Книга - L’alibi Perfetto

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L’alibi Perfetto
Blake Pierce


Un thriller psychologique avec Jessie Hunt #8
“Un capolavoro del thriller e del mistero. Blake Pierce ha fatto un ottimo lavoro sviluppando dei personaggi con un lato psicologico così ben descritto da farci sentire come dentro alle loro teste, seguendo le loro paure e gioendo per i loro successi. Pieno di svolte, questo libro vi terrà svegli fino a che non girerete l’ultima pagina.” . –Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il killer della rosa) . L’ALIBI PERFETTO è il libro #8 di una nuova serie di thriller psicologici dell’autore campione d’incassi Blake Pierce, che comincia con La moglie perfetta (scaricabile gratuitamente) ha quasi 500 recensioni da cinque stelle. . Una moglie e madre di periferia scappa dalle grinfie di un serial killer psicotico, finendo assassinata poche settimane dopo… È stata una coincidenza?. Oppure c’è là fuori un serial killer che sta facendo un orribile giochetto di prendi e molla… e poi riprendi?. Riuscirà la famosa agente dell’FBI Jessie Hunt, 29 anni, a scuotersi di dosso i propri traumi personali ed entrare nella mente dell’assassino? Potrà salvare la prossima vittima – e forse se stessa – prima che sia troppo tardi?. Un thriller psicologico veloce e pieno di suspence, con dei personaggi indimenticabili, L’ALIBI PERFETTO è il libro #8 di una nuova serie che vi terrà incollati alle pagine e non permetterà quasi di andare a dormire… Anche il libro #9 nella seria di Jessie Hunt—IL VICINO PERFETTO—è disponibile..





DELL

L’ALIBI PERFETTO




l’ a l i b i   p e r f e t t o




(un emozionante thriller psicologico di jessie hunt—libro 8)




b l a k e   p i e r c e




edizione italiana


a cura di


Annalisa Lovat



Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore statunitense oggi campione d’incassi della serie thriller RILEY PAGE, che include diciassette. Blake Pierce è anche l’autore della serie mistery MACKENZIE WHITE che comprende quattordici libri; della serie mistery AVERY BLACK che comprende sei libri;  della serie mistery KERI LOCKE che comprende cinque libri; della serie mistery GLI INIZI DI RILEY PAIGE che comprende cinque libri; della serie mistery KATE WISE che comprende sette libri; dell’emozionante mistery psicologico CHLOE FINE che comprende sei libri; dell’emozionante serie thriller psicologico JESSE HUNT che comprende sette libri (e altri in arrivo); della seria thriller psicologico RAGAZZA ALLA PARI, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della serie mistery ZOE PRIME, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della nuova seria thriller ADELE SHARP e della nuova serio di gialli VIAGGIO IN EUROPA.



Un avido lettore e da sempre amante dei generi mistery e thriller, Blake ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.blakepierceauthor.com (http://www.blakepierceauthor.com/) per saperne di più e restare informati.








Copyright © 2020 di Blake Pierce. Tutti i diritti riservati. A eccezione di quanto consentito dall’U.S. Copyright Act del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuitao trasmessa in alcuna forma o in alcun modo, o archiviata in un database o in un sistema di raccolta, senza previa autorizzazione dell’autore. Questo ebook è concesso in licenza esclusivamente ad uso ludico personale. Questo ebook non può essere rivenduto né ceduto ad altre persone. Se desidera condividere questo libro con un'altra persona, la preghiamo di acquistare una copia aggiuntiva per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro e non l’ha acquistato, o non è stato acquistato esclusivamente per il suo personale uso, la preghiamo di restituirlo e di acquistare la sua copia personale. La ringraziamo per il suo rispetto verso il duro lavoro svolto da questo autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, imprese, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto della fantasia dell’autore o sono usati romanzescamente. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. Immagine di copertina Copyright JakubD, utilizzata sotto licenza da Shutterstock.com.



LIBRI DI BLAKE PIERCE




LA SERIE THRILLER DI ADELE SHARP

NON RESTA CHE MORIRE (Libro #1)

NON RESTA CHE SCAPPARE (Libro #2)

NON RESTA CHE NASCONDERSI (Libro #3)


THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Libro #1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Libro #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Libro #3)


LA RAGAZZA ALLA PARI

QUASI SCOMPARSA (Libro #1)

QUASI PERDUTA (Libro #2)

QUASI MORTA (Libro #3)


I THRILLER PSICOLOGICI DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)

LA BUGIA PERFETTA (Libro #5)

IL LOOK PERFETTO (Libro #6)

LA TRESCA PERFETTA (Libro #7)

L’ALIBI PERFETTO (Libro #8)


I GIALLI PSICOLOGICI DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

UN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)

RITORNA A CASA (Libro #5)

FINESTRE OSCURATE (Libro #6)


I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)

SE LEI SI NASCONDESSE (Libro #4)

SE FOSSE FUGGITA (Libro #5)

SE LEI TEMESSE (Libro #6)

SE LEI UDISSE (Libro #7)


GLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)

PERSECUZIONE (Libro #5)

FOLGORAZIONE (Libro #6)


I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)

OMICIDI CASUALI (Libro #16)

IL KILLER DI HALLOWEEN (Libro #17)


UN RACCONTO BREVE DI RILEY PAIGE


UNA LEZIONE TORMENTATA




I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)

PRIMA CHE INSEGUA (Libro #13)

PRIMA CHE FACCIA DEL MALE (Libro #14)


I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)


I MISTERI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)




CAPITOLO UNO


Caroline Gidley se ne stava rannicchiata, con le ginocchia strette al petto per scaldarsi. Anche se ormai era primavera inoltrata, sentiva fresco di notte, soprattutto nelle sue condizioni.

Era una follia che lei ci potesse pensare come a delle mere ‘condizioni’. Ma dopo quattro giorni legata in una gabbia per cani, con indosso solo mutandine e reggiseno, con una misera coperta sottile a coprirla, questa cosa era diventata ormai quasi normale per lei.

Era iniziato tutto così innocentemente.  Stava andando alla macchina dopo aver staccato al lavoro, quando un uomo le aveva chiesto le indicazioni per l’autostrada. Si trovavano in un trafficato parcheggio pubblico e lui era così esitante e insospettabile quando l’aveva avvicinata, che lei aveva presto abbassato la guardia. Aveva poi iniziato a rispondergli, voltandosi e indicando verso est.

Prima di rendersi conto che stava succedendo, lui le era addosso. Le aveva coperto bocca e naso con uno spesso pezzo di stoffa. Poco prima di perdere conoscenza, lo aveva visto aprire il bagagliaio dell’auto accanto alla sua. Le era passato per la testa un ultimo pensiero mentre lui ce la spingeva dentro e richiudeva il portello.

Ha parcheggiato proprio accanto a me. aveva programmato tutto.

Quando si era svegliata, si era ritrovata nella gabbia, solo con la biancheria intima addosso, le mani legate davanti a sé con una spessa corda elastica. Si era guardata attorno e si era resa subito conto di trovarsi prigioniera in una specie di edificio cadente. C’erano dei cavi che penzolavano dal soffitto e alcune finestre erano chiuse. Non c’era luce all’interno e i deboli raggi del sole le suggerivano che era stata catturata da diverse ore.

Neanche l’avesse chiamato con il pensiero, l’uomo era entrato da una grossa porta in metallo. Il cuore aveva iniziato a batterle forte in petto, tanto che pensava potesse sentirlo anche lui. La sua paura era quasi palpabile. Cercò però di scansare quel pensiero e di concentrarsi sul suo rapitore.

Mentre le si avvicinava, aveva notato diversi dettagli che le erano sfuggiti di primo acchito, nel loro breve incontro. Indossava evidentemente una parrucca. I suoi folti capelli scuri le ricordavano un cantante heavy metal degli anni Ottanta. La sua barba selvaggia era quasi sicuramente finta. E di certo lo era anche il grosso naso stuccoso che portava. Caroline dubitava addirittura che l’uomo avesse effettivo bisogno degli occhiali sfumati dalla spessa montatura che indossava.

Quando le fu vicino, le sorrise e lei poté notare che anche i denti erano finti. Il suo travestimento era così esagerato da farle sospettare che il suo vero intento fosse proprio di apparire ridicolo.

“Ciao, Caroline,” le aveva detto, con una pronuncia un po’ blesa che lei sospettò essere dovuta ai denti finti. “Questa è l’unica volta che mi vedrai. Da ora in poi sarai bendata. Non ti ho imbavagliata, ma lo farò se ne sarò costretto. Se in qualsiasi momento tenti di levarti la benda dagli occhi, ti legherò le mani dietro alla schiena invece che davanti. Se tenti di fuggire, dovrò… farti male. Non voglio farlo.”

“Perché mi stai facendo questo?” gli aveva chiesto lei, cercando di trattenere il terrore dalla voce.

“Non capiresti. Quelle come te non capiscono mai.”

Poi aveva tirato fuori qualcosa da dietro la schiena, una specie di fucile a dardi.

“Per favore,” l’aveva implorato lei, la voce che si spezzava. “Non serve che tu lo faccia.”

“Ricorda le regole,” le aveva detto lui senza la minima emozione nella voce. “Seguile, e le cose andranno molto meglio per te.”

Senza aggiungere una parola, aveva sparato un colpo. Caroline aveva sentito la forte sensazione di qualcosa che la pungeva alla coscia sinistra. Poi si era sentita pesantissima. Gli occhi si erano chiusi e il mondo era diventato buio un’altra volta.

Quando si era svegliata la volta dopo, era bendata come lui le aveva promesso. L’iniziale ondata di panico che aveva provato in quelle prime ore alla fine aveva lasciato il posto alla speranza, per cui iniziò a raccogliere tutte le informazioni che poteva. Poteva seguire lo scorrere del tempo, scandito dai momenti in cui le portava da mangiare, dal relativo calore dell’edificio e dai fasci di luce che filtravano tra le imposte.

A intervalli regolari lui tornava, le scarpe che riecheggiavano sul pavimento di cemento dell’edificio vuoto. Per quanto Caroline tentasse di controllarsi, quel suono le faceva accelerare il battito. Lo sentiva aprire il lucchetto della gabbia, spostare il cancello, aprire la porta metallica e posare sul pavimento due ciotole. Dato che aveva i polsi legati, Caroline era costretta a lappare il cibo e l’acqua dai loro recipienti come un vero cane.

Non le consentiva mai di andare in un vero bagno. Era invece costretta a togliersi la biancheria e andare in un angolo della gabbia. Di tanto in tanto lui entrava nella stanza e lavava sia lei e il pavimento con un getto d’acqua. Poi se ne andava di nuovo. Dopo il primo giorno, aveva imparato che la cosa migliore da fare era spingere biancheria e coperta tra i buchi della rete sopra di lei in modo che non si bagnassero quando lo spruzzo d’acqua la colpiva.

La routine divenne così regolare che ogni minima variazione era per lei fonte di preoccupazione. Per uno dei pasti le portò solo una ciotola, spiegando che dato che era stufato, era sufficiente a soddisfare tutti i suoi bisogni. Un’altra volta lei si svegliò, certa che fosse mattina, ma lui non arrivò che all’ora di pranzo, facendole temere di averla abbandonata del tutto.

A volte Caroline si ritrovava a chiedersi se anche gli altri l’avessero abbandonata. I suoi amici e la sua famiglia si erano accorti della sua assenza? L’avevano detto alla polizia? Qualcuno la stava cercando?

Ma fu in quella pungente serata primaverile, mentre tentava di evitare che la sua misera coperta scivolasse giù, schiacciando il corpo contro la parete della gabbia, e mentre stringeva le cosce contro le braccia per impedirsi di tremare, che notò un’altra variazione della routine.

