Книга - Il Travestimento Perfetto

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Il Travestimento Perfetto
Blake Pierce


Un thriller psychologique avec Jessie Hunt #10
“Un capolavoro del thriller e del mistero. Blake Pierce ha fatto un ottimo lavoro sviluppando dei personaggi con un lato psicologico così ben descritto da farci sentire come dentro alle loro teste, seguendo le loro paure e gioendo per i loro successi. Pieno di svolte, questo libro vi terrà svegli fino a che non girerete l’ultima pagina.” . –Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il killer della rosa) . IL TRAVESTIMENTO PERFETTO è il libro #10 di una nuova serie di thriller psicologici dell’autore campione d’incassi Blake Pierce, che inizia con La moglie perfetta, un bestseller numero #1 (scaricabile gratuitamente) con quasi 500 recensioni da 5 stelle.? Quando un’esigente star di Hollywood viene assassinata, Jessie deve farsi strada nel torbido mondo degli studi televisivi, tra casting director, produttori, agenti, attori rivali e un ecosistema di persone che potrebbero averla voluta uccidere. . Dopo una serie di scioccanti svolte, Jessie scopre che la verità potrebbe essere più inaspettata di quanto si pensi… Sarà in grado Jessie, ancora impegnata nella lotta contro i suoi stessi demoni, ad entrare nella mente dell’assassino e fermarlo prima che colpisca di nuovo?. Un thriller psicologico veloce e pieno di suspence, con dei personaggi indimenticabili, IL TRAVESTIMENTO PERFETTO è il libro #10 di una nuova serie che vi terrà incollati alle pagine e non permetterà quasi di andare a dormire… Il libro #11—IL SEGRETO PERFETTO— è ora disponibile!





Blake Pierce

IL TRAVESTIMENTO PERFETTO




i l   t r a v e s t i m e n t o   p e r f e t t o




(un emozionante thriller psicologico di jessie hunt—libro 10)




b l a k e   p i e r c e




edizione italiana


a cura di


Annalisa Lovat



Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore statunitense oggi campione d’incassi della serie thriller RILEY PAGE, che include diciassette. Blake Pierce è anche l’autore della serie mistery MACKENZIE WHITE che comprende quattordici libri; della serie mistery AVERY BLACK che comprende sei libri;  della serie mistery KERI LOCKE che comprende cinque libri; della serie mistery GLI INIZI DI RILEY PAIGE che comprende cinque libri; della serie mistery KATE WISE che comprende sette libri; dell’emozionante mistery psicologico CHLOE FINE che comprende sei libri; dell’emozionante serie thriller psicologico JESSIE HUNT che comprende sette libri (e altri in arrivo); della seria thriller psicologico RAGAZZA ALLA PARI, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della serie mistery ZOE PRIME, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della nuova seria thriller ADELE SHARP e della nuova serio di gialli VIAGGIO IN EUROPA.



Un avido lettore e da sempre amante dei generi mistery e thriller, Blake ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.blakepierceauthor.com (http://www.blakepierceauthor.com/) per saperne di più e restare informati.








Copyright © 2020 di Blake Pierce. Tutti i diritti riservati. A eccezione di quanto consentito dall’U.S. Copyright Act del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuitao trasmessa in alcuna forma o in alcun modo, o archiviata in un database o in un sistema di raccolta, senza previa autorizzazione dell’autore. Questo ebook è concesso in licenza esclusivamente ad uso ludico personale. Questo ebook non può essere rivenduto né ceduto ad altre persone. Se desidera condividere questo libro con un'altra persona, la preghiamo di acquistare una copia aggiuntiva per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro e non l’ha acquistato, o non è stato acquistato esclusivamente per il suo personale uso, la preghiamo di restituirlo e di acquistare la sua copia personale. La ringraziamo per il suo rispetto verso il duro lavoro svolto da questo autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, imprese, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto della fantasia dell’autore o sono usati romanzescamente. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. Immagine di copertina Copyright Gromovataya, utilizzata sotto licenza da Shutterstock.com.



LIBRI DI BLAKE PIERCE




UN GIALLO INTIMO E LEGGERO DELLA SERIE VIAGGIO IN EUROPA

DELITTO (E BAKLAVA) (Libro #1)


LA SERIE THRILLER DI ADELE SHARP

NON RESTA CHE MORIRE (Libro #1)

NON RESTA CHE SCAPPARE (Libro #2)

NON RESTA CHE NASCONDERSI (Libro #3)

NON RESTA CHE UCCIDERE (Libro #4)


THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Libro #1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Libro #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Libro #3)

IL VOLTO DELLA FOLLIA (Libro #4)


LA RAGAZZA ALLA PARI

QUASI SCOMPARSA (Libro #1)

QUASI PERDUTA (Libro #2)

QUASI MORTA (Libro #3)


I THRILLER PSICOLOGICI DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)

LA BUGIA PERFETTA (Libro #5)

IL LOOK PERFETTO (Libro #6)

LA TRESCA PERFETTA (Libro #7)

L’ALIBI PERFETTO (Libro #8)

LA VICINA PERFETTA (Libro #9)

IL TRAVESTIMENTO PERFETTO (Libro #10)


I GIALLI PSICOLOGICI DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

UN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)

RITORNA A CASA (Libro #5)

FINESTRE OSCURATE (Libro #6)


I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)

SE LEI SI NASCONDESSE (Libro #4)

SE FOSSE FUGGITA (Libro #5)

SE LEI TEMESSE (Libro #6)

SE LEI UDISSE (Libro #7)


GLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)

PERSECUZIONE (Libro #5)

FOLGORAZIONE (Libro #6)


I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)

OMICIDI CASUALI (Libro #16)

IL KILLER DI HALLOWEEN (Libro #17)


UN RACCONTO BREVE DI RILEY PAIGE


UNA LEZIONE TORMENTATA




I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)

PRIMA CHE INSEGUA (Libro #13)

PRIMA CHE FACCIA DEL MALE (Libro #14)


I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)


I MISTERI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)




CAPITOLO UNO


Chastity Ronin si mise comoda sul divano.

Aveva i suoi popcorn, il suo vino bianco e il telecomando. Premette il tasto di accensione e si tirò su la coperta fino al petto mentre alla TV partiva la sigla della sua trasmissione preferita.

Le luci erano suffuse nella stanza, mentre fuori era buio pesto: l’atmosfera giusta per guardare una sitcom leggera e dimenticarsi del suo fidanzato, Brad, che non le aveva neanche telefonato. All’età di trentaquattro anni, Chastity pensava di avere appena vinto alla lotteria dopo una serie di perdenti, fannulloni, psicopatici e, in un paio di casi, sfortunate vittime di omicidi.

Però adesso Brad sembrava essersi appena rivelato un altro buco nell’acqua, dato che quella sera le aveva tirato pacco senza neanche chiamarla. Che facesse quello che gli pareva. Chastity aveva passato ben di peggio in vita sua, e poco le importava di un altro fidanzato mancato.

Stava proprio per immergersi di brutto nel suo show, quando il suo telefono suonò. Era Brad. In parte avrebbe voluto lasciare che la chiamata andasse direttamente alla segreteria, ma decise di concedergli un’altra possibilità.

“Sarà meglio che tu abbia una buona scusa,” disse senza tanti mezzi termini subito dopo aver risposto. Per diversi secondi non ci fu alcuna reazione, ma solo un rumore che assomigliava a un respiro leggermente ansante.

“Brad? Sei tu?”

“Esci,” disse una voce roca.

“Cosa?” chiese Chastity irritata.

“Esci di casa.” Era Brad, anche se la sua voce sembrava debole e tentennante. “Lui è là dentro.”

All’improvviso si sentì un forte colpo dall’altra parte della linea e contemporaneamente anche dall’atrio di casa. Chastity si alzò per andare a vedere.

“Brad,” disse sottovoce. “Piantala di prendermi in giro. Sai cosa ho passato. Non è per niente divertente.”

“Sbrigati,” gemette Brad sommessamente. “È vicino.”

Chastity era in piedi davanti al guardaroba in ingresso. Poteva sentire che la stessa voce al telefono veniva anche da dietro la porta. Senza fermarsi a pensare troppo, tirò l’anta spalancandola, ma si trovò davanti solo cappotti. Stava per richiudere l’armadio, quando notò qualcosa che si muoveva sul pavimento. Due piedi con un paio di mocassini sbucavano da sotto i cappotti e penzolavano flosci. Il rumore che aveva sentito prima doveva essere stato generato dalle suole che avevano sbattuto contro la porta del guardaroba. Chastity spostò di lato gli appendini con le giacche. Sul pavimento davanti a lei, seduto con la schiena appoggiata alla parete dell’armadio, un coltello che gli spuntava dallo stomaco e il sangue che gli scendeva dalla bocca, c’era Brad.

“Scappa,” le disse per l’ultima volta in un rantolo, poi i suoi occhi divennero vitrei e la testa gli ricadde in avanti sul petto.

Sta succedendo un’altra volta.

Chastity represse l’istinto di gridare. Se la persona che aveva fatto questo era in casa, lei doveva uscire velocemente e in silenzio. Si era già trovata in situazioni del genere e sapeva che andare nel panico era la cosa peggiore che potesse fare.

Prese invece la prima arma che vide – un ombrello dal guardaroba – e percorse l’atrio in direzione dell’uscita. Poi si immobilizzò.

È quello che si aspetta.

Rapidamente si voltò e tornò verso il salotto, ignorando la TV mentre si affrettava a raggiungere la porta a vetri scorrevole che dava sul cortile retrostante. Le mancavano pochi passi per arrivare ad aprire la porta, quando sentì di non essere sola nella stanza. Si girò.

In piedi nell’atrio, intento a fissarla con freddi occhi scuri attraverso i buchi di un passamontagna nero, c’era il Predone. Pensava di essersi finalmente liberata dagli orrori che le aveva inflitto. Ma si sbagliava. Era tornato.

Chastity si girò di nuovo e si lanciò verso la porta a vetri, sbloccandola e aprendola. Era quasi uscita quando lui le fu addosso, facendola ruotare perché lo guardasse, le mani che le afferravano la gola, stringendo e risucchiandole la vita.

“Dannazione, Terry,” gridò esasperata. “Quante volte ti devo dire di essere più delicato? Mi vengono subito i lividi. Non riesci proprio a fare finta di strozzarmi? Si chiama recitare, cretino!”

“Stop!” gridò una voce dall’altra parte della stanza.

Il regista sospirò pesantemente. Anton Zyskowski era un polacco sulla quarantina che stava dirigendo il suo primo film in lingua inglese dopo un discreto successo ottenuto con dei thriller nel suo Paese. Era piccolo di corporatura, con i capelli radi e spettinati e un atteggiamento riservato. Mentre le si avvicinava, Corinne Weatherly gli rivolse un sorriso maligno.

Dopotutto, parte del motivo per cui Anton era stato selezionato per dirigere quel film era che, in quanto relativo neoarrivato nel sistema hollywoodiano, era in svantaggio quando si presentavano questi momenti di attrito. In quanto star di Il predone: la rinascita, ed essendo quella che aveva dato vita a Chastity Ronin, Corinne poteva rendergli la vita molto difficile se avesse deciso di farlo. Ed era quello che aveva scelto.

“Anton,” sibilò quando le fu accanto. “Che diavolo? Devo davvero recitare con questo idiota? Questa è la terza ripresa che è riuscito a rovinare malmenandomi. Voglio dire, non possiamo dare il ruolo a un qualche ritardato muscoloso? Tanto mica gli si vede la faccia.”

“Corinne,” disse Anton con diffidenza e un inglese un po’ incerto. “Sai che Terry è importante per le scene senza maschera prima che Chastity sa che lui è assassino. Ci serve un performer forte e capace. Non sarà credibile se assassino con la maschera è un attore diverso. Il pubblico si accorgerà. Ma adesso gli dico ancora di essere delicato con tuo collo.”

Corinne reagì con totale indifferenza.

“Quante volte ha bisogno di sentirselo ricordare, l’idiota?” chiese. “Giuro che sono circondata da deficienti. Pensavo che tu fossi l’Ari Aster polacco.”

Poteva vedere con la coda dell’occhio i membri dello staff che scuotevano la testa. Dietro di lei qualcuno bofonchiò qualcosa di appena comprensibile.

“Di questo passo avremo un altro esaurimento nervoso in stile Olivet.”

Corinne ruotò su se stessa, pronta a dare una bella lavata di capo anche alla malalingua. Ma prima che potesse identificare il colpevole, Anton si fece avanti.

“Corinne, per favore…” iniziò.

“Per favore un corno,” lo interruppe lei. “Ecco cosa succederà adesso. Vado nella mia roulotte a sbollire la tensione. Tu trovi qualcun altro che mi strozzi al posto di Terry Slauson, qualcuno che non mi lasci una contusione permanente alla trachea. E se non ci riesci stasera, allora dovremo andare avanti con le riprese domani. E comunque si sta facendo tardi. E mentre ci lavori, magari puoi dire al tuo staff di tenersi per sé le loro risatine e i loro commenti, almeno fino a che non me ne vado dal set. Sarò anche una stronza, Anton, ma sono la stronza protagonista. Non dimenticartelo.”

Detto questo, se ne andò in fretta e furia dalla sala di registrazione con la sua assistente Monica che le correva dietro per tenere il passo. Corinne si voltò a guardarla con espressione derisoria.

“Forse dovresti fare un po’ più di ginnastica, Monica,” la canzonò. “Così non avresti tutto questo fiatone. E poi entreresti meglio in quei pantaloni. Sembra che tieni una fetta di pane nascosta sotto alla cintura.”

Monica non disse nulla e Corinne rimase soddisfatta. La ragazza era grassoccia, ma imparava velocemente e aveva già capito le lezioni più importanti: fai quello che ti viene detto. Tieni la bocca chiusa.

Raggiunsero la roulotte di lusso di Corinne, subito dietro allo studio 32, accanto al backlot di New York, agli Sovereign Studios. Corinne aprì la porta, entrò e si voltò a guardare Monica, alzando la mano per vietarle di entrare.

“Vai a dire ad Anton che ha dieci minuti per trovare un nuovo Predone per la scena. Dopodiché io me ne vado a casa.”

“Ma signorina Weatherly,” la implorò Monica.

“L’orologio sta andando avanti,” disse Corinne mostrandole lo schermo del telefono. Poi le sbatté semplicemente la porta in faccia.

