchito. Diversi uomini la sorreggevano su una portantina e lei si chinò in avanti verso le fiamme. Romolo la guardò, paziente, in attesa della sua profezia.

“Avrai successo,” disse. “A meno che tu non veda i soli convergere.”

Romolo sorrise. I soli convergere? Non era mai successo in migliaia di anni.

Era felice e un piacevole calore gli riempiva il petto. Era tutto ciò che aveva bisogno di sentire. Gli dei erano con lui.

Afferrò il suo mantello, montò a cavallo e lo spronò con forza, iniziando a galoppare da solo, sulla sabbia, lungo la strada che l’avrebbe condotto all’Attraversamento Orientale, oltre il Canyon e, presto, nel cuore dell’Anello stesso.




CAPITOLO OTTO


Selese attraversava ciò che restava del campo di battaglia, Illepra al suo fianco. Procedevano insieme cercando segni di vita. Era stata una lunga e difficile camminata da Silesia e loro due erano sempre state insieme, seguendo il corpo principale dell’esercito, curandosi dei feriti e dei morti. Si erano staccate dagli altri guaritori ed erano diventate buone amiche, legate nelle avversità. Si sentivano naturalmente legate: vicine di età, simili l’una all’altra e, forse dettaglio più importante, entrambe innamorate di un MacGil. Selese amava Reece e Illepra, anche se era restia ad ammetterlo, amava Godfrey.

Avevano fatto del loro meglio per rimanere al passo con l’esercito, passando tra campi, foreste e strade fangose, fermandosi costantemente di fronte ai feriti dei MacGil. Sfortunatamente trovarli non si era rivelato difficile: ce n’erano in abbondanza tutt’attorno. In alcuni casi Selese era stata in grado di guarirli, ma in moltissimi altri il meglio che lei ed Illepra avevano potuto fare era stato medicare le loro ferite, eliminare il dolore con i loro composti e permettere loro una morte pacifica.

Era straziante per Selese. Avendo operato da guaritrice in un piccolo villaggio per tutta la vita, non si era mai occupata di questioni di tale gravità. Era abituata a trattare graffi, tagli e ferite minori, al massimo il morso di un persalcio. Ma non era abituata a uno spargimento di sangue e a una presenza di morte così massicci, né a ferite così gravi. La cosa la rattristava profondamente.

Nella sua professione Selese aveva sempre desiderato curare la gente e vederla stare bene, eppure da quando si era messa in viaggio da Silesia non aveva visto altro che un’incessante scia di sangue. Come potevano gli uomini fare una cosa del genere gli uni agli altri? Quei feriti erano tutti fratelli di qualcuno, erano padri e mariti. Come poteva il genere umano essere così crudele?

Selese era ancora più straziata dalla propria mancanza di abilità nell’aiutare ogni persona che incontrava. Le loro scorte erano limitate a ciò che erano in grado di trasportare, e dato il lungo viaggio non era molto. Gli altri guaritori del regno erano sparpagliati ovunque, in tutto l’Anello. Erano tutti insieme un esercito, ma erano comunque troppo pochi e le scorte scarseggiavano. Senza vagoni adeguati, senza cavalli e senza una squadra di aiutanti, quello era tutto ciò che lei poteva trasportare.

Selese chiuse gli occhi e fece un respiro profondo mentre camminava ripassando nella sua mente i volti dei feriti. Moltissime volte le era toccato prendersi cura di un soldato ferito a morte che gridava di dolore, aveva visto i suoi occhi diventare vitrei e gli aveva dato del blatox. Si trattava di un efficace antidolorifico e calmante. Ma non bastava per curare una ferita infetta, non aveva il potere di bloccare l’infezione. Senza tutte le sue scorte quello era il meglio che poteva fare. Questo le faceva venire voglia di piangere e gridare allo stesso tempo.

Selese e Illepra si inginocchiarono ciascuna di fronte a un soldato ferito a pochi passi l’una dall’altra, entrambe impegnate nel suturare un taglio con ago e filo. Selese era stata costretta a usare quell’ago un po’ troppe volte e avrebbe voluto averne uno pulito. Ma non aveva scelta. Il soldato gridava di dolore mentre lei ricuciva la lunga ferita che gli tagliava il bicipite e che non sembrava voler rimanere chiusa. Selese premette un palmo sul braccio dell’uomo cercando di arrestare il flusso di sangue.

