Книга - Prima Che Uccida

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Prima Che Uccida
Blake Pierce


Un Mistero di Mackenzie White #1
Dall’autore di successo Blake Pierce, una nuova serie di gialli mozzafiato. Una donna viene trovata morta nei campi di granoturco del Nebraska, legata a un palo, vittima di un folle assassino. La polizia non ci mette molto a realizzare di avere a che fare con un serial killer - e che la sua furia omicida è appena iniziata. La detective Mackenzie White è giovane, determinata e più intelligente dei maschilisti di mezza età che lavorano con lei nella polizia locale. È quindi a malincuore che viene interpellata per risolvere il caso. Anche se detestano ammetterlo, i suoi colleghi poliziotti hanno bisogno della sua mente giovane e brillante, che li ha già aiutati in passato a risolvere casi per loro difficili. Eppure, stavolta l’enigma sembra impossibile anche per Mackenzie: né lei né la polizia locale hanno mai visto prima qualcosa del genere. Con il supporto dell’FBI, ha inizio una caccia all’uomo. Mackenzie, turbata da un oscuro passato, relazioni fallite e dall’innegabile attrazione che prova verso il nuovo agente dell’FBI, deve affrontare i propri demoni quando la caccia al killer la trascina nei luoghi più bui della sua mente. Immergendosi nella mente dell’assassino per tentare di comprendere la sua psicologia contorta, scopre che il male esiste davvero e che l’unica speranza è non rimanerne invischiata, mentre il mondo inizia a crollarle addosso. Dopo che altre donne vengono trovate morte, inizia una corsa contro il tempo. L’unica soluzione è scovare il killer prima che uccida ancora. Thriller-noir psicologico dalla suspence mozzafiato, PRIMA CHE UCCIDA è il primo libro di una nuova, avvincente serie – con un nuovo, irresistibile personaggio – che vi terrà incollati alle pagine fino a tarda notte. Il libro#2 della serie I Misteri di Mackenzie White sarà presto disponibile.







PRIMA CHE UCCIDA



(UN MISTERO DI MACKENZIE WHITE—LIBRO 1)



B L A K E P I E R C E



TRADUZIONE ITALIANA

A CURA DI VALENTINA SALA


Blake Pierce



Blake Pierce è l’autore della serie di successo I misteri di RILEY PAGE, che include i seguenti gialli thriller: IL KILLER DELLA ROSA (libro #1), IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (libro #2), OSCURITA’ PERVERSA (libro #3) e IL KILLER DELL’OROLOGIO (libro #4). Blake Pierce è anche autore della serie I misteri di MACKENZIE WHITE e della serie I misteri di AVERY BLACK.

Avido lettore e appassionato da sempre di gialli e thriller, Blake riceve con piacere i vostri commenti, perciò non esitate a visitare la sua pagina www.blakepierceauthor.com (http://www.blakepierceauthor.com) per saperne di più e restare in contatto con l’autore.



Copyright © 2016 di Blake Pierce. Tutti i diritti riservati. Ad eccezione di quanto consentito dalla Legge sul Copyright degli Stati Uniti del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuita o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, né archiviata in un database o un sistema di recupero senza aver prima ottenuto il consenso dell’autore. La licenza di questo ebook è concessa solo ad uso personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto a terzi. Se si desidera condividere il libro con altre persone, si prega di acquistare una copia per ciascun destinatario. Se state leggendo questo libro senza averlo acquistato, oppure senza che qualcuno lo abbia acquistato per voi, siete pregati di restituire questa copia e acquistarne una. Vi ringraziamo per il rispetto nei confronti del lavoro dell’autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, aziende, società, luoghi, eventi e fatti sono frutto dell’immaginazione dell’autore, oppure sono utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza a persone reali, in vita o decedute, è puramente casuale. Copyright immagine di copertina lassedesignen, concessa su licenza di Shutterstock.com.


LIBRI DI BLAKE PIERCE



I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)



I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)



I MISTRI DI AVERY BLACK

IL KILLER DI COLLEGIALI (Libro #1)

CORSA CONTRO IL TEMPO (Libro #2)


INDICE



PROLOGO (#u2068eb7c-d3ba-59db-b07b-6769bf8db814)

CAPITOLO UNO (#u9750474b-a72b-58ee-adbe-db78627917d4)

CAPITOLO DUE (#u2f0f98d4-1967-5819-875e-8274d67d672a)

CAPITOLO TRE (#uafe5284d-c304-53d3-98da-680f4f8fc35e)

CAPITOLO QUATTRO (#u809ff1d2-82d4-5e44-aaa7-f79e55afd905)

CAPITOLO CINQUE (#u7935ab38-9084-53a3-9d37-b9ce9f9f3448)

CAPITOLO SEI (#u30ceea97-b3f4-59dd-bf6a-4b7227348dc5)

CAPITOLO SETTE (#u3f15d507-3aa3-51fc-b882-3a614e732874)

CAPITOLO OTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO NOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DIECI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO UNDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DODICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TREDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUATTORDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUINDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIASSETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIANNOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIDUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTITRE’ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTICINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTINOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTADUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTATRE’ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTAQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTACINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTASEI (#litres_trial_promo)




PROLOGO


In qualsiasi altro momento, le prime luci dell’alba che sfioravano il granoturco le sarebbero parse bellissime. Osservò la prima luce del giorno che danzava tra gli steli creando una tenue sfumatura dorata, e si sforzò con tutta se stessa di apprezzarne la bellezza.

Doveva cercare di distrarsi, altrimenti il dolore sarebbe stato insopportabile.

Era legata a un grosso palo di legno che si ergeva contro la sua schiena terminando mezzo metro sopra la sua testa. Aveva le mani strette dietro di sé, legate al palo. Addosso aveva soltanto delle mutandine nere di pizzo e un reggiseno che rendeva i suoi abbondanti seni più alti e ravvicinati. Era il reggiseno che le faceva guadagnare più mance allo strip club, lo stesso che faceva sembrare il suo seno quello di una ventunenne, non quello di una trentaquattrenne madre di due figli.

Il palo le grattava la schiena nuda, scorticandola. Tuttavia, non era lontanamente paragonabile al dolore che le infliggeva l’uomo dalla voce cupa e inquietante.

Si tese quando lo sentì avvicinarsi dietro di lei, i passi attutiti sulla radura del campo. C’era anche un altro rumore, più tenue. Stava trascinando qualcosa. La frusta, realizzò, quella che usava per colpirla. Aveva delle specie di punte, e l’estremità si apriva a ventaglio. Era riuscita a vederla una volta soltanto – e le era bastato.

La schiena le doleva per le decine di frustate e il solo sentire l’arnese trascinato sul terreno le provocò un’ondata di panico. Lanciò un grido – quello che le parve il centesimo della notte – che sembrò disperdersi e morire nel campo. All’inizio le sue grida erano state grida d’aiuto, nella speranza che qualcuno le sentisse. Col tempo, però, erano diventate inarticolati gemiti di dolore, grida emesse da qualcuno che sapeva che non sarebbe giunto nessuno in suo soccorso.

“Potrei lasciarti andare” disse l’uomo.

Aveva la voce di una persona che fumava o urlava molto. Inoltre, parlava con una strana pronuncia blesa.

“Ma prima devi confessare i tuoi crimini.”

Era la quarta volta che lo diceva. Lei si arrovellò di nuovo il cervello, la mente alla ricerca di una risposta. Non aveva crimini da confessare. Era stata una brava persona con tutti quelli che conosceva. Era stata una brava madre; non brava quanto avrebbe voluto – ma ci aveva provato.

Che cosa voleva da lei?

Gridò di nuovo e tentò di piegare la schiena contro il palo. Quando lo fece, sentì la morsa ai polsi cedere leggermente e il sangue appiccicoso colare sulla corda.

“Confessa i tuoi crimini” ripeté.

“Non so di cosa parli!” gemette la donna.

“Ti verrà in mente” disse.

Anche questo l’aveva già detto. L’aveva detto appena prima di...

Si udì come un sussurro mentre la frusta si inarcava nell’aria.

Quando l’arnese la colpì, lei urlò e si contorse contro il palo.

Altro sangue le uscì dalla nuova ferita, ma se ne accorse a malapena. Invece, si concentrò sui propri polsi. Il sangue che si era raccolto lì nell’ultima ora si era mescolato al sudore. Tra la corda e i polsi riusciva a sentire uno spazio vuoto e pensò che forse sarebbe riuscita a fuggire. Sentì la mente cercare di allontanarsi, di distaccarsi dalla situazione.

Crac!

Il colpo la prese in pieno sulla spalla, facendola strillare.

“Ti prego” disse. “Farò tutto quello che vuoi! Lasciami andare!”

“Confessa i tuoi...”

Lei strattonò la corda più forte che poté, portando le braccia in avanti. Un dolore lancinante alle spalle la fece strillare, ma fu subito libera. Avvertì un leggero bruciore quando la corda le sfregò sul dorso della mano, ma non era niente paragonato al dolore impresso sulla sua schiena.

Tirò in avanti così forte che per poco non cadde in ginocchio, rovinando così la sua fuga. Ma il bisogno primitivo di sopravvivere prese il controllo dei suoi muscoli e, senza nemmeno rendersene conto, aveva iniziato a correre.

Scattò in avanti, stupita di essere davvero libera, stupita che le gambe le funzionassero ancora dopo essere rimaste legate così a lungo. Non si sarebbe fermata a porsi domande.

Si lanciò attraverso il granoturco, i fusti che la sferzavano. Le foglie e i rametti sembravano volerla ghermire, sfiorando la sua schiena lacerata come vecchie dita avvizzite. Faticava a respirare ed era concentrata a mettere un piede davanti all’altro. Sapeva che l’autostrada era nelle vicinanze. Tutto ciò che doveva fare era continuare a correre e ignorare il dolore.

Dietro di lei, l’uomo iniziò a ridere. La sua voce la faceva sembrare la risata di un mostro che era rimasto nascosto nel campo per secoli.

La donna gemette poi proseguì la corsa, i piedi nudi che sbattevano contro la terra e il corpo praticamente nudo che abbatteva le pannocchie. Il seno ballava in su e giù in modo ridicolo, e quello destro uscì dal reggiseno. Promise a se stessa in quel momento che, se ne fosse uscita viva, non avrebbe più fatto spogliarelli. Si sarebbe trovata un lavoro migliore, un modo migliore per mantenere i suoi figli.

Questo accese in lei una nuova fiamma e corse più forte, sfrecciando tra il grano. Corse più forte che poté. Doveva solo continuare a correre e si sarebbe liberata di lui. L’autostrada doveva essere vicinissima. Giusto?

Forse. Ma, anche se fosse stato così, non c’erano garanzie che ci fosse qualcuno. Non erano nemmeno le sei del mattino, e le autostrade del Nebraska erano spesso molto solitarie a quell’ora.

Poco avanti, i filari di granoturco si interrompevano. La torbida luce dell’alba si riversava su di lei e il suo cuore fece un balzo alla vista dell’autostrada.

Si aprì un varco tra le pannocchie e, incredula, udì il suono di un motore che si avvicinava. La speranza si accese in lei.

Vide il bagliore delle luci in avvicinamento e corse ancora più veloce, così vicina da sentire l’odore dell’asfalto caldo.

Raggiunse il margine del campo proprio mentre passava un furgone rosso. Si mise a urlare e agitare le braccia freneticamente.

“PER FAVORE!” gridò.

Ma con suo grande orrore, il furgone proseguì ruggendo.