Quando l’uomo se n’era andato dopo aver recuperato i piatti della sua cena fatto di acqua e fagioli in scatola, lei non aveva sentito il consueto rumore del lucchetto della gabbia che veniva richiuso. L’uomo aveva fatto scorrere il cancello, ma aveva ricevuto una chiamata subito dopo. Allontanandosi per rispondere, aveva lasciato la porta della gabbia aperta.

Caroline attese, aspettandosi di sentirlo tornare a completare il suo lavoro. Ma dopo quella che stimò essere un’ora, le fu chiaro che non sarebbe successo. Era certa che lui le tenesse una videocamera puntata contro, quindi fu estremamente cauta quando si abbassò leggermente la benda e si guardò attorno.

Era buio. L’unica luce proveniva dalla mezza luna che faceva capolino tra le finestre rotte. Nell’oscurità, non vide nessun dispositivo di sorveglianza, ma questo non significava che non ce ne fossero.

Con la massima discrezione, sollevò lo sguardo sul punto in cui avrebbe dovuto esserci il lucchetto. Era lì, ma non era stato chiuso e se ne stava penzolante dalla sbarra. Per quello che poteva vedere, le sarebbe stato sufficiente rimuoverlo e far scorrere il cancello di lato.

Caroline si mise a sedere, dibattuta sul da farsi. Se voleva tentare la fuga, non ci sarebbe mai stato un momento più perfetto di questo. Se le notti che aveva passato lì le potevano servire da indicazione, l’uomo non sarebbe tornato prima di mattina.  Questo le avrebbe concesso ore per arrivare lontano e magari trovare aiuto. Se voleva fare una mossa, questo era il momento giusto.

I suoi pensieri andarono a quello che sarebbe successo se lei non avesse fatto nulla. L’uomo che la teneva prigioniera aveva la chiara intenzione di ucciderla. Era solo questione di tempo. Per quanti giorni ancora l’avrebbe tenuta chiusa in una gabbia, dandole da mangiare come a un cane e lavandola con la gomma dell’acqua, prima di stancarsi e passare a qualcosa di più eccitante? Aveva davvero intenzione di starsene lì rannicchiata ad aspettare che succedesse?

Prima ancora di poter prendere una decisione cosciente, le sue mani erano oltre la rete della gabbia e cercavano di sfilare il lucchetto dal suo appiglio. Aveva le dita indolenzite per non averle usate e per il laccio stretto attorno ai polsi, ma alla fine riuscì a togliere il lucchetto. Poi afferrò il cancello e lo spinse, facendolo scivolare verso destra. Poi spinse la porta metallica, che si spostò cigolando. Per un secondo rimase ferma lì, impietrita dalla paura. Poi strisciò fuori.

Alzarsi in piedi per la prima volta dopo giorni fu doloroso e difficile. Caroline spinse con i palmi intorpiditi contro il pavimento. Mentre si alzava barcollante sui piedi, sentì i muscoli delle cosce e dei polpacci che si tendevano. Le ci volle quasi un minuto prima di avere la sicurezza necessaria per muovere il primo passo. Quando si sentì piuttosto certa che non sarebbe caduta, si diresse verso la porta da cui aveva visto entrare l’uomo la prima notte. Spinse con forza, ma era chiusa dall’esterno.

Si levò completamente la benda dagli occhi. Non c’erano altre porte in vista. Poi il suo sguardo si posò su una delle finestre rotte. Era troppo alta per potersi arrampicare fuori di lì e certo lei non era nelle condizioni per fare un salto. Perlustrò la stanza con lo sguardo alla ricerca di una sedia, ma non ce n’erano. Però c’era la gabbia.

Con la poca forza che aveva, Caroline la trascinò fino alla parete, sotto alla finestra. C’erano schegge di vetro appuntite attorno al davanzale, e Caroline usò i gomiti per spazzarle via. Poi salì sopra alla gabbia, pregando che sostenesse il suo peso. Era stabile.

Incapace di tenersi con le mani legate, si sporse oltre la finestra, appoggiando gli avambracci sul davanzale. Mentre strisciava in avanti, sentì una scheggia di vetro rimasta che le si piantava nella pelle. Cercò di ignorarla, concentrandosi invece sul salto che la separava dal terreno sottostante. Alla tenue luce della luna, le parve essere circa un metro e mezzo.

Non aveva molta scelta. Quindi si tirò più avanti con gli avambracci e spinse forte i piedi contro la gabbia. Quella scivolò indietro e lei cadde, il busto e le anche che sbattevano contro il davanzale e le schegge affilate come rasoi che si erano raccolte lì.

Per fortuna la maggior parte del suo peso era atterrato sulla sua spalla destra e in seconda battuta sulla schiena. Ignorando il dolore alle ossa, Caroline si mise in piedi e si allontanò barcollando dall’edificio, cercando qualsiasi cosa che potesse somigliare a una strada.

Dopo diversi minuti di ricerca, ne trovò una per sbaglio quando i suoi piedi nudi passarono dall’erba a terra e ghiaia. Abbassò lo sguardo, quasi incapace di distinguere la differenza di colore tra le due superfici. Fece comunque del proprio meglio per seguire la strada, usando come guida più i piedi che gli occhi e tentando di non permettere al panico di avere il sopravvento su di lei.

Mentre svoltava un angolo ai piedi della collina, si chiese dove l’uomo avesse potuto portarla, dato che non riusciva a vedere le luci di nessuna cittadina. E poi tutt’a un tratto le vide. Quando ebbe fatto il giro della collina, le ammiccanti luci del centro di Los Angeles la salutarono come un enorme faro che le offriva conforto, ma la metteva anche in guardia.

Caroline fece un passo in avanti, ipnotizzata da quella vista. Lei viveva a West Hollywood, dove non faceva quasi mai buio, anche se raramente se n’era resa conto. Ora l’improvvisa comparsa della città la faceva sentire come se si fosse trovata nel mezzo di un deserto, da dove avesse appena avvistato un’oasi. Fece un altro passo, lasciando la terra e sentendo ancora l’erba umida sotto ai piedi.

Ma tutt’a un tratto sentì che perdeva la presa sul terreno. Si rese conto troppo tardi che aveva messo il piede sul bordo di un altro versante della collina e che il terreno le stava franando sotto. Ruotò su se stessa allungando le braccia e tentando di afferrare una radice o un ramo. Ma con la fune ai polsi le fu impossibile.

Improvvisamente si trovò a precipitare, rotolando e rimbalzando contro rocce e alberi. Cercò di chiudersi a palla, ma era difficile farlo. A un certo punto la sua gamba destra sbatté contro un albero, piegandosi in maniera molto dolorosa.

Caroline non aveva idea di quanto continuò a cadere, ma quando alla fine si fermò, solo il dolore lancinante le assicurò che era ancora viva. Aprì gli occhi, rendendosi conto di averli tenuti ben chiusi per tutto il tempo della discesa.

Le ci vollero diversi secondi per orientarsi. Era sdraiata di schiena, rivolta verso la cima della collina. Da quanto vedeva, aveva di certo fatto un volo di almeno venti metri lungo un versante ricoperto di rocce, cespugli e alberi secchi. Piegò la testa di lato e vide una cosa che, nonostante tutto il dolore che provava, la riempì di gioia: dei fanali.

Si sforzò di ruotare a pancia in giù. Sapeva di non poter appoggiare alcun peso sulla gamba destra, figurarsi alzarsi in piedi. Quindi strisciò, piantando le unghie nella terra prima, e poi spingendosi con la gamba sinistra, ancora operativa. Riuscì a trascinare il proprio corpo per metà sulla strada, dove rotolò in posizione supina e agitò disperatamente le braccia legate sopra alla testa.

I fanali smisero di avanzare e lei sentì un motore spegnarsi. Quando qualcuno smontò dal veicolo e Caroline vide gli stivali che avanzavano verso di lei, ebbe un improvviso quanto orribile pensiero.

E se fosse l’uomo che mi aveva preso?

Un attimo dopo le sue paure svanirono, quando vide la persona inginocchiarsi accanto a lei e si accorse che era una donna con indosso quella che sembrava un’uniforme da guardia forestale.

“Ma che diavolo…?” disse la donna, prima di tirare fuori una radio e parlare con voce carica di urgenza. “Centrale uno, parla il Ranger Kelso. Ho una situazione di emergenza sulla Vista Del Valley Drive, quadrante sei. C’è una donna ferita sdraiata a bordo strada. Ha una brutta frattura alla gamba destra e i polsi legati. Chiamate il nove-uno-uno. Penso sia stata rapita, proprio come le altre.”




CAPITOLO DUE


“Perché sento puzza di bruciato?”

Hannah pose la domanda con voce calma, ma Jessie poté comunque percepire il suo tono d’accusa. C’era solo un motivo per cui qualcosa stesse potenzialmente bruciando: perché Jessie ci stava provando un’altra volta, e di nuovo stava fallendo miseramente.

Scattò via dal tavolo della cucina dove stavano giocando a Trivial Pursuit e andò di corsa al forno, aprendolo e scoprendo che i suoi scone di lampone e arancia avevano un aspetto decisamente nerastro e bruciacchiato. Si infilò frettolosamente un guanto da cucina e li tirò fuori, posandoli senza tanti complimenti sopra ai fornelli. Dal paninetto più annerito si levavano piccoli rivoli di fumo.

Jessie sentì Ryan che rideva dal tavolo. Hannah aveva un’espressione delusa in volto, come se fosse lei la tutor ufficiale che tentava con tutte le forze di trattenersi dal rimproverare la problematica ragazza che aveva in carico. Ovviamente le cose generalmente erano l’esatto opposto, quindi l’espressione di Hannah rivelava anche un pizzico di soddisfazione.

“Non girare il dito nella piaga,” disse Jessie sulla difensiva.

“Non lo farei mai,” rispose la ragazza con finto tono d’offesa.

“Magari potremmo usarli come dischetti per una partita a hockey,” propose Ryan.

“Oppure sassi da tirare?” suggerì Hannah con eccessivo entusiasmo.

Jessie cercò di non sentirsi troppo irritata per le innocenti punzecchiate della sorellastra. Abbassò lo sguardo sui resti fumanti del suo tentativo culinario e sospirò.

“Immagino che dovremo tirare fuori dal congelatore l’ultima scorta di quelli che avevi preparato tu,” disse rassegnata.

“Fai pure,” disse Hannah. “Ma sbrigati. Mi mancano solo due pezzi per vincere questa partita.”

“Dammi un minuto,” disse Jessie, rovistando nel congelatore e trovando il contenitore degli scone. Li infilò nel tostapane e aspettò che si scaldassero, non volendo rischiare di bruciare anche quelli.

“Non capisco,” disse Ryan canzonandola. “Sei la seconda profiler criminale di tutto il sud California, eppure sembri incapace di cucinare qualcosa senza usare il microonde. Com’è possibile?”

“Priorità, Hernandez,” gli rispose. “Qualcosa a metà tra il dare la caccia ai serial killer, l’intrufolarsi nelle politiche del Dipartimento, restare sexy per te…”

“Bleah!” si intromise Hannah.

“E occuparmi di un’adolescente so-tutto-io.”

“Non ho così tanto bisogno che ti occupi di me, se vuoi proprio saperlo,” ribatté Hannah sorridendo.

Jessie insistette.

“Da qualche parte in mezzo a tutto questo, ho dimenticato di prendere lezioni di pasticceria. Vogliate scusarmi.”

“È per questo che il tuo ex-marito ha tentato di ammazzarti?” chiese Hannah, sgranando gli occhi in un’espressione di finta innocenza.

“No,” si intromise Ryan. “Quello era per la sua fesa di manzo. È un crimine contro l’umanità.”

Jessie tentò di non sorridere.