Ma era una battaglia persa. Se solo fosse giunta da quel soldato un giorno prima, tutto sarebbe andato bene. Ma ora il suo braccio era verde e lei stava prevenendo l’inevitabile.

“Andrà tutto bene,” gli disse Selese.

“Non è vero,” rispose lui guardandola con occhi di morte. Selese aveva visto quello sguardo ormai troppe volte. “Dimmi. Morirò?”

Selese fece un respiro profondo ed esitò. Non sapeva come rispondere. Odiava essere disonesta. Ma non poteva sopportare di dirgli la verità.

“Il nostro destino è nelle mani di chi ci ha creato,” disse. “Non è mai troppo tardi per nessuno di noi. Bevi,” concluse, prendendo una fiala di blatox da un sacchettino di pozioni che teneva alla vita, appoggiandola alle labbra dell’uomo e accarezzandogli la testa.

Lui ruotò gli occhi indietro e sospirò, tranquillo per la prima volta.

“Mi sento bene,” disse.

Poco dopo chiuse gli occhi.

Selese sentì una lacrima scorrerle lungo la guancia e velocemente se la asciugò.

Illepra finì con il suo ferito ed entrambe si alzarono in piedi, continuando a camminare lungo quell’interminabile sentiero, sorpassando un cadavere dopo l’altro. Si diressero inevitabilmente verso est, seguendo il corpo principale dell’esercito.

“Ma stiamo almeno facendo qualcosa qui?” chiese alla fine Selese, dopo un lungo silenzio.

“Certo,” rispose Illepra.

“Non sembra che sia proprio così,” ribatté Selese. “Ne abbiamo salvati così pochi e persi talmente tanti.”

“E perché non considerare quei pochi,” le chiese Illepra. “Non valgono niente?”

Selese rifletté.

“Certo che sì,” disse. “Ma gli altri?”

Selese chiuse gli occhi e cercò di immaginarli, ma ormai erano una serie confusa di volti.

Illepra scosse la testa.

“Non pensi nel modo giusto. Sei una sognatrice. Troppo ingenua. Non puoi salvare tutti. Non l’abbiamo iniziata noi questa guerra. Ci siamo solo messe al seguito.”

Continuarono a camminare in silenzio, procedendo sempre più a est, oltre campi di corpi. Selese era felice, almeno, per la compagnia di Illepra. Si erano fatte compagnia  e si erano fornite sostegno a vicenda, condividendo esperienze e rimedi lungo il cammino. Selese era sorpresa dalla vasta gamma di erbe possedute da Illepra, alcune delle quali neppure conosceva; Illepra, dal canto suo, era continuamente sorpresa dagli unguenti unici che Selese aveva scoperto nel suo piccolo villaggio. Le due si completavano bene.

Mentre marciavano, passando in rassegna un’altra volta i morti, i pensieri di Selese andarono a Reece. Nonostante tutto quello che la circondava, non riusciva a levarselo dalla testa. Aveva fatto tutto il viaggio fino a Silesia per trovarlo e stare con lui. Ma il destino li aveva separati troppo presto, quella stupida guerra li aveva trascinati in due direzioni diverse. Si chiedeva a ogni momento che passava se lui fosse in salvo. Si chiedeva dove si trovasse precisamente sul campo di battaglia. E a ogni cadavere che passava, guardava velocemente il volto con un senso di timore, sperando e pregando che non fosse lui. Lo stomaco le si stringeva a ogni corpo che avvicinava, fino a che non lo rigirava e vedeva il volto, capendo che non era lui. E ogni volta sospirava di sollievo.

Però a ogni passo che facevano era sempre tesa, temeva di trovarlo ferito o, ancora peggio, morto. Non sapeva se sarebbe potuta andare avanti in caso fosse successo.

Era determinata a trovarlo, vivo o morto. Aveva viaggiato fino a lì e non sarebbe tornata indietro fino a che non avesse saputo cosa gli aveva riservato il destino.

“Non ho visto tracce di Godfrey,” disse Illepra, guardando per terra mentre procedevano.

Illepra aveva parlato di Godfrey a tratti da quando erano partite ed era ovvio che anche lei era cotta di lui.

“Neppure io,” le rispose Selese.

Erano in costante dialogo, entrambe rapite dai due fratelli, Reece e Godfrey, due fratelli che non sarebbero potuti essere più diversi l’uno dall’altro. Selese, personalmente, non riusciva a capire cosa Illepra trovasse in Godfrey. A lei sembrava solo un ubriacone, uno sciocco, uno da non prendere sul serio. Era divertente e simpatico, e certamente furbo. Ma non era il tipo di uomo che Selese desiderava. Lei voleva un uomo sincero, serio, sensibile. Voleva un uomo che mostrasse cavalleria e onore. E Reece era perfetto per lei.