Agitò le braccia piangendo. Se il guidatore avesse guardato nello specchietto retrovisore...

Crac!

Un dolore lancinante le esplose dietro il ginocchio sinistro, facendola cadere a terra.

Gridò e tentò di rimettersi in piedi, ma sentì una mano forte afferrarla per i capelli e subito dopo lui la stava riportando nel capo trascinandola.

Provò a muoversi, a liberarsi, ma stavolta non ci riuscì.

Ci fu un ultimo colpo di frusta e infine, per fortuna, perse conoscenza.

Presto, lo sapeva, sarebbe finito tutto: il suono, la frusta, il dolore – e la sua breve vita piena di sofferenza.




CAPITOLO UNO


La detective Mackenzie White si preparò al il peggio mentre attraversava il campo di granoturco quel pomeriggio. Il rumore emesso dalle pannocchie al suo passaggio la inquietava; era un suono morto, che le strisciava contro la giacca mentre passava fila dopo fila. La radura che cercava sembrava distare chilometri.

Quando infine la raggiunse, si fermò di colpo, desiderando di trovarsi ovunque tranne lì. C’era il cadavere seminudo di una donna sui trent’anni legato ad un palo, il volto congelato in un’espressione di sofferenza. Era un’espressione che Mackenzie desiderò non aver mai visto – e che sapeva non avrebbe più dimenticato.

Cinque poliziotti gironzolavano lì intorno, senza fare niente in particolare. Cercavano di sembrare indaffarati, ma lei sapeva che stavano semplicemente tentando di dare un senso alla scena. Era sicura che nessuno di loro avesse visto qualcosa del genere prima di allora. A Mackenzie era bastato guardare la donna bionda legata al palo di legno per appena cinque secondi per capire che c’era sotto qualcosa di grosso. Qualcosa di diverso da tutto quello in cui si era imbattuta finora. Queste non erano cose che accadevano nei campi di granoturco del Nebraska.

Mackenzie si avvicinò al cadavere e descrisse lentamente un cerchio. Mentre si muoveva, percepiva lo sguardo degli altri agenti su di sé. Sapeva che alcuni di loro pensavano che prendesse il suo lavoro fin troppo sul serio. Si avvicinava troppo alle cose, cercava fili e collegamenti che erano quasi astratti. Era la giovane donna che aveva raggiunto la posizione di detective fin troppo rapidamente agli occhi di molti degli uomini del distretto, e lei lo sapeva. Era la ragazza ambiziosa che tutti supponevano puntasse a ben altro che lavorare come detective nelle forze dell’ordine del Nebraska.

Mackenzie li ignorò. Si concentrò unicamente sul cadavere, scacciando le mosche che guizzavano ovunque. Turbinavano disordinatamente intorno al corpo della donna, creando una nuvoletta nera, e il caldo non giocava certo a favore del cadavere. Aveva fatto caldo per tutta l’estate e sembrava che tutto quel calore si fosse concentrato in quel punto del campo.

Mackenzie si avvicinò e lo studiò, cercando di reprimere la sensazione di nausea e un’ondata di tristezza. La schiena della donna era ricoperta di ferite. Sembravano di natura uniforme, probabilmente erano state inflitte con lo stesso strumento. La schiena era ricoperta di sangue, perlopiù secco e appiccicoso. Anche la parte posteriore del tanga ne era incrostata.

Quando Mackenzie terminò il giro intorno al corpo, un poliziotto basso e corpulento si avvicinò a lei. Lo conosceva bene, anche se non le piaceva.

“Buongiorno, Detective White” disse il Comandante Nelson.

“Comandante” rispose lei.

“Dov’è Porter?”

Non c’era presunzione nella sua voce, ma lei la percepì ugualmente. Quel temprato comandante della polizia cinquantenne non voleva che fosse una donna di venticinque anni a fare luce sul caso. Walter Porter, il suo collega cinquantacinquenne, sarebbe stato più adatto per quel lavoro.

“È sull’autostrada” disse Mackenzie. “Sta parlando con il contadino che ha scoperto il corpo. Ci raggiungerà a breve”.

“Va bene” disse Nelson, chiaramente più tranquillo. “Tu che ne pensi?”

Mackenzie non era sicura di come rispondere. Sapeva che la stava mettendo alla prova. Lo faceva di tanto in tanto, anche al distretto, su cose insignificanti, tuttavia mai con altri agenti e detective. Era piuttosto certa che lo facesse solo con lei perché era giovane e perché era una donna.

Il suo istinto le diceva che si trattava di qualcosa di più di un omicidio plateale. Era per le innumerevoli frustate sulla schiena? Oppure perché la donna aveva un corpo da pin-up? Il seno era chiaramente finto e se Mackenzie avesse dovuto tirare a indovinare, anche il didietro aveva subito qualche ritocco. Il trucco era piuttosto pesante, in parte colato e sbavato a causa delle lacrime.

“Credo” disse Mackenzie infine, rispondendo alla domanda di Nelson, “che si tratti di un crimine puramente violento e che la scientifica non troverà segni di violenza sessuale. Raramente gli uomini che rapiscono una donna per sesso abusano in questo modo della vittima, anche se progettano di ucciderla in seguito. Inoltre, il tipo di biancheria che indossava suggerisce che la donna avesse una natura provocante. Onestamente, a giudicare dal trucco pesante e dal seno prosperoso, inizierei a fare qualche chiamata agli strip club di Omaha per vedere se qualche ballerina è scomparsa l’altra notte.”

“Già fatto” rispose Nelson in modo compiaciuto. “La deceduta è Hailey Lizbrook, trentaquattro anni, madre di due ragazzi e ballerina di livello intermedio al Runaway di Omaha.”

Snocciolò i fatti come se leggesse da un manuale di istruzioni. Mackenzie ipotizzò che avesse ricoperto così a lungo il suo ruolo che le vittime di omicidio non erano più persone, ma un rompicapo da risolvere.

Mackenzie però, nella carriera da soli due anni, non era così indurita e senza cuore. Studiava la donna con un occhio rivolto a scoprire cosa fosse successo, ma la vedeva anche come una donna che lasciava due ragazzi, che avrebbero vissuto il resto della propria vita senza una madre. Se una madre di due bambini faceva la spogliarellista, Mackenzie immaginò che avesse problemi di soldi e che fosse disposta a fare praticamente tutto per mantenere i suoi figli. Invece ora eccola lì, legata ad un palo e straziata da un uomo senza volto che-

Il fruscio delle pannocchie dietro di lei interruppe i suoi pensieri. Si voltò e vide Walter Porter avanzare tra il granoturco. Entrò nella radura con aria seccata, pulendosi il cappotto da terra e polvere di mais.

Si guardò attorno per un momento prima che i suoi occhi si posassero sul cadavere di Hailey Lizbrook al palo. Una smorfia di stupore gli attraversò il volto, i baffi grigi inclinati verso destra in un angolo duro. Quindi guardò Mackenzie e Nelson, avvicinandosi senza perdere tempo.

“Porter” disse il Comandante Nelson. “La White qui sta già risolvendo il caso. È piuttosto sveglia.”

“A volte lo è” disse Porter sprezzante.

Andava sempre così. Nelson non le stava facendo un vero complimento. Piuttosto, stava prendendo in giro Porter per essersi ritrovato con la ragazza carina che era spuntata dal nulla e si era accaparrata il posto di detective – la ragazza carina che pochi degli uomini del distretto con più di trent’anni prendevano sul serio. E dio, se a Porter dava fastidio.

Anche se le piaceva vedere Porter punzecchiato, non valeva la pena sentirsi inadeguata e sottovalutata. Più e più volte aveva risolto casi che gli altri uomini non erano riusciti a risolvere e questo, lo sapeva, li faceva sentire minacciati. Aveva solo venticinque anni, era troppo giovane per iniziare a sentire l’entusiasmo per una carriera che un tempo amava esaurirsi. Eppure adesso, bloccata con Porter e con quella squadra, stava iniziando ad odiarla.

Porter si frappose fra Nelson e Mackenzie, per farle capire che adesso era lui l’uomo di scena. Mackenzie iniziava a ribollire di rabbia, ma soffocò il sentimento. Erano tre mesi che lo soffocava, fin da quando era stata assegnata in coppia con lui. Fin dal primo giorno, Porter non aveva tenuto nascosto il proprio disprezzo per lei. Dopotutto, aveva sostituito il collega che Porter aveva avuto per ventotto anni, e che era stato fatto andare via dall’unità, secondo Porter, solo per lasciare spazio ad una giovane donna.

Mackenzie ignorò la sua sfacciata mancanza di rispetto; si rifiutava di lasciare che influisse sulla sua etica professionale. Senza una parola, tornò al cadavere e lo studiò attentamente. Esaminarlo era doloroso eppure, per quanto la riguardava, nessun cadavere avrebbe mai avuto su di lei lo stesso effetto del primo che aveva visto. Era quasi giunta al punto in cui non vedeva più il corpo di suo padre quando metteva piede su una scena del crimine. Quasi. Aveva sette anni quando era entrata in camera da letto e l’aveva visto semidisteso sul letto, in un lago di sangue. E da allora non aveva più smesso di vederlo.

Mackenzie cercò indizi che dimostrassero che l’omicida non aveva un movente sessuale. Non vide lividi o graffi né sui seni né sui glutei, e a vista non c’era sangue intorno alla vagina. Poi controllò le mani e i piedi della donna, domandandosi se potesse esserci una motivazione religiosa; segni di fori su palmi, caviglie e piedi potevano essere un richiamo alla crocifissione. Tuttavia, non c’erano nemmeno segni del genere.

Dal breve rapporto che lei e Porter avevano ricevuto, sapeva che gli abiti della vittima non erano stati ritrovati. Mackenzie rifletté che probabilmente significava che li aveva l’assassino, oppure che se ne era disfatto. Questo faceva pensare che fosse cauto, oppure al limite dell’ossessione. Se si aggiungeva che il movente non era di natura sessuale, si poteva dedurre che avessero a che fare con un killer determinato e potenzialmente inafferrabile.

Mackenzie arretrò fino al limitare della radura per osservare la scena nella sua interezza. Porter la guardò di sfuggita per poi ignorarla del tutto e continuare a parlare con Nelson. Lei si accorse che gli altri poliziotti la stavano osservando. Alcuni di loro almeno la stavano osservando all’opera. Aveva iniziato la carriera di detective con la reputazione di essere eccezionalmente brava e tenuta in grande considerazione da molti istruttori della Scuola di Polizia e a volte gli agenti più giovani, sia uomini che donne, le facevano domande pertinenti o chiedevano il suo parere.

Dall’altro canto, però, sapeva che era possibile che alcuni degli uomini lì con lei in quel campo la stessero guardando in modo lascivo. Non sapeva cosa fosse peggio: gli uomini che le guardavano il culo quando passava o quelli che ridevano alle sue spalle e la consideravano soltanto una ragazzina che giocava a fare la detective tosta.

Mentre studiava la scena, fu ancora una volta assalita dalla sensazione che ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato. Era come leggere la prima pagina di un libro che sapeva si sarebbe fatto difficile più avanti.

Questo è solo l’inizio, pensò.

Ispezionò la terra intorno al palo e vide degli indistinti segni di stivali, ma nulla che potesse fornire vere impronte. Sulla terra c’erano anche segni che sembravano a forma di serpenti. Si accovacciò per guardarli più da vicino e notò che ce n’erano tanti affiancati che giravano intorno al palo in modo sconnesso, come se qualunque cosa li avesse lasciati avesse girato intorno al palo più volte. Guardando la schiena della donna, si accorse che le ferite avevano la stessa forma dei segni a terra.