“Non apprezzo particolarmente tutta questa combutta contro di me. E vorrei farvi notare che nessuno, tra coloro che hanno tentato di farmi fuori, ha mai citato la cucina tra i motivi.”

“Volevano essere gentili,” disse Hannah.

Jessie stava per rispondere quando l’allarme del tostapane trillò. Tirò fuori gli scone e li posò su dei piatti, porgendone uno a testa agli altri.  Poi si sedette e diede un morso al suo.

“Mmm,” mormorò sommessamente, incapace di trattenersi.

“Non sono troppo bruciacchiati?” chiese Hannah.

“Vorrei essere sarcastica, ma non posso proprio,” bofonchiò Jessie con la bocca mezza piena. “Come fai a farli così buoni?”

Hannah sorrise, senza mostrare niente del suo innato cinismo. Jessie non poteva fare a meno di notare quando fosse vivace e animata in quei giorni. I suoi occhi verdi, di solito opachi e disinteressati, brillavano. I suoi capelli biondo sabbia sembravano in qualche modo più luminosi. Appariva addirittura più alta, dato che ultimamente camminava a testa alta. Con una statura di un metro e settantanove, era solo un centimetro più bassa di Jessie, ma con questa nuova e migliore postura e la corporatura atletica, poteva sembrare il doppio di sua sorella.

“Il segreto sta tutto in una parola: burro. A dire il vero facciamo tutte e quattro le parole: un sacco di burro.”

Prima che Jessie potesse prenderne un altro morso, il suo telefono suonò. Abbassò lo sguardo e si accorse che era la chiamata che aveva programmato.

Sono già le nove di sera?

Si stava divertendo così tanto che aveva perso il senso del tempo.

“Chi è?” le chiese Ryan.

“È il primo profiler criminale del sud California. Voleva una mia idea su un caso,” mentì. “Datemi quindici minuti.”

“Ok,” disse Hannah, “ma poi saltiamo il tuo turno.”

“Capito,” disse Jessie, portandosi scone e telefono in camera.

Cercò di mantenere il tono allegro. Ma neanche il delizioso impasto di Hannah poteva aiutarla a eliminare il nervosismo che improvvisamente le si era materializzato nello stomaco. Stava per rispondere, quando cambiò idea. Non voleva interrompere questa serata quasi perfetta per discutere di questioni più oscure, quindi decise che non l’avrebbe fatto. Mandò la chiamata alla segreteria e rispose con un messaggio.

Ottima serata con Hannah in corso. Non voglio interromperla. Possiamo parlare domani?

Dopo qualche secondo ricevette la risposta. Poté quasi sentire il tono serio e deciso.

Vediamoci di persona. Sala del personale alla centrale. 7 in punto.

Digitò ‘Ok’ in risposta e lasciò cadere l’argomento. Sapeva che gli piaceva arrivare in ufficio presto, ma non poté fare a meno di pensare che avesse fissato il loro incontro a quell’ora assurda come punizione per quel suo cambio di programma. Però ne valeva la pena, se così facendo poteva passare dell’altro tempo di qualità insieme ad Hannah.

“Ehi,” disse, tornando in salotto. “Ho deciso che farvi il culo era meglio di qualsiasi altro caso. Sarà meglio che non abbiate davvero saltato il mio turno.”

Mentre tornava a prendere il suo posto, Jessie sapeva che stava solo posticipando la discussione su un argomento che la stava ossessionando. Ma una sera in più di giochi non era poi la fine del mondo. Almeno questo fu quello che disse a se stessa. La realtà, in tutto il suo orrore, avrebbe dovuto aspettare l’indomani.




CAPITOLO TRE


Con una ben visibile eccezione, la sala del personale era vuota.

“Grazie per aver trovato il tempo,” disse Jessie quando arrivò alle 6:58 la mattina dopo. Giusto per sicurezza, si chiuse la porta alle spalle.

“Sono un uomo impegnato,” disse Garland Moses con tono beffardo, voltandosi a guardarla. Era seduto a un tavolo e stava masticando quella che sembrava una barretta ai cereali. Jessie era tentata di rispondere a tono, smascherando la sua finta irritazione, ma si trattenne.

“Un uomo impegnato che mi sta evitando da un mese,” commentò.

“Avevo un grosso caso a cui lavorare,” protestò lui. “E poi ho avuto quella conferenza a Filadelfia. E poi sono stato in vacanza.”

“Non sparare stupidaggini, Garland. Nella tua ultima sostanziale conversazione con me alla mia festa di compleanno, avevi accennato al fatto che avevi delle preoccupazioni riguardo ad Hannah. E poi ti sei volatilizzato per un mese. Stavo dando di matto.”

Era un’esagerazione, ovviamente. Le cose erano andate effettivamente alla grande con Hannah in quelle ultime quattro settimane. Considerato tutto quello che la sua sorellastra aveva passato nei sei mesi precedenti, il fatto che fosse in grado di godersi una sana serata tra giochi da tavolo e scone era un piccolo miracolo. Ed era il motivo per cui ieri sera non aveva voluti interrompere l’idillio.

“Sai che sono un cittadino di una certa età, vero?” disse. “Non faccio discorsi che includano l’espressione ‘ti sei volatilizzato’.”

“Stai temporeggiando,” disse Jessie.

“No, adesso temporeggio,” disse, alzandosi lentamente in piedi. “Prendiamoci del caffè.”

Fece strada alla macchinetta del caffè. Jessie tentò di ignorare il distributore accanto. Non aveva ancora fatto colazione e sentiva la pancia che brontolava al pensiero di uno snack carico di grassi e conservanti. Mentre Garland camminava, Jessie notò con indossava l’outfit che ormai aveva imparato essere essenzialmente la sua uniforme quotidiana.

Aveva una giacca sportiva grigia dall’aspetto usurato, sopra a un gilet marrone e a una camicia beige. I suoi pantaloni blu erano stropicciati e aveva i mocassini ricoperti di graffi. I capelli bianchi erano spettinati e puntavano in ogni direzione, come se lui stesse tentando di vincere una gara come sosia di Albert Einstein. Il look era completato da un paio di occhiali bifocali appoggiati sul naso.

Ma Jessie aveva imparato che le apparenze potevano ingannare e che il profiler veterano che aveva di fronte coltivava quell’aspetto trasandato perché la gente lo sottovalutasse. Era sempre perfettamente rasato, senza mai il minimo pelo sul mento. I suoi denti bianchi erano immacolati e le unghie pulite e curate in maniera impeccabile. I lacci dei mocassini erano nuovi e ordinatamente legati in un doppio nodo.

Negli aspetti più importanti, lo si poteva considerare al top della forma. Jessie non solo lo rispettava, ma lo apprezzava davvero.

“Ok, signorina Hunt,” iniziò, chiaramente pronto a smetterla di temporeggiare.

“Penso che abbiamo raggiunto il punto in cui puoi chiamarmi Jessie, Garland. Cavolo, io pensò che da un momento all’altro potrei chiamarti nonno!”

“Non farlo, ti prego,” insistette lui. “Ok, Jessie. Non intendevo spaventarti. Ma ho dei pensieri riguardo ad Hannah. Intendo condividerli con te, ammesso che tu li mantenga all’interno del dovuto contesto.”

“Quale contesto?” gli chiese.

“Ricorda: questa è una ragazza di diciassette anni a cui il padre biologico – noto serial killer – ha brutalmente ammazzato i genitori. E davanti ai suoi occhi.”

“Di questo sono perfettamente consapevole, Garland,” gli rispose con impazienza. “Prima di tutto, ero presente. E secondo, quel serial killer era anche mio padre, se ricordi.”

“Sto disegnando un quadro,” disse lui con pazienza. “Posso continuare?”

“Vai avanti,” disse Jessie, decidendo di non interromperlo, dato che stava cercando di parlarci da un mese.

“Allora,” continuò l’anziano profiler, “solo poche settimane dopo è stata rapita da un altro serial killer che voleva convincerla a diventare un’assassina come lui e suo padre. Come parte del programma, l’ha costretta ad assistere all’assassino anche dei genitori adottivi.”

Jessie sentiva l’urgenza di sottolineare che, dato che era stata lei a salvare Hannah in entrambe le circostanze, era perfettamente a conoscenza dei dettagli. Ma ovviamente lui lo sapeva. Stava solo avvalorando i fatti. Quindi, mentre lui parlava, Jessie decise di fissare il proprio riflesso nel vetro del distributore automatico, cercando di appianare la fronte corrugata.

“Giusto,” confermò, mantenendo un tono neutrale.

“E in mezzo a tutto questo, ha scoperto di avere una sorellastra, che ha visto essere torturata e che sembra cercare morte e pericolo per pura natura della sua professione. Sei l’ultima parente che le resta. E ogni volta che ti dà l’arrivederci, sa che potrebbe essere per l’ultima volta.”

Jessie non aveva considerato quel fatto e si sentì subito in colpa, sia per Hannah, che per la propria mancanza di discernimento.

“Eppure,” rispose, “questo già lo sapevi quando hai passato del tempo con lei.”

“Intendi quando mi hai chiesto di farle da baby-sitter in modo che potessi segretamente stendere un suo profilo?”

“È la stessa cosa. Il punto è che sapevi tutto questo quando l’hai incontrata. E nonostante questo mi hai detto che qualcosa ti preoccupava.”

“Sì, è vero,” ammise alla fine. “Non mi addentrerò nei dettagli, dato che non voglio tradire la sua fiducia, e comunque non sono elementi importanti. Ma sulla base delle cose che abbiamo discusso, sono preoccupato dall’apparente mancanza di empatia in Hannah. Solo che non so fino a che punto esserne preoccupato.”

Jessie trovò illuminante il fatto di potersi osservare nel vetro del distributore mentre assorbiva quelle informazioni. In questo modo era capace di notare in tempo reale le proprie reazioni. Sperava di avere un volto più impassibile e imperturbabile quando si trovava in confronti pubblici. Ma nella relativa privacy della sala del personale e con Garland concentrato ad aggiungere zucchero al suo caffè, non tentò di nascondere il suo improvviso pallore o la paura che traspariva dai suoi occhi verdi. Si soffiò una ciocca di capelli via dal viso e rispose con attenzione.

“Ti spiacerebbe elaborare?”

“Il fatto è questo,” le rispose. “La maggior parte degli adolescenti si lasciano spontaneamente coinvolgere dai fatti fino a un certo livello. Serve loro per trovare la propria identità. Per scoprire chi sei, devi concentrarti su te stesso. È normale, anche se a volte dà ai nervi.”

“Ti seguo solo fino a un certo punto.”

“Ma lei ha vissuto tali traumi che non ci sarebbe da sorprendersi se emotivamente si chiudesse del tutto. Se tutto quello che prova è solo un insieme di variazioni del dolore, allora perché provare qualcosa in generale, se non per se stessa, anche per chiunque altro? Quindi può darsi che qualche parte di lei si sia così incallita come forma di auto-protezione. Questo, anche se preoccupante, non sarebbe comunque scioccante.”

“Eppure…” lo incitò Jessie, voltandosi a guardarlo.

“Eppure,” continuò lui, “non mi è chiaro se questa natura chiusa già esistesse prima di quanto le è accaduto. Certe persone non formano grossi legami o affetti per diversissimi motivi. Sua madre è morta quando lei era piccola. È rimasta nel sistema delle famiglie affidatarie per un po’ prima di essere adottata. Qualsiasi cosa avrebbe potuto intralciare la sua abilità nello sviluppare dei legami.”

“Oppure potrebbe essere nata così,” gli concesse Jessie. “Potrebbe essere una questione di genetica.

“È possibile anche questo,” confermò Garland, spostandosi di lato in modo che anche lei potesse prendersi del caffè. “Il problema è che non abbiamo studi di qualità che forniscano niente di definitivo su questo fronte. Ma non è proprio quello che tu stai chiedendo, no?”