Andò alla sedia del trucco, si sedette e fissò la propria immagine nello specchio. I suoi capelli tinti di biondo apparivano sfibrati. Sotto quella luce violenta, tutte le rughe che aveva tentato disperatamente di nascondere sembravano addirittura brillare. Aveva ancora un corpo atletico, ma era sempre più difficile mantenerlo così. Erano cinque anni ormai che resisteva all’impulso di farsi rifare. Per quanto bravo potesse essere un chirurgo plastico, quando un viso appariva sul megaschermo di un cinema, era quasi sempre facile dire chi avesse richiesto un aiutino in più. Ma forse era davvero giunto il momento anche per lei.

Molto sarebbe dipeso da questo film. Se andava bene, avrebbe potuto aspettare ancora qualche anno prima di mettersi sotto al bisturi. Se invece si fosse rivelato un flop, il suo futuro prossimo prevedeva una bella dose di limatine e risistemate qua e là. Questo genere di preoccupazioni non le erano mai passate per la testa quando era ancora la nuova e ingenua ragazzina sexy di Hollywood.

Dopo aver rotto il ghiaccio più di dieci anni fa con la commedia romantica Petali e irascibilità, aveva raggiunto la tanto ambita notorietà nel Predone, il famoso thriller-horror psico-sessuale. Il suo personaggio, Chastity Ronin, era tecnicamente una vittima, ma era anche una tipa tosta che alla fine girava le carte in tavola davanti al suo stalker assassino.

Il film era un successo sia di critica che al botteghino e, sulla scia di Petali e irascibilità, l’aveva piazzata come vera star emergente. Purtroppo il sequel aveva fatto acqua. Negli undici anni che erano passati i ruoli del film erano diventati meno intriganti, e alla fine avevano perso sostanza. Recentemente si era ridotta a presentare un gioco televisivo in prima serata con bambini di talento che fingeva di trovare adorabili.

Ma poi aveva trovato quella elusiva pepita d’oro, effettivamente con un po’ di aiuto e la pressione esercitata nel modo giusto. Era in corso un rifacimento del Predone, e la regia era stata affidata a un blasonato regista di horror europeo, Zyskowski, che calzava a pennello con lo spirito fiabesco e sofisticato dell’originale. E Corinne era tornata a recitare nella parte di Chastity. Era roba potenzialmente interessante, il genere di ruolo che poteva riposizionarla in corsa, se tutto fosse andato per il verso giusto.

Ma c’era gente come Terry Slauson che stava mandando tutto all’aria. Circondata da incompetenti e con un copione che ora stava iniziando a vedere più limitato di quello che inizialmente aveva pensato, il film non le sembrava più tanto un lancio verso il successo. E anche se le piaceva avere il controllo sulle cose, stava iniziando a chiedersi se non fosse stato un errore insistere con lo studio perché assoldassero un regista che lei avrebbe potuto comandare a bacchetta. Se questo affare non fosse andato a buon fine, si sarebbe trovata ridotta a fare film per la TV nello stile di Sharknado.

Forse avrei dovuto lasciare che scegliessero qualcuno con la forza di volontà di seguire il proprio punto di vista.

Il suo momento di riflessione introspettiva venne interrotto da qualcuno che bussava alla porta.

“Chi è?” chiese con tono irritato.

Quella ragazza deve tirare fuori il carattere.

Si alzò in piedi e aprì la porta della roulotte.

“Cosa c’è?”

Sembrava che Monica fosse sul punto di mettersi a piangere.

“Anton dice che per stasera abbiamo finito. Quando ha detto a Terry che non avrebbe finito la scena, lui ha lasciato il set. L’ho sentito dire qualcosa come di un reclamo da presentare mentre se ne andava.”

“Che faccia,” ribatté Corinne. “E io presenterò reclamo per come mi ha malmenata.”

Manica annuì docilmente, chiaramente non intenzionata a mettersi a discutere.

“Anton dice che non possiamo andare avanti fino a che i produttori non risolveranno…”

“Io sono un produttore,” ribatté Corinne con tono secco.

“Penso si riferisse ai produttori dello studio, i tizi dei soldi. Ad ogni modo, ha detto che per stasera abbiamo finito. Il tuo orario di inizio domattina è le nove. Spera di aver già sistemato tutto per allora.”

“Bene. Tanto ho comunque bisogno di una bella nottata di sonno.”

Monica annuì. Era evidente che voleva dire qualcos’altro, ma aveva paura di farlo.

“Sputa il rospo,” disse Corinne irritata.

“È solo che… serve che le faccia qualcos’altro per questa sera, signorina Weatherly? Speravo di poter andare in farmacia a prendere una ricetta. Chiudono tra venti minuti.”

Corinne trattenne l’impulso di fare un commento maligno sulla potenziale natura del medicinale che le serviva. Abbassando lo sguardo, vide che la ragazza stava leggermente tremando, apparentemente terrorizzata. Per un brevissimo istante, Corinne si sentì in colpa. Voleva che Monica scattasse sull’attenti davanti ai suoi ordini, ma farla tremare di paura le fece venire in mente che forse aveva un po’ esagerato.

“Vai pure,” le disse, cercando di non apparire troppo comprensiva. “Ma mi aspetto che domani arrivi qui prima di me, con il mio caffè freddo. Ormai dovresti aver capito come mi piace, no?”

“Ho l’ordinazione già pre-compilata sulla app,” le assicurò Monica.

“Bene. Mi fa piacere che tu stia imparando.” E detto questo, le chiuse la porta in faccia prima che Monica potesse risponderle.

Sospirando pesantemente, Corinne fece una rapida tappa al bagno e poi raccolse le sue cose dal letto dalla parte opposta della roulotte.

Si rese conto che avrebbe dovuto dire a Monica di portarle la macchina dal garage. Erano cinque minuti a piedi da lì. Considerò l’idea di richiamarla, ma decise di lasciar stare, dato il discorso delle medicine. Non voleva che la ragazza crollasse a causa di un qualche patetico malanno che poteva esserle capitato, e poi trovarsi i tabloid schierati addosso a dargliene la colpa.

Spense la luce principale e si voltò per spegnare uno degli specchi per il trucco. A quel punto la vide. Scritta sul vetro in caratteri cubitali con quello che sembrava proprio il suo rossetto rosso c’era una parola. Un nome, a dire il vero. Lo riconobbe immediatamente, ovviamente. Come poteva non farlo? Negli ultimi dieci anni non era passato giorno senza che pensasse a quella persona. Ma non aveva idea di come fosse arrivato lì. Lo specchio era pulito quando prima si era soffermata a controllarsi le rughe.

Corinne si guardò attorno confusa. E poi, nell’ombra alle sue spalle, scorse del movimento, qualcuno che veniva verso di lei con una corda tesa tra le mani. Prima che potesse voltarsi o reagire, sentì la corda che le si serrava attorno al collo e stringeva. Nello specchio del trucco vide che il suo aggressore indossava un passamontagna nero, proprio come quello del Predone nella scena che avevano appena girato.

Lottò per liberarsi, ma ogni movimento sembrava solo far stringere ancora di più la corda. Cercò di inspirare una boccata d’aria, ma non gliene entrò in corpo neanche un soffio. Mentre iniziava a scivolare a terra, il cuore che batteva di paura, il cervello che le esplodeva nel panico più totale, le venne in mente un pensiero strano e inaspettato: confronto a questo, il tentativo di Terry Slauson di stringerle il collo appariva quasi tenero.

Prima di avere la possibilità di riconoscere l’ironia della sua considerazione, era già morta.




CAPITOLO DUE


Jessie Hunt mise il telefono in modalità silenziosa e si distese tranquilla a letto con gli occhi chiusi, sperando di addormentarsi subito. Dopotutto non doveva andare da nessuna parte.

Ma non servì a nulla. La sua mente stava già galoppando, nonostante i suoi migliori sforzi per farla rallentare. Era lunedì mattina. Avrebbe dovuto essere un giorno rilassante, almeno confronto a quella che era la routine in quel periodo. Non aveva incarichi per le mani. Non doveva fare fretta ad Hannah perché si preparasse per andare a scuola. Con una sola eccezione, il suo programma era esattamente quello che avrebbe voluto. Eppure si sentiva rosa dalla pressante sensazione di avere del lavoro da fare. Si mise a sedere.

Il movimento le mise il corpo in condizione di totale disagio. La spalla malandata le faceva male, probabilmente per averci inavvertitamente dormito appoggiata sopra. E la pelle ancora irritata alla base della schiena le dava una sensazione strana, come di un costante prurito che sapeva di non potersi grattare.

Guardando l’altro letto dalla parte opposta della stanza, vide che Hannah Dorsey, la sorellastra di cui era tutore a tempo pieno, era ancora addormentata e russava leggermente. Jessie si alzò e uscì in punta di piedi, percorrendo il corridoio in direzione del bagno. Vide che la porta dell’altra stanza era chiusa, il che significava che Kat era ancora addormentata o, più probabilmente, si stava vestendo e preparando per la sua giornata. Ad ogni modo, significava che il bagno era libero.

Katherine ‘Kat’ Gentry, la migliore amica di Jessie, stava ospitando lei e Hannah a casa sua mentre cercavano una nuova sistemazione. Jessie non poteva più sopportare il pensiero di vivere nel precedente condominio. Lì erano successe troppe cose orribili.

Aveva promesso a Kat che se ne sarebbero andate nel giro di un mese, e anche se erano passate solo due settimane da quando si erano trasferite lì, si sentiva addosso una certa pressione. In parte era perché si sentiva in colpa che Kat non potesse comodamente avere lì quando più le faceva comodo il suo compagno, un vice sceriffo di Arrowhead Lake che si chiamava Mitch Connor. Al momento riuscivano a vedersi solo durante i finesettimana. E ora erano stati costretti a mettere in sospeso anche quello.

Ma oltre a questo, trovare un nuovo posto con sufficiente spazio per due persone – e magari tre a un certo punto – e che offrisse tutte le misure di sicurezza necessarie, non era facile. Anche se il suo ex marito Kyle Voss non era più una minaccia, Jessie aveva ancora un sacco di altri nemici, molti dei quali avrebbero gioito di fronte a una possibilità di poterla sistemare una volta per tutte.

E poi ricordò a se stessa che c’era anche un’altra necessità. La nuova casa avrebbe dovuto essere accessibile alle persone con disabilità. Il compagno e convivente di Jessie, il detective del Dipartimento di Polizia di Los Angeles Ryan Hernandez, non era ancora per niente pronto a lasciare l’ospedale. E a dire la verità non era certa che ci sarebbe mai riuscito. Ma se un giorno l’avessero mai dimesso, avrebbe avuto bisogno di rampa per la sedia a rotelle, barre di sicurezza e tutte le attrezzature a cui lei neanche aveva ancora iniziato a pensare.

Jessie si diede un’occhiata nello specchio prima di lavarsi la faccia. Non aveva l’aspetto rilassato di una donna nel suo giorno libero. Le borse scure sotto ai suoi luminosi occhi verdi erano meno evidenti, ma il rossore attorno alle iridi lasciava comunque intendere una certa mancanza si sonno. I capelli castani che le arrivavano alle spalle non erano raccolti nella sua solita coda, ma apparivano sfibrati come si sentiva lei stessa. Così china sul lavandino, la sua figura atletica di un metro e ottanta appariva molto più minuta. Addirittura gli zigomi ben delineati sembravano meno pronunciati del solito. Aveva compiuto trent’anni da poco, ma questa mattina si sentiva più vecchia di un decennio.

Finì di lavarsi e uscì dal bagno, dove trovò Kat che aspettava con pazienza. L’amica era vestita in modo casual con un paio di jeans e una maglietta larga che copriva il suo fisico ben tornito. Anche se non era più un ranger dell’esercito, né il capo della sicurezza in un penitenziario psichiatrico, aveva sempre l’aspetto di qualcuno che era meglio non fare arrabbiare. Era probabilmente una buona cosa, perché la sua nuova professione di detective privata le forniva ancora qualche opportunità di ficcarsi in delle scaramucce di tanto in tanto.

“È tanto che aspetti?” le chiese Jessie con tono colpevole.

“Un paio di minuti,” la rassicurò Kat. “Non ho fretta. Mi devo solo dare una spazzolata ai capelli. Il caffè è quasi pronto se ne vuoi un po’.”

“Grazie. Potrebbe tornarmi utile.”

“Un’altra nottataccia?” chiese Kat comprensiva, ben consapevole delle recenti traversie vissute da Jessie.

Lei annuì.

“Questa volta non ricordo gli incubi nel dettaglio, ma ho ancora delle immagini che mi fluttuano nella testa.”

“Vuoi parlarne?” le chiese Kat con delicatezza.

Jessie era dibattuta se farlo o meno. Era preoccupata che, parlando dei suoi brutti sogni, avrebbe dato loro maggiore potere. Ma tenersi tutto dentro, come aveva spesso fatto in passato, non le aveva comunque giovato molto. Alla fine decise di scegliere il versante della confidenzialità.

“È sempre la stessa roba. Vedo Kyle che strangola Garland Moses fino a ucciderlo in quella casa sulla spiaggia. Lo vedo piantare in coltello nel petto di Ryan. Vedo me stessa mentre presto a Ryan i primi soccorsi, fino a che non riesco più a muovere le braccia. Poi passo a Kyle che sbatte Hannah sul divano e lei che si accascia. Rivivo la sensazione di soffocare Kyle, il piacere di sentire la sua trachea che si spezza. Sai, roba divertente di questo tipo.”

Kat rimase in silenzio un momento. Jessie capì che stava pensando a come rispondere. L’amica di certo sapeva come funzionava l’elaborazione dei traumi. Aveva visto buona parte della sua squadra che saltava in aria a causa di una bomba mentre prestava servizio in Afghanistan. L’incidente l’aveva lasciata con ricorrenti mal di testa e una lunga cicatrice verticale che le segnava il volto a partire dall’occhio sinistro. Jessie ancora non conosceva i dettagli di quello che era accaduto quel giorno.

“Vedi ancora la dottoressa Lemmon?” le chiese Kat alla fine, riferendosi alla terapeuta di Jessie, che la stava accompagnando ormai da anni attraverso innumerevoli odissee.

“Sia io che Hannah ci andiamo regolarmente,” confermò Jessie. “In effetti, l’ho vista proprio venerdì scorso.”