“Porter” chiamò.

“Che c’è?” rispose lui, chiaramente seccato di essere stato interrotto.

“Mi sa che ho trovato le impronte dell’arma.”

Porter esitò per un istante, quindi raggiunse Mackenzie nel punto in cui ara accucciata a terra. Nel chinarsi si lamentò e lei sentì la cintura che scricchiolava. Aveva almeno venti chili di troppo, che diventavano sempre più evidenti mano a mano che si avvicinava ai cinquantacinque anni.

“È una specie di frusta?” domandò.

“Così pare.”

La detective esaminò il terreno, seguendo con lo sguardo i segni nella sabbia fino al palo, poi notò qualcos’altro. Si trattava di qualcosa di minuscolo, così piccolo che le era quasi sfuggito.

Camminò fino al palo, facendo attenzione a non toccare il corpo prima che la Scientifica avesse fatto il suo lavoro. Si accovacciò di nuovo si sentì schiacciare dal peso del calore pomeridiano. Senza scoraggiarsi, avvicinò la testa al palo, così tanto che quasi lo toccava con la fronte.

“Che diavolo stai facendo?” chiese Nelson.

“C’è inciso qualcosa qui” gli rispose. “Sembrano dei numeri.”

Porter si avvicinò per verificare, ma stavolta fece di tutto per non doversi chinare. “White, quel pezzo di legno avrà vent’anni” replicò. “E l’incisione sembra altrettanto vecchia.”

“Può essere” rispose Mackenzie. Ma non lo credeva affatto.

Avendo già perso interesse nella scoperta, Porter tornò a parlare con Nelson, confrontando le informazioni che aveva ottenuto dal contadino che aveva scoperto il cadavere.

Mackenzie prese il cellulare e scattò una foto ai numeri, poi ingrandì l’immagine facendoli diventare più leggibili. Osservandoli così da vicino ebbe di nuovo la sensazione che quello fosse l’inizio di qualcosa di molto più grande.



N511/G202



Quei numeri non le dicevano niente. Forse aveva ragione Porter. Forse non significavano assolutamente niente. Forse erano stati incisi dal boscaiolo che aveva tagliato il palo. Forse era stato un ragazzino annoiato a scolpirli anni fa.

Eppure, c’era qualcosa che non andava.

Anzi, tutto sembrava non andare.

E lei sapeva, nel suo cuore, che era soltanto l’inizio.




CAPITOLO DUE


Mackenzie avvertì un nodo allo stomaco quando guardò fuori dal finestrino e vide un mucchio di truppe televisive e reporter che si accalcavano per accaparrarsi il posto migliore, in attesa di assalire lei e Porter non appena avessero raggiunto il distretto. Mentre Porter parcheggiava, vide molti giornalisti avvicinarsi percorrendo di corsa il prato, seguiti a ruota dai cameraman.

Mackenzie vide che Nelson era già all’ingresso, intento a tenerli a bada in qualche modo, con un’aria agitata e imbarazzata. Anche a distanza si vedeva il sudore che gli imperlava la fronte.

Quando scesero dalla macchina, Porter si avvicinò a Mackenzie, facendo in modo che non fosse lei la prima detective che i media avrebbero visto. Quando le fu accanto, disse “Non dire niente a questi succhia sangue.”

Sentì un’ondata di indignazione a quel commento superfluo.

“Lo so, Porter.”

Il corteo di giornalisti e telecamere li raggiunse. Almeno una dozzina di microfoni spuntavano dalla calca, puntati sulle loro facce mentre passavano. Le domande giungevano alle loro orecchie come un ronzare di insetti.

“I figli della vittima sono già stati avvertiti?”

“Qual è stata la reazione del contadino quando ha rinvenuto il cadavere?”

“Si tratta di un caso di violenza sessuale?”

“È opportuno assegnare un caso del genere a una donna?”

L’ultima domanda punse Mackenzie sul vivo. Certo, sapeva che stavano solo cercando di provocare una reazione, nella speranza di ottenere un’esclusiva di venti secondi per l’edizione pomeridiana del telegiornale. Erano solo le quattro; se facevano in fretta, potevano avere un bel pezzo per l’edizione delle sei.

Mentre entrava varcando le porte, l’ultima domanda le rimbombava in testa come un tuono.

È opportuno assegnare un caso del genere a una donna?

Le tornò in mente Nelson che leggeva con voce completamente priva di emozioni le informazioni su Hailey Lizbrook.

Certo che lo è, rifletté Mackenzie. Anzi, è fondamentale.

Quando furono infine all’interno del distretto, le porte si chiusero dietro di loro. Finalmente in silenzio, Mackenzie emise un respiro di sollievo.

“Sanguisughe del cazzo” sbottò Porter.

Adesso che non era più davanti alle telecamere aveva abbandonato la sua spavalderia. Oltrepassò lentamente il bancone della reception e si diresse verso il corridoio che conduceva alla sala conferenze e agli uffici. Sembrava stanco, pronto a tornarsene a casa e chiudere con il caso.

Mackenzie entrò per prima nella sala conferenze. C’erano molti altri agenti seduti a un grande tavolo, alcuni in uniforme, altri in abiti civili. Data la loro presenza e l’improvvisa apparizione delle troupe televisive, Mackenzie capì che la storia era già trapelata nelle due ore e mezza che le ci erano volute per lasciare l’ufficio, raggiungere il campo e tornare indietro. Non si trattava più soltanto di un raccapricciante omicidio qualsiasi; adesso era diventato uno spettacolo.

Mackenzie afferrò una tazza di caffè e prese posto al tavolo. Qualcuno aveva già distribuito dei fascicoli con le poche informazioni che erano state raccolte sul caso. Mentre dava un’occhiata al suo, altre persone entrarono nella stanza. Arrivò anche Porter, che sedette all’altro capo del tavolo.

Mackenzie si concesse un attimo per controllare il cellulare e scoprì di avere otto chiamate perse, cinque messaggi vocali e una dozzina di email. Era un duro promemoria del fatto che era già oberata di lavoro prima di essere mandata nel campo di granoturco quella mattina. La triste ironia era che, mentre i suoi colleghi più anziani passavano un sacco di tempo a umiliarla e lanciarle velati insulti, avevano anche compreso il suo talento. Il risultato era che le venivano assegnati più casi che a chiunque altro della squadra. Tuttavia, finora non era mai rimasta indietro e aveva una percentuale eccezionale di casi risolti.

Pensò di rispondere ad alcune delle email nell’attesa ma, prima che potesse farlo, il capitano Nelson entrò e si affrettò a richiudere la porta dietro di sé.

“Non so come abbiano fatto i media a scoprire il caso così in fretta” ringhiò, “ma se scopro che il responsabile è qualcuno in questa stanza, saranno guai seri.”

Sulla stanza calò il silenzio. Alcuni agenti iniziarono a scorrere nervosamente i contenuti del fascicolo che avevano davanti. Anche se a Mackenzie Nelson non piaceva granché, non si poteva negare che la sua presenza e la sua voce bastassero a tenere tutti i presenti sotto controllo senza sforzo.

“Ecco il punto della situazione” disse Nelson. “La vittima è Hailey Lizbrook, una spogliarellista di Omaha. Trentaquattro anni, due figli di nove e quindici anni. Da quello che siamo riusciti a capire, è stata sequestrata prima di iniziare il turno, infatti il suo datore di lavoro afferma che non si è presentata quella sera. Il video di sorveglianza del Runaway, il posto dove lavora, non ha mostrato nulla. Per questo partiamo dal presupposto che sia stata rapita da qualche parte tra il suo appartamento e il Runaway. Parliamo di un’area di dodici chilometri – sul posto sono già al lavoro le squadre della polizia di Omaha.”

Poi guardò Porter come se fosse il suo allievo migliore e disse:

“Porter, perché non ci descrivi la scena?”

Era scontato che avrebbe scelto Porter.

Porter si alzò e si guardò intorno, come per assicurarsi che tutti gli prestassero la massima attenzione.

“La vittima era legata a un palo di legno con le mani dietro la schiena. Il luogo del decesso si trova in uno spiazzo in un campo di granoturco, a circa un chilometro dall’autostrada. La schiena era ricoperta di colpi, inflitti probabilmente con una frusta. Abbiamo trovato delle impronte per terra della stessa forma e dimensione delle ferite. Anche se non possiamo averne l’assoluta certezza finché il medico legale si sarà pronunciato, siamo abbastanza sicuri che non ci sia stata violenza sessuale, nonostante la vittima fosse in biancheria intima e i vestiti non siano stati rinvenuti.”

“Grazie, Porter” disse Nelson. “A proposito del medico legale, ho parlato con lui al telefono una ventina di minuti fa. Afferma che, anche se lo potrà confermare soltanto l’autopsia, la causa del decesso è probabilmente la perdita di sangue, oppure un trauma cranico o cardiaco.”

I suoi occhi si posarono su Mackenzie e mostravano ben poco interesse quando chiese:

“Hai qualcosa da aggiungere, White?”

“I numeri” rispose lei.

Nelson levò gli occhi al cielo davanti a tutti. Era un chiaro segno di mancanza di rispetto, ma lei lasciò correre, decisa a tirar fuori la cosa davanti a tutti i presenti prima di poter essere interrotta.

“Ho scoperto due serie di numeri separate da una barra, intagliate nella parte inferiore del palo.”

“Quali erano i numeri?” domandò uno dei giovani agenti seduti al tavolo.

“In realtà si tratta di numeri e lettere” rispose Mackenzie. “N 511 e G 202. Ho una foto sul cellulare.”

“Avremo altre foto a breve, non appena Nancy le avrà fatte stampare” si intromise Nelson. Parlò in fretta e con risolutezza, facendo capire a tutti che la questione dei numeri era chiusa.

Mackenzie ascoltò mentre Nelson si dilungava a spiegare il da farsi per coprire l’area di dodici chilometri tra l’abitazione di Hailey Lizbrook e il Runaway. In realtà però stava ascoltando solo per metà. La sua mente continuava a tornare al modo in cui il corpo della donna era stato appeso. C’era qualcosa nell’esposizione del corpo che le era sembrato familiare da subito, e anche lì in sala conferenze era impresso nella sua mente.

Rilesse gli appunti nel fascicolo, nella speranza che un piccolo dettaglio facesse scattare qualcosa nei suoi ricordi. Sfogliò le quattro pagine di informazioni, sperando di svelare qualcosa. Sapeva già tutto quello che c’era scritto nel fascicolo, ma controllò comunque tutti i dettagli.

Donna di trentaquattro anni, presumibilmente uccisa la notte precedente. Legata ad un palo di legno, sferzate, tagli e varie abrasioni sulla schiena. Possibile causa di morte la perdita di sangue o un trauma cardiaco. Il modo in cui è stata legata potrebbe avere collegamenti con la religione, mentre il fisico della donna fa supporre un movente sessuale.

Mentre leggeva, qualcosa scattò nella sua mente. Si distrasse un attimo, per lasciare i pensieri liberi di andare dove dovevano senza che quello che la circondava interferisse.

Mentre metteva insieme i pezzi e trovava un collegamento che sperava essere sbagliato, Nelson stava concludendo il discorso.

“... e dato che è troppo tardi per ricorrere ai posti di blocco, dovremo affidarci principalmente alle testimonianze, anche i dettagli più piccoli e apparentemente inutili. Bene, qualcuno ha qualcosa da aggiungere?”