“Cosa sto chiedendo io, Garland?” ribatté Jessie.

“Tu stai chiedendo se Hannah può potenzialmente diventare un’assassina come vostro padre, come Bolton Crutchfield ha tentato di modellarla, come tu stessa temi che potresti diventare. Dico bene?”

Jessie rimase in silenzio per più tempo di quanto avrebbe voluto.

“Dici bene,” rispose alla fine, sottovoce.

Gli occhi di Jessie erano fissi sul latte che si stava versando nel caffè, ma poté sentire l’attenta pausa prima che Garland riprendesse la parola. Se lo immaginava interiormente dibattuto su come procedere.

“La frustrante risposta è: non lo so. Siamo tutti e due ben consapevoli delle ricerche scientifiche sul comportamento che l’FBI ha condotto e che indicano che quasi ogni serial killer tra quelli schedati ha subito un qualche genere di trauma in giovane età. Può trattarsi di forme di abuso, bullismo, o la perdita di una persona cara. La mia personale esperienza rinforza queste dichiarazioni.”

“Anche la mia,” confermò Jessie. “Ma ho notato che hai detto ‘quasi’ tutti i serial killer.”

“Sì. Ci sono schede di assassini che sembrano aver avuto infanzie del tutto normali, senza aver sofferto alcuna chiara traversia. Alcune persone sono solo… così. Lo sai benissimo quanto me.”

“Sì,” disse Jessie mentre tornavano al tavolo. “Ma quello che voglio sapere è se la mia sorellastra, la ragazza che vive sotto al mio stesso tetto, è una di loro. Perché se ha vissuto tutto questo orrore così presto nella sua vita e le manca questo – per mancanza di una parola migliore – gene dell’empatia, allora abbiamo per le mani un problema.”

“Forse,” disse Garland con tono cauto mentre si sedevano. “Ma forse no. Per quello che ne sappiamo, non ha torturato animali né ucciso nessuno.”

“Per quello che ne sappiamo,” ripeté Jessie.

“E tu hai vissuto più o meno gli stessi problemi che ha dovuto subire lei. Il tuo padre serial killer ha assassinato tua madre e i tuoi genitori adottivi, e ha cercato di ammazzare te, cosa che ha tentato di fare anche un altro serial killer che era ossessionato da te. E non dimenticare l’ex-marito che ha tentato di incastrarti per l’assassinio della sua amante e poi ha cercato di farti fuori quando l’hai smascherato. Hai avuto tu stessa la tua bella serie di traumi, eppure non hai nessun istinto omicida.”

“No,” disse Jessie, esitando un momento prima di rivelare una cosa che aveva condiviso con pochi altri. “Ma mi sono chiesta spesso se sono entrata in questo settore per avere la possibilità di essere vicina a casi di violenza e crudeltà, senza dover arrivare io stessa a tali azioni. Temo che i crimini di questo tipo mi diano una sensazione di sballo.”

Garland rimase in silenzio per un momento e Jessie si trovò a temere che lui stesse riflettendo sulla stessa possibilità.

“È a questo che serve la terapia,” le disse alla fine, senza offrirle la minima soluzione.

Jessie stava per rispondergli in modo beffardo, quando il suo telefono suonò. Guardò lo schermo. Era Kat Gentry. Mandò la chiamata alla segreteria.

“Quindi hai intenzione di vedere ancora Hannah?” gli chiese. “Per vedere se riesci a trarre delle conclusioni più sicure?”

“Sono disposto a rivederla, se lei vorrà,” le disse. “Ma questo non significa che avrò nessuna rivelazione. Alla fine è difficile capire se sia solo una ragazzina lunatica, una giovane donna traumatizzata ed emotivamente debilitata o una combinazione delle due cose.”

Un messaggio comparve sullo schermo del telefono di Jessie. Era Kat. Mi serve il tuo aiuto in un caso. Ci vediamo al Downtown Grounds alle 7:30?

Jessie guardò l’ora. Erano le 7:10. Qualsiasi cosa Kat avesse per le mani era urgente, se voleva incontrarla con così poco preavviso.

“Un’opinione me l’hai lasciata,” commentò Jessie, mentre rispondeva al messaggio con un ‘Ok’.

“Quale sarebbe?” le chiese lui.

“Una sociopatica che nasconde molto bene il problema.”




CAPITOLO QUATTRO


Kat stava già aspettando nell’affollata caffetteria quando lei arrivò.

Ancor prima di sedersi, Jessie capì che l’amica era in ansia.

Era una cosa insolita, almeno ultimamente. Katherine, ‘Kat’ Gentry era una persona molto più intensa una volta. In quanto ex-coordinatrice della sicurezza in un penitenziario psichiatrico, e prima ancora Ranger dell’esercito in Afghanistan, quella caratteristica era la sua definizione.

Ma dopo essere stata licenziata a causa dell’evasione di Bolton Crutchfield, si era reinventata come investigatrice privata, e da allora era molto più rilassata. E in particolare recentemente, dopo che aveva iniziato a frequentare Mitch Connor, un vice-sceriffo in una cittadina di montagna a un paio d’ore da lì, era sembrata decisamente felice. L’uomo l’aveva aiutata quando lei aveva fatto da consulente per uno dei casi di Jessie, e da allora erano inseparabili, facendo entrambi ore di macchina da una parte o dall’altra per passare dei fine settimana insieme.

Ma ora, mentre Jessie le si avvicinava facendosi largo in mezzo alla folla, vide quella vecchia e familiare apprensione sul volto di Kat. In qualche modo la lunga cicatrice che le percorreva il viso verticalmente dall’occhio sinistro, quella che si era procurata in un incidente non ben specificato in mezzo al deserto, sembrava più evidente quando lei era preoccupata.

“Come va, Kat?” chiese Jessie a voce alta prima di prendere un sorso dal caffè che l’amica aveva già ordinato per lei. “Stai ancora facendo un sacco di sesso?”

Sorrise maliziosamente, mentre diverse persone si giravano a guardarle accigliate. Il fatto che l’espressione preoccupata di Kat non cambiò davanti a quella presa in giro, le fece capire che la situazione doveva essere grave.

“Ho bisogno del tuo aiuto,” le disse l’amica senza alcun preambolo.

“Ok,” rispose Jessie, facendosi subito seria. “Che succede?”

Kat si concesse un sorso di caffè prima di lanciarsi nella spiegazione.

“Sai della recente serie di rapimenti di donne del posto?”

“So qualcosa,” rispose Jessie. “So che tre donne sono state rapite nell’ultimo mese o due. Poi sono scappate. Non ho prestato estrema attenzione, dato che non è il mio settore, e nessuno dei casi è di competenza della Stazione Centrale.”

Jessie e Ryan lavoravano entrambi per la Stazione Centrale nell’area centrale del Dipartimento di Polizia di Los Angeles.

“Ho una nuova cliente,” disse Kat. “Si chiama Morgan Remar. È stata la seconda donna ad essere rapita. È stata presa circa tre settimane fa ed è scappata dopo essere rimasta in prigionia per cinque giorni. Sta lavorando con l’unità per le persone scomparse della Stazione del Pacifico. Ma dopo due settimane sono ancora a mani vuote. Negli ultimi due giorni, non sono molto reattivi. Quindi lei mi ha assoldato.”

“Senza offesa, ma se il fatto è accaduto vicino alla Stazione del Pacifico, perché ha assoldato te?”

“È una domanda lecita,” disse Kat. “Lavora a Venice, ma vive qui vicino e suo marito lavora in centro, a due isolati da qui. In effetti l’avevo conosciuta proprio in questa caffetteria circa tre mesi fa e abbiamo fatto amicizia. Poi lei si è sentita recentemente frustrata e mi ha chiesto aiuto.”

“Ok, dimmi quello che sai.”

Kat sospirò profondamente, come se il pensiero di spiegare tutto quello che aveva appreso fosse piuttosto pesante.

“Ti faccio la versione breve,” disse alla fine. “La prima vittima è stata Brenda Ferguson. È una mamma casalinga di trentasei anni con due bambini avuti dal secondo matrimonio. Suo marito è un produttore discografico. L’hanno rapita a metà mattina, mentre faceva jogging lungo un sentiero vicino alla sua casa di Brentwood. Dopo essere rimasta prigioniera per tre giorni in un ricovero per attrezzi da giardino, è riuscita a scappare.”

Jessie scriveva furiosamente appunti mentre l’amica parlava.

“Sto andando troppo veloce?” chiese Kat.

“No. Va bene. Continua.”

“Ok. La seconda vittima era la mia cliente, Morgan. Ha ventinove anni e vive a West Adams con suo marito, a poche miglia da questo posto. Ma lavora in un rifugio per senzatetto a Venice. È stata rapita mentre tornava dal pranzo sulla Boardwalk. Come ho detto, è rimasta prigioniera cinque giorni, prima di riuscire a scappare. La teneva rinchiusa in un vecchio guardaroba.”

“E la terza donna?”

“Si chiama Jayne Castillo. Ha trentatré anni, sposata, e vive a Mid-City. È stata rapita dal parcheggio di un supermercato una settimana e mezza fa ed è scappata dopo tre giorni di prigionia dentro a un bidone dell’immondizia.”

“Hai contattato le altre due donne?” le chiese Jessie.

“Ci ho provato,” disse Kat, apparentemente frustrata al ricordo. “Ma continuo ad andare a sbattere contro dei muri di cemento. Non parlano. La polizia non parla. Per questo sono venuta da te. Sono arrivata alla fine delle idee qui. Morgan ha le paranoie al pensiero che questo tizio sia ancora là fuori e io non riesco a fornirle nessun modo per rassicurarla, perché non mi sono avvicinata neanche un po’ alla risoluzione del caso, da quando mi ha assoldato.”

Jessie prese un altro sorso prima di porre la domanda successiva. Sapeva a cosa puntava Kat, ma voleva pensare a come risponderle.

“Come posso aiutarti?” le chiese alla fine.

Kat non ebbe bisogno di ulteriori incitazioni per rispondere.

“Puoi metterti in contatto con i detective che gestiscono i casi? Magari saranno più diretti con te. Al momento io sto andando alla cieca qui.”

Jessie sospirò.

“Ci posso provare,” disse. “Il problema è che questi tizi sono tutti di centrali diverse. Non credo siano propensi a condividere dettagli dei loro casi con una profiler di un’altra stazione, dove neanche abbiamo una vittima. Ma tentar non nuoce. Magari riuscirò a trovare qualcuno di gentile.”

“So che ti sto chiedendo molto,” affermò Kat. “Sei sicura di averne il tempo?”

“Stai tranquilla,” la rassicurò Jessie. “Le cose sono piuttosto tranquille al momento. Sto completando le scartoffie di un caso della scorsa settimana e sto aspettando di testimoniare per un altro. Ma non ho niente di attivo al momento. Ovviamente questo significa che il capitano Decker potrebbe assegnarmi qualcosa di nuovo da un momento all’altro. Ma fino ad allora, posso provare a scuotere le acque.”

“Lo apprezzerei davvero.”

“Stai scherzando?” le disse Jessie. “Quante volte mi hai aiutato tu per un caso, quando non volevo seguire i canali ufficiali? Questo è il minimo che possa fare.”

“Grazie, Jessie,” disse Kat con voce apparentemente sollevata per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare.

“Nessun problema. Ma lascia che ti chieda una cosa: posso parlare con Morgan? Sentire in prima voce il suo punto di vista mi sarebbe davvero di aiuto.”

“Certo,” disse Kat. “Al momento è a una conferenza fuori città e non tornerà che questa sera tardi. Ma posso programmarti un incontro per domani.”