“Ti ha dato qualche consiglio speciale?” chiese Kat.

“Certo, come al solito: non tenerti tutto dentro. Parlane, ma senza piangerti addosso. Tieniti occupata. Fai movimento per quanto ti permettono le tue ferite.”

Il riferimento era tanto alla spalla sinistra slogata che si era procurata nel combattimento letale contro Kyle e alle ustioni alla schiena derivate dal salvataggio di una donna da una casa in fiamme con un serial killer all’interno.

“E quanto ti permettono?” chiese Kat.

“Quello che mi concede la mia soglia del dolore. Le ustioni non sono più così terribili. Il medico dice che stanno guarendo bene e che dovrei riuscire a togliere le bende tra una settimana o giù di lì. La spalla fa ancora male, ma almeno non devo più tenere il braccio al collo. Ma dovrei andare a fare fisioterapia per altre due-quattro settimane.”

“Beh, almeno non avrai nessuna distrazione professionale a complicarti gli appuntamenti,” disse Kat con tono ottimista. “Questo è il tuo primo giorno ufficiale da disoccupata, giusto?”

Jessie annuì. Era tecnicamente vero. Lo scorso venerdì era stato il suo ultimo giorno di lavoro come profiler criminale al Dipartimento di polizia di Los Angeles, e ultimamente non aveva lavorato poi tanto. Aveva dato il suo preavviso, con grande delusione del suo capitano, ormai due settimane prima.

Nonostante l’avesse implorata che si prendesse un periodo sabbatico e vedesse come si sarebbe sentita alla fine, Jessie era stata irremovibile. Aveva bisogno di liberarsi dalla spirale di violenza che aveva dominato la sua vita professionale e personale negli ultimi anni. E poi, girare per gli stessi uffici dove era stata abituata a vedere Garland ogni giorno non faceva che rigirarle il coltello nella piaga.

A causa delle sue ferite, dell’ospedalizzazione di Ryan, dell’aiuto nella risoluzione dei casi di Garland, del trasloco e del prendersi cura di Hannah, alla fine era stata in ufficio solo due volte. L’ultima era stata venerdì, quando aveva ripulito la sua scrivania.

“Spero che la disoccupazione sia temporanea,” disse Jessie. “Ho dei colloqui in lista in diverse università la prossima settimana per discutere dei posti da insegnante in autunno. Nel frattempo sto abbracciando la possibilità di non avere una lista di cose da fare così grande.”

Nessuna delle due fece cenno al motivo principale per cui non serviva avere tanta fretta per cercare un lavoro. Il suo divorzio da Kyle era stato redditizio. Prima della sua condanna, l’ex marito aveva contribuito a un ricco fondo di gestione, quindi Jessie avrebbe comunque guadagnato bene da un normale divorzio. Ma il fatto che Kyle avesse tentato di incastrarla per l’omicidio che lui aveva commesso e avesse poi cercato di ucciderla, aveva facilitato ancora di più le cose.

Inoltre, Jessie aveva anche ricevuto una generosa eredità dai suoi genitori adottivi, che erano stati assassinati dal suo padre serial killer qualche anno prima. L’avvocato di Garland le aveva anche detto di aspettarsi un sostanzioso regalo quando il testamento del suo mentore sarebbe stato letto alla fine di quella settimana. Jessie si sentiva in colpa a vivere in maniera così agiata come risultato di tanto dolore e sofferenza. Ma con Hannah di cui prendersi cura, le spese mediche che si sommavano e le misure di sicurezza di cui aveva bisogno in casa, ormai aveva accettato la cosa.

Prima che potesse spiegare più a fondo le sue prospettive future, la porta della sua camera si aprì. Ne venne fuori una Hannah dagli occhi assonnati, con indosso slip e canotta e i capelli tutti arruffati.

“È il tuo ritratto,” disse Kat sarcasticamente.

Nonostante la battuta, Jessie non poteva negare che fosse vero. Anche senza i due centimetri di altezza che le donavano i capelli scompigliati, Hannah era già quasi alta quanto Jessie. E tutte e due avevano la stessa corporatura slanciata e atletica. E quando finalmente aprì gli occhi del tutto, mostrò loro lo stesso sguardo tinto di verde che anche lei aveva.

“Come va, bella addormentata?” le chiese Jessie.

“Programmi interessanti per oggi, principessa?” aggiunse Kat.

Hannah le guardò tutte e due in cagnesco, poi entrò in bagno e chiuse la porta senza dire una parola.

“Che cara ragazza,” disse Kat con tono asciutto.

“Sempre un raggio di sole,” confermò Jessie con ironia. “È di malumore perché la pausa estiva è quasi finita. La prossima settimana deve andare a scuola, e la cosa non la rende per niente contenta.”

“Solo una settimana ancora per starsene a ciondolare senza fare niente,” sottolineò Kat. “Povera piccola. Mi piacerebbe avere lo stesso programma.”

“Qual è il tuo programma per oggi?” chiese Jessie.

“Niente di entusiasmante: questa mattina devo rivedere dei documenti. Poi c’è una coppia di ricconi che vuole che scopra cosa sta combinando loro figlio. Non sono Philip Marlowe.”

“Ti serve aiuto? Potrei dare un occhio ai documenti e…”

“No, signora,” la interruppe Kat. “Tu devi concedere una pausa sial al tuo corpo che al tuo cervello. Fai una passeggiata. Vediti un brutto film. Quello che ti pare, ma niente lavoro.”

Jessie stava per rispondere quando il suo telefono suonò. Ormai conosceva molto bene il numero. Rispose immediatamente.

“Pronto, sono Jessie Hunt.”

“Salve, signorina Hunt. Sono l’infermiera Janelle della terapia intensiva al Centro Medico. Il dottor Badalia avrebbe piacere di fare due parole con lei. Quando sarebbe disponibile?”

“Posso essere lì tra quindici minuti,” disse Jessie, poi riagganciò.

Guardò Kat, che sembrava aver capito quello che stava succedendo.

“Vestiti,” le disse l’amica. “Io ti verso una tazza di caffè e ti preparo un toast. In cinque minuti puoi essere fuori di qui.”

“E Hannah?”

“Non preoccuparti per lei. Questa mattina la tengo d’occhio io. Quando me ne vado, le può fare da babysitter Instagram.”

Jessie era già a metà del corridoio, diretta verso camera sua quando gridò all’amica un sonoro “Grazie!”




CAPITOLO TRE


La stanza d’ospedale dove si trovava Ryan era mantenuta buia e fresca. Il sibilo del respiratore aveva un ritmo regolare. Sarebbe stato quasi calmante se Jessie avesse potuto dimenticare il motivo per cui si trovava lì. L’infermiera le aveva detto che il dottor Badalia sarebbe arrivato presto. Mentre lo aspettava, osservava Ryan.

Sembrava stare meglio del solito. Il suo colorito non era pallido come alla sua ultima visita e la pelle sembrava meno cerea. Se socchiudeva gli occhi, poteva immaginare che stesse semplicemente dormendo. Mostrava ancora un bell’aspetto: con il lenzuolo che lo copriva fino al collo, era impossibile immaginare che il corpo che aveva sempre mantenuto in ottima forma avesse già iniziato ad atrofizzarsi.

Ma era solo un’illusione. Solo due settimane fa, Ryan Hernandez era stato il migliore detective della Sezione Speciale Omicidi (HSS) per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles, che indagava casi di alto profilo o con intenso scrutinio da parte dei media, spesso con più vittime e con l’operato di serial killer. Ora si trovava in un letto di ospedale, indifeso, pugnalato al petto dall’ex-marito di Jessie nella loro stessa casa. Era un pensiero troppo grosso da sostenere e Jessie cacciò il ricordo dalla mente.

Il dottor Badalia apparve sulla porta e Jessie si alzò in piedi per andargli incontro in corridoio. Era un uomo alto e magro che andava verso i quarant’anni, con un’espressione costantemente severa, per cui ogni volta era difficile capire se fosse in procinto di dare buone o cattive notizie.

“Grazie per essere venuta, signorina Hunt,” le disse con gentilezza.

“Ci mancherebbe. Ci sono aggiornamenti?”

“Sì. Come ricorda, abbiamo sollevato Ryan dal coma indotto la scorsa settimana. Ieri notte per la prima volta ha mostrato una leggera reattività agli stimoli. Quindi abbiamo ridotto leggermente la sedazione per vedere se fosse sostituibile. È riuscito ad aprire gli occhi e a rispondere a qualche domanda ‘sì’ o ‘no’ sbattendo le palpebre. Siamo stati in grado di spiegargli brevemente la sua situazione, perché si trovi attaccato a un respiratore e così via.”

Jessie non riuscì a parlare subito. L’emozione del momento la colpì in maniera inaspettata e le si formò un nodo in gola. Solo allora si rese conto di quanto in quelle settimane avesse trattenuto l’ansia e il timore. Quello che era appena trapelato nel suo stato cosciente quando si era trovata stanca o frustrata, ora esplose.

“Dice sul serio?” disse. “È fantastico. Perché non mi avete chiamata?”

“Era piuttosto tardi, dopo la mezzanotte. E a essere onesto, lo sforzo sembra averlo distrutto. Dopo circa sei minuti è crollato.”

“Oh. E questa mattina? Si è svegliato oggi?”

“Abbiamo effettivamente diminuito il livello del sedativo circa un’ora fa, nella speranza di provare di nuovo. Per questo motivo l’ho fatta chiamare. Spero che se riprenderà conoscenza e lei è qui, magari potrebbe comunicare un po’ di più.”

“Certo,” disse Jessie. “Quanto ci vorrà?”

Il dottor Badalia guardò nella stanza.

“Che ne dice di adesso?” le propose. “Pare che stia tentando di svegliarsi mentre parliamo.”

Jessie si voltò e vide che effettivamente Ryan stava cercando di aprire gli occhi. Sembrava una lotta, come se le palpebre fossero incollate e lui stesse tentando di aprirle con tutta la sua forza di volontà. E sembrava pian piano funzionare. Tornarono nella stanza.

“Ryan,” disse il dottor Badalia. “C’è una persona che è venuta a trovarti.”

Con gli occhi socchiusi, Ryan guardò Jessie che attraversava la stanza e andava verso di lui per poi prendergli la mano destra.

“Ehi, tesoro,” sussurrò. “È bello vederti sveglio. Puoi sentirmi?”

Sembrava stesse tentando di annuire. Ma che fosse per l’enorme tubo che aveva in bocca o per mancanza di forza, non ci riusciva.

“Un colpo di ciglia per sì e due per no,” gli ricordò il dottor Badalia.

Ryan batté le palpebre una volta. Jessie diede un colpo di tosse per mascherare il singhiozzo di gioia che le era salito alla gola.

“So che la situazione è pesante,” gli disse. “Ma ti tireremo fuori di qui. Ci vorrà solo un po’ di pazienza, ok?”

Ryan batté ancora le palpebre. Il dottor Badalia si avvicinò.

“Ryan, avresti voglia di provare un piccolo esercizio?”

Annuì con un battito.

Jessie si sentì leggermente irritata. Aveva sperato di avere un po’ di tempo per parlare privatamente con Ryan. Ma mise da parte il disappunto. L’esercizio era di certo più importante. Il dottor Badalia continuò.

“Chiederò a Jessie di posare il suo palmo sotto al tuo. Poi ti chiederò di alzare un dito specifico. Ti sembra ok?”

Ryan batté le palpebre. Jessie gli lasciò andare la mano e posò la propria sul materasso con il palmo rivolto verso l’alto. Poi vi mise sopra quella di Ryan. Lo guardò e sorrise. Lui rispose socchiudendo un poco gli occhi, segno che stava tentando di ricambiare il sorriso.

“Vorrei che provassi a sollevare il dito indice. Ci riesci?”

Dopo quella che parve una pausa interminabile, Ryan sollevò leggermente il dito, per poi riappoggiarlo subito.

“Fantastico, Ryan. Ora pensi di poter fare lo stesso con il mignolo?”

Ryan strizzò gli occhi e Jessie sentì il suo palmo che premeva debolmente contro la sua mano, mentre riusciva ad alzare di un millimetro il dito, prima di abbandonarlo di nuovo giù.

“Stai andando davvero molto bene, Ryan,” gli assicurò il dottor Badalia. “Possiamo provare un altro esercizio?”

Ryan sbatté le palpebre.

“Ok, questo è un po’ più difficile. Vorrei che provassi a piegare tutte le dita della mano, in modo da formare un pugno. Quando te la senti.”

Jessie sentì la mano di Ryan che tremava leggermente nello sforzo di piegare le dita per chiuderle in un pugno. Ma non successe nulla. Ryan strizzava gli occhi, chiaramente sotto sforzo. Uno dei monitor che si trovavano a lato iniziò a suonare con ritmo più accelerato.

“Va bene così, Ryan,” disse il dottor Badalia con tono calmante. “Hai dimostrato un grosso sforzo. Arriverà a suo tempo. adesso prenditi una pausa.”

Ma Ryan chiaramente non aveva intenzione di fermarsi. Teneva ancora gli occhi chiusi e il suo palmo stava vibrando sopra alla mano aperta di Jessie. Di colpo aprì gli occhi e Jessie vide che era furioso per la frustrazione. Il segnale acustico del macchinario stava accelerando ancora.

“Ok, Ryan,” disse il dottor Badalia, la voce ancora calma mentre si avvicinava al macchinario. “Pare che ti stai agitando un po’. Quindi ti darò una leggera dose di sedativo per aiutarti a dormire.”

Gli occhi di Ryan scattarono verso Jessie. Lui parve andare nel panico, come se la stesse silenziosamente implorando di non permetterlo.

“Va tutto bene tesoro,” gli disse lei, cercando di nascondere l’angoscia che provava dentro. “C’è solo bisogno di tempo. Riposati un po’. Possiamo riprovarci dopo.”

Lui batté le palpebre due volte, fece una pausa e poi provò di nuovo. E poi ancora. Solo al quarto disperato tentativo di dirle che non voleva essere sedato, il farmaco iniziò a fare effetto. I movimenti delle palpebre rallentarono e poi si fermarono del tutto. Gli occhi rimasero chiusi.

Jessie guardò il dottore mentre si asciugava le lacrime.

“Parliamo fuori,” le disse lui con tono cortese. “Non si sa mai quanto possano sentire.”

Jessie lo seguì lungo il corridoio, fino alla sala d’attesa, dove entrambi si sedettero.