“Una cosa, signore” rispose Mackenzie.

Si capiva che Nelson stava trattenendo un sospiro. Dall’altro capo del tavolo, udì Porter emettere una specie di risolino. Lo ignorò e attese la reazione di Nelson.

“Sì, White?” domandò.

“Ricordo un caso simile a questo che risale al 1987. Sono sicura che accadde appena fuori Roseland. Sia il tipo di donna che il modo in cui era legata corrispondono. Sono praticamente certa che sia stata brutalizzata allo stesso modo.”

“Nel 1987?” Chiese Nelson. “White, ma se nemmeno eri nata!”

Questo suscitò risate da parte di metà dei presenti. Mackenzie lasciò che le scivolassero addosso. Avrebbe avuto tempo di sentirsi in imbarazzo più tardi.

“È vero” confermò, senza timore di tenergli testa. “Però ho letto il rapporto.”

“Signore, lei dimentica” intervenne Porter, “che Mackenzie passa il suo tempo libero a leggere di vecchi casi irrisolti. Per cose del genere, la ragazza è una specie di enciclopedia ambulante.”

A Mackenzie non sfuggì che Porter si era riferito a lei chiamandola per nome e definendola ragazza, non donna. La cosa triste era che non credeva si fosse nemmeno reso conto di averle mancato di rispetto.

Nelson si gratto la testa e infine emise un sospiro rumoroso che aveva trattenuto fino a quel momento.

“Nel 1987? Sicura?”

“Ne sono quasi certa.”

“A Roseland?”

“O comunque nelle immediate vicinanze” rispose.

“D’accordo” disse Nelson, volgendo lo sguardo all’estremità del tavolo, dove una donna di mezza età sedeva ascoltando diligentemente. Davanti a lei c’era un portatile sul quale aveva scritto per tutto il tempo. “Nancy, puoi cercare quel caso nell’archivio?”

“Certo, signore” rispose. Iniziò subito a digitare qualcosa nel server interno del distretto.

Nelson lanciò a Mackenzie un’altra occhiata di disapprovazione che in pratica si poteva interpretare come: Sarà meglio che tu non ti stia sbagliando, altrimenti avrai sprecato venti secondi del mio tempo prezioso.

“Bene, signore e signori” proseguì Nelson. “Ecco come ci muoveremo: appena questa riunione sarà finita, voglio che Smith e Berryhill vadano ad Omaha per dare man forte alla polizia locale. Se sarà necessario, faremo dei turni a coppie. Porter e White, voi due parlerete con i figli della deceduta e con il suo datore di lavoro. Stiamo anche cercando di ottenere l’indirizzo della sorella.

“Mi scusi, signore” intervenne Nancy sollevando lo sguardo dal computer.

“Sì, Nancy?”

“La detective White aveva ragione. Nell’ottobre del 1987, una prostituta fu trovata morta e legata a un palo del telefono, appena fuori la città di Roseland. Il documento che ho qui riporta che era in biancheria ed era stata pesantemente fustigata. Non sono stati trovati segni di violenza sessuale e il movente resta ignoto.”

La stanza ripiombò nel silenzio, mentre molti si chiedevano cosa significasse tutto questo. Infine fu Porter a parlare per primo e, anche se a Mackenzie fu chiaro che stesse cercando di accantonare il caso, percepì una nota di preoccupazione nella sua voce.

“Ma parliamo di quasi trent’anni fa”, disse. “Mi sembra un collegamento debole.”

“Però è pur sempre un collegamento” ribatté Mackenzie.

Nelson sbatté una robusta mano sul tavolo, fissando Mackenzie con occhi infuocati. “Se davvero esiste un collegamento sai cosa significa, vero?”

“Significa che potremmo avere a che fare con un serial killer” replicò lei, “E anche solo la possibilità che potremmo avere a che fare con un serial killer significa che dobbiamo pensare di chiamare l’FBI.”

“Ah, diamine” disse Nelson. “Stai correndo un po’ troppo. Anzi, stai proprio facendo una maratona.”

“Con tutto il rispetto” disse Mackenzie, “vale la pena indagare.”

“E adesso che il tuo super cervello ce l’ha fatto notare, dobbiamo farlo.” disse Nelson. “Farò un paio di chiamate così potrai occupartene tu. Per ora, preoccupiamoci di cose più immediate e pertinenti. È tutto per adesso. Mettetevi al lavoro.”

Il gruppetto di persone al tavolo iniziò a disperdersi, ognuno prendendo con sé i fascicoli. Mentre Mackenzie usciva dalla stanza, Nancy le rivolse un timido sorriso. Era il massimo dell’incoraggiamento che Mackenzie avesse ricevuto sul lavoro da più di due settimane. Nancy lavorava al commissariato come segretaria e a volte si occupava di verificare le informazioni. Per quanto ne sapeva Mackenzie, era uno dei pochi membri più anziani della polizia a non avere problemi nei suoi confronti.

“Porter, White, aspettate” disse Nelson.

Vide che adesso Nelson mostrava la stessa preoccupazione che aveva avvertito in Porter quando aveva preso parola poco prima. Sembrava quasi che gli desse la nausea.

“Sei stata brava a ricordarti di quel caso del 1987” ammise Nelson con Mackenzie. Sembrava che farle quel complimento gli provocasse dolore fisico. “È vero che è soltanto un’ipotesi, ma viene da chiedersi...”

“Viene da chiedersi?” sollecitò Porter.

Mackenzie, a cui non piaceva girare intorno alle questioni, rispose al posto di Nelson.

“Perché abbia deciso di tornare attivo adesso” spiegò.

Quindi aggiunse:

“E quando ucciderà di nuovo.”




CAPITOLO TRE


Era seduto nella propria auto, godendosi il silenzio. I lampioni gettavano un bagliore spettrale sulla strada. Non c’erano molte auto in giro a quell’ora tarda, per questo la tranquillità era inquietante. Sapeva che chiunque fosse in giro in quella parte della città a quell’ora doveva essere impegnato a tenere segreti i propri traffici. Questo gli rendeva più semplice concentrarsi sul suo lavoro – un Buon Lavoro.

I marciapiedi erano bui, tranne per qualche sporadico bagliore dei neon di squallidi locali. La volgare sagoma di una donna prosperosa illuminava la vetrina dell’edificio che stava studiando. Tremolava come un faro in un mare in tempesta. Tuttavia non c’era riparo in quei posti – o per lo meno, non un riparo rispettabile.

A sedere nella propria auto, più lontano dai lampioni che poteva, pensò alla sua collezione a casa. Prima di uscire quella notte l’aveva studiata attentamente. Sulla piccola scrivania c’era quello che restava del suo lavoro: una borsetta, un orecchino, una collanina d’oro, una ciocca di capelli biondi dentro un contenitore Tupperware. Erano dei promemoria che il lavoro era stato assegnato a lui – e che aveva altro lavoro da svolgere.

Un uomo emerse dall’edificio dall’altra parte della strada, interrompendo i suoi pensieri. Osservando, rimase lì a sedere e aspettò pazientemente. Aveva imparato molte cose sulla pazienza nel corso degli anni. Per questo sapere che ora doveva lavorare in fretta lo rendeva ansioso. E se non era preciso?

Aveva poca scelta. L’omicidio di Hailey Lizbrook era già nei notiziari. Gli stavano già dando la caccia – come se fosse lui ad aver fatto qualcosa di sbagliato. Loro non capivano. Lui aveva fatto un dono a quella donna.

Un atto di grazia.

Una volta, lasciava passare molto tempo tra i suoi atti sacri. Adesso però si sentiva oppresso da un senso di urgenza. C’era così tanto da fare. C’erano sempre donne là fuori – agli angoli delle strade, negli annunci, in televisione.

Alla fine avrebbero capito. Avrebbero capito e l’avrebbero ringraziato. Gli avrebbero chiesto come raggiungere la purezza, e lui avrebbe aperto loro gli occhi.

Qualche istante dopo, l’immagine al neon della donna in vetrina si spense e il bagliore all’interno del locale sparì. Il posto era diventato buio, le luci spente per la chiusura notturna.

Sapeva che questo significava che le donne sarebbero uscite dal retro a momenti, per dirigersi alle proprie macchine e andare a casa.

Mise in moto e guidò lentamente intorno all’isolato. Le luci dei lampioni sembravano inseguirlo, ma sapeva che non c’erano occhi indiscreti lì a osservarlo. In quella parte di città, a nessuno importava.

Sul retro dell’edificio erano parcheggiate quasi esclusivamente macchine costose. Si facevano un sacco soldi mettendo in mostra il proprio corpo. Parcheggiò in un angolo distante e si rimise in attesa.

Dopo un bel po’, infine si aprì la porta dei dipendenti. Ne uscirono due donne, accompagnate da un uomo che sembrava un addetto alla sicurezza. Scrutò l’uomo, chiedendosi se potesse costituire un problema. Sotto il sedile teneva una pistola che avrebbe usato solo se costretto, anche se preferiva di no. Finora non aveva ancora dovuto usarla. In realtà detestava le pistole. Avevano un che di impuro, di quasi accidioso.

Infine si divisero e ognuno salì nella propria macchina.

Osservò gli altri passare, poi si rizzò a sedere. Sentiva il cuore battere all’impazzata. Eccola, era lei.

Era bassa, con capelli biondi tinti che le sfioravano le spalle. La osservò entrare in auto ma non mise in moto fino a che non vide le luci posteriori sparire dietro l’angolo.

Per non attirare l’attenzione, aggirò l’edificio dall’altro lato. Poi si mise dietro di lei, il cuore che iniziava ad accelerare. Istintivamente, portò la mano sotto il sedile per toccare la corda arrotolata.

Questo lo tranquillizzò.

Lo calmava sapere che, dopo l’inseguimento, ci sarebbe stato il sacrificio.

E così sarebbe stato.




CAPITOLO QUATTRO


Mackenzie sedeva sul sedile del passeggero con molti documenti sparsi in grembo e Porter dietro al volante che batteva le dita al ritmo di una canzone dei Rolling Stones. Quando guidava, teneva sempre la radio sintonizzata su un canale di rock classico, e Mackenzie alzò lo sguardo, seccata che la sua concentrazione fosse stata interrotta. Guardò le luci della macchina sfrecciare lungo l’autostrada a centotrenta chilometri orari, quindi si voltò verso di lui.

“Potresti abbassarla?” sbottò.

Di solito non le dava fastidio, ma stava cercando di entrare nel giusto stato mentale per comprendere il modus operandi del killer.

Scuotendo la testa e sospirando, Porter abbassò il volume della radio. Le lanciò uno sguardo sprezzante.

“Cos’è che speri di trovare?” le chiese.

“Non sto cercando di trovare niente” disse Mackenzie. “Sto cercando di mettere insieme i pezzi per capire meglio la personalità dell’assassino. Se riusciamo a pensare come lui, avremo molte più possibilità di scovarlo.”

“Oppure” disse Porter, “potresti semplicemente aspettare che arriviamo a Omaha e parliamo con i figli e la sorella della vittima, come ci ha detto Nelson.”

Anche senza guardarlo, Mackenzie sapeva che stava trattenendo a stento qualche commento cretino. Immaginò di dovergli dare un po’ di credito. Quando erano solo loro due in viaggio o sulla scena di un crimine, Porter limitava al minimo sia le battute che il suo atteggiamento umiliante.