“Non so come possa essere sopravvissuto a tutto questo,” disse Illepra tristemente.

“Lo ami, vero?” le chiese Selese.

Illepra arrossì e distolse lo sguardo.

“Non ho mai parlato di amore,” disse sulla difensiva. “Sono solo preoccupata per lui. È solo un amico.”

Selese sorrise.

“Davvero? Allora perché non smetti mai di parlare di lui?”

“Parlo sempre di lui?” chiese Illepra. “Non me ne ero accorta.”

“Sì, costantemente.”

Illepra scrollò le spalle e tacque.

“Immagino che in qualche modo mi dia sui nervi. Mi fa impazzire a volte. Sono sempre lì a trascinarlo fuori dalle taverne. Ogni volta mi promette che non ci tornerà più. Ma poi non mantiene mai la parola. Mi irrita, sul serio. Lo getterei nell’immondizia, se potessi.”

“È per questo che sei così ansiosa di trovarlo?” le chiese Selese. “Per gettarlo da parte?”

Ora toccò a Illepra sorridere.

“Forse no,” disse. “Forse lo voglio anche abbracciare.”

Svoltarono attorno a una collina e arrivarono accanto a un soldato, un Silesiano. Giaceva sotto a un albero, lamentandosi, una gamba chiaramente rotta. Selese lo poteva vedere anche da lì grazie al suo occhio esperto. Accanto, legati all’albero, c’erano due cavalli.

Le due ragazze gli corsero accanto.

Mentre si preparava a curargli la ferita – un profondo taglio nella coscia – Selese non poté trattenersi dal chiedere ciò che domandava a ogni soldato che incontrava: “Hai visto qualcuno della famiglia reale? Hai visto Reece?”

Tutti gli altri soldati si erano voltati scuotendo la testa e distogliendo lo sguardo e ora Selese era così abituata alla delusione che anche ora si aspettava una risposta negativa.

Ma con sua sorpresa il soldato fece un cenno affermativo con la testa.

“Non ero insieme a lui, ma l’ho visto, sì mia signora.”

Selese sgranò gli occhi per l’eccitazione e la speranza.

“È vivo? È ferito? Sai dove si trova?” gli chiese con il cuore che accelerava il battito e stringendogli il polso.

L’uomo annuì.

“Sì. Si è imbarcato in una missione speciale. Recuperare la Spada.”

“Quale spada?”

“La Spada della Dinastia.”

Lei lo guardò con stupore. La Spada della Dinastia. La spada della leggenda.

“Dove?” chiese disperata. “Dove si trova?”

“Si è diretto verso l’Attraversamento Orientale.”

L’Attraversamento Orientale, pensò Selese. Era lontano, molto lontano. Non c’era modo di poterlo raggiungere a cavallo. Non a quel passo. E se Reece si trovava lì era sicuramente in pericolo. Aveva sicuramente bisogno di lei.

Quando ebbe finito di curare il soldato, guardò oltre e notò i due cavalli legati all’albero. Dato che quell’uomo aveva una gamba rotta non c’era modo che potesse cavalcare. I due cavalli gli sarebbero risultati inutili. E molto presto sarebbero morti se nessuno si fosse preso cura di loro.

Il soldato notò come Selese li guardava.

“Prendili, signora,” le propose. “Non ne avrò sicuramente bisogno.”

“Ma sono tuoi,” disse lei.

“Non posso cavalcarli. Non in queste condizioni. Puoi usarli tu. Prendili e trova Reece. È un lungo viaggio da qui e non ce la faresti a piedi. Mi hai dato un grande aiuto. Non morirò qui. Ho cibo e acqua per tre giorni. Arriveranno degli uomini a prendermi. Le pattuglie passano per di qua continuamente. Prendili e vai.”

Selese gli strinse i polsi, sopraffatta dalla gratitudine. Si voltò verso Illepra, determinata.

“Devo andare a trovare Reece, mi spiace. Ci sono due cavalli qui. Tu puoi prendere l’altro per qualsiasi luogo tu debba andare. Io devo attraversare l’Anello e dirigermi verso l’Attraversamento Orientale. Mi spiace, ma devo lasciarti.”