“Come se la sta cavando?” le chiese.

“Tiro avanti,” rispose lei rapidamente. “Non serve che mi tiri su il morale o che tenti di indorare la pillola, dottore. Mi dica semplicemente a che punto siamo.”

“Ok. Quello che abbiamo appena visto è promettente. So che Ryan alla fine è rimasto frustrato. Ma avere anche una minima mobilità a questo punto, considerato quello che ha passato, è un segno positivo. Detto questo, ha davanti a sé una strada lunga e difficile. Anche se non ci sono danni a lungo termine, solo il fatto di restare allettato e attaccato a un respiratore artificiale per così tanto tempo può essere debilitante. Avrà bisogno di un sacco di terapia fisica per riacquistare le funzioni motorie di base. Camminare sarà una sfida enorme. Potrebbero volerci mesi. E oltre a questo potrebbe ritrovarsi con danni permanenti alle corde vocali.”

Jessie sospirò ma non disse nulla, quindi il dottor Badalia proseguì.

“Questo è lo scenario migliore che possiamo aspettarci. Ma deve prepararsi anche ad altri risvolti. Potrebbe accusare altri danni che ancora non siamo in grado di accertare.”

“Tipo che cosa?”

“Tipo dei danni al sistema nervoso causati dalla ferita del coltello. E potrebbero anche esserci danni permanenti ai polmoni. Alcune persone si riprendono del tutto da cose del genere. Altre richiedono assistenza costante: bombole di ossigeno, tubi per respirare, cose del genere. E c’è sempre la possibilità che abbia sofferto dei danni cerebrali.”

Jessie lo guardò stupefatta. Era la prima volta che le dicevano una cosa del genere.

“Ha notato segni che possano indicare una cosa simile?”

“A questo punto è ancora troppo presto per dirlo. So che lei ha prestato le prime misure di soccorso dopo che è stato aggredito, ma c’è stato un certo tempo durante il quale ha avuto accesso limitato all’ossigeno. Le sue reazioni di ieri notte e di adesso si mostrano promettenti. Sembrava capire quello che stavamo dicendo, reagendo di conseguenza. Ma gli abbiamo fatto delle domande facili e gli abbiamo chiesto di eseguire dei compiti semplici. Ci vorrà un po’ per poter testare possibili perdite di memoria o danni alle funzioni principali del cervello.”

“Perdite di memoria?” ripeté Jessie. I colpi continuavano a succedersi.

“Sì. A volte le ferite da trauma, il coma indotto o la privazione di ossigeno possono portare a perdita della memoria a breve termine o addirittura permanente. Lui ha subito tutte e tre le situazioni, quindi non possiamo escluderlo.”

Jessie rimase seduta in silenzio, cercando di elaborare tutte le terribili notizie.

“Senta, mia ha chiesto di non indorarle la pillola, e così ho fatto. Ma nessuno di questi risultati è assicurato. Potrebbe tornare in piena forma e come nuovo in un tempo che va da otto a dodici mesi.”

“Oppure?” insistette Jessie, con la netta sensazione che non fosse finita lì.

“Oppure potrebbe avere bisogno di cure costanti e permanenti in una struttura di degenza a lungo termine. E rimane sempre la possibilità che torni indietro e ci porti ad affrontare lo scenario peggiore. Attualmente ci troviamo in un momento molto labile.”

“Wow,” disse Jessie, scuotendo la testa incredula. “Sono riuscita a tenergli la mano e a guardarlo negli occhi. Diciamo che non pensavo che le cose prendessero una svolta così negativa.”

Rimasero entrambi in silenzio per un momento.

“Signorina Hunt, posso darle un piccolo consiglio?”

Jessie sollevò lo sguardo. Il volto normalmente severo del medico si era leggermente ammorbidito.

“Certo.”

“So qual è il suo lavoro, quindi so che è abituata a lavorare in modo metodico sulle problematiche che le si presentano, trovandosi sempre con un certo livello di controllo sulla situazione. In quanto medico, anch’io conosco quella sensazione. Ma la verità è che in questo caso il controllo che abbiamo è davvero minimo. Lei può venire qui, dargli sostegno e comunicare a Ryan tutto il suo amore e la sua presenza. Ma a questo stadio del processo, non le farà bene preoccuparsi di ciò che potrebbe accadere. È fuori dal suo controllo. E tutta la preoccupazione non farebbe che stancarla, impedendole di essere qui per Ryan nel modo in cui lui ne ha bisogno.

“Quindi ecco il mio consiglio: quando sta con lui, sia pienamente presente in quel momento. Ma quando non è qui, faccia la sua vita. Esca con gli amici. Si beva un bicchiere di vino. Faccia una passeggiata. E non si senta in colpa per questo. Quei momenti di stacco la aiuteranno ad avere la forza per essere presente per lui quando ne avrà davvero bisogno. Nella mia esperienza, prendersi cura di sé è davvero il modo migliore per prendersi cura degli altri.”

Le sorrise, quasi con calore.

“Grazie, dottore,” gli rispose Jessie.

“Si figuri. Ora devo andare, ma mi farò sentire.”

Detto questo, se ne andò dalla sala d’aspetto. Jessie rimase ferma lì, guardandosi attorno con occhi assenti. C’erano cinque o sei altre persone, tutte con la stessa espressione attonita che era certa di avere anche lei. Si chiese per un secondo quale orrore personale li avesse portati lì. C’era qualcuno di loro che nel corso della stessa settimana aveva perso il suo mentore e poi quasi anche la propria anima gemella? Prima di poterci rimuginare sopra di più, il suo telefono suonò. Era il capitano Decker, il suo capo fino a tre giorni prima. Rifiutò la chiamata e si alzò per andare verso il parcheggio.

Stava entrando in auto quando le arrivò la notifica di un messaggio in segreteria. Era tentata di cancellarlo senza ascoltare, ma non riuscì a farlo. Sarebbe stato fortemente maleducato, e poi in parte era curiosa di sapere cosa volesse da lei. Si mise in ascolto.

“Ciao Hunt. Spero tu stia bene. Ho in programma di passare in ospedale oggi pomeriggio per fare una visita a Hernandez. Ho sentito che si è svegliato per qualche minuto ieri notte. È una cosa positiva. Ma non è il solo motivo per cui ti chiamo. So che ci hai lasciati appena venerdì e mi scuso se mi permetto anche solo di chiedertelo, ma ho bisogno del tuo aiuto. Mi è appena capitato per le mani un caso enorme, incredibilmente di alto profilo. In condizioni normali lo avrei assegnato a Hernandez. Ma dato che non è disponibile, lo dirotterò su Trembley, che non ha mai avuto un caso così imponente. E il dipartimento scarseggia in maniera impressionante di profiler qualificati, senza te e senza, beh… Moses. Se potessi darmi una mano con questa cosa, anche solo a livello di consulenza, te ne sarei eternamente grato. Fammi sapere.”

Jessie cancellò il messaggio, mise via il telefono e uscì dal parcheggio.

Le dispiaceva per Decker, ma ci sarebbe sempre stato un grosso caso da risolvere. Per la propria salute mentale, lei aveva smesso di occuparsene.

E poi adesso aveva un altro compito su cui concentrarsi, un compito che temeva da un po’.




CAPITOLO QUATTRO


Hannah aveva deciso. C’era qualcosa che non andava in lei.

Era in stallo da un po’, distesa a letto, impegnata nel tentativo di ignorare il pensiero, riflettendo invece su come trascorrere la sua ultima settimana di vacanza prima di andare ai corsi estivi per recuperare tutto quello che si era persa durante il terzo anno. Non c’erano bei film da vedere. La spiaggia era troppo distante dall’appartamento di Kat, che si trovava in centro. E poi lei comunque non aveva la macchina. Tutti i suoi vecchi amici, quelli con cui aveva ormai perso i contatti, vivevano nella San Fernando Valley. E non se ne era fatti di nuovi da quando la sua vita si era trasformata in un continuo ammonimento.

Ma nonostante i tentativi per tenere occupato il cervello, i suoi pensieri continuavano a tornare alla conclusione che aveva raggiunto. Alla fine decise di guardare di nuovo la pagina web. Quella sezione del sito della Mayo Clinic era specifica per il disordine antisociale della personalità, o sociopatia. Lo descrivevano come un disordine mentale ‘in cui una persona mostra costante indifferenza per ciò che è giusto o sbagliato e ignora i diritti e i sentimenti degli altri.’ Diceva anche che ‘tendono a opporsi, manipolare o trattare gli altri in modo duro o con spietata indifferenza. Non mostrano colpa o rimorso per il loro comportamento.’

Suona familiare.

Ancora prima che la dottoressa Lemmon iniziasse a farle domande in quel senso durante le loro sedute di terapia, Hannah si era chiesta perché le venisse da comportarsi in certi modi. Perché aveva reagito all’omicidio dei suoi genitori adottivi più con curiosità che con orrore? Perché la vista di un serial killer che ammazzava brutalmente un uomo davanti ai suoi occhi, per tentare poi di farle fare lo stesso, non l’aveva riempita della repulsione che si sarebbe aspettata? Perché l’assassinio di Garland Moses, un uomo che era stato dolce e gentile con lei, non le aveva lasciato addosso altre sensazioni se non un generale senso di nostalgia per la sua assenza?

Poi l’ultima domanda, quella che la disturbava di più, le si ripresentò nella mente. Come si sarebbe sentita se fosse successo qualcosa a Jessie: la sua sorellastra, la persona che si era assunta la sua tutela e protezione? Ovviamente avrebbe provato ‘tristezza’. Ma sarebbe stata per la mancanza di una persona che le aveva reso la vita più facile e più stabile? Avrebbe compianto la scomparsa della cara estinta o si sarebbe sentita disturbata solo perché la sua vita sarebbe diventata più difficile?

C’è davvero qualcosa che non va in me?

Decise di scoprirlo. Aveva seguito abbastanza corsi di scienza da capire la regola di base: ogni teoria andava testata per poter essere validata o smentita. Ma com’era meglio procedere?

Sentì bussare alla porta e Kat fece capolino con la testa dalla soglia.

“Che combini?” le chiese con tono informale.

“Oh, sto solo controllando i requisiti per i corsi quest’estate, così da non avere sorprese quando inizio scuola la prossima settimana,” mentì.

“Ok,” disse Kat, apparentemente soddisfatta. “Devo uscire per un caso. Sei a posto qui da sola per un po’?”

“Nessun problema. Probabilmente mi guarderò un po’ di TV. Oppure darò un occhio a cosa c’è di infiammabile nel tuo appartamento.”

Kat mandò giù qualsiasi commento le fosse passato per la testa.

“Mi pare bene,” si limitò a rispondere. “Ci vediamo dopo.”

Kat richiuse la porta, lasciandola con i suoi pensieri.

È stato facile.

Aveva mentito con facilità e senza il minimo problema.

È normale?

Decise quindi che sarebbe stata necessaria qualche sperimentazione più formale. Prima di poter determinare se i suoi limiti fossero normali, doveva scoprire quali fossero tali limiti.

Chissà se mi diranno che sono brava.


*

Jessie era in attesa.

Stava seduta nella sua auto da dieci minuti davanti alla pittoresca casa a un piano in stile anni Cinquanta dove aveva vissuto Garland Moses. Alla fine, con riluttanza, smontò dall’auto e andò alla porta. Erano giorni che stava evitando questa incombenza.

Garland Moses, il suo mentore e amico, che era stato assassinato dal suo ex-marito assetato di vendetta, aveva solo una parente in vita. Sua nipote era una donna mediamente piacevole che Jessie aveva conosciuto al suo funerale. Ma lei e Garland non erano stati in contatto e la giovane era venuta a Los Angeles solo per dargli il suo ultimo saluto.

Non era interessata a fare la cernita dei suoi effetti personali o a gestire l’immobile. Quindi aveva chiesto a Jessie di farlo, perché sapeva che gli era stata amica. Jessie aveva accettato senza entusiasmo e più per senso di dovere nei confronti dell’uomo che le aveva insegnato come diventare una profiler criminale e un essere umano in gamba.

Ma mentre stava all’ingresso della casa, preparandosi ad eseguire le elaborate misure di sicurezza per poter entrare, provò un forte impulso a mollare tutto. L’ultima cosa che voleva fare dopo aver fatto visita al suo compagno infermo e con potenziali danni cerebrali era di mettersi a rovistare tra le cose personali di un uomo che sostanzialmente era morto perché la conosceva.

Basta storie. Ti sei presa un impegno. Mantienilo.

Scuotendo la testa frustrata, Jessie salì i gradini portandosi davanti alla porta della piccola ma ordinata casa di Garland. Dopodiché seguì le dettagliate istruzioni che l’avvocato le aveva dato prima della sua visita lì.

Digitò un codice di sei cifre sul tastierino accanto al campanello. Un coperchio metallico si sollevò, mostrando un piccolo dispositivo di scansione. Jessie si chinò leggermente in avanti e lo strumento scansionò i suoi occhi. Poi posò la mano su una lastra di vetro sotto allo scanner e aspettò che le leggesse le impronte digitali. Dopodiché sussurrò le parole ‘Caffetteria Nickel Diner’ in un microfono. A quel punto, la serratura della porta scattò.

Jessie entrò e si guardò attorno. Aveva discusso con l’avvocato di Garland e avevano concordato che la casa sarebbe stata venduta secondo il valore di mercato. L’arredamento sarebbe stato donato a diverse associazioni benefiche della zona.

Doveva solo dare un’occhiata alle sue carte e agli oggetti personali. Era comunque un compito sconsolante. L’ultima volta che era venuta qui, una settimana fa, aveva scoperto che Garland aveva tenuto un registro di tutti i casi che aveva gestito, sia all’FBI che più tardi come consulente al Dipartimento di Polizia di Los Angeles. C’erano un sacco di scatoloni, con documenti che per la maggiore non erano stati convertiti in file digitali.

C’era qualche eccezione. Nella sua cassaforte c’erano delle chiavette con materiale su una ventina abbondante di casi irrisolti, casi che sicuramente ancora lo turbavano. C’era però solo un caso per cui tutto il materiale, sia cartaceo che digitale, era conservato all’interno di una cassetta di sicurezza dentro alla cassaforte. Era il caso del Cacciatore della Notte.