“Bene. Nel frattempo io vedo cosa riesco a scoprire,” disse Jessie prima di prendere un altro grosso sorso di caffè. “Ora che abbiamo sistemato tutto, ho un’altra domanda.”

“Che cosa?”

“Stai facendo un sacco di sesso?”

Kat finalmente si fece scappare il sorriso che Jessie aveva sperato di vedere quando gliel’aveva chiesto prima. E il suo viso arrossì un poco.

“Mi sto dando da fare,” disse in modo criptico.

“Ci credo bene,” la canzonò Jessie.

“E tu?” ribatté Kat, cercando di fare a sua volta un po’ di pressione. “Come vanno le cose con Ryan?”

Toccò a Jessie arrossire.

“Va tutto bene,” disse. “Facciamo a testa e croce per dove passare la notte, anche se di solito è da me per Hannah.”

“E non ti interessa di vivere nel peccato con una giovane impressionabile sotto lo stesso tetto?” le chiese Kat con le labbra curvate in un sorriso malizioso.

“Credimi, quella ragazza ha visto tanta di quella roba che non penso sia scioccata dal fatto che il ragazzo di sua sorella passi la notte lì. Penso anzi che in qualche modo lo trovi rassicurante.”

“Vedremo se si sentirà così sicura quando cadrete tutti e tre nelle fosse dell’Inferno,” insistette Kat, cercando di non ridere mentre lo diceva.

“Ti stai proprio divertendo, eh?”

“Non hai idea di quanto.”

Nonostante la canzonatura, Jessie si concesse di rilassarsi un poco. Almeno per un secondo poteva dimenticare che non era sicura che la sorellina fosse una sociopatica o se lei e il suo compagno potessero essere fatti fuori sul lavoro. Poteva fare finta di avere una vita normale, con una famiglia normale e i soliti problemi relazionali.

Poi quel secondo finì.




CAPITOLO CINQUE


Jessie ebbe fortuna.

Mentre entrava nel grande ufficio della Stazione Centrale del Dipartimento di Polizia di Los Angeles subito dopo le otto, cercando di non dare nell’occhio, era in corso una frenetica attività. La squadra del buon costume aveva appena condotto un raid notturno, mettendo allo scoperto un’ampia cerchia di prostituzione. Tutta la centrale era piena di prostitute, magnaccia e clienti.

In definitiva, nessuno la notò mentre lei andava a prendere posto alla sua scrivania. Addirittura Ryan, che stava aiutando un agente a contenere la furia di un cliente iracondo, non la vide avvicinarsi. Lei invece non poté fare a meno di notarlo. Anche se stavano insieme da diversi mesi e lei ormai conosceva alla perfezione i dettagli del suo aspetto fisico, non cessava mai di sentirsi attratta dal suo fascino.

Con un’altezza di un metro e ottantacinque e poco meno di novanta chili di peso, era fisicamente imponente. Ma come lei sapeva bene, non c’era un grammo di grasso sul suo muscoloso corpo da trentaduenne. Nonostante il busto scolpito, Ryan emanava una sorprendente umiltà e un deciso calore per essere un detective veterano nella sezione omicidi. Aveva un sorriso semplice e teneva i capelli scuri tagliati corti, così da lasciare ben visibili i suoi amichevoli occhi castani.

Quando parlava, il suo tono morbido non lasciava presumere che lui fosse il più celebre detective della sezione speciale omicidi, anche chiamata HSS, che indagava su casi di alto profilo o intenso scrutinio mediatico, spesso con il coinvolgimento di numerose vittime e serial killer. Jessie a volte pensava che avrebbero dovuto dargli una medaglia di encomio per la sua abilità nel districarsi tra il lavoro e la sua relazione con lei.

Cacciando dalla testa i pensieri riguardanti il suo compagno, Jessie si sedette e iniziò a tirare fuori le cartelle del caso delle donne rapite. I dettagli erano scarsi, per lo più perché le donne erano state bendate per buona parte del loro incubo, quindi non erano state in grado di fornire grossi aiuti.

Dopo aver acquisito maggiore familiarità con i fatti, Jessie decise di chiamare il detective principale assegnato al caso di Morgan Remar. Prima di tutto era quello più rilevante per Kat. E poi, il detective incaricato alla Stazione del Pacifico, Ray Sands, aveva un’ottima scheda e una altrettanto buona reputazione come interessato a risolvere i casi più che a seguire severamente le procedure. Magari si sarebbe rivelato disposto ad aiutarla.

“Salve, detective Sands,” gli disse con voce piuttosto informale. “Sono Jessie Hunt. Sono una profiler criminale per la Stazione Centrale. Come va questa mattina?”

“Sono molto impegnato, signorina Hunt. Cosa posso fare per lei?” le chiese, educato ma diretto.

“Speravo di farmi un’idea di quello che pensa di un caso a cui sta lavorando al momento.”

“Di che caso si tratta?” le chiese Sands cautamente.

“Il rapimento di Morgan Remar. Speravo che lei potesse riempire un po’ di buchi.”

“Che interesse ha nel caso, signorina Hunt? Ho sentito parlare di lei e pensavo che la sua specialità fossero gli omicidi, per lo più perpetrati da serial killer.”

“È vero,” confermò Jessie. Decidendo che tutto sommato era meglio essere diretti, gli raccontò la verità. “A dire il vero sto dando un occhio per conto di un’amica, Kat Gentry. La signora Remar l’ha assoldata come investigatrice privata e lei sta trovando delle resistenze nella raccolta di dati sull’avanzamento del caso.”

“Sì, conosco la signorina Gentry,” rispose con tono carico di stanchezza. “È stata diciamo… insistente. Ripeterò a lei quello che ho già detto alla sua amica. Semplicemente non abbiamo molto in materia di informazioni di qualità da poter condividere, a questo punto delle indagini.”

Jessie aveva la sensazione che Sands fosse un brav’uomo, ma che non fosse completamente sincero.

“Detective, mi sta dicendo che dopo un mese e tre rapimenti da parte di quello che è chiaramente lo stesso colpevole, non avete nessuna pista utile?”

Non riuscì a celare lo scetticismo nella propria voce. Per qualche secondo Sands non rispose.

“Senta, signorina Hunt,” disse molto lentamente, enfatizzando con forza ogni sillaba mentre parlava. “Qui lei sta facendo un sacco di supposizioni: la prima, che questi casi siano collegati tra loro.”

“Mi sta suggerendo che non lo siano?” chiese Jessie sorpresa.

“Non lo sappiamo con certezza,” disse lui con tono poco convinto. “Tutti i rapimenti si sono verificati in diverse giurisdizioni. Tutte le donne sono state trovate in zone lontane da dove sono state rapite.”

“Ma sono state tutte tenute per approssimativamente lo stesso periodo di tempo, prima di riuscire a fuggire,” ribatté Jessie. “Sono state tutte rinchiuse in posti dallo spazio contenuto. Avevano tutte più o meno la stessa età e appartenevano alla stessa fascia socioeconomica. Non starà affermando seriamente che non sono collegate tra loro, vero?”

“No,” ammise lui. “Ma non tutti i detective che indagano sugli altri rapimenti la pensano così. E dato che sospetto che chiamerà anche loro, dopo aver parlato con me, voglio essere chiaro e dirle che non sono state tratte conclusioni.”

Jessie sospirò. Comprendeva la cautela di Sands, ma era incredibilmente frustrante.

“Senta, detective. Capisco. È politicamente sensato. E lei non mi conosce. Ma Kat Gentry è una buona amica. E sta tentando di aiutare una donna molto spaventata. Io sto solo cercando di trovare delle risposte che la aiutino a rilassarsi.”

“Pensa che non sappia che Morgan Remar ha paura?” chiese Sands, con tono per la prima volta sinceramente arrabbiato. “Sono stato io a interrogarla in ospedale mentre i medici le facevano dei punti di sutura e cercavano di sistemarle la caviglia che si è distrutta calciando la porta di quel guardaroba per liberarsi. Sono stato io quello che ha dovuto dirle che non c’erano prove utili rinvenute sul luogo dove era stata imprigionata. Sono due settimane che lavoro a questo caso senza sosta, mentre i miei colleghi delle stazioni Mid-Wilshire e West L.A. si sono trattenuti dal condividere ogni informazione. Ho avuto l’approvazione per una task force solo questa mattina. Sono consapevole della situazione, signorina Hunt.”

“Scusi,” disse Jessie, capendo di aver intrapreso il discorso con il piede sbagliato. “Non era mia intenzione suggerire che non le interessa. Io, ecco, mi spiace.”

Sands rimase in silenzio. Jessie lo sentiva respirare rumorosamente. Ma prese come buon segno il fatto che non avesse riagganciato. Prima che lo facesse, provò con un’altra tattica.

“Ha detto che questa mattina le hanno approvato una task force?”

“Sì,” mormorò lui.

“Posso chiedere cos’è cambiato?”

“C’è stato un quarto rapimento.”

“Cosa?”

“È stata trovata ieri a notte fonda a Griffith Park,” disse Sands. “Stesso modus operandi, solo che questa volta l’ha tenuta rinchiusa in una gabbia per cani per quattro giorni.”

“Cavolo,” mormorò Jessie sottovoce.

“Sì,” confermò lui. “Quindi questo ha finalmente convinto la gente del quartier generale a scavalcare i capitani delle altre centrali e farci riorganizzare le nostre risorse. Speriamo di essere pienamente operativi da questo pomeriggio.”

“Chi si occupa del gruppo?”

“Il sottoscritto.”

“Non mi stupisco della sua suscettibilità,” disse, ma poi si rese conto che l’altro poteva non prendere il suo commento come ironico.

“Sta scherzando? Io sono proprio così al massimo del mio fascino,” le rispose, chiaramente non offeso.

“Ok, allora fintanto che ho a che fare con lei quando è così di buon umore, posso farle un’altra domanda invadente?”

“Spari,” disse. “Tanto ormai ci sono abituato.”

“Quattro rapimenti. Nessuna pista per poter identificare il rapitore. Eppure ogni donna è riuscita a scappare. Non sembra strano che un rapitore così esperto sia poi tanto inetto nel tenere prigioniere le sue vittime?”

“Sì,” disse Sands, senza offrire ulteriori commenti.

“Posso supporre dalla sua significativa pausa che anche lei è scettico quanto me riguardo a fatto che nessuna di queste donne sia ‘fuggita’ da sola?”

“Sì,” disse Sands. “Anche se non tutti sono d’accordo con me, io ho la forte sensazione che quest’uomo – e sappiamo che è un uomo – ha permesso alle sue vittime di scappare.”

“Cosa la rende così sicuro?” chiese Jessie.

“A parte quello che ha notato lei – la forte improbabilità che lo stesso uomo che ha catturato tutte queste donne senza farsi beccare sia tanto incauto nel tenerle rinchiuse – c’è dell’altro.”

“Di cosa si tratta?”

“Abbiamo trovato i posti dove teneva ciascuna donna. In ogni caso, non c’era la minima traccia di DNA utilizzabile. Niente impronte. Nessuna prova incriminante di alcun genere. È una cosa difficile da ottenere in altre circostanze, come lei ben sa. Ma quasi impossibile se pensiamo che debba essere tornato dopo la fuga di ogni donna, per poi pulire frettolosamente.”

“Ma non se è stato proprio lui a lasciarle andare,” disse Jessie.

“Corretto,” confermò Sands. “Se ha scelto di lasciarle andare quando ha voluto lui, questo gli avrebbe concesso il tempo per ripulire dopo la loro fuga. Penso sia stato attento fin dal momento in cui le portava nel luogo designato, sapendo che poi il posto sarebbe stato trovato e scrupolosamente setacciato.”