Per il momento ignorò Porter e guardò gli appunti che aveva in grembo. Stava confrontando gli appunti sul caso del 1987 con quelli sull’omicidio di Hailey Lizbrook. Più leggeva, più si convinceva che fossero stati portati a termine dalla stessa mano. Tuttavia, quello che continuava a farla sentire frustrata era che non ci fosse un movente chiaro.

Lesse e rilesse i documenti, sfogliando le pagine ed esaminando le informazioni. Iniziò a sussurrare tra sé, facendo domande ed esponendo i fatti ad alta voce. Era qualcosa che faceva fin dai tempi della scuola superiore, una mania che non aveva più abbandonato.

“Nessuna prova di violenza sessuale in nessuno dei due casi” bisbigliò. “Nessun legame ovvio tra le vittime, a parte la professione. Nessuna prova concreta che ci sia un movente religioso. Se c’entrasse la religione, perché si sarebbe limitato ad un palo, invece di usare un vero e proprio crocifisso? I numeri erano presenti in entrambi i casi, però il significato delle cifre in relazione alle uccisioni non è chiaro.”

“Non offenderti” disse Porter, “ma preferirei davvero ascoltare gli Stones.”

Mackenzie smise di parlare tra sé e notò che la luce di notifica sul suo cellulare lampeggiava. Dopo che lei e Porter erano partiti, aveva chiesto a Nancy tramite email di fare delle rapide ricerche tra i casi di omicidio degli ultimi trent’anni usando i termini palo, spogliarellista, prostituta, cameriera, granoturco, frustate, e la sequenza di numeri N511/G202. Quando guardò il cellulare, Mackenzie vide che Nancy, come sempre, aveva agito in fretta.

L’email che Nancy le aveva inviato diceva: Purtroppo non c’è molto, però ti ho allegato i rapporti sui casi che ho trovato. Buona fortuna!

Gli allegati erano solo cinque, e Mackenzie fu piuttosto rapida a esaminarli. Tre di essi non avevano chiaramente nulla a che fare con l’omicidio Lizbrook, né con il caso dell’87. Gli altri due, invece, erano abbastanza interessanti da essere almeno presi in considerazione.

Uno era un caso del 1994, in cui una donna era stata trovata morta dietro un fienile abbandonato in una zona rurale a circa centotrenta chilometri da Omaha. Era stata legata a un palo di legno e si ritiene che il corpo sia rimasto lì per sei giorni prima di essere rinvenuto. Il corpo era rigido e degli animali selvatici – probabilmente delle linci rosse – avevano iniziato a mangiarle le gambe. La donna aveva parecchi precedenti penali, compresi due arresti per adescamento. Anche in quel caso, non c’erano evidenti segni di violenza sessuale e, nonostante sulla schiena ci fossero delle frustate, non erano affatto estese come quelle trovate sul corpo di Hailey Lizbrook. Il rapporto sull’omicidio però non accennava a numeri trovati sul palo.

Il secondo file che forse era collegato riguardava una ragazza diciannovenne, dichiarata rapita dopo che non era tornata a casa per le vacanze natalizie del suo primo anno all’Università del Nebraska, nel 2009. Quando il corpo fu rinvenuto in un campo abbandonato tre mesi dopo, in parte sotterrato, c’erano delle frustate sulla schiena. In seguito giunsero alla stampa immagini che ritraevano la giovane nuda nel mezzo di uno squallido festino sessuale in una casa della confraternita. Le foto erano state scattate una settimana prima della denuncia di scomparsa.

Quell’ultimo caso era un po’ una forzatura, ma Mackenzie pensò che entrambi potessero potenzialmente essere collegati all’omicidio dell’87 e a Hailey Lizbrook.

“Che hai lì?” chiese Porter.

“Nancy mi ha inviato i rapporti di altri casi che potrebbero essere collegati.”

“Trovato qualcosa?”

Esitò, poi però lo aggiornò sui due potenziali collegamenti. Quando ebbe finito, Porter annuì mentre guardava fuori nella notte. Superarono un segnale che annunciava che mancavano trentacinque chilometri a Omaha.

“Io penso che a volte ti sforzi troppo” commentò Porter. “Ti fai il culo, e questo l’hanno notato in molti. Però siamo onesti: per quanto ti impegni, non tutti i casi hanno collegamenti lampanti che ti porteranno a un unico colossale caso.”

“Allora, sentiamo” ribatté Mackenzie. “In questo preciso istante, cosa ti dice il tuo istinto su questo caso? Con che cosa abbiamo a che fare?”

“È solo un criminale qualsiasi con un complesso materno” disse Porter con noncuranza. “Basterà parlare con le persone giuste e lo troveremo. Tutta questa analisi è uno spreco di tempo. Non trovi le persone entrando nella loro testa. Le trovi facendo domande, con i pattugliamenti, andando di porta in porta e di testimone in testimone.”

Mentre tra loro calava il silenzio, Mackenzie iniziò a preoccuparsi per quanto fosse semplicistica la visione del mondo di Porter. Per lui era tutto o bianco o nero, non lasciava spazio alle sfumature, a niente al di fuori di convinzioni prestabilite. Lei riteneva che lo psicopatico con cui avevano a che fare fosse ben più complesso di così.

“E qual è la tua opinione sul nostro killer?” chiese infine lui.

Si avvertiva risentimento nella sua voce, come se in realtà non avrebbe voluto domandarglielo, ma il silenzio aveva avuto la meglio su di lui.

“Io credo che odi le donne per quello che rappresentano” rispose lei a bassa voce, elaborando l’idea nella mente mentre parlava. “Potrebbe essere un cinquantacinquenne ancora vergine che pensa che il sesso sia sporco – eppure in lui c’è anche il bisogno del sesso. Uccidere le donne lo fa sentire come se stesse sconfiggendo i suoi stessi istinti, che vede come sporchi e inumani. Se riesce ad eliminare la fonte di quegli istinti sessuali, sente di avere il controllo. Le frustate sulla schiena indicano che le sta quasi punendo, probabilmente perché sono provocanti. E poi c’è il fatto che non ci sono segni di violenza sessuale. Mi domando se questo sia una specie di tentativo di restare puro agli occhi del killer.”

Porter scosse la testa, quasi come un genitore deluso.

“È proprio come dicevo io” disse. “Una perdita di tempo. Ti sei spinta così in là da non essere nemmeno più sicura di quello che pensi – e questo non ci aiuterà. Non riesci a vedere le cose per quello che sono.”

Furono di nuovo avvolti da un imbarazzato silenzio. Porter, che sembrava aver finito di parlare, alzò il volume della radio.

Durò solo pochi minuti, però. Avvicinandosi a Omaha, Porter abbassò di nuovo il volume, stavolta senza che gli venisse chiesto. Quando iniziò a parlare pareva nervoso, ma Mackenzie intuì che si sforzava comunque di sembrare quello che aveva il comando.

“Hai mai interrogato dei bambini dopo che hanno perso un genitore?” domandò Porter.

“Una volta” disse lei. “In seguito a una sparatoria. Era un bambino di undici anni.”

“Anche a me è capitato un paio di volte. Non è divertente.”

“No, non lo è” concordò Mackenzie.

“Ok, senti, stiamo per fare a due ragazzi delle domande sulla morte della loro madre. Il fatto che lavorasse come spogliarellista è destinato a saltar fuori. Dobbiamo andarci piano.”

Mackenzie ribolliva di rabbia. Porter si rivolgeva a lei come se fosse una bambina.

“Lascia fare a me. Tu potrai offrire una spalla su cui piangere, se ne avranno voglia. Nelson ha detto che ci sarà anche la sorella, ma dubito che possa essere di conforto. Probabilmente è distrutta quanto i ragazzini.”

Mackenzie in realtà non credeva fosse una buona idea, però sapeva anche che quando c’erano di mezzo Porter e Nelson, doveva scegliere con cura le sue battaglie. Perciò, se Porter ci teneva a interrogare due ragazzini in lutto sulla morte della madre, lei gli avrebbe lasciato soddisfare il proprio ego.

“Come vuoi” disse a denti stretti.

L’auto ritornò silenziosa. Stavolta, Porter lasciò la radio abbassata e gli unici suoni erano quelli delle pagine che Mackenzie stava sfogliando. C’era una storia più grande tra quelle pagine e nei documenti che Nancy le aveva inviato; Mackenzie ne era sicura.

Ovviamente, perché si potesse raccontare questa storia, tutti i personaggi dovevano essere svelati. E per ora, il personaggio centrale era ancora nascosto nell’ombra.

La macchina rallentò e Mackenzie sollevò la testa mentre svoltavano in un isolato tranquillo. Avvertì una familiare stretta allo stomaco, e desiderò di trovarsi ovunque tranne lì.

Stavano per parlare con i figli di una donna che era appena morta.




CAPITOLO CINQUE


Entrando nell’appartamento di Hailey Lizbrook, Mackenzie si stupì: non era come si aspettava. Era in ordine e pulito, con i mobili ben disposti e senza un granello di polvere. L’arredamento era quello di una donna dedita alla casa, incluse le tazze con frasi simpatiche e le presine appese a gancini decorati vicino ai fornelli. Si capiva che aveva un’organizzazione perfetta, anche dal taglio dei capelli e dai pigiami dei suoi figli.

Era proprio come la casa e la famiglia che aveva sempre sognato per sé.

Mackenzie ricordò di aver letto nei fascicoli che i ragazzi avevano nove e quindici anni; il più grande si chiamava Kevin, il piccolo Dalton. Appena lo vide, capì che Dalton aveva pianto molto; i suoi occhi azzurri erano gonfi e rossi.

Kevin, invece, sembrava più che altro arrabbiato, e si notò ancora di più quando si furono accomodati e Porter iniziò a rivolgersi a loro in un tono che era a metà tra il paternalistico e quello di un insegnante d’asilo. Mackenzie trasalì senza darlo a vedere mentre Porter parlava.

“Adesso devo sapere se vostra madre aveva amici maschi” disse Porter.

Stava in piedi al centro del soggiorno, mentre i ragazzi erano su un divano. Jennifer, la sorella di Hailey, se ne stava in piedi nella cucina adiacente, a fumare una sigaretta davanti ai fornelli con la cappa accesa.

“Tipo un fidanzato?” chiese Dalton.

“Certo, anche quello è un amico maschio” disse Porter. “Ma quello che intendo è qualsiasi uomo con cui abbia parlato più volte. Anche uno come il postino o una persona al supermercato.”

Entrambi i ragazzi guardavano Porter come se si aspettassero che facesse un numero di magia, oppure che prendesse fuoco spontaneamente. Anche Mackenzie lo fissava. Non l’aveva mai sentito usare un tono di voce tanto delicato. Era quasi buffo sentire una voce così rassicurante uscire dalla sua bocca.

“No, non direi” disse Dalton.

“No” concordò Kevin. “E non aveva neanche un ragazzo. Non che io sappia.”

Mackenzie e Porter guardarono Jennifer aspettando una risposta. Tutto ciò che ottennero fu un’alzata di spalle. Mackenzie era certa che Jennifer fosse sotto shock. Si chiese se ci fosse qualche altro familiare che potesse prendersi cura di quei ragazzi per un periodo, dato che Jennifer al momento non sembrava la persona più adatta.

“E che mi dite di persone con cui voi e vostra madre non andavate d’accordo?” proseguì Porter. “L’avete mai sentita litigare con qualcuno?”

Dalton si limitò fare di no con la testa. Mackenzie era sicura che il bimbo stesse per scoppiare in lacrime. Kevin invece fece roteare gli occhi proprio in faccia a Porter.