Jessie lo conosceva bene. Il caso veniva insegnato all’FBI e ovunque nei dipartimenti di polizia. Il Cacciatore della Notte era un noto serial killer che aveva ucciso e smembrato oltre cinquanta persone lungo la East Coast negli anni Novanta, prima che Garland gli mettesse i bastoni tra le ruote. Purtroppo il Cacciatore della Notte aveva avuto la meglio, catturando e torturando Garland per due giorni, prima che il profiler fosse capace di liberarsi e usare il machete stesso dell’assassino contro di lui. L’uomo però era poi scappato scomparendo nella notte.

Dato che la sua identità non era mai stata determinata e non c’erano stati altri omicidi dopo quella volta che potessero essere collegati al modus operandi del Cacciatore della Notte, la maggior parte della gente riteneva che fosse morto per le ferite. Ma chiaramente Garland non la pensava allo stesso modo. Non aveva mai parlato a Jessie del caso, ma i suoi ultimi appunti al riguardo risalivano ad appena tre mesi prima, suggerendo la sua convinzione che l’uomo fosse ancora in circolazione. Jessie decise che non avrebbe gettato via quel materiale.

Si sedette alla scrivania di Garland, immaginando quante volte doveva essersi messo comodo anche lui sulla sua poltrona di pelle per lavorare a un caso. Improvvisamente si sentì travolta da un’inaspettata ondata di emozione.

Dopo il funerale, aveva frenato il più possibile i pensieri di Garland quando tentavano di fare capolino nella sua mente. Le procuravano troppo dolore. Il padre naturale di Jessie era stato un serial killer che era scomparso dopo aver assassinato sua madre quando lei aveva sei anni. I suoi genitori adottivi erano stati uccisi dallo stesso padre serial killer solo pochi anni fa. E ora anche la persona per lei più vicina a una figura paterna era scomparsa, sempre per mano di qualcuno di cui lei avrebbe dovuto potersi fidare.

Cacciò i pensieri e i ricordi di come Garland aveva lasciato questo mondo e si concentrò su come vi aveva vissuto. Un profilo in un giornale aveva calcolato che Garland Moses aveva catturato 1.200 assassini nella sua carriera, inclusi più di cento serial killer. E questo solo sulla base di quanto riportavano i registri pubblici.

Ma la sua vita non era stata definita esclusivamente dai casi che aveva risolto. Jessie era più propensa a ricordare altri momenti meno celebri. I suoi pensieri divagarono alle colazioni insieme a lui al Nickel Diner – l’origine della password per aprire la porta di casa sua – a pochi isolati dalla centrale di polizia dove entrambi lavoravano.

Ricordò come Garland fosse stato capace di far sorridere Hannah, indipendentemente da quanto lei sembrasse di cattivo umore. Era un uomo che proiettava l’idea di essere rude e distaccato, ma sia lei che Hannah aveva capito che si trattava di una facciata che usava per nascondere un’identità incredibilmente dolce. Jessie mise insieme una miriade di ricordi di tutte le volte che l’aveva sostenuta, esprimendo fiducia nelle sue capacità, anche quando lei stessa ne dubitava.

Sentendo le lacrime che le salivano agli occhi, Jessie allungò una mano per prendere un fazzoletto dalla scatola sopra alla scrivania. Mentre si tamponava gli occhi, scorse una cosa che era sfuggita alla sua attenzione l’ultima volta che era stata lì. Era un piccolo fermacarte di metallo a forma di tazza. Sopra c’era una piccola iscrizione. Jessie prese in mano l’oggetto e lo ruotò sotto alla luce per leggere meglio la scritta. Le parole le erano familiari, ma non si sarebbe mai aspettata di trovarle sulla scrivania di un uomo così materiale come sembrava essere Garland Moses. Dicevano:

Chiunque uccida una vita, uccide il mondo intero, e chiunque salvi una vita, salva il mondo intero.

Jessie fissò l’iscrizione a lungo. Anche se non l’aveva mai detto a voce alta, era chiaro che, nel suo modo burbero e senza tante pretese, quella era stata la sua massima. L’aveva sempre seguita, anche se non l’aveva mai declamata a voce alta. Jessie si chiese cosa avrebbe pensato di lei che cancellava il messaggio vocale del capitano Decker. Avrebbe scosso la testa leggermente deluso? Cos’avrebbe detto Ryan se avesse potuto parlare?

Prima di capire ciò che stava facendo, Jessie aveva già preso il suo telefono e stava componendo il numero di Decker.




CAPITOLO CINQUE


Jessie vide subito che la gente era stupita di vederla.

Mentre attraversava la sala principale della centrale, diretta verso l’ufficio di Decker, le parve di scorgere anche qualche occhiataccia. Finse di non accorgersene.

Quando aveva lasciato il dipartimento, era stata scagionata dall’accusa di aver postato dei commenti razzisti su Facebook. Le prove mostravano che il suo account, che usava di rado, era stato hackerato. Ma alcuni degli ex-colleghi chiaramente avevano ancora dei dubbi. Jessie sospettava che fosse questo il motivo dei loro sguardi torvi. Ma la maggior parte delle persone sembravano semplicemente scioccate di vederla lì dopo soli tre giorni che aveva dato le dimissioni dal Dipartimento di Polizia di Los Angeles.

Bussò alla porta di Decker, che era già leggermente aperta, e aspettò una risposta. Nonostante avesse deciso di non farlo, si voltò a guardare l’area di lavoro della Sezione Speciale Omicidi. Era attualmente vuota, il che suggeriva che tutti erano attualmente fuori per lavorare sul caso. La sua vecchia scrivania era spoglia. Di fronte c’era quella di Ryan, dove ancora erano appoggiate delle carte, come se le avesse lasciate lì per fare una pausa caffè e dovesse tornare al lavoro da un momento all’altro.

“Avanti,” la chiamò una voce familiare.

Jessie entrò nell’ufficio e chiuse la porta alle sue spalle. C’erano due persone nella stanza. Il capitano Roy Decker era in piedi dietro alla sua scrivania. Sembrava in qualche modo più vecchio di quando l’aveva visto venerdì: alto e magro, il petto incavato che sembrava ripiegarsi su se stesso. Aveva sessant’anni, ma le profonde rughe sul suo volto lo facevano sembrare più vicino ai settanta. Sulla testa aveva pochi ciuffi di ribelli capelli grigi.

Nonostante tutto questo, era ancora in qualche modo impressionante. Indossava un completo di giacca e pantaloni perfettamente inamidato, con la cravatta al collo, come se fosse pronto per entrare nella sala riunioni di un’azienda di Fortune 500. Le narici del suo naso aquilino vibravano leggermente, come un segugio in continua caccia di prove. E i suoi freddi occhi da falco erano fissi su di lei.

“Felice di vederti, Hunt,” le disse. “Grazie per essere venuta. So che il nostro Trembley qui ne è stato felice quando gliel’ho detto.”

Jessie si voltò verso il detective Alan Trembley, che si stava alzando dal logoro divano addossato alla parete. Anche se entrambi avevano iniziato a lavorare alla centrale più o meno nello stesso periodo, due anni prima, Jessie non poteva fare a meno di pensare sempre a lui come a una matricola. Forse era solo perché sembrava decisamente privo di esperienza rispetto a Ryan. O forse perché aveva quell’aspetto da bambino con un corpo da uomo.

Trembley aveva ventinove anni, solo uno meno di lei, ma sembrava un ragazzino del college. Aveva disordinati capelli biondi e ricci, gli occhiali perennemente sporchi e una giacca che sembrava più grande di due taglie, come se l’avesse presa in prestito dal papà. Alzandosi in piedi, quasi inciampò goffamente sui suoi stessi mocassini consumati.

“Ciao Jessie,” le disse con un sorriso timido. “Sono contento che ci aiuti.”

“Come va, Trembley?” gli chiese.

“Oh, beh, da matti come al solito.”

“Giusto,” commentò, riportando poi l’attenzione su Decker. “Allora, prima che entriamo nei dettagli, voglio solo essere chiara. Sono venuta a sentire cos’avete da dire. Non sto ancora prendendo nessun impegno. Giusto perché siamo tutti sulla stessa linea.”

Decker annuì.

“Non te l’avrei proprio chiesto, ma siamo davvero in difficoltà. Tutta l’unità HSS, eccetto Trembley, è già impegnata in altri casi. Il detective Reid sta lavorando a due corpi trovati al Parco Statale di Los Angeles. Pare che siano stati tagliati in pezzetti che poi sono stati sepolti in tutta l’area. Roba divertente, insomma.”

Jessie non disse niente. Aveva la netta sensazione che non fosse finita lì, e aveva ragione.

“Il detective Pointer sta gestendo una serie di furiosi omicidi a L.A. Live,” continuò. “Con Hernandez fuori uso, abbiamo addirittura chiamato Parker da Vice perché ci dia una mano. E con la morte di Moses e le tue dimissioni, abbiamo fatto richiesta per avere un profiler da un’altra divisione, ma non abbiamo ancora avuto riscontro. Ma ad essere sincero, dopo aver avuto a disposizione te e Moses, non sono entusiasta all’idea di accaparrarmi la squadra B.”

“Chiaro,” rispose Jessie, rifiutandosi di lasciarsi indurre a fare promesse. “Allora, qual è il caso?”

“Ti do la versione breve,” rispose Decker. “Questo perché, anche se sulla scena c’è già un team di detective della centrale di Hollywood, ci hanno richiesto l’intervento dell’HSS.”

“Ci hanno richiesto?” ripeté Jessie incredula. “Pensavo che fosse lei a decidere quali casi debbano essere gestiti dalla Sezione Speciale Omicidi.”

“Avrei preso questo caso anche se non ce l’avessero chiesto,” le assicurò. “Ecco il motivo: la vittima è l’attrice Corinne Weatherly. Hai presente?”

Jessie ci pensò su.

“So chi sia, ma non posso dire di essere esperta del suo lavoro. Magari conosco uno o due film.”

“Trembley può aggiornarti mentre andate sul posto, sempre ammesso che tu accetti l’incarico. Ma pare che sia stata uccisa – strangolata – ai Sovereign Studios a qualche ora ieri sera, dopo aver terminato le riprese della giornata sul set del suo ultimo film. Il corpo è stato trovato solo questa mattina. Le indicazioni iniziali dicono che è stata uccisa nella sua roulotte e poi spostata nel magazzino degli oggetti di scena. A quanto pare, quando l’artista del moulage l’ha trovata, all’inizio non ha neanche pensato che fosse vero. La Weatherly stava girando un film horror e il loro reparto è piano di cadaveri finti. Puoi immaginarti il colpo che si è preso quando si è reso conto che il corpo era vero, e morto.”

“Cos’è un artista del moulage?” chiese Jessie.

Trembley si intromise.

“È una persona che si occupa di trucco ed effetti speciali. Quello che ricrea ferite e sangue facendoli apparire realistici.”

“Ok”, disse Jessie rabbrividendo. “Abbastanza disgustoso direi.”

Trembley parve sorpreso dalla sua risposta.

“Difficile credere che una profiler criminale che ha a che vedere continuamente con brutalità reali sia così schifata da qualcuno che crea ferite finte,” commentò.

“Touché, Trembley,” gli rispose.

“Ad ogni modo,” li interruppe Decker con impazienza, “i dirigenti dello studio stanno facendo un casino. Stanno già trapelando notizie sull’identità della vittima e loro vogliono poter dire pubblicamente che l’unità più specializzata del Dipartimento di Polizia di Los Angeles si prenderà carico del caso. Non è irragionevole, ma se non entriamo nel caso con la gente migliore che abbiamo, la cosa si rifletterà negativamente sulla centrale e su di me. Senza offesa per Trembley, ma Ryan Hernandez è il primo detective della squadra, e senza Moses tu sei ovviamente la migliore profiler che abbiamo.”

“Avevamo,” lo corresse Jessie.

“Avevamo,” le concesse. “Quindi, se non ho Hernandez, ho bisogno almeno di te. È un caso di profilo troppo alto per affidarlo a gente di serie B.”

A Jessie non piaceva l’implicazione.

“Quindi, se la vittima fosse stata un commesso a caso in un supermercato di Hollywood, degli investigatori di, come ha detto, ‘serie B’, sarebbero andati bene?”

“Non mettermi in difficoltà, Hunt. Se si fosse trattato di un commesso di supermercato, non ci avrebbero neanche mai chiamati. Sai di cosa si occupa l’HSS. Questa è la nostra specialità. Allora, sei disposta ad aiutarci?”

Decker aveva iniziato la frase con tono permaloso, ma quando la concluse la sua voce era quasi implorante. Da quello che Jessie poteva ricordare, era la prima volta che lo sentiva parlare così. Non poté fare a meno di provare una certa comprensione. In quel momento, nonostante tutti i campanelli dall’arme che stavano suonando nella sua testa mettendola in guardia di non farlo, capì che doveva dire di sì.

“Se accetto,” iniziò, “sarebbe solo un incarico una tantum, in qualità di consulente, come faceva Garland. Non sono una dipendente del Dipartimento di Los Angeles, e non ci sono aspettative che io continui dopo questo caso, d’accordo?”

“D’accordo,” disse Decker immediatamente.

“Ho dei colloqui come insegnante con diverse università la prossima settimana. Non intendo perderle, che la cosa sia risolta o meno. Non intendo sovvertire la mia vita per questa cosa, capitano. È il primo motivo per cui me ne sono andata. Siamo intesi?”

“Chiaro e limpido,” le disse, le labbra che iniziavano a incurvarsi in un sorriso.

“E Trembley qui deve stare al passo,” aggiunse. “Nessuna titubanza da ingenuotto.”

Il detective si fece serio in volto, ma non disse nulla.

“Questo non posso prometterlo,” ammise Decker nervosamente.

“Io sì,” intervenne Trembley, riprendendosi prontamente.

Jessie lo guardò: era entusiasta, quasi saltellava molleggiando sulle punte dei piedi. In quel momento le parve come l’epitomo dell’ingenuità.

“Andiamo,” disse sospirando. “Guidi tu.”




CAPITOLO SEI


Erano in auto solo da cinque minuti quando Jessie iniziò a pentirsi della sua decisione.

Trembley stava parlando a raffica, saltando da un argomento all’altro senza nessuna apparente coerenza.

“Trembley,” lo interruppe a un certo punto. “Calmati.”

“Scusa,” le disse.