“Perché fare una cosa del genere?” chiese Jessie. “Perché rischiare di lasciarle andare se poi loro potevano essere benissimo in grado di identificarlo?”

“Non dimentichi che erano tutte bendate.”

“Ma non lo erano di certo quando lui le ha prese.”

“No,” le concesse lui. “Ma le tre prime vittime sono tutte certe che lui indossasse una sorta di elaborato travestimento.”

“Però potrebbero comunque fare una stima di altezza e peso, di etnia. Potrebbero essere in grado di identificare la sua voce.”

“Tutto vero,” disse Sands.

“Ho l’impressione che qui ci sia sotto molto di più rispetto a quello che vediamo,” disse Jessie pensierosa.

“Anch’io,” confermò Sands. “Purtroppo non ho idea di cosa sia.”




CAPITOLO SEI


Jessie si era messa in una posizione rischiosa.

Solo perché non aveva dei casi attivi al momento non significava che il capitano Decker sarebbe stato felice di saperla diretta a Brentwood per ficcare il naso in un caso con il quale non aveva niente a che fare. Eppure era proprio quello che lei stava facendo.

Caroline Gidley, la vittima scoperta la notte precedente, era ancora priva di conoscenza e non era nella posizione di poter parlare. Il detective Sands l’aveva avvisata che Jayne Castillo, la terza vittima, non aveva voglia di essere interrogata. E dato che la cliente di Kat, Morgan Remar, era fuori città, le restava solo una persona con cui scambiare due parole.

Quando aveva chiesto a Sands se tentare di parlare con la prima vittima – Brenda Ferguson – sarebbe stato un errore, lui le aveva detto che i detective della stazione West L.A. che gestivano i casi sviluppati a Brentwood non sarebbero stati contenti. Ma non le aveva neanche richiesto esplicitamente di non farlo. Anche nella poca esperienza che aveva di lui, Jessie aveva la sensazione che quello fosse il suo modo per dirle di procedere.

Ryan aveva generosamente accettato di farle da copertura alla centrale per tenere la sua assenza alla larga dal radar del capitano Decker. Proprio mentre parcheggiava alla casa dei Ferguson, Jessie lo chiamò per controllare.

“Come vanno le cose lì?” gli chiese.

“Decker è così immerso nelle conseguenze del raid della squadra del buon costume, che non ha neanche notato che non ci sei.”

“Non so sentirmi sollevata o insultata,” rispose Jessie.

“Se ti può essere di consolazione, io sento la tua mancanza,” le disse lui.

Armata di quella sicurezza, uscì dall’auto e si diresse verso la casa. Non aveva chiamato per annunciarsi, per paura che i Ferguson chiedessero spiegazioni ai detective assegnati al caso. E poi aveva scoperto che si ottenevano informazioni più utili quando si prendevano i testimoni, i sospettati o addirittura le vittime di sorpresa. In questo modo non avevano tempo per organizzare i loro pensieri e modificare eventuali dettagli utili.

La casa era impressionante, anche se ben lungi dall’essere appariscente come alcune altre lungo quella via alberata. Era un edificio in stile spagnolo a due piani che si estendeva su un’ampia porzione del lotto di terreno. Il prato che si apriva sul davanti della residenza avrebbe potuto benissimo ospitare un’altra abitazione. Jessie bussò alla porta e dovette aspettare sessanta secondo buoni prima che un uomo sulla trentina venisse ad aprire, guardandola sospettoso.

“Posso aiutarla?” le chiese, mostrandosi allerta.

“Lo spero. Immagino lei sia il marito della signora Ferguson.”

Sì. Sono Ty.”

“Salve, Ty,” disse Jessie con il suo tono più accomodante e accogliente. “Mi chiamo Jessie Hunt e lavoro come profiler criminale per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. So che Brenda ne ha passate delle belle. Ma speravo di poter scambiare due parole veloci con lei. Sto cercando di elaborare un profilo dell’uomo che l’ha rapita e non ci sono molti dettagli che sono riuscita a estrapolare dalla cartella del caso. Mi sono trattenuta più che ho potuto, come forma di rispetto per ciò che ha passato. Ma parlarle di persona mi sarebbe davvero di aiuto.”

Non era entusiasta di fare quella prima presentazione di se stessa con quelle che erano, al meglio, delle bugie bianche. Ma aveva bisogno di un pass d’accesso, e quella sembrava la via più efficace. Ty non le sbatté la porta in faccia, ma le parve comunque reticente.

“Senta,” disse sottovoce, guardandosi alle spalle mentre parlava. “So che sta solo facendo il suo lavoro. Ma Brenda ne ha passate già tante. Ha ripreso a dormire di notte solo negli ultimi giorni. Ho paura che questo potrebbe riaprire tutte quelle ferite.”

Jessie aveva la sensazione che la sua ritrosia fosse al limite con le sue buone intenzioni e decise che era ora di essere più diretta.

“Non posso promettere che non lo faccia, Ty. Ma sto cercando di scoprire chi sia questo tizio in modo che non faccia del male a nessun altro. Non so se lei ne è al corrente, ma ieri notte è stata ritrovata una quarta vittima.”

“No,” disse Ty, sgranando gli occhi.

“Sì. Ora è in ospedale. Ha una brutta frattura a una gamba, che si è procurata scappando dopo quattro giorni passati chiusa in una gabbia per cani. Francamente, non ci sono indicazioni che questo tizio abbia intenzione di fermarsi presto. Spero che con l’aiuto di Brenda potremmo arrivare a lui prima che prenda una quinta donna.”

Ty sembrava combattuto, ma Jessie poteva vedere come stesse lentamente diventando più incline a lasciarla entrare. Si guardò una seconda volta alle spalle, verso l’atrio.

“Resti qui,” disse alla fine. “Lasci che prima le parli. Magari riesco a convincerla.”

“Grazie,” disse Jessie, ed entrò nel foyer mentre Ty scompariva in una stanza non ben definita in fondo al corridoio.

Jessie sentì dei sussurri sommessi e agitati che continuarono per diversi minuti, poi Ty sporse la testa fuori dalla porta.

“Venga pure avanti,” la chiamò. “Chiuda il portone dietro di lei, per favore.”

Jessie annuì, fece come le era stato richiesto e imboccò il corridoio. Quando svoltò all’angolo, trovò Ty che andava a sedersi a un tavolo accanto a una donna paffuta dai capelli scuri, con gli occhi rossi e un’espressione sofferente. Non sembrava felice di avere ospiti.

“Salve, signora Ferguson,” disse Jessie con voce roca. “Grazie per aver accettato di parlare con me.”

“Lo faccio solo perché Ty mi ha implorato. Mi ha detto della quarta donna. Come sta?”

“Sopravvivrà,” le disse Jessie. “È stata trovato sul ciglio di una strada a Griffith Park con una gamba rotta e diverse ferite di altro genere. Ma da quello che ho capito dovrebbero dimetterla entro la fine della settimana.”

“È sposata? Ha figli?”

“Non penso,” disse Jessie.

“Bene. Già è orribile vivere un’esperienza del genere. Ma è terribile anche per il resto della famiglia. Mia figlia viene nella nostra camera in lacrime quasi ogni notte. Mio figlio ha iniziato a bagnare il letto. Ty si sta occupando di tutto, e sento che sta per crollare.”

“Va tutto bene, tesoro,” disse Ty stringendole la mano. “Sto bene. E i bambini supereranno anche questa. Concentrati su di te. Penso che possa essere di aiuto. Se la signorina Hunt potrà trovare un nuovo modo per acciuffare questo tizio, questo aiuterà tutti a dormire di notte.”

“Pensa di poterlo fare, signorina Hunt?”

“Vi prego di chiamarmi Jessie. E la risposta che spero è sì, con il vostro aiuto.”

Brenda la osservò con i suoi occhi stanchi e annuì.

“Vieni con me, Jessie,” le disse la donna. “Voglio mostrarti una cosa.”

Detto questo si alzò e uscì dalla stanza senza aggiungere una parola di più. Jessie la seguì, voltandosi a guardare Ty, che scrollò le spalle e si alzò a sua volta. Brenda fece strada lungo il corridoio e si fermò accanto a uno scaffale a metà del corridoio.

Allungò la mano e tirò fuori un libro dalla copertina rossa che si trovava all’estremità della mensola. Il libro venne indietro con facilità e poi tornò al suo posto. Jessie udì un sommesso click. Improvvisamente la libreria ruotò indietro come una porta.

Una luce fosforescente si illuminò in alto, mostrando una stanza della grandezza di un piccolo studio. Appoggiata a una parete si trovava una piccola poltrona. Accanto ad essa c’erano due sedie di legno. Al centro si trovava un piccolo tavolino, e nell’angolo stava un minuscolo frigorifero.

A parte qualche rivista e un po’ di libri da colorare e dei pastelli, la stanza era spoglia di ogni divertimento. Alla parete era appeso un vecchio telefono. Su un altro muro era attaccato un grosso poster con la cover dell’album Nevermind dei Nirvana, in cui un bimbo è sott’acqua con le manine allungate verso una banconota da un dollaro.

“Che forza,” disse Jessie, indicando il poster, insicura di cos’altro dire a commento.

“Sì, direi di sì,” disse Brenda. “Lo abbiamo usato perché è abbastanza grande da coprire l’accesso al tunnel che abbiamo scavato sotto la casa fino al cortile davanti.”

“Ok,” rispose Jessie, sorpresa dal tono blando con cui Brenda le descriveva una situazione così poco convenzionale.

“Ti sto mostrando questo perché volevo darti un’idea di come sia la nostra vita adesso. Ho chiesto a Ty di far costruire questa stanza di sicurezza dopo che sono tornata a casa. Non so se sarà realmente utile in caso di emergenza. Ma fino a che non è stata pronta, non sono riuscita a dormire più di due ore alla volta.”

“Capisco,” disse Jessie sottovoce.

“Davvero?” chiese Brenda con tono di sfida.

“Sul serio,” le confermò lei. “Non vi annoierò con i dettagli, ma ho avuto diversi stalker. Ho fatto rifare il mio appartamento per includere diverse misure di sicurezza, usate generalmente nelle banche o nelle strutture del governo. E anche dopo che le minacce imminenti alla mia sicurezza sono state eliminate, mantengo il livello di sicurezza. Quindi capisco cosa vi ha mosso a fare questo.”

Jessie notò che per la prima volta Brenda la guardava come se avesse trovato in lei un’alleata.

“Mi spiace che ti sia successo questo,” le disse. “E puoi chiamarmi Brenda.”

Jessie sorrise.

“Grazie, Brenda. Ti spiace se ci sediamo?” le chiese, indicando la poltroncina.

“Qua dentro?”

“Tanto vale abituarcisi, no?” le disse Jessie.

Brenda guardò suo marito che non aveva detto una parola in tutto il tempo. Lui scrollò di nuovo le spalle.

“Vi aspetto in cucina, così voi due potete avere un po’ di privacy.”

Dopo che se ne fu andato, Brenda premette un pulsante sul muro e la porta si chiuse. Indicò un piccolo interruttore che sembrava essere più o meno nello stesso punto in cui si trovava il libro rosso dall’altra parte. Era contrassegnato dalle parole ‘aperto’ e ‘chiuso’.

“Così nessuno può entrare nella stanza fino a che ci siamo dentro noi, anche se sanno del libro,” disse Brenda.

“Ottima scelta,” disse Jessie. “Altrimenti non sarebbe tanto una stanza di sicurezza, direi.”

Prese l’iniziativa, andò a sedersi sulla poltroncina. Brenda si unì a lei, ma si sedette su una delle sedie vicine.

“Allora,” iniziò Jessie, “so che hai parlato tante volte con la polizia. Ho letto la cartella. Quindi tenterò di non ripetere troppo le loro domande. Io in effetti sono interessata a cose diverse.”