“No” rispose. “Non siamo stupidi. Sappiamo cosa sta cercando di chiederci. Vuole sapere se ci viene in mente qualcuno che possa aver ucciso la mamma. Giusto?”

Sembrava che Porter avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Lanciò un’occhiata nervosa verso Mackenzie, ma riuscì rapidamente a riacquistare compostezza.

“Be’, sì” ammise. “È proprio lì che volevo arrivare, ma mi sembra chiaro che non avete nessuna informazione utile.”

“Lei crede?” lo sfidò Kevin.

Ci fu un momento di tensione e Mackenzie era sicura che Porter se la sarebbe presa col ragazzino. Kevin fissava Porter con un’espressione addolorata, quasi a sfidarlo di continuare.

“Bene” disse Porter, “credo di avervi già dato abbastanza disturbo. Grazie per il vostro tempo.”

“Un momento” intervenne Mackenzie, senza riuscire a trattenere la sua obiezione.

Porter le lanciò un’occhiata che avrebbe potuto sciogliere la cera. Evidentemente pensava fosse solo una perdita di tempo parlare con i due ragazzi distrutti dal dolore, soprattutto con un quindicenne che aveva chiari problemi con l’autorità. Mackenzie ignorò il suo sguardo e si abbassò per essere faccia a faccia con Dalton.

“Senti, che ne dici di andare un po’ di là in cucina da tua zia?”

“Va bene” disse Dalton con voce sommessa e arrochita.

“Detective Porter, perché non va con lui?”

Ancora una volta, Porter le rivolse uno sguardo carico di odio. Mackenzie sostenne il suo sguardo senza fare una piega. Indurì l’espressione fino a farla sembrare di pietra; era determinata a non cedere. Se voleva discutere con lei, l’avrebbero fatto fuori da lì. Invece, evidentemente, non voleva mettersi in imbarazzo, anche se si trattava solo di due ragazzini e una donna in stato catatonico.

“Ma certo” disse infine a denti stretti.

Mackenzie aspettò che Dalton e Porter entrassero in cucina.

Mackenzie si rialzò. Sapeva che il trucchetto di abbassarsi smetteva di funzionare più o meno a dodici anni.

Guardò Kevin e vide che lo sguardo di sfida che aveva mostrato a Porter era ancora lì. Mackenzie non aveva nulla contro gli adolescenti, però sapeva che spesso era difficile averci a che fare, soprattutto in circostanze tragiche come quella. Però aveva visto come Kevin aveva reagito a Porter e forse sapeva come poteva comunicare con lui.

“Dimmi la verità, Kevin” gli disse. “Secondo te siamo arrivati qui troppo presto? Pensi che siamo degli insensibili a farvi domande così presto dopo che avete avuto la notizia su vostra madre?”

“Più o meno” rispose.

“Magari non ti va di parlare adesso?”

“No, possiamo anche parlare” disse Kevin. “Ma quel tipo è uno stronzo.”

Mackenzie sapeva che quella era la sua occasione. Poteva affrontare la cosa con professionalità, come avrebbe fatto normalmente, oppure poteva sfruttare quell’occasione per stabilire una connessione con l’adolescente arrabbiato. Gli adolescenti apprezzavano soprattutto l’onestà. Riuscivano a percepire molte cose quando erano guidati dalle emozioni.

“Hai ragione” gli disse. “È uno stronzo.”

Kevin la fissò con gli occhi sbarrati. Era rimasto di stucco; evidentemente, non era la risposta che si aspettava.

“Ma questo non cambia il fatto che devo lavorare con lui” aggiunse, la voce un misto di compassione e comprensione. “E non cambia neanche il fatto che siamo qui per aiutarvi. Vogliamo scoprire chi è che ha fatto questo a vostra madre. Non lo vuoi anche tu?”

Restò in silenzio a lungo, ma alla fine annuì.

“Allora pensi di poter parlare con me?” chiese Mackenzie. “Solo qualche domanda veloce, poi ce ne andiamo.”

“E dopo di voi chi verrà?” chiese Kevin diffidente.

“Onestamente?”

Kevin annuì, e lei vide che era vicino alle lacrime. Si chiese se le avesse trattenute per tutto il tempo, cercando di essere forte per il fratello e la zia.

“Dopo che ce ne saremo andati, riferiremo le informazioni che abbiamo ottenuto e i servizi sociali verranno per accertarsi che Jennifer sia la persona adatta a prendersi cura di voi mentre vengono fatti gli ultimi preparativi per vostra madre.”

“Di solito è una in gamba” disse Kevin guardando verso la zia. “È solo che lei e la mamma erano molto unite, proprio come due migliori amiche.”

“Già, tra sorelle è spesso così” disse Mackenzie, anche se non aveva idea se fosse vero o no. “Adesso però ho bisogno che ti concentri su quello che sto per chiederti. Pensi di poterlo fare?”

“Sì.”

“Bene. Odio dovertelo chiedere, ma è necessario. Tu sai che lavoro faceva tua madre?”

Kevin annuì abbassando lo sguardo sul pavimento.

“Sì” rispose. “E non so come, ma anche i ragazzi della mia scuola lo sanno. Probabilmente qualche papà arrapato è stato al club, l’ha vista e l’ha riconosciuta da qualche riunione scolastica. È uno schifo. Mi prendono in giro in continuazione.”

Mackenzie non riusciva a immaginare quale tormento dovesse essere, però questo le fece rispettare Hailey Lizbrook molto di più. Certo, di notte si spogliava per soldi, ma durante il giorno era una madre molto attenta ai suoi figli.

“Ho capito” disse Mackenzie. “Dato che sai del suo lavoro, ti puoi immaginare il tipo di uomini che frequentano quel posto, vero?”

Kevin annuì e Mackenzie vide la prima lacrima scivolargli lungo la guancia. Fu tentata di stringergli la mano per confortarlo, ma non voleva inimicarselo.

“Adesso prova a pensare se tua madre sia mai tornata a casa particolarmente turbata o arrabbiata per qualcosa. Devi anche cercare di ricordare se c’è stato qualche uomo con cui lei...insomma, un uomo che si è portata a casa.”

“Non veniva mai nessuno a casa con lei” rispose. “E non ho quasi mai visto la mamma arrabbiata o sconvolta. L’unica volta che l’ho vista furiosa è stato l’anno scorso, quando parlava con l’avvocato.”

“Avvocato?” ripeté Mackenzie. “E sai perché stesse parlando con un avvocato?”

“Più o meno. So solo che una sera è successo qualcosa al lavoro che l’ha spinta a contattare un avvocato. Mentre era al telefono ho sentito parte della conversazione. Sono quasi certo che stesse parlando di un’ordinanza restrittiva.”

“E credi che c’entrasse il suo posto di lavoro?”

“Non lo so per certo” disse Kevin. Pareva un po’ più calmo quando capì che quello che aveva detto poteva essere utile. “Ma credo di sì.”

“Mi sei stato di grande aiuto, Kevin” disse Mackenzie. “C’è altro che ti viene in mente?”

Fece lentamente di no con la testa, poi guardò Mackenzie negli occhi. Cercava di essere forte, ma c’era così tanta tristezza nei suoi occhi che Mackenzie non aveva idea di come avesse fatto a non essere ancora crollato.

“Sa, la mamma si vergognava del suo lavoro” disse Kevin. “Durante il giorno lavorava un po’ da casa, come scrittrice tecnica. Creava siti web e roba così. Però non credo che guadagnasse molti soldi. Faceva l’altro lavoro per guadagnare di più, perché nostro padre... be’, lui è sparito da un sacco di tempo. Ormai non ci manda più soldi. Quindi la mamma... ha dovuto accettare l’altro lavoro. L’ha fatto per me e per Dalton e...”

“Ma certo” disse Mackenzie, e stavolta gli poggiò la mano sulla spalla. Lui le sembrò grato. Intuì che doveva avere una gran voglia di piangere, ma probabilmente non se lo sarebbe concesso davanti a degli estranei.

“Detective Porter” chiamò Mackenzie, e lui arrivò dall’altra stanza, guardandola male.

“Aveva altre domande da fare?” Chiese lei scuotendo impercettibilmente la testa e sperando che lui capisse.

“No, direi che abbiamo finito qui” rispose Porter.

“D’accordo” disse Mackenzie. “Ragazzi, grazie di nuovo per il vostro tempo.”

“Sì, grazie” disse Porter raggiungendo Mackenzie nel salotto. “Jennifer, ha il mio numero, se le viene in mente qualcosa che potrebbe aiutarci, non esiti a chiamarmi. Anche il dettaglio più insignificante potrebbe rivelarsi utile.”

Jennifer annuì e con voce rauca disse: “Grazie.”

Mackenzie e Porter uscirono dall’appartamento e scesero i gradini di legno che portavano al parcheggio del condominio. Mackenzie si avvicinò a Porter, ignorando l’immensa rabbia che emanava da lui come calore.

“Ho trovato una pista” gli disse. “Kevin ha detto che sua madre stava cercando di ottenere un’ordinanza restrittiva contro qualcuno sul posto di lavoro. Ha detto che è stata l’unica volta in cui l’ha vista visibilmente furiosa o turbata per qualcosa.”

“Bene” disse Porter. “Almeno ostacolarmi ha portato a qualcosa di buono.”

“Non ti stavo ostacolando” si difese Mackenzie. “Ho soltanto visto che la situazione fra te e il ragazzo ti stava sfuggendo di mano e sono intervenuta per rimediare.”

“Cazzate” disse Porter. “Mi hai fatto sembrare debole e inferiore davanti ai ragazzi e alla loro zia.”

“Non è vero” insisté Mackenzie. “E anche se fosse, che importa? Parlavi a quei ragazzi come se fossero degli idioti che non capivano la nostra lingua.”

“Le tue azioni sono state una chiara mancanza di rispetto” disse Porter. “Ti vorrei ricordare che faccio questo lavoro da prima che tu nascessi. Se ho bisogno del tuo intervento, stai pur certa che te lo farò sapere.”

“Avevi concluso, Porter” rispose lei. “Era finita, ricordi? Non c’era niente da ostacolare. Eri già alla porta. Hai avuto la tua occasione e non l’hai saputa sfruttare.”

Erano arrivati alla macchina e mentre Porter l’apriva, lanciò uno sguardo rovente a Mackenzie da sopra il tettuccio.

“Quando arriviamo in centrale andrò dritto da Nelson e chiederò di cambiare partner. Ne ho abbastanza della tua mancanza di rispetto.”

“Rispetto” ripeté Mackenzie scuotendo la testa. “Non sai nemmeno cosa significhi questa parola. Basta guardare come mi tratti.”

Porter emise un sospiro tremante e salì in macchina senza aggiungere altro. Anche Mackenzie entrò, decisa a non lasciarsi influenzare dall’umore di Porter. Si voltò a guardare il condominio e si domandò se Kevin si fosse finalmente lasciato andare alle lacrime. Se guardava le cose in prospettiva, la scaramuccia tre lei e Porter non sembrava così importante.

“Chiami tu la centrale?” domandò Porter, chiaramente seccato di essere stato scavalcato.

“Va bene” disse lei, tirando fuori il cellulare. Mentre cercava il numero di Nelson, non poté negare la lenta soddisfazione che stava montando dentro di lei. Un’ordinanza restrittiva emanata un anno prima, e adesso Hailey Lizbrook era morta.

Abbiamo beccato il bastardo, pensò.