Jessie abbassò lo sguardo sul telefono che aveva appena vibrato e vide che Hannah aveva risposto al suo messaggio con cui l’aveva avvisata che stava dando una mano in un caso. La sorellastra le aveva inviato come commento l’emoji della faccina impazzita. Spiegarle il motivo della sua decisione più tardi sarebbe stato brutale. Kat doveva ancora risponderle.

“Ripercorriamo quello che sappiamo di Corinne Weatherly e di questo film,” disse a Trembley. “Immagino che tu abbia dei dettagli?”

“Sì!!” le rispose lui con esagerato entusiasmo, per poi abbassare il tono di un’ottava. “Cioè, sì. Cosa sai di lei?”

“Non sono una grande fan. So che faceva film romantico-erotici un po’ di tempo fa, e poi è passata a questi horror. E poi un po’ di tempo fa era anche in un qualche tremendo telefilm di poliziotti. Tutto qua.”

“Hai centrato nel segno,” le confermò Trembley, che sembrava essere riuscito a imbrigliare la sua energia. “Ha avuto un sacco di piccoli ruoli prima di ottenere il successo con la commedia romantica Petali e irascibilità. Poi ha avuto la parte della protagonista nell’horror Il predone. Ma non ha più girato grossi successi dopo di quello. Ha fatto il sequel del Predone, che è stato un flop. Negli anni scorsi si è infilata in un sacco di altra roba. Alcune sembravano anche delle cose buone, ma si sono poi rivelate tutte schifezze. Ha fatto quella serie Profiler di Tacoma. Pensavo la guardassi.”

“Penso la facessero quando stavo studiando per la specialistica in psicologia forense. Non avevo molto tempo di guardare la TV al tempo.”

“Non ti sei persa molto,” le concesse Trembley. “Era ambientata a Tacoma, ma giravano a Vancouver. È durata solo tre anni. Dopodiché ha fatto solo robaccia. Non ti voglio annoiare con i dettagli. Questo doveva essere il suo grande ritorno sul grande schermo. Era un altro film del Predatore, ma doveva essere una specie di remake. Hanno preso un regista europeo in voga adesso. A dire il vero ero proprio curioso di vedere cosa ne sarebbe saltato fuori. Non so cosa faranno adesso.”

“I detective della centrale di Hollywood sono d’accordo che prendiamo noi il controllo dell’indagine?” chiese Jessie.

“Ho parlato con una di loro prima che arrivassi in centrale. Si chiama Bray. Mi è sembrata un po’ scocciata, ma mi ha dato anche la sensazione di essere in parte sollevata. Non penso che vogliano addosso il livello di intensità che questo caso probabilmente genererà. Cioè, è davvero roba grossa.”

Jessie lo guardò di sbieco.

“Sei sicuro di potertene occupare, Trembley? Non posso permettermi di vederti fare i l rimbambito per un’accozzaglia di celebrità. Dovrai mantenere il dovuto distacco professionale. Pensi di poterlo fare?”

Trembley parve leggermente offeso.

“Certo che posso,” le rispose.

Jessie non ne era del tutto convinta.


*

Quando arrivarono ai Sovereign Studios, Jessie notò che accanto al cancello vicino all’ingresso principale era stato allestito un piccolo memorial. C’erano solo quattro persone con qualche candela e un poster. Non sapeva se volesse dire che la Weatherly non era tanto popolare o che la voce non era ancora dilagata.

Una guardia addetta alla sicurezza di nome Paul, robusto e con il volto cordiale, li stava aspettando. Diede loro le indicazioni per andare a parcheggiare nell’area riservata ai visitatori, li seguì con un caddy e offrì loro un posto a sedere a bordo.

“Dobbiamo attraversare mezzo lotto,” disse come spiegazione. “È lunga a piedi.”

Salirono a bordo e l’uomo proseguì lungo il viale lastricato. Jessie, che aveva frequentato il college alla USC e aveva passato buona parte dei suoi primi vent’anni di vita in città, non era mai stata attratta dall’universo cinematografico. Ma doveva ammettere che era piuttosto particolare farsi accompagnare attraverso una struttura dove si facevano film da quasi cento anni. Lungo il tragitto, passarono accanto a un grande parcheggio coperto con un enorme schermo del colore del cielo sul retro.

“Che cos’è quello?” chiese Jessie indicando la struttura.

Paul seguì il suo dito e sorrise.

“Quando una produzione ha bisogno di fare delle riprese nell’acqua in un ambiente sicuro, possono usare quello. Riempiono il parcheggio di acqua, così da trasformarlo in un enorme serbatoio. Poi possono proiettarci sopra qualsiasi sfondo vogliano e il gioco è fatto: se vuoi ti trovi nel mezzo dell’oceano.”

Trembley si voltò a guardarla con espressione da ‘che figata!’. Lei gli lanciò in cambio un’occhiata severa perché si desse una regolata. Ma il ragazzo quasi perse il controllo quando passarono oltre la struttura e vide quello che c’era dietro. Stavano passando in mezzo a una riproduzione di diverse sezioni di New York.

Accanto a una pizzeria c’era la facciata di un negozio. Superarono il segnale di una metropolitana e Trembley si alzò in piedi nel caddy per vedere fino a dove arrivassero realmente le scale. Jessie notò che dietro alle facciate non c’erano altro che impalcature e spazio vuoto. Svoltarono un angolo e la veduta della strada cambiò del tutto.

“Che parte della città dovrebbe essere?” chiese Trembley, incapace di contenersi.

“Questa zona è la Lower East Side,” gli rispose Paul mentre superavano un gruppo di pietre arenarie. “Ma altri isolati sono allestiti come Greenwich Village, il Financial District di Seaport, addirittura Brooklyn. Abbiamo anche una strada di Chicago. La scena del crimine è vicino a Soho.”

L’ultima frase cancellò parte dell’entusiasmo dal volto di Trembley. Il detective rimase in silenzio. Pochi secondi dopo parcheggiarono dietro a un finto quartiere, accanto a un enorme studio di registrazione con un ‘32’ dipinto sopra.

“Eccoci qua,” disse Paul, come se non fosse ovvio dal viavai di persone dietro al nastro di delimitazione teso dalla polizia attorno allo studio.

“Paul, posso chiederti una cosa?” provò Jessie.

“Puoi chiedermi tutto quello che vuoi. Però non prometto di avere la risposta.”

“Questo non lo so,” ribatté lei. “Mi sembri il tipo di persona che sa sempre quello che succede nei paraggi. Da quanto lavori qui?”

“Otto anni,” le rispose. “Prima ho lavorato per sette anni alla Sony. Mi sa che mi sto trasformando in un guardiano a vita.”

“Quindi sai come funzionano questi posti,” disse Jessie. “Com’è la sorveglianza notturna qui? Tosta o più rilassata?”

“Dipende. C’è sempre qualcuno di servizio. In genere chiudiamo i cancelli laterali attorno a mezzanotte. Ma l’ingresso principale è sempre operativo. E ci sono guardie che perlustrano il lotto per tutta la notte. Ma se ci sono riprese in notturna, ovviamente c’è più personale.”

“C’erano riprese in notturna ieri?” chiese Jessie.

“Il programma prevedeva che tutto venisse concluso entro le 23, eccetto per questa produzione qui, il film del Predone. Ma alla fine hanno chiuso presto anche quella, quindi siamo rimasti con lo staff standard.”

“Sai perché abbiano chiuso presto?” chiese Trembley.

Paul spostò il peso da un piede all’altro, imbarazzato.

“Andiamo, Paul,” tentò di convincerlo Jessie. “Sai perché siamo qui. E sai che quei pezzi grossi dello studio ci daranno la versione condivisa. Uno come te, con l’orecchio sempre attento, di sicuro conosce la vera storia.”

Paul, che fosse perché lusingato o perché incapace di contenersi, alla fine cedette.

“Ufficialmente ci sono stati dei problemi tecnici che volevano sistemare. Ufficiosamente, ho sentito che la signorina Weatherly si è arrabbiata con il suo co-protagonista, Terry Slauson. Ha detto che era troppo brusco con lei nella scena che stavano girando.”

“Ed era vero?” chiese Jessie.

Paul scrollò le spalle.

“Non ero lì, quindi non lo posso dire per certo. Ma a dire la verità – e non mi piace parlare male dei morti – la signorina Weatherly trovava sempre un motivo per prendersela con qualcuno. Mi ha urlato dietro proprio la scorsa settimana perché a quanto pare ho preso troppo veloce una curva con questo caddy. Mi ha chiamato fot… bip ciccione. Non importa. Diciamo solo che non tutte le sue lagnanze erano sempre giustificate.”

Trembley sembrava esterrefatto davanti alla descrizione dell’attrice fornita da Paul. Jessie cercò di tenere a bada la propria irritazione e si concentrò su Paul.

“Che mi dici di eventuali stalker? Venite avvisati se un attore o attrice viene minacciato? Ricevete foto o ingiunzioni restrittive?”

“Non automaticamente,” le disse. “Ma in genere qualcuno del gruppo dell’artista ci avvisa se c’è qualche problema. Di tanto in tanto capita che qualche pazzo cerchi di entrare negli Studios.”

“Il team di Corinne Weatherly, magari una guardia del corpo, vi ha mai riportato problemi che la riguardassero?”

Paul rise, ma poi riprese subito il suo contegno.

“Scusate. Una reazione sconsiderata. È solo che la signorina Weatherly non aveva un team con lei, e neppure una guardia del corpo. La produzione le ha assegnato un’assistente. Ma non si trovava realmente nella posizione di avere un team viaggiante, se capite quello che intendo dire. E poi, se c’era qualcuno che la importunava, vi assicuro che la signorina Weatherly lo avrebbe riportato personalmente alla nostra attenzione, e anche forte e chiaro.”

Jessie annuì. Trembley, con sua sorpresa, prese la parola.

“Quindi stai dicendo che non aveva una guardia del corpo. Se ne andava in giro da sola per gli Studios?”

“Certo,” disse Paul, un po’ sorpreso. “Questo è il motivo per cui le produzioni vengono a girare in lotti del genere. Cioè, in parte è per avere un ambiente di ripresa più controllato, dove avere a disposizione in maniera più accessibile tutto quello che serve. Ma è anche più sicuro. In teoria, chiunque si trovi qua dentro è autorizzato a starci. È un posto di lavoro, proprio come un lussuoso edificio pieno di uffici. Questo significa che la gente, anche quella super famosa, può generalmente andarsene in giro senza tante preoccupazioni. Ho visto mega-star in fila al bar per le alette di pollo, e grossi produttori portare personalmente scatoloni di copioni nelle loro auto. Dovrebbe essere un posto sicuro. In genere lo è. Purtroppo questa mattina abbiamo avuto qualche problema con i paparazzi che cercavano di saltare la recinzione in modo da poter rubare qualche scatto vicino allo studio. Ma siamo riusciti a cacciarli via tutti.

Jessie vide una donnina tra i trenta e i quarant’anni che camminava rapidamente verso di loro. La notò anche Trembley.

“Penso che sia la detective Bray,” mormorò sottovoce.

“Grazie Paul,” disse Jessie alla guardia. “Sei stato molto di aiuto. Prometto che tratteremo con la dovuta riservatezza le informazioni ufficiose che ci hai passato.”

Paul annuì, rimontò a bordo del suo caddy e partì proprio mentre la Bray arrivava. Da vicino Jessie notò che la donna aveva capelli biondi sottili e dall’aspetto sfibrato, occhi grigi molto stanchi e quelle che sembravano macchie di pennarello sulle punte delle dita. Anche la camicetta era macchiata e male abbottonata.

“Karen Bray, centrale di Hollywood,” disse, porgendo la mano. “Immagino che voi siate i detective dell’HSS?”

“Alan Trembley,” disse il collega, prendendo la mano della Bray e scuotendola vigorosamente. “Questa è la nostra profiler Jessie Hunt.”

“So chi sei,” disse la Bray. “Cavolo, sei più famosa della Weatherly in questa città. Probabilmente hai avuto più visibilità tu di lei nel corso dell’ultimo anno.”

“Non lo sarà più,” disse Trembley, rendendosi poi subito conto di quanto poco appropriato suonasse il suo commento. Entrambe le donne lo fissarono in silenzio per un momento, poi Jessie si ricompose.

“A dire il vero ho dato le dimissioni dalla polizia la scorsa settimana,” disse rapidamente, sperando di salvare Trembley in corner. “Sono qui solo in veste di consulente.”

“Sì, ho sentito anche questo,” confermò la Bray.

“Pare che tu sia al corrente di tutto, detective Bray,” rispose Jessie. “Non so se sarei così in campana dopo aver dormito praticamente niente e aver dato una mano con, cos’era? Un progetto di arte?”

La Bray la fissò incredula.

“Progetto di scienze di seconda elementare, a dire il vero,” disse lentamente. “Ci abbiamo lavorato fino a dopo mezzanotte e mi sono alzata alle cinque per finirlo. Come facevi a saperlo?”

“Che razza di profiler sarei se non fossi capace di tirare fuori un coniglio da un cappello di tanto in tanto?” disse Jessie, prima di chinarsi verso di lei e sussurrarle nell’orecchio in modo che Trembley non potesse sentire: “Immagino che poi sarebbe opportuno che facessi un salto in bagno. L’inchiostro che hai usato per il progetto ti ha macchiato la camicia, che è pure sbottonata.”

La Bray la fissò a bocca aperta e poi si concesse un leggero sorriso.

“Grazie. Le mamme, eh?” disse alla fine. “Ad ogni modo, mi spiace per Moses. So che eravate molto legati. Avevano tutti un enorme rispetto per quell’uomo. E mi spiace anche per il tuo compagno, Hernandez, giusto? Come sta?”

“Grazie. Difficile a dirsi. Alcuni giorni meglio di altri, se mi spiego.”

La Bray annuì, poi scrollò le spalle come a dire “Beh, che facciamo?” A quanto pareva la parte di conversazione dedicata ai convenevoli era conclusa.

“Sì, ecco, immagino vorrai sapere quello che abbiamo raccolto fino ad ora.”

“Sarebbe fantastico,” disse Trembley.

“Non esaltatevi troppo. Non è molto.”




CAPITOLO SETTE


Guardarono attentamente il video di sorveglianza.

Una videocamera posizionata in alto aveva colto l’aggressore a bordo inquadratura mentre Corinne Weatherly veniva trascinata nel reparto oggetti di scena.

“Dopo non succede niente per un po’, fino a quest’altro punto qua,” disse la Bray, mandando avanti velocemente il video della persona che se ne andava dal set ed entrava nell’area di New York Street.