Selese montò a cavallo e fu sorpresa vedendo Illepra salire di corse sull’altro. Poi allungò un braccio con la sua spada corta e tagliò le funi che tenevano gli animali legati all’albero.

Si voltò verso Selese e sorrise.

“Pensavi davvero, dopo tutto quello che abbiamo attraversato insieme, che ti avrei lasciata andare da sola?” le chiese.

Selese sorrise. “Direi di no,” rispose.

Le due spronarono i cavalli e partirono, galoppando lungo la strada, dirette verso est, da qualche parte – Selese pregava – verso Reece.




CAPITOLO NOVE


Gwendolyn stava rannicchiata, il mento basso contro il vento e la neve, percorrendo il bianco campo infinito. Alistair, Steffen e Aberthol erano sempre al suo fianco, Krohn vicino alla sua gamba. Tutti e cinque erano in marcia da ore, fin da quando avevano attraversato il Canyon entrando nel Mondo Inferiore, e Gwen era esausta. I muscoli le facevano male e anche lo stomaco le doleva: forti fitte andavano e venivano di tanto in tanto mentre il bambino di muoveva. Quello che la circondava era un mondo completamente bianco, la neve cadeva senza sosta finendole negli occhi e l’orizzonte non offriva alcuna varietà. Non c’era nulla a spezzare la monotonia del paesaggio e Gwen si sentiva come se stessero camminando verso l’estremità assoluta della terra.

Si era fatto anche più freddo e, nonostante le pellicce, Gwendolyn sentiva il gelo che le entrava nelle ossa. Le mani erano già intorpidite.

Guardò avanti e vide che anche gli altri stavano tremando, tutti intenti a combattere il freddo, e iniziò a chiedersi se non avesse fatto un grave errore a portarsi lì. Anche se Argon si trovava lì, senza alcun segno all’orizzonte come avrebbero mai potuto trovarlo? Non c’era nessuna strada, nessun sentiero e Gwen provava un senso di crescente disperazione non avendo idea di dove si stessero dirigendo. Tutto ciò di cui era certa era che si stavano allontanando dal Canyon, sempre più a nord. Anche se avessero trovato Argon, come avrebbero mai potuto aiutarlo? Era possibile liberarlo?

A Gwen sembrava di essere arrivata a un luogo non inteso per gli umani, un luogo sovrannaturale adatto a stregoni e druidi, a forze misteriose e magiche che lei non poteva capire. Le sembrava di sconfinare in un altro mondo.

Avvertì un’altra forte fitta alla pancia, sentendo il bambino che continuava a girarsi e rigirarsi dentro di lei. Questa volta il dolore fu così intenso da farle quasi mancare il fiato e facendola barcollare per un momento.

Una mano rassicurante le afferrò il polso e la tenne in piedi.

“Mia signora, ti senti bene?” le chiese Steffen, sopraggiunto velocemente accanto a lei.

Gwen chiuse gli occhi, fece un respiro profondo, gli occhi umidi per il dolore, e annuì. Si fermò un momento e si mise una mano sulla pancia. Era evidente che il suo bambino non era felice di trovarsi lì. Non lo era neppure lei.

Gwen rimase lì per qualche momento, respirando affannosamente, fino a che il dolore svanì. Si chiese nuovamente se si fosse sbagliata ad avventurarsi in quel luogo, ma poi pensò a Thor e il suo desiderio di salvarlo trionfò su tutto il resto.

Ricominciarono a camminare e mentre il dolore si attenuava, Gwendolyn temette non solo per il suo bambino, ma anche per gli altri. In quelle condizioni non sapeva quanto avrebbero resistito e non sapeva neppure se a quel punto sarebbero potuti tornare indietro. Erano incastrati. Quello era un territorio completamente inesplorato, non esistevano mappe e non si scorgeva alcuna meta.

Il cielo era tinto di una luce viola, ogni cosa riluceva di ambra e violetto, facendola sentire ancora più disorientata. Non c’era senso di giorno e notte in quel luogo. Era un’interminabile marcia nel nulla.

Aberthol aveva ragione: era veramente un altro mondo, un abisso di neve e vuoto, il luogo più desolato che lei avesse mai visto.

Gwendolyn si fermò un momento per prendere fiato e nello stesso istante sentì una mano calda e rassicurante che le si posava sulla pancia, cogliendola di sorpresa.

Si voltò e vide Alistair accanto a sé che, con una mano sul suo ventre, la guardava con preoccupazione.