Allo stesso tempo, però, non poté fare a meno di chiedersi se chiudere il caso sarebbe stato davvero così facile.




CAPITOLO SEI


Erano le 22:45 quando finalmente Mackenzie arrivò a casa, esausta. La giornata era stata lunga ed estenuante, ma sapeva che non sarebbe riuscita ad addormentarsi per parecchio tempo. La sua mente era troppo fissata sulla pista fornita da Kevin Lizbrook. Aveva passato le informazioni a Nelson e lui le aveva assicurato che avrebbe fatto chiamare lo strip club e lo studio legale che Hailey Lizbrook aveva contattato riguardo l’ordinanza restrittiva.

Mentre la sua mente sfrecciava in centinaia di direzioni diverse, Mackenzie mise della musica, prese una birra dal frigo e si preparò un bagno. Di solito non amava fare il bagno, ma quella sera tutti i muscoli del suo corpo erano tesi. Mentre la vasca si riempiva d’acqua, andò in giro per casa a ripulire dove Zack aveva trascorso fino all’ultimo minuto prima di andare al lavoro.

Lei e Zack avevano iniziato a vivere insieme da poco più di un anno, cercando di compiere ogni passo che potesse rimandare il matrimonio il più possibile. Mackenzie si sentiva pronta per il matrimonio, mentre Zack ne era terrorizzato. Ormai stavano insieme da tre anni e, mentre i primi due erano stati fantastici, la loro relazione nell’ultimo periodo si basava unicamente sulla monotonia e sulla paura di Zack sia di restare solo che di sposarsi. Lui sarebbe stato felice di continuare a restare in bilico tra le due cose, usando Mackenzie come riempitivo.

Mentre raccoglieva due piatti sporchi dal tavolino e calpestava un disco della Xbox rimasto sul pavimento, Mackenzie rifletté che forse era stufa di quella situazione. Tra l’altro, non era nemmeno sicura che avrebbe sposato Zack, se anche lui glielo avesse chiesto. Lo conosceva troppo a fondo; era come se avesse già visto come sarebbe stato essere sposati e, francamente, non prometteva bene.

Era bloccata in una relazione senza futuro, con un compagno che non l’apprezzava. Allo stesso modo, capì di essere bloccata in un lavoro con colleghi che non l’apprezzavano. Tutta la sua vita sembrava bloccata. Sapeva che le cose dovevano cambiare, ma aveva troppa paura. E dato il suo sfinimento, non ne aveva nemmeno la forza.

Mackenzie andò in bagno e chiuse il rubinetto. Dalla superficie dell’acqua si alzarono ondate di vapore, come a invitarla ad entrare. Si spogliò e, guardandosi allo specchio, diventò ancora più consapevole di aver sprecato otto anni della sua vita con un uomo che non aveva nessun desiderio di impegnarsi con lei. Pensava di essere attraente in modo semplice. Il suo viso era carino (ancora di più quando aveva i capelli raccolti in una coda) e aveva un bel fisico, leggermente magro e muscoloso. Il ventre era piatto e sodo, al punto che a volte Zack diceva scherzando che i suoi addominali lo mettevano in soggezione.

Si infilò nella vasca, posando la birra su un asciugamano. Emise un profondo sospiro e lasciò che l’acqua calda facesse il suo lavoro. Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi, ma gli occhi di Kevin Lizbrook continuavano a tornarle alla mente senza tregua. La loro incredibile tristezza era stata quasi insopportabile, e parlava di un dolore che Mackenzie stessa aveva conosciuto, ma che era riuscita a spingere nell’angolo più remoto del suo cuore.

Chiuse gli occhi e si appisolò, l’immagine a tormentarla per tutto il tempo. Avvertiva una presenza palpabile, come se Hailey Lizbrook fosse lì con lei nella stanza per esortarla a risolvere il suo omicidio.



*



Zack rincasò un’ora dopo, reduce da un turno di dodici ore in uno stabilimento tessile del posto. Ogni volta che Mackenzie sentiva su di lui l’odore di sporcizia, sudore e grasso si ricordava della poca ambizione che aveva Zack. Mackenzie non aveva problemi con quel lavoro di per sé; era un lavoro rispettabile per uomini adatti alla fatica e alla dedizione. Tuttavia Zack possedeva una laurea che avrebbe voluto sfruttare per ottenere un master e diventare insegnante. Il progetto era finito cinque anni prima e da allora era rimasto bloccato nel ruolo di capoturno allo stabilimento tessile.

Quando lui entrò, Mackenzie era alla seconda birra, seduta sul letto a leggere un libro. Aveva deciso di provare ad addormentarsi verso le tre, per farsi cinque ore di sonno prima di recarsi al lavoro la mattina seguente alle nove. Non le importava molto dormire e aveva scoperto che se dormiva più di sei ore, il giorno seguente si sentiva apatica e fuori fase.

Zack entrò nella stanza con addosso gli abiti sporchi da lavoro. Gettò le scarpe di fianco al letto e la guardò. Lei indossava una canottiera e un paio di shorts da ciclista.

“Ehi, piccola” le disse, percorrendo il suo corpo con lo sguardo. “Mi piace tornare a casa e trovare questo.”

“Com’è andata oggi?” chiese lei, quasi senza alzare gli occhi dal libro.

“È andata bene. Poi torno a casa e ti vedo così, e va ancora meglio.” Salì sul letto e le si avvicinò. Le posò la mano sulla guancia e inclinò il viso per baciarla.

Lei lasciò cadere il libro e si ritrasse subito. “Zack, sei fuori di testa?”

“Che cosa?” fece lui, chiaramente confuso.

“Sei completamente sudicio. A parte il fatto che mi sono appena fatta il bagno, stai sporcando le lenzuola di terra, grasso e dio solo sa che altro.”

“Oddio” esclamò Zack seccato. Scese dal letto, rotolandosi di proposito sulle lenzuola. “Perché sei così rigida?”

“Non sono rigida” replicò lei. “Semplicemente, preferirei non vivere in un porcile. A proposito, grazie per aver ripulito tutto prima di andare al lavoro.”

“Oh, che bello essere a casa” disse Zack sarcastico prima di andarsene in bagno sbattendo la porta dietro di sé.

Mackenzie sospirò e trangugiò il resto della birra, poi guardò gli stivali di Zack ancora lì per terra, dove sarebbero rimasti fino a quando li avrebbe rimessi l’indomani. Sapeva anche che, andando in bagno a prepararsi la mattina dopo, avrebbe trovato i suoi vestiti sporchi ammucchiati per terra.

Al diavolo, pensò, ritornando alla lettura. Lesse soltanto poche pagine mentre ascoltava l’acqua della doccia provenire dal bagno. Poi mise da parte il libro e tornò in soggiorno. Prese la sua ventiquattrore, se la portò in camera da letto e tirò fuori i documenti aggiornati sull’omicidio Lizbrook, che aveva recuperato dalla centrale prima di tornare a casa. Per quanto avesse voluto riposare, anche solo per poche ore, non ci riusciva.

Lesse i documenti, a caccia di un qualunque dettaglio che potesse esserle sfuggito. Una volta che fu sicura che niente era stato tralasciato, rivide gli occhi pieni di lacrime di Kevin, e fu spinta a controllare di nuovo.

Mackenzie era così presa dai documenti che non si accorse che Zack era entrato nella stanza. Adesso aveva un odore decisamente migliore e, con solo un asciugamano in vita, anche un aspetto migliore.

“Scusa per le lenzuola” disse Zack distrattamente, mentre si toglieva l’asciugamano e si infilava un paio di boxer. “Io... Non lo so... Non ricordo quando è stata l’ultima volta che mi hai dato un po’ di attenzione.”

“Parli del sesso?” gli chiese. Con sua sorpresa, in realtà aveva voglia di farlo. Magari era quello che le serviva per rilassarsi e riuscire a dormire.

“Non è solo il sesso” disse Zack. “Intendo attenzione di qualsiasi tipo. Quando arrivo a casa tu dormi già, oppure stai studiando un caso.”

“Sì, ma solo dopo che ho tolto la tua robaccia sparsa in giro” puntualizzò lei. “Tu vivi come un ragazzino che aspetta che sia la mamma a ripulire tutto. Quindi sì, a volte mi butto sul lavoro per dimenticare quanto sai essere frustrante.”

“Siamo di nuovo a questo punto?” le chiese.

“Quale punto?”

“Il punto in cui usi il lavoro come scusa per ignorarmi.”

“Non lo uso come scusa per ignorarti, Zack. Adesso mi preme di più scoprire chi ha brutalmente assassinato la madre di due ragazzi piuttosto che accertarmi che tu riceva le attenzioni di cui hai bisogno.”

“Ecco, è precisamente per questo” disse Zack, “che non ho nessuna fretta di sposarmi. Tu sei già sposata col tuo lavoro.”

Avrebbe potuto controbattere con un milione di osservazioni, ma Mackenzie sapeva che era inutile. Sapeva che in un certo senso aveva ragione lui. Il più delle volte, la sera trovava i casi che si portava a casa dal lavoro più interessanti di Zack. Gli voleva ancora bene, su quello non c’erano dubbi, ma in lui non c’era niente di nuovo, niente di stimolante.

“Buonanotte” le disse in tono rancoroso infilandosi a letto.

Lei guardò la sua schiena nuda e si chiese se fosse in un certo senso suo dovere dargli attenzione. Questo l’avrebbe resa una brava fidanzata? L’avrebbe resa un investimento migliore per un uomo che era terrorizzato dal matrimonio?

Con l’idea impulsiva di fare sesso ormai accantonata, Mackenzie si limitò a fare spallucce, per poi tornare sui documenti.

Se la sua vita privata doveva restare nascosta in secondo piano, pazienza. Tanto era quella vita, la vita dentro il caso, che le sembrava più reale.



*



Mackenzie andò verso camera da letto dei genitori e, prima ancora di varcare la soglia, il suo stomaco di bambina di sette anni si contrasse nel sentire uno strano odore. Era un odore pungente, che le ricordava il contenuto del suo salvadanaio – un odore che somigliava al rame delle monetine.

Entrò nella stanza e si fermò ai piedi del letto, un letto dove sua madre non dormiva da quasi un anno e che ora sembrava fin troppo grande solo per suo padre.

Lo vide lì, con le gambe che penzolavano dal lato del letto, le braccia distese come se stesse tentando di volare. C’era sangue ovunque: sul letto, sulle pareti, persino sul soffitto. La testa era rivolta a destra, come se avesse distolto lo sguardo da lei.

Capì all’istante che era morto.

Avanzò verso di lui, non volendo avvicinarsi ma sentendo di doverlo fare, i piedi nudi che pestavano gli schizzi di sangue.

“Papà” mormorò, già in lacrime.

Allungò una mano verso di lui, terrorizzata ma al tempo stesso attratta come una calamita.

Improvvisamente, lui voltò la testa e la fissò, ancora morto.

Mackenzie gridò.

Mackenzie aprì gli occhi guardandosi attorno confusa. Aveva i fascicoli sparsi sulle gambe. Zack dormiva ancora rivolgendole la schiena. Fece un respiro profondo, asciugandosi il sudore dalla fronte. Era stato solo un sogno.

Poi udì un cigolio.

Mackenzie si immobilizzò. Guardò in direzione della porta della camera e lentamente si alzò dal letto. Aveva sentito il cigolio dell’asse del pavimento del soggiorno, un suono che faceva solo quando qualcuno ci camminava sopra. Certo, stava dormendo ed era nel bel mezzo di un incubo, però lo aveva sentito.