“È tutto qua?” chiese Trembley.

La Bray annuì. Jessie si rese conto che la detective aveva detto giusto. Se quel breve video era l’unico filmato disponibile che avevano, non gli restava certo molto su cui lavorare.

E per di più, le immagini non erano particolarmente nitide. A peggiorare le cose, le videocamere erano montate a un’angolazione tale da rendere impossibile la valutazione di altezza, peso o corporatura generale del colpevole. Tutto quello che potevano dire era che l’assassino era completamente vestito di nero, con tanto di passamontagna.

“Quindi l’assassino è sparito subito dopo?” chiese Jessie alla Bray.

“Da quello che dicono le videocamere, sì. Il problema è che sono posizionate solo in aree molto frequentate. E dato che ce ne sono tante, è difficile monitorare tutti i video in tempo reale. A meno che una guardia in ufficio non guardi lo schermo giusto al momento giusto, è facile farsi sfuggire quello che succede. Quindi una persona che conosce bene il lotto e ha un’idea di come funzioni la sicurezza, soprattutto di notte, può passarla liscia molto facilmente.”

Trembley offrì un suggerimento.

“Magari questo significa che dovremmo sentire quelli che gestiscono la sicurezza,” disse. “Abbiamo un registro di chi era in servizio ieri notte?”

“Siamo molto più avanti, detective,” disse la Bray. “Non solo abbiamo un registro, ma ogni agente addetto alla sicurezza è dotato di radio con GPS, così che si possano costantemente monitorare i loro spostamenti. Devono fare un controllo con l’ufficio centrale ogni quindici minuti. Abbiamo controllato tutti gli agenti che hanno fatto il turno ieri notte, e nessuno di loro era nei pressi del set 32 o della roulotte della Weatherly nell’arco di tempo in cui si è verificato il delitto.”

“Neanche a farlo apposta,” suggerì Jessie. “Come hai detto, è come se l’assassino conoscesse l’orario più adatto per colpire.”

“È decisamente sospetto,” confermò la Bray.

“Com’è che non abbiamo una ripresa di quando è stata portata fuori dalla roulotte?” chiese Trembley.

“Permettete che vi faccia vedere,” disse la Bray accompagnandoli alla roulotte della Weatherly. “E comunque ci sono un po’ di cose che dovete vedere là dentro.”

Mentre passavano accanto a diversi membri dello staff, Jessie sentì un tizio con la voce piuttosto potente, vestito con jeans e maglietta, che brontolava che adesso almeno non avrebbero dovuto andare a fare una terapia di gruppo. Era tentata di fermarsi a chiedergli cosa intendesse dire, ma prima che potesse farlo, la Bray parlò.

“Eccoci qui,” disse.

Ignorando la folla di astanti, si abbassò sotto al nastro di delimitazione ed entrò all’interno della roulotte. Jessie e Trembley la seguirono. Si trovarono immediatamente catapultati in un altro mondo. L’immagine che Jessie aveva di una roulotte era di qualcosa di sudicio e temporaneo, con pareti interne rivestite di sughero e illuminazione al neon. Ma questo posto assomigliava a un appartamentino di lusso.

Era pieno zeppo di amenità che lei mai avrebbe immaginato nel suo vecchio appartamento, o in quello di Kat. L’area soggiorno aveva una bella poltroncina sistemata accanto a una parete, di fronte a un enorme televisore. Dietro, sul retro della roulotte, c’era un letto queen-size. Lungo l’altra parete era disposta una cucina, completa di grande frigorifero e congelatore, microonde, forno e fornello.

Subito davanti a lei c’era un bagno sorprendentemente spazioso, inclusa una doccia con una piccola seduta all’interno. Si voltò dall’altra parte per vedere la postazione per il trucco, completa di grande specchio con luci tutt’attorno. Sullo specchio era stata scritta una parola con quello che sembrava rossetto: Boatwright.

“Cos’è quello?” chiese Jessie.

“È una delle cose che dovete vedere,” rispose la detective Bray.

“È quello che penso?” chiese Trembley, avvicinandosi allo specchio.

“Dipende da cosa pensi,” gli rispose la Bray.

“Penso che sia un nome.”

“Il nome di chi?” chiese Jessie.

“Se dovessi indovinare… Miller Boatwright.”

Fece una pausa come se avesse risolto il caso e stesse aspettando una pacca sulla schiena.

“Non so chi sia,” gli disse Jessie con assoluta tranquillità.

Trembley guardò la detective Bray, che sembrava sorpresa quanto lui dal commento di Jessie.

“Wow,” disse il giovane detective stupefatto. “Non stavi scherzando quando dicevi che ti sei persa qualche anno in materia di cultura pop.”

“Sono stata un po’ impegnata, Trembley. Vuoi spiegarti o pensi di fare gli indovinelli per tutta la mattina?”

“Scusa. Miller Boatwright è un produttore di Hollywood, uno di quelli di maggior successo nel settore. Pensa a Jerry Bruckheimer o Brian Grazer. Di certo ne hai sentito parlare, no? Il suo nome è associato ad alcuni dei più grandi successi degli ultimi vent’anni.”

“Ok,” disse Jessie. “Quindi cosa significa? È il produttore di questo film?”

“Questo non lo so. Ma era il produttore di Petali e irascibilità, il primo grande successo di Corinne Weatherly. Le storie sul casting di quel film sono leggendarie. È stata scelta tra oltre duecento altre attrici, inclusi alcuni grossi nomi, per il ruolo di protagonista femminile. Boatwright è stato quello che si è battuto per lei, contro ad alcune attrici piuttosto note. Il film alla fine è stato un successone. Lei è anche stata nominata per un Golden Globe. Quella performance le ha fatto guadagnare il ruolo da protagonista nel film del Predone, che personalmente reputo essere uno dei migliori cinque horror di sempre.”

“È decisamente buono,” confermò la Bray.

“Dove vuoi arrivare, Trembley?” chiese Jessie, sempre più vicina all’esasperazione.

“Voglio dire che da diversi punti di vista Corinne Weatherly doveva la sua carriera a Miller Boatwright. E il fatto che il suo nome sia scritto sullo specchio nella roulotte dove è stata uccisa non mi sembra tanto una coincidenza. Non so se sia stata la Weatherly o l’assassino a scriverlo, o se Boatwright debba considerarsi un sospettato, ma penso che probabilmente dovremmo fare una chiacchierata con il tizio, soprattutto dato che il suo ufficio si trova proprio in questi Studios.”

“Come fai a saperlo?” gli chiese Jessie.

“Pensavo che avessimo già stabilito che sono un genio del cinema,” le disse, come se la cosa fosse ovvia.

“A me viene in mente un’altra parola per definirti,” ribatté lei.

“Mettila come ti pare, io sono sempre dell’idea che dovremmo parlarci.”

“Va bene,” acconsentì Jessie prima di rivolgersi alla Bray. “Hai detto che potevi mostrarci il motivo per cui non c’è una ripresa della Weatherly che viene portata fuori da qui.”

“Giusto,” disse la Bray annuendo. “Ecco qua.”

Si spostò in fondo alla roulotte e si inginocchiò ai piedi dell’ampio letto. Solo allora Jessie si accorse di un’incisione rettangolare sul pavimento.

Questa è l’uscita di sicurezza,” disse la Bray. “Ogni roulotte ne ha una, in caso la porta principale non sia accessibile. Si può aprire solo dall’interno. Non ti preoccupare. Abbiamo già controllato le eventuali impronte e il DNA.”

Premette un pulsante quasi invisibile sotto al letto e la botola si aprì, rimbalzando in su. La Bray la tolse e fece loro segno di guardare sotto. Jessie si chinò in avanti e capì subito cos’era successo.

Sotto alla roulotte c’era una scarpa da donna che immaginò fare coppia con quella che era stata trovata sul cadavere. C’erano pezzi di materiale – apparentemente stoffa strappata – sul pianale sottostante della roulotte, dove i vestiti dovevano essersi lacerati mentre il corpo veniva trascinato di peso sul terreno.

“Quindi è stata uccisa qui,” disse Jessie, “e poi trascinata sotto alla roulotte fino allo studio di registrazione, dove effettivamente non abbiamo alcun video, giusto?”

“Pare proprio così,” confermò la Bray.

“Perché non lasciarla qui?” si chiese Jessie. “Perché rischiare l’elaborata procedura di spostarla in un posto dove l’assassino poteva essere visto, o incorrere comunque in qualche intoppo?”

“Non so rispondere a questo. Ma quando vedrai il corpo, penso capirai che qualsiasi sia il motivo, per l’assassino era importante che la Weatherly venisse trovata in quel posto e nello stato in cui l’ha lasciata.”

Jessie e Trembley si scambiarono uno sguardo incuriosito.

“Fai strada, detective,” disse Trembley, più calmo di quanto Jessie avrebbe creduto possibile.




CAPITOLO OTTO


Avevano davanti il corpo di Corinne Weatherly.

Da morta era semplicemente un’altra persona. Qualsiasi aura di celebrità avesse avuto in vita, era stata spazzata via, sostituita da pelle fredda e occhi vuoti. Il corpo che si era chiaramente sforzata di mantenere atletico e in forma aveva iniziato a dissiparsi. La pelle aveva perduto la sua elasticità e gli arti erano rigidi.

Jessie cercò di orientarsi nel cavernoso spazio della sala per gli oggetti scenici. C’era qualcosa di strano nel trovare un corpo morto in un magazzino. Ovunque guardasse c’erano cadaveri finti e innumerevoli parti del corpo in plastica insanguinate che sembravano essere state strappate. Le ricordava un processo di trapianto di carne, solo che con finti umani. Un certo numero di busti femminili ‘morti’ erano stati disposti in cerchio attorno a Corinne al centro della stanza.

Il medico legale se ne stava in silenzio in disparte, pronto a raccogliere il cadavere e portarlo all’obitorio. Secondo la detective Bray, stava aspettando da un’ora, ma non aveva il permesso di spostare il corpo fino a che l’HSS non avesse potuto dare un’occhiata.

“Scusi,” disse Trembley, “non ci metteremo molto.”

Jessie gli fece segno di avvicinarsi.

“Non scusarti mai per il lavoro che devi fare,” mormorò sottovoce. “Siamo qui per risolvere un omicidio, non per accelerare il processo. Se abbiamo bisogno di studiare il corpo per due ore prima che lo portino via, allora ci prenderemo due maledette ore, ok?”

“Sì, ok,” disse Trembley arrossendo come un peperone. “Volevo solo essere gentile.”

“Sii gentile quando serve. Questa donna qui a terra merita i nostri migliori sforzi per avere giustizia, non le servono a niente le buone maniere.”

Jessie aveva la sensazione che stesse per scusarsi con lei, quindi lo anticipò e proseguì il discorso.

“Come lo interpretiamo questo?” chiese, accennando a quello che entrambi avevano immediatamente notato quando avevano visto il corpo.

Nella mano destra della Weatherly c’era una rosa bianca. Era stata chiaramente messa lì dopo la sua morte. Qualsiasi significato avesse, Jessie non ne aveva idea. Voltandosi a guardare Trembley, capì che per lui era diverso.

“È del film. Petali e irascibilità.”

“Ho visto il film,” disse Jessie. “Ma era tanto tempo fa. Penso fosse durante il college. Quindi non mi ricordo della rosa.”

Trembley guardò la detective Bray per vedere se lei volesse spiegare. La donna scrollò le spalle.

“Ricordo che il tipo gliene dava una nel film, ma mi fermo qui.”

Trembley, apparentemente stupefatto, rinfrescò loro la trama.

“Nel film faceva la parte di una donna di nome Rosie che è proprietaria di un piccolo negozio di fiori. Scocca la scintilla con un uomo affascinante che si chiama Dave che viene in negozio da lei. Ma salta fuori che lui è un ricco imprenditore che ha comprato l’edificio dall’altra parte della strada per trasformarlo in un grosso vivaio della sua catena. E da qui parte la loro storia odio-amore.”

“Ricordo quella parte, Trembley,” disse Jessie. “Era praticamente una copia di C’è posta per te, che a sua volta era ripreso da Scrivimi fermo posta.”

“Pensavo che non ti interessassi di film,” disse Trembley impressionato.

“Non sono cresciuta in un convento,” rispose Jessie. “Va’ avanti.”

“Beh, alla fine del film, lui si presenta da lei con il suo fiore preferito, una rosa bianca, e le chiede di sposarlo.”

“Mi suona familiare,” disse Jessie. “E pensi che chiunque l’abbia uccisa intendesse farci fare il collegamento con quella scena?”

“Mi sembra piuttosto ovvio,” disse Trembley.

“Forse troppo ovvio,” intervenne la detective Bray.

“Può darsi,” le concesse Trembley. “Ma ad ogni modo, mi pare chiaro che chiunque sia il colpevole, fosse al corrente del film e della storia di fondo. Magari un fan ossessivo. Magari qualcuno che aveva lavorato al film. Ma mi pare assodato che Petali e irascibilità è in qualche modo rilevante in tutta questa faccenda. Questo rinforza la mia sensazione che sia necessario parlare con Boatwright.”

“Non mi oppongo,” disse Jessie con tono vago mentre la sua attenzione veniva distratta da un ometto rosso in volto che stava venendo verso di loro a grandi passi. “Detective Bray, puoi farci sapere chi è il tizio arrabbiato che sta venendo verso di noi?”

La Bray si guardò alle spalle e il suo corpo si afflosciò visibilmente.

“Quello è Anton Zyskowski. È il regista. Non è un simpaticone. State all’occhio.”

Zyskowski si fermò davanti a loro e fissò Trembley in faccia, ignorando del tutto Jessie.

“Lei è il detective speciale?” chiese con tono invadente, fissando Trembley che, come Jessie, era di quindici centimetri più alto.

“Detective speciale?” ripeté.

“Quello che gestisce i casi speciali,” disse l’ometto con ovvia frustrazione. “Questa donna dice che non si può fare niente di film fino a che arriva detective speciale.”

“Mi sa che sono uno dei detective speciali,” gli concesse Trembley. “Siamo una squadra.”

“Squadra non vuol dire niente per me. Ho bisogno che persona responsabile chiude tutto, così io posso andare avanti con le riprese. Ogni ora senza girare è milioni di dollari spesi. Tempo è molto importante.”