“Tipo cosa?” chiese Brenda incrociando le gambe prima in un senso e poi nell’altro, nervosa.

“Dalla descrizione che avete fornito tu, la seconda e la terza vittima, so che il tuo rapitore indossava degli elaborati travestimenti, incluse parrucche, barbe ed elementi facciali finti. So anche che tutte voi siete state bendate dopo il rapimento. Quindi adesso vorrei concentrarmi di più sulla sua voce. Te la ricordi?”

“Non riesco a levarmela dalla testa,” disse Brenda, “anche se non è che parlasse tanto.”

“Saresti in grado di descriverne il timbro?” chiese Jessie. “Era profonda o alta? O una via di mezzo?”

“Una via di mezzo. Era una voce normale, di tono medio.”

“Ok,” disse Jessie. “E che mi dici dell’accento? Hai notato niente tra le righe? Magari una vibrazione nasale? O un tono più piatto, tipo centro-occidentale? Magari qualcosa che ti ricordava New York o la New England? Usava parole strane che di solito non si sentono in giro?”

“Non ho notato niente di insolito,” disse Brenda, aggrottando la fronte, concentrata. “Io sono di Los Angeles e lui mi è sembrato normale, quindi magari anche lui è di qui?”

“È possibile,” disse Jessie. “E la scelta delle parole? Usava molto slang o aveva un linguaggio più curato? Ti sembrava una persona che avesse studiato molto?”

Brenda si prese un momento per scandagliare la propria memoria.

“Non me lo ricordo parlare in nessun modo elegante. Ma non ricordo neanche che usasse un sacco di slang. Era per lo più un linguaggio piano e standard.”

“Parlava insolitamente lento o veloce?”

Gli occhi di Brenda si illuminarono davanti a quella domanda.

“Magari un po’ più lentamente del solito,” rispose. “Era come se volesse essere sicuro di dire le cose giuste quando parlava. Era molto misurato. È di aiuto?”

“Forse,” disse Jessie. “Esploriamo altre aree. Hai notato un odore particolare?”

Brenda fece silenzio e arrossì.

“Cosa c’è che non va?” chiese Jessie con gentilezza.

Pensava che la donna non avesse intenzione di rispondere, ma dopo qualche secondo alla fine prese la parola.

“A essere onesta,” disse quasi in un sussurro, “non ricordo un odore provenire da lui. Qualsiasi cosa abbia usato per farmi perdere i sensi aveva un odore fortissimo. E poi non ho potuto sentire niente se non la mia stessa puzza, prima per il sudore e gli odori del corpo, e poi per… i miei stessi escrementi.”

Abbassò gli occhi e non aggiunse altro.

“Ok, allora andiamo oltre,” disse Jessie rapidamente. “Perché non parliamo di come si comportava più in generale durante la tua prigionia?”

Nel corso della mezz’ora successiva, Jessie venne a sapere che l’uomo non si arrabbiava mai, ma si irritava se Brenda parlava di suo marito o dei bambini. La donna aveva imparato presto che non era il caso di parlarne. Non rideva mai, ma sembrava più felice del solito quando le portava da mangiare nel ricovero in giardino, o quando la lavava con il tubo dell’acqua.

“Sembrava essere esaltato dai momenti in cui io venivo più umiliata,” le disse Brenda. “Diceva che facevano parte del processo di ‘purificazione’.”

Dopo queste ultime parole scoppiò a piangere e non fu più particolarmente utile. Jessie mise fine all’interrogatorio prima che le cose precipitassero del tutto. Quando ebbero finito, entrambi i Ferguson accompagnarono Jessie alla porta. Brenda sembrava stare un po’ meglio di quando l’aveva incontrata all’inizio. Mentre usciva, rivolse a Jessie una domanda.

“Pensi che potremmo avere il nome di quelli che hanno installato i sistemi di sicurezza a casa tua?”

“Certo,” disse Jessie, travolta dal senso di compassione. “Ti mando un messaggio con le informazioni.”

Mentre tornava all’auto, i suoi pensieri divagavano tra diverse varianti di come poteva essere questo rapitore. Solo quando fu arrivata accanto al veicolo si rese conto che tutti e quattro i copertoni erano stati tagliati.




CAPITOLO SETTE


Jessie ignorò l’improvvisa fitta di tensione allo stomaco e si guardò attorno, alla ricerca di qualsiasi elemento sospetto.

Era stato un atto sorprendentemente sfrontato: in pieno giorno, nella tranquilla via di un quartiere bene. Chiunque avesse agito, chiaramente non aveva poi tanta paura di essere beccato.

Non le balzò all’occhio niente di strano. Circa mezzo isolato più in là lungo la strada, c’era un piccolo furgone bianco rivolto verso di lei. Ma un secondo dopo, due uomini emersero da dietro il veicolo, occupati a trasportare un grosso divano verso una delle case vicine.

Qualche momento dopo Jessie vide un poliziotto in motocicletta sbucare da una strada laterale e dirigersi dalla parte opposta rispetto a lei. Sembrava stesse facendo un normalissimo giro di controllo. Era stata solo una sfortuna che non fosse passato quando le avevano tagliato i copertoni? O c’era dell’altro?

Odiava dover trarre la seconda conclusione, ma non poté fare a meno di considerarla. Era passato solo un mese da quando si era trovata personalmente coinvolta in un caso che aveva svelato un enorme scandalo legato alla corruzione nel mondo della polizia. Il suo contributo aveva portato all’arresto di più di una dozzina di agenti, incluso il capo del Gruppo Investigativo del Dipartimento di Polizia di Los Angeles e del sergente Hank Costabile della centrale di Van Nuys dell’ufficio della Valley.

Durante le indagini, Costabile aveva minacciato – prima sottilmente e poi apertamente – sia lei che sua sorella Hannah. Era forse l’atto di uno dei suoi scagnozzi che cercava vendetta per il suo amico ora incarcerato? Se così fosse, perché aspettare un mese e fare una cosa così casuale e sciocca?

O era forse possibile che il fatto fosse in qualche modo collegato ai rapimenti? Il rapitore stava forse in agguato fuori dalla casa dei Ferguson? Questo era un suo modo di mettere Jessie in guardia? Le sembrava improbabile, dato che dubitava che l’uomo bazzicasse nei paraggi. Anche se fosse stato il caso, non aveva modo di sapere che Jessie, vestita com’era con abiti civili, stava indagando sul caso.

Chiunque fosse stato e qualsiasi fosse il motivo del gesto, non cambiava il fatto che ora Jessie aveva bisogno di un carro attrezzi. Mentre aspettava, chiamò Ryan per aggiornarlo sia sull’interrogatorio che sull’incidente ai copertoni. Gli fornì tutti i dettagli, sperando che gli venisse in mente qualcosa che a lei stava sfuggendo.

“Potrebbero essere stati semplicemente degli odiosi ragazzini,” le propose lui, riguardo ai copertoni tagliati.

“Forse,” gli concesse Jessie. “Ma siamo nel mezzo di una giornata di scuola. Anche se alcuni ragazzi avessero marinato, pensi che se ne andrebbero in giro per il quartiere a tagliare tutti e quattro i copertoni di una singola auto? A me sembra una cosa più mirata.”

“Probabilmente hai ragione,” ammise Ryan. “Hai avuto più fortuna con la vittima del rapimento?”

“Un po’,” gli rispose. “Purtroppo quello che mi ha raccontato ci sarà più utile quando avremo per mano un sospettato. Fino ad allora, non è molto. Tu hai sentito niente?”

“A essere onesto, sono stato concentrato sulla testimonianza di oggi pomeriggio. Se non fosse per quello, verrei a prenderti.”

“Molto dolce da parte tua, ma non è necessario. Ti ci vorrebbe un’ora per arrivare qui, e non ho fretta. Appena mi cambiano i copertoni e torno alla centrale, devo solo rivedere le cartelle del caso Olin.”

Ci fu silenzio dall’altra parte della linea. Jessie si chiese cosa avesse potuto dire di sbagliato.

“Cosa c’è?” gli chiese ansiosa.

“Niente,” disse Ryan. “Stavo solo pensando che per quando riavrai indietro la tua macchina, non ha tanto senso che tu venga qui. Decker è andato al quartier generale per aggiornare i pezzi grossi sul raid della squadra del buon costume. Gli ci vorranno ore prima che torni. E tu hai per le mani una rara giornata tranquilla. Magari dovresti prenderti il pomeriggio libero e stare un po’ con Hannah senza me come terzo incomodo.”

“Non sei un terzo incomodo,” protestò Jessie.

“Sai quello che intendo. Sono sempre stato nei paraggi ultimamente. Questo potrebbe darvi la possibilità di passare un po’ di tempo tra donne. E se Hannah decide di usarlo per condividere qualcosa di personale, non sarebbe poi una brutta cosa.”

Jessie fu sorpresa del suo suggerimento.

“Ti è sembrata incline a fare una cosa del genere?” gli chiese, domandandosi se le fosse sfuggito qualcosa.

“Le ragazze di diciassette anni non hanno sempre qualcosa di personale che vogliono tenere per sé, anche se non hanno passato quello che è capitato a lei?”

“Sì,” disse Jessie. “Mi sto solo assicurando che tu non stia cripticamente alludendo a qualcosa di specifico.”

“No. So solo che Hannah sta andando dalla terapeuta, la dottoressa Banana.”

“Dottoressa Lemmon,” lo corresse Jessie, tentando di non ridere.

“Giusto, giusto. Sapevo che era della cerchia della frutta. E hai anche incaricato Garland Moses di analizzarle il cervello.”

“Sai che mi chiamava per quello ieri sera?”

“Sono un bravo detective. E poi gli hai assegnato una suoneria specifica e hai detto ‘Ciao Garland’ quando hai risposto. C’è da considerare anche questo.”

“Quindi non serviva che tu fossi un veggente, insomma,” lo canzonò.

“Comunque,” proseguì Ryan, senza lasciarsi distrarre. “Ho pensato che magari ad Hannah farebbe bene una chiacchierata con qualcuno che non le parlasse sempre in qualità di professionista di qualcosa. Sai, come una sorella maggiore per esempio.”

Jessie si rese conto che aveva ragione. Lei e Hannah stavano andando sorprendentemente d’accordo ultimamente. Ma per la maggior parte del tempo che passavano insieme, c’era sempre Ryan con loro. Era un’ottima compagnia, ma poteva anche darsi che stesse inavvertitamente trattenendo Hannah dall’addentrarsi in discorsi più pesanti. Magari un po’ di tempo insieme da sorelle l’avrebbe indotta ad aprirsi di più, sempre ammesso che ne sentisse il bisogno.

“Ryan Hernandez,” disse Jessie, sentendosi improvvisamente e inaspettatamente allegra, considerate le condizioni della sua auto, “non sei né la più stupida né la meno sensibile persona che abbia mai incontrato.”

“Grazie?”

“Hai anche un culo adorabile.”

Lo sentì tossire per qualcosa che gli era andato di traverso. Soddisfatta del proprio lavoro, Jessie riagganciò.


*

Hannah fu chiaramente piacevolmente sorpresa quando Jessie si presentò a prenderla direttamente a scuola. Poi divenne estremamente entusiasta quando seppe che si sarebbero fermate a prendere un gelato prima di andare a casa.

“Perché non lavori?” le chiese alla fine, con riluttanza, quando ebbero ordinato i loro coni nella gelateria dietro l’angolo, vicino al loro appartamento.

“Non sono particolarmente occupata adesso,” disse Jessie. “E volevo passare del tempo con te. Sai, senza quello sdolcinato ragazzo attorno.”

“Sdolcinato non è la prima parola che mi viene in mente quando penso al tuo ragazzo,” disse Hannah.

“Attenta,” disse Jessie in tono di finto rimprovero. “Non dobbiamo condividere ogni sensazione nel momento in cui la proviamo.”

Hannah sorrise, ovviamente divertita per essere riuscita a generare un certo imbarazzo.

“Non sapevo che le figlie dei serial killer avessero il permesso di poter condividere sensazioni e sentimenti,” disse ironica.

Jessie cercò di non lanciarsi famelica addosso all’opportunità che la sorella le stava offrendo.

“Tecnicamente, non ci è permesso,” rispose beffardamente. “Secondo il manuale ufficiale, dovremmo essere freddi automi privi di emozioni, che si impegnano in sbrigativi tentativi di copiare il normale comportamento umano. Come te la cavi con queste regole?”

“Piuttosto bene, devo dire,” rispose Hannah, stando al gioco. “Mi sembra che mi riesca piuttosto naturale. Se ci fosse una qualche possibilità di sbocco professionale, penso che sarei una valida candidata.”

“Anche io,” confermò Jessie, dando una leccata al suo cono alla menta e cioccolato. “Probabilmente tu saresti la numero uno nel torneo. E non per vantarmi, ma penso che io sarei una validissima seconda.”

“Stai scherzando?” chiese Hannah mentre mandava giù un bel boccone di sano Rocky Road. “Tu al massimo saresti un jolly.”

“Perché?” chiese Jessie.

“Tu esprimi affetto per gli altri. Hai delle vere amicizie. Hai una vera relazione con una persona a cui sembri voler bene. È quasi come se fossi un essere umano normale.”

“Quasi?”

“Beh, siamo onesti, Jessie,” disse Hannah. “Sei sempre lì che vedi ogni interazione come una possibilità di fare il profilo della persona. Ti butti nel tuo lavoro per evitare le comunicazioni dolorose nella tua vita personale. Ti muovi come un cerbiatto, con la paura che tutti quelli che incontri siano il cacciatore pronto a sparare. Quindi, non completamente normale.”

“Wow,” disse Jessie, sia impressionata che un po’ turbata dalla capacità percettiva della sorella. “Magari dovresti essere tu la profiler. Non perdi un colpo.”

“Oh sì,” aggiunse Hannah. “E cerchi anche di minimizzare le verità scomode con delle battute sarcastiche.”

Jessie sorrise.

“Touché,” disse. “Tutta questa consapevolezza del nostro comune involuto sviluppo emotivo significa forse che le sedute con la dottoressa Lemmon stanno funzionando?”

Hannah ruotò gli occhi al cielo, lasciando intendere che a suo parere quel tentativo di reindirizzare la conversazione era particolarmente mal riuscito.

“Significa che conosco i miei problemi, non che sia necessariamente capace di fare qualcosa per risolverli. Cioè, tu da quanto la vedi?”

“Vediamo. Adesso ho trent’anni, quindi direi più o meno una decina d’anni,” disse Jessie.

“E sei ancora un casino,” sottolineò Hannah. “Questo non mi rende particolarmente ottimista.”

Jessie non poté fare a meno di ridere.

“Avresti dovuto vedermi allora,” le disse. “Confronto alla versione di me a vent’anni, ora sono l’immagine perfetta della salute mentale.”

Hannah parve pensarci su mentre prendeva un morso dal suo cono.

“Quindi mi stai dicendo che fra dieci anni potrei avere un ragazzo che non è per forza come me?” le chiese.

“Ora chi è che sta usando battute ironiche per evitare verità emotive?” domandò Jessie.

Hannah le fece una linguaccia.

Jessie rise ancora e poi diede un’altra leccata al suo gelato. Decise di non spingere oltre. Hannah si era aperta più di quanto avrebbe sperato. Non voleva che la conversazione si trasformasse in un convenzionale scambio figlio-genitore.

E poi, considerava la disponibilità di Hannah ad ammettere la propria sensazione di alienazione come un buon segno. Forse le preoccupazioni di Garland e della dottoressa Lemmon erano esagerate. Forse la sua costante paura che la sorellastra potesse essere una potenziale serial killer era insensata. Forse la ragazza era una normale adolescente che aveva vissuto un inferno e stava cercando pian piano di tirarsene fuori.

Mentre guardava Hannah che si puliva il mento da una goccia di cioccolato, decise che avrebbe creduto a questo.

Almeno per ora.




CAPITOLO OTTO


Morgan Remar era sfinita.

Il suo volo di ritorno dalla conferenza per i Servizi Sociali ad Austin era partito in ritardo. Era così stanca che si era appisolata mentre suo marito Ari la riportava a casa in auto dall’aeroporto. Quando arrivarono a casa loro nel distretto di West Adams, vicino al centro di Los Angeles, erano le undici passate.

Avrebbe dovuto incontrare Jessie Hunt, la profiler amica di Kat, domani mattina, e voleva farsi una bella nottata di sonno. Ovviamente le era stato quasi impossibile ultimamente.

Fin da quando era scappata, ormai due settimane fa, si svegliava almeno tre volte a notte, a volte gridando e sempre madida di sudore. Non riusciva a smettere di sentire l’odore di pino del guardaroba nel quale era stata tenuta prigioniera per cinque giorni. Saltava per aria ogni volta che una porta sbatteva o il clacson di un’auto suonava. Temeva che rivivere l’esperienza raccontandola all’amica di Kat avrebbe solo accentuato il tutto.

Arrivarono a casa e Ari imboccò il vialetto. Nessuno dei due smontò dall’auto fino a che il cancello di sicurezza non si fu chiuso alle loro spalle. C’era già quando avevano comprato la casa due anni fa, ma come la villa stessa, che stava invecchiando e che loro stavano lentamente ristrutturando, anche il cancello era piuttosto malconcio. Il giorno che Megan era scappata, mentre si trovava convalescente in ospedale, aveva implorato Ari di farlo riparare. Quando era tornata a casa, l’aveva trovato perfettamente funzionante.

La cosa non avrebbe dovuto sorprenderla. Ari era la persona più gentile e generosa che lei avesse mai conosciuto, il totale opposto del suo primo marito, che aveva lasciato senza provare il minimo senso di colpa. Ancor prima che tutto questo succedesse, la pazienza di Ari nei confronti del suo carattere burrascoso – di cui lei era ben consapevole – era impressionante. Dal rapimento, era diventato un vero e proprio angelo: la accompagnava alle terapie, le faceva dei massaggi, cucinava pranzo e cena e la abbracciava il più possibile.

“Sei sveglia?” le chiese gentilmente, vedendola stiracchiarsi sul sedile del passeggero.

“Sì,” disse lei sbadigliando, “e ho una fame da lupi. I biscotti zuccherosi che hanno offerto sull’aereo non mi sono bastati.”

“Vuoi che ti prepari qualcosa?” le propose.

“No. So che sei esausto. E io sono una ragazza grande. Posso prepararmi un panino da sola.”

“Ne sei davvero capace?” le chiese prendendola scherzosamente in giro.

Lei si accigliò per finta mentre smontava dall’auto e raggiungeva poi la porta laterale della casa, zoppicando un poco e cercando di mantenere l’equilibrio con la gamba sinistra ingessata. Faceva finta di non pensarci, perché altrimenti avrebbe anche dovuto ricordare il motivo per cui si trovava in quella condizione. E non voleva ricordare il modo in cui aveva distrutto la porta di legno del guardaroba in cui il suo aguzzino l’aveva rinchiusa senza prestare troppa attenzione. Non voleva riportare alla mente il ricordo della sua caviglia sinistra che schioccava sonoramente, piegandosi in modo innaturale con l’ultimo colpo, quello che aveva finalmente aperto la porta del guardaroba. Morgan si levò il pensiero dalla testa.

Mentre Ari portava la valigia in casa, lei sorrise debolmente, forse per la prima volta nell’intera giornata. Era bello essere a casa, insieme all’uomo di cui si fidava. Era bello sapere che domani avrebbe incontrato la persona che secondo Kat avrebbe dato una smossa alle indagini.

Morgan conosceva bene il nome di Jessie Hunt ancor prima che Kat gliela nominasse. La donna aveva avuto la meglio su due serial killer prima ancora di compiere trent’anni. Era sfuggita agli intrighi delittuosi del suo stesso marito, che sembrava essere almeno cento volte peggio dell’ex di Morgan. E, almeno nelle interviste, sembrava non scomporsi per nessuno di questi incidenti. Ad essere onesti, Morgan si sentiva un po’ in soggezione.

Ma Kat le aveva assicurato che Jessie era una persona amichevole e che nessuno era più appassionato di lei nella sua ricerca della giustizia per le vittime che incontrava. Quindi sarebbe andata a parlare con lei, anche se significava che a breve sarebbero ricominciati gli incubi.

Ma quello era domani. Stasera aveva bisogno di un bello spuntino. Mentre saltellava verso la cucina, Ari andò a farsi una doccia. Era un mediatore di materie prime e aveva una riunione alle sei di mattina l’indomani con il team della East Coast, quindi aveva programmato di alzarsi, vestirsi e andare in ufficio molto presto.

Sentì l’acqua che si apriva nel bagno principale in fondo al corridoio mentre lei frugava nel frigorifero alla ricerca di qualcosa di appetitoso, ma non troppo pesante. C’era del tacchino affettato che decise di arrotolare in una tortilla, con una spalmata di mostarda piccante. Questo avrebbe dovuto placare la sua fame fino alla mattina dopo.

Il pensiero di andare al lavoro domani dopo il suo incontro con Jessie la riempiva di un complicato miscuglio di entusiasmo e timore. La conferenza era andata bene e lei era entusiasta all’idea di implementare alcuni dei nuovi programmi che aveva appreso.

Il ricovero per senzatetto dove lavorava a Venice era un pilastro portante nella comunità. Ma era anche una struttura lenta ad abbracciare nuove tecniche per andare in aiuto delle popolazioni a rischio. Per una parte della città così eccentrica e all’avanguardia, il programma di assistenza che utilizzavano era sorprendentemente tradizionale.

Si sentiva al contempo elettrizzata dalla prospettiva di poter offrire qualcosa di nuovo, ma anche colma di apprensione al pensiero di dover tornare nel posto dove era stata rapita. Domani sarebbe stato il primo giorno al lavoro dopo il recupero a casa nelle ultime settimane.

Il ricovero aveva assunto un ulteriore agente addetto alla sicurezza per accompagnare il personale dal parcheggio all’ufficio. Ma Morgan non era stata presa da quella parte. Lei era stata rapita mentre tornava dalla pausa pranzo sulla Venice Boardwalk, a pochi passi dalla famosa e notoriamente affollata Muscle Beach.

Anche con tutta quella gente attorno, a quanto pareva nessuno si era particolarmente insospettito vedendo l’uomo che le era arrivato alle spalle, le aveva messo sulla bocca un panno imbevuto di qualche sostanza chimica e aveva spinto il suo corpo privo di conoscenza nel sedile posteriore di un’auto parcheggiata solo pochi metri più in là.

Se non fosse stato per il bambino che aveva assistito all’accaduto mentre la madre pagava una maglietta a una delle bancarelle sulla Boardwalk, neanche quei dettagli sarebbero stati noti. Purtroppo il bambino – di soli cinque anni – era talmente scioccato da non poter offrire molto in materia di descrizione, oltre al fatto che l’uomo era bianco e l’auto era blu.

Come con il ricordo del guardaroba, Morgan tentò di cacciare anche quell’immagine dalla testa. Aveva ripetuto più volte il piano con il direttore del ricovero. Da ora in poi si sarebbe portata il suo pranzo e avrebbe mangiato in ufficio. Avrebbe chiamato la sicurezza al suo arrivo nel parcheggio e l’agente le sarebbe andato incontro e l’avrebbe scortata fino alla