“Tu porti un bambino in grembo,” le disse. Era più un’affermazione che una domanda.

Gwendolyn la fissò, scioccata che lei sapesse, soprattutto dato che la sua pancia era ancora piatta. Non aveva più la forza di mantenere il segreto e annuì.

Alistair le fece un cenno di consapevolezza.

“Come fai a saperlo?” le chiese.

Ma Alistair si limitò a chiudere gli occhi e a fare un profondo respiro, tenendo la mano sulla pancia di Gwen. Era una sensazione confortevole e Gwen si sentì pervadere da un benefico calore.

“Un bambino molto potente,” disse Alistair, sempre con gli occhi chiusi. “Ha paura. Ma non sta male. Andrà tutto bene. Ora lo sto privando dei suoi timori.”

Gwendolyn sentì delle ondate di piacere e calore scorrerle dentro. Presto si sentì completamente ristorata.

Era colma di gratitudine e amore per Alistair e si sentiva inspiegabilmente legata a lei.

“Non so come ringraziarti,” le disse alzandosi e sentendosi di nuovo quasi normale quando Alistair tolse la mano.

Alistair abbassò la testa con umiltà.

“Non c’è nulla di cui ringraziarmi,” le rispose. “È quello che faccio.”

“Non mi hai detto che eri incinta, mia signora,” le disse Aberthol con serietà. “Se l’avessi saputo non avrei mai suggerito un viaggio del genere.”

“Mia signora, non potevo immaginare,” disse Steffen.

Gwendolyn scrollò le spalle, non volendo tutte quelle attenzioni sul suo bambino.

“E chi è il padre?” chiese Aberthol.

Gwen sentì un profondo senso di incertezza quando pronunciò il nome: “Thorgrin.”

Gwen si sentiva combattuta. Provava ondate di senso di colpa per ciò che aveva fatto a Thor, per come si erano salutati; allo stesso tempo provava sentimenti contrastanti riguardo la linea di sangue del suo bambino. Si immaginò la faccia di Andronico e rabbrividì.

Aberthol annuì.

“Un lignaggio eccellente,” disse. “Porti un guerriero dentro di te.”

“Mia signora, darei la mia vita per proteggere il tuo bambino,” disse Steffen.

Krohn le si avvicinò, appoggiò la testa sulla sua pancia e la leccò diverse volte, piagnucolando.

Gwen era sopraffatta dalla loro gentilezza e si sentiva sostenuta.

Improvvisamente Krohn si voltò e li sorprese tutti ruggendo ferocemente. Fece diversi passi avanti verso la neve accecante, il pelo dritto. Scrutò nella neve, ignorando tutto il resto.

Gwen e gli altri si guardarono confusi. Anche Gwen scrutò fra la neve ma non riuscì a vedere nulla. Non aveva mai udito Krohn ruggire a quel modo.





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In CONCESSIONE DARMI (Libro #8 in lAnello dello Stregone), Thor è intrappolato tra le titaniche forze del bene e del male, mentre Andronico e Rafi utilizzano tutta la loro magia nera per cercare di distruggere la sua identità e prendere il controllo della sua anima. Sotto il loro incantesimo Thor dovrà combattere la sua battaglia più dura nel tentativo di liberarsi di suo padre e liberare se stesso dalle loro catene. Ma potrebbe essere già troppo tardi. Gwendolyn, insieme ad Alistair, Steffen e Aberthol, si avventura nel Mondo Inferiore alla ricerca di Argon per liberarlo dalla sua trappola magica. Vede in lui lunica speranza di salvare Thor e lAnello, ma il Mondo Inferiore è vasto e pericoloso, e anche trovare Argon potrebbe essere una causa persa. Reece guida i membri della Legione e con loro intraprende unimpresa quasi impossibile per fare qualcosa che non è mai stato fatto prima: scendere nelle profondità del Canyon per trovare e recuperare la Spada perduta. Durante la loro discesa entrano in un altro mondo, popolato di mostri e razze esotiche, tutte volte a tenere la Spada per i propri intenti personali. Romolo, armato del suo mantello magico, persegue i suoi piani sinistri per entrare nellAnello e distruggere lo Scudo. Kendrick, Erec, Bronson e Godfrey lottano per liberarsi dal loro tradimento. Tiro e Luanda imparano cosa significhi essere dei traditori al servizio di Andronico. Micople lotta per la propria libertà. Alla fine, in un sorprendente colpo di scena, viene finalmente rivelato il segreto di Alistair.

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