Jessie si morse la lingua, aspettando di vedere come avrebbe reagito Trembley. Il giovane detective guardò l’ometto dall’alto in basso. Iniziò a bofonchiare qualcosa sulle procedure che Jessie non capì. Dubitava seriamente che il regista lo comprendesse.

Quando fu chiaro che Trembley era in difficoltà, si fece avanti lei. Zyskowski si voltò a guardarla un secondo, poi tornò con lo sguardo su Trembley.

“Anton, vero?” chiese Jessie educatamente.

“I miei amici dicono Anton,” le rispose lui, guardandola con sdegno. “Chiunque sia lei, può dire signor Zyskowski.”

Di lato, la detective Bray si irrigidì. Jessie le fece l’occhiolino. Poi mostrò il suo sorriso più finto e smagliante.

“Mi chiamo Jessie Hunt. E il fatto è questo, Anton,” disse, sottolineando con decisione il nome. “Il tempo sarà anche molto importante per te. Ma sai cosa conta di più per noi? Il cadavere sul pavimento a mezzo metro da te. E considerato il fatto che il cadavere è quello della donna che aveva il ruolo di protagonista nel tuo film, avrei pensato che fosse importante anche per te.”

“Certo che è importante,” ribatté lui, leggermente scioccato dall’affronto. “Non dico che non è importante. Ma io ho responsabilità di questo film. Più di trecento lavori dipendono da me. Non posso solo essere triste per Corinne. Devo pensare a lavoro degli altri. Devo pensare a investimenti di studio. Non è felice da dire, ma devo essere forte, così lavoro continua, anche dopo morte.”

“Bene, Anton,” disse Jessie, per niente scomposta. “Il lavoro dovrà aspettare fino a che saremo pronti a liberare la scena del crimine. Francamente, sono sorpresa che tu possa addirittura andare avanti senza di lei.”

Guardò mentre Anton cercava di contenersi, anche se il suo volto arrossiva, assumendo una colorazione molto vicina al viola.

“Scene di Corinne quasi finite,” spiegò. “Quelle che restano, possiamo usare controfigura. Usare anche immagini generate da computer se serve. Ma film ha altri 4 giorni di riprese senza di lei. Quelli posso fare senza problemi.”

“Temo che non girerai più niente su questo set fino a che la scena del crimine non sarà stata sbarazzata,” lo informò Jessie. “Diverse altre aree vanno controllate per raccogliere impronte digitali e altre potenziali prove. Potrebbero volerci molte ore. Ti consiglio di girare le scene che ti mancano da qualche altra parte.”

Anton sembrava avere la testa sul punto di esplodere.

“Tutti i set sono in studio di registrazione,” protestò. “No possibile girare da altre parti.”

“Non ci possiamo fare niente, Anton. Ma ecco cosa ti propongo: facciamo che i tuoi collaboratori adesso danno alla detective Bray, qui, la lista completa di tutti coloro che erano sul set ieri sera. Dobbiamo parlare con tutti quanti. Se non sono già qui, fateli venire. Vi concediamo qualche ora. Questo permetterà alla squadra omicidi di finire il loro lavoro e a me e al mio collega di controllare alcune piste. Quando i medici legali avranno ripulito la scena e noi avremo parlato con tutti i tuoi collaboratori, potrai ricominciare con le riprese. Come ti sembra?

“Questo è centinaia di migliaia di dollari di costo per lo studio,” ribatté Anton. “Forse milioni.”

Jessie scrollò le spalle affabilmente.

“Allora ti suggerisco di accertarti che tutti i collaboratori siano qui, pronti a essere interrogati. Più siete preparati, più velocemente potrete dimenticarvi della vostra attrice morta e tornare al lavoro.”

“Mi chiedo se avete autorità per questo?” le chiese Anton con tono di sfida.

Il sorriso di plastica che Jessie si era stampata in volto per l’intera conversazione svanì in un lampo.

“Signor Zyskowski – Anton – stai pure certo che anche se non sono un ‘detective speciale’, sono molto probabilmente la persona responsabile qui. Ti suggerisco caldamente di non farmi incazzare più di quanto tu abbia già fatto. Quindi raccogli la tua gente e aspetta il nostro ritorno. Ora, se vuoi scusarmi, abbiamo del lavoro da fare.”




CAPITOLO NOVE


L’ufficio di Miller Boatwright si trovava a dieci minuti a piedi da lì.

Jessie e Trembley si incamminarono, lasciando la detective Bray a organizzare il programma degli interrogatori che sarebbero stati fatti a cast e staff più tardi. Senza Paul, l’addetto alla sicurezza, a guidarli, si persero due volte, ma alla fine trovarono l’ufficio nel palazzo Fairbanks, poco distante da dove avevano parcheggiato.

Mentre si avvicinavano, Trembley tossì leggermente, in un modo che suggeriva che stava per affrontare un argomento scomodo.

“Cosa c’è, Trembley?” chiese Jessie, non volendo aspettare chissà quanto perché il giovane detective trovasse il coraggio.

“Cosa? Niente.”

“Chiaramente c’è qualcosa,” insistette lei. “Dimmelo subito, così qualunque cosa ci sia che ti gironzola per la mente, non ti distrarrà quando staremo parlando con Boatwright. Ho bisogno di averti concentrato.”

Trembley sembrava essere in completo dissidio con se stesso, ma alla fine parlò.

“È solo che sembri molto aggressiva su questo caso. Pensavo che Decker volesse metterci a lavorare in coppia perché tu hai più esperienza con i casi di alto profilo e sei più… diplomatica. Credo si aspettasse che tu coccolassi un po’ questa gente, per metterli a loro agio e indurli a parlare. E invece sembra che ti stia impegnando a demolirli.”

“Penso che tu faccia abbastanza coccole per entrambi,” gli rispose Jessie con tono deciso. “E poi, per come la vedo, sono un agente libero. Non lavoro più per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Sono solo una consulente per questo caso, quindi non sono più vincolata da tutte quelle dinamiche burocratiche. Se qualcuno si lamenta e Decker non è contento di me, può benissimo scaricarmi e io potrò cercare di fissare più colloqui con le università. Credo di voler dire che, con tutto quello che ho passato recentemente, ho perso la pazienza e non me ne frega niente di nessuno. Mi interessa solo il caso in sé.”

Trembley annuì, chiaramente non intenzionato a mettere in discussione la sua spiegazione. Erano quasi arrivati alla porta del palazzo Fairbanks.

“Non ho avuto l’occasione di dirti veramente – ma veramente – quando mi dispiaccia sia per Garland che per Ryan. So che eri legata al vecchio, e Ryan ovviamente è molto importante per te.”

“Grazie, Trembley.”

“Volevo chiederti, e non intendo offenderti, se sei sicura di essere al sicuro dove stai adesso.”

“Cosa intendi dire?” chiese Jessie socchiudendo gli occhi.

“Ti prego, non mangiarmi la testa, ok?” iniziò. “Ma so che avevi un sacco di misure di sicurezza nella tua ultima casa. Ryan aveva accennato a quanto fossero potenti. E avevano senso, considerate le minacce che avevi di fronte. Tuo padre ha tentato di ucciderti. Quel serial killer, Bolton Crutchfield, aveva una simpatia per te. E poi è venuto a cercarti anche il tuo ex-marito. Quindi era logico che ti prendessi tutte le dovute precauzioni.”

“Qual è il punto, Trembley?” chiese Jessie.

“È solo che, anche se quelle minacce specifiche non ci sono più, non sono sparite proprio tutte. Quel poliziotto corrotto che hai incastrato, Hank Costabile, è stato condannato la settimana scorsa. Me lo vedo che cerca in qualche modo un riscatto, magari mandando qualche agente amico a darti un occhio quando non è in servizio. Per non parlare poi di Andrea Robinson, la ricca psicopatica che ti era diventata amica e poi aveva tentato di avvelenarti quando hai capito che era un’assassina. So che si trova nell’ala psichiatrica di una prigione, ma l’ultima volta che abbiamo avuto contatti con lei, era davvero fissata con te. Se in qualche modo uscisse, chi può sapere di cosa potrebbe essere capace?”

“Pensi che non sia in grado di prendermi cura di me stessa?” chiese Jessie con tono mite.

“Sì, certo. Ne hai dato prova. Ma immagino che l’appartamento della tua amica che fa l’investigatore privato non sia così dotato di misure di sicurezza come l’ultimo posto dove hai abitato. E anche se Ryan non era lì ufficialmente per proteggere te e Hannah, certo non faceva male avere un poliziotto pluridecorato come convivente. Sto solo dicendo che forse Corinne Weatherly non è l’unica a cui una guardia del corpo avrebbe fatto comodo.”

Jessie sapeva che Trembley stava solo cercando di essere di aiuto. C’erano ancora effettivamente delle legittime minacce alla sua sicurezza. E con il suo fidanzato in ospedale, il suo mentore morto assassinato e sua sorella che saltava a ogni porta che sbatteva, non sbagliava a suggerirle di affrettarsi a mettere in sicurezza la propria situazione. Decise di non farsi vedere irritata.

“Apprezzo la preoccupazione. E hai ragione. Ci sono ancora delle vere minacce là fuori. È per questo che sto cercando con tutte le forze un nuovo posto dove andare a vivere. Ma nel frattempo io e Hannah siamo ospiti di una ex ranger dell’esercito. E ho imparato un paio di cosette sull’autodifesa all’Accademia dell’FBI, quando ho seguito il loro programma di addestramento. Penso che per qualche settimana ancora ce la potremo cavare anche senza una guardia del corpo, fino a che non troverò un posto che mi piaccia.”

“Ok,” disse Trembley. “Ma sono sicuro che se lo chiedessi, il capitano Decker, incaricherebbe un’unità di pattugliare regolarmente l’area esterna alla casa della tua amica, anche se non sei più ufficialmente una dipendente.”

“Lo terrò a mente,” gli promise Jessie. “Nel frattempo, magari teniamo la concentrazione mirata sul nostro Boatwright. C’è niente di speciale che dovrei sapere prima che ci facciamo una chiacchierata con lui?”

“Non so niente di più rispetto a un normale appassionato di cinema,” le rispose Trembley. “Ma il nostro uomo ha una reputazione da extra-large.”

“In che senso?”

“Nel senso che fa sempre le cose in grande. Fa grandi film. Ha una grossa personalità. E se le voci che girano sono vere, ha anche un grande appetito.”

“Per il cibo?”

“Per le donne,” la corresse Trembley. “È famoso per le sue storie con le attrici. C’è chi dice che conceda dei ruoli in cambio di prestazioni sessuali, anche se potrebbero essere solo speculazioni. Penso che nessuno l’abbia mai formalmente dichiarato. Ho anche sentito dire che è solo un tipo magnetico che le donne trovano intrigante. Questo potrai giudicarlo tu.”

“Sembra un vero dongiovanni,” mormorò Jessie.

“A quanto pare lo è, anche se da quello che ho letto ha anche un caratteraccio impressionante. Penso che sia così ricco e famoso da essersi abituato a farsi strada in mezzo alla gente come gli pare e piace.”

“Questo con me non funziona,” disse Jessie con fermezza.

“Lo so,” le disse Trembley con tono attento. “Ma potresti cercare di non metterti subito a fare a pugni con lui? Se lo fai incavolare, potrebbe chiudersi e rifiutarsi di rivelarci un sacco di altri indizi che ci potrebbero tornare utili per l’indagine. E poi non ti stai ancora riprendendo dalla spalla lussata e dalle ustioni?”

“Sono quasi guarita del tutto,” gli rispose Jessie, cercando di non sorridere. “Scommetto che potrei dargli del filo da torcere.”

Trembley sembrava mortificato. A Jessie pareva di guardare un cucciolo dagli occhi tristi.

“Ti sto solo prendendo in giro,” gli assicurò. “Ti prometto che gli tiro un pugno solo se inizia lui.”

L’ufficio di Miller Boatwright era alla fine del corridoio, al primo piano del palazzo Fairbanks, un condominio di cui era stata modificata la destinazione d’uso e che era stato costruito, secondo una targa affissa alla parete, nel 1914. La targhetta sulla porta dell’ufficio di Boatwright diceva ‘Bungalow Harlow’.

“Jean Harlow,” sussurrò Trembley mentre apriva la porta. “Era una star negli anni Trenta.”

Jessie, che sapeva bene chi fosse Jean Harlow, si limitò a un semplice “Grazie.”

La porta principale si apriva su una piccola sala d’aspetto che ricordò a Jessie lo studio della sua terapeuta. Era sorprendentemente asettica, anche se vi si trovavano una mezza dozzina di vecchie poltroncine in pelle, separate da eleganti tavolini in legno decorato. Davanti ad esse c’era una porta scorrevole in vetro satinato, anche quella in stile ufficio medico. Accanto si trovava una porta in legno massiccio.

“Posso aiutarvi?” chiese una voce femminile che sembrava uscire da nulla.





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“Un capolavoro del thriller e del mistero. Blake Pierce ha fatto un ottimo lavoro sviluppando dei personaggi con un lato psicologico così ben descritto da farci sentire come dentro alle loro teste, seguendo le loro paure e gioendo per i loro successi. Pieno di svolte, questo libro vi terrà svegli fino a che non girerete l’ultima pagina.” . –Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il killer della rosa) . IL TRAVESTIMENTO PERFETTO è il libro #10 di una nuova serie di thriller psicologici dell’autore campione d’incassi Blake Pierce, che inizia con La moglie perfetta, un bestseller numero #1 (scaricabile gratuitamente) con quasi 500 recensioni da 5 stelle.? Quando un’esigente star di Hollywood viene assassinata, Jessie deve farsi strada nel torbido mondo degli studi televisivi, tra casting director, produttori, agenti, attori rivali e un ecosistema di persone che potrebbero averla voluta uccidere. . Dopo una serie di scioccanti svolte, Jessie scopre che la verità potrebbe essere più inaspettata di quanto si pensi… Sarà in grado Jessie, ancora impegnata nella lotta contro i suoi stessi demoni, ad entrare nella mente dell’assassino e fermarlo prima che colpisca di nuovo?. Un thriller psicologico veloce e pieno di suspence, con dei personaggi indimenticabili, IL TRAVESTIMENTO PERFETTO è il libro #10 di una nuova serie che vi terrà incollati alle pagine e non permetterà quasi di andare a dormire… Il libro #11—IL SEGRETO PERFETTO— è ora disponibile!

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