O no?

Si allontanò dal letto e prese la pistola di servizio che teneva sulla cassettiera, di fianco al suo distintivo e alla borsetta. In silenzio, si mise in posizione di fianco alla porta, quindi uscì nel corridoio. Il bagliore dei lampioni che filtrava dalle persiane del soggiorno rivelò una stanza vuota.

Entrò tenendo la pistola in posizione di attacco. Il suo istinto le diceva che non c’era nessuno, ma si sentiva ancora scossa. Era certa di aver sentito l’asse scricchiolare. Quando andò in quella zona del soggiorno, proprio davanti al tavolino, la fece cigolare.

Dal nulla, l’immagine di Hailey Lizbrook le attraversò la mente. Vide le frustate sulla schiena della donna e le impronte sul terreno. Rabbrividì. Guardò la pistola che impugnava e provò a ricordare l’ultima volta che un caso l’avesse turbata a quel modo. Che diavolo credeva? Che il killer fosse lì nel suo salotto, pronto ad aggredirla?

Irritata, Mackenzie tornò in camera da letto. Senza fare rumore, rimise la pistola sulla cassettiera e si infilò dal suo lato del letto.

Si distese sentendosi ancora un po’ impaurita, i residui del sogno che le galleggiavano in testa. Chiuse gli occhi e provò a riaddormentarsi.

Però sapeva che sarebbe stato difficile. Era tormentata sia dai vivi che dai morti.




CAPITOLO SETTE


Mackenzie non ricordava che la centrale fosse mai stata così caotica. La prima cosa che vide entrando fu Nancy che si precipitava lungo il corridoio verso un ufficio. Non aveva mai visto Nancy muoversi così veloce. Inoltre, tutti i poliziotti che incrociò andando in sala conferenze avevano in viso un’espressione ansiosa.

Si preannunciava una mattina movimentata. La tensione che c’era nell’aria le ricordava la pesantezza che si avvertiva prima di un temporale estivo.

Lei stessa aveva avvertito tensione ancora prima di uscire di casa. Erano le 7:30 quando aveva ricevuto la prima chiamata che la informava che nel giro di poche ore si sarebbero mobilitati. A quanto pareva, mentre lei dormiva la pista che era riuscita ad ottenere grazie Kevin si era rivelata molto promettente. Si stavano già procurando un mandato e stavano studiando un piano. Una cosa però era già stata stabilita: Nelson voleva che fossero lei e Porter ad andare a prelevare il sospettato.

Nei dieci minuti che passò alla centrale, le sembrò di trovarsi in mezzo ad un uragano. Mentre si riempiva una tazza di caffè, Nelson abbaiava ordini a tutti, mentre Porter sedeva con aria solenne al tavolo delle conferenze. Sembrava un bambino imbronciato in cerca di attenzione. Mackenzie sapeva che gli rodeva il fatto che la pista provenisse da un ragazzo con il quale aveva parlato lei – lo stesso ragazzo che lui era stato pronto a lasciar perdere.

Il comando fu assegnato a Mackenzie e Porter, mentre due auto furono incaricate di seguirli per aiutarli se necessario. Era la quarta volta nella sua carriera che aveva il compito di eseguire un arresto del genere, e la scarica di adrenalina non la stancava mai. Nonostante la grande energia che scorreva dentro di lei, Mackenzie rimase calma e controllata. Uscì dalla sala conferenze camminando sicura e disinvolta e stava iniziando ad avere la sensazione che quello adesso fosse il suo caso, per quanto Porter lo volesse per sé.

Mentre usciva, Nelson la avvicinò e la prese a braccetto.

“White, devo parlarti un secondo, ti spiace?”

Prima che potesse rispondergli, la condusse nella stanza delle fotocopie. Si guardò intorno con aria cospiratoria, controllando che nessuno potesse sentirli. Quando fu certo che fossero al riparo, la guardò in un modo che la portò a chiedersi se avesse fatto qualcosa di male.

“Senti” disse Nelson. “Ieri sera Porter è venuto da me e mi ha chiesto di assegnargli un altro partner. Gli ho detto senza mezzi termini di no. Gli ho anche detto che sarebbe da stupidi abbandonare il caso adesso. Lo sai perché voleva cambiare partner?”

“Crede che gli abbia pestato i piedi, ieri” disse Mackenzie. “Ma era evidente che i ragazzi non reagivano come avrebbe voluto e lui non aveva intenzione di sforzarsi più di tanto per cercare di comunicare con loro.”

“Guarda che non mi devi delle spiegazioni” disse Nelson. “Per me hai fatto ottimo lavoro con il figlio maggiore. Il ragazzo ha persino detto a quelli che sono andati lì dopo di voi (inclusi quelli dei servizi sociali) che gli sei piaciuta molto. Ci tenevo solo a farti sapere che Porter è sul piede di guerra oggi. Se ti rompe le palle dimmelo, anche se non credo ti darà problemi. Anche se non è esattamente un tuo fan, in pratica mi ha detto che ti rispetta un casino. Ma questo deve restare tra me e te, chiaro?”

“Sì, signore” disse Mackenzie, sorpresa dall’improvviso appoggio e incoraggiamento.

“Bene” disse Nelson dandole piccole pacche sulla schiena. “Va’ a prendere il nostro uomo.”

Così, Mackenzie si diresse al parcheggio, dove Porter sedeva già dietro al volante della loro auto. Mentre lei si affrettava ad entrare, Porter le lanciò uno sguardo come a dire perché diavolo ci hai messo tanto? Appena fu salita, partì senza aspettare che Mackenzie avesse chiuso del tutto la portiera.

“Immagino che tu abbia ricevuto il rapporto completo sul nostro uomo stamattina, giusto?” chiese Porter immettendosi in autostrada. Altre due auto si accodarono a loro, con a bordo Nelson e altri quattro poliziotti come rinforzi.

“Esatto” disse Mackenzie. “Clive Traylor, quarantun anni, precedenti per molestie sessuali. Ha passato sei mesi in carcere per aver aggredito una donna nel 2006. Al momento lavora in una farmacia del posto, ma fa anche lavori di falegnameria in un capanno sulla sua proprietà.”

“Ah, vedo che ti sei persa le ultime informazioni di Nancy” commentò Porter.

“Davvero?” domandò lei. “Che mi sono persa?”

“Il bastardo tiene un sacco di pali di legno dietro il capanno. Secondo le informazioni, sono circa delle stesse dimensioni di quello che abbiamo visto in quel campo di granoturco.”

Mackenzie scorse le email sul suo cellulare e vide che Nancy aveva inviato le informazioni da meno di dieci minuti.

“Sembra proprio il nostro uomo” confermò.

“Puoi dirlo forte” disse Porter. Parlava come un robot, come se fosse stato programmato per dire determinate cose. Non si voltò a guardarla neanche una volta. Era chiaramente seccato, ma a Mackenzie andava bene così. A patto che lui incanalasse quella rabbia e determinazione per acciuffare il colpevole, non gliene importava assolutamente niente.

“D’accordo, prenderò il toro per le corna” saltò su Porter. “Mi sono incazzato di brutto per quello che hai fatto ieri sera, ma mi venisse un colpo se non hai fatto una specie di miracolo con quel ragazzino. Sei più intelligente di quello che credevo, lo ammetto. Però la tua mancanza di rispetto...”

E lasciò la frase in sospeso, come se non fosse sicuro di come proseguire. Mackenzie non disse nulla in risposta. Si limitò a guardare davanti a sé e provò a digerire il fatto che nel giro di quindici minuti avesse ricevuto dei quasi complimenti dalle due persone da cui meno se lo sarebbe aspettato.

All’improvviso le parve che quella avrebbe potuto rivelarsi un’ottima giornata. Se tutto andava per il verso giusto, entro sera avrebbero arrestato l’uomo responsabile della morte di Hailey Lizbrook e di molti altri omicidi irrisolti degli ultimi vent’anni. Se quella era la ricompensa, certamente poteva sopportare il pessimo umore di Porter.



*



Mackenzie guardò fuori dal finestrino e si sentì depressa nel vedere i quartieri cambiare davanti ai suoi occhi mentre Porter guidava verso i sobborghi più derelitti di Omaha. Gruppi di case benestanti cedevano il passo a complessi di appartamenti popolari, che poi divenivano quartieri ancora più squallidi.

Presto raggiunsero il quartiere di Clive Traylor, che era costituito da case a basso reddito che sorgevano per lo più su giardini morti, con le cassette della posta sbilenche lungo i vialetti. Le file di case sembravano non avere fine, e ognuna sembrava più malridotta della precedente. Non sapeva cosa la deprimeva di più, se il loro stato di abbandono o la loro monotonia quasi anestetizzante.

L’isolato dove abitava Clive era silenzioso, e quando vi svoltarono con l’auto Mackenzie provò la familiare scarica di adrenalina. Si rizzò senza volerlo sul sedile, preparandosi ad affrontare un assassino.

Stando a quanto aveva detto la squadra che aveva sorvegliato la proprietà dalle 3 di quella notte, Traylor era ancora in casa. Non doveva presentarsi al lavoro fino all’una di pomeriggio.

Porter rallentò, mentre si inoltravano nella strada e parcheggiò proprio davanti all’abitazione di Traylor. Quindi guardò Mackenzie per la prima volta quella mattina. Sembrava un po’ teso, ma realizzò che probabilmente valeva lo stesso per lei. Eppure, nonostante le loro divergenze, Mackenzie si sentiva comunque al sicuro ad affrontare un potenziale pericolo insieme a lui. Rompipalle sessista o no, quell’uomo aveva un mucchio di esperienza e la maggior parte delle volte sapeva quello che faceva.





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Dall’autore di successo Blake Pierce, una nuova serie di gialli mozzafiato. Una donna viene trovata morta nei campi di granoturco del Nebraska, legata a un palo, vittima di un folle assassino. La polizia non ci mette molto a realizzare di avere a che fare con un serial killer – e che la sua furia omicida è appena iniziata. La detective Mackenzie White è giovane, determinata e più intelligente dei maschilisti di mezza età che lavorano con lei nella polizia locale. È quindi a malincuore che viene interpellata per risolvere il caso. Anche se detestano ammetterlo, i suoi colleghi poliziotti hanno bisogno della sua mente giovane e brillante, che li ha già aiutati in passato a risolvere casi per loro difficili. Eppure, stavolta l’enigma sembra impossibile anche per Mackenzie: né lei né la polizia locale hanno mai visto prima qualcosa del genere. Con il supporto dell’FBI, ha inizio una caccia all’uomo. Mackenzie, turbata da un oscuro passato, relazioni fallite e dall’innegabile attrazione che prova verso il nuovo agente dell’FBI, deve affrontare i propri demoni quando la caccia al killer la trascina nei luoghi più bui della sua mente. Immergendosi nella mente dell’assassino per tentare di comprendere la sua psicologia contorta, scopre che il male esiste davvero e che l’unica speranza è non rimanerne invischiata, mentre il mondo inizia a crollarle addosso. Dopo che altre donne vengono trovate morte, inizia una corsa contro il tempo. L’unica soluzione è scovare il killer prima che uccida ancora. Thriller-noir psicologico dalla suspence mozzafiato, PRIMA CHE UCCIDA è il primo libro di una nuova, avvincente serie – con un nuovo, irresistibile personaggio – che vi terrà incollati alle pagine fino a tarda notte. Il libro#2 della serie I Misteri di Mackenzie White sarà presto disponibile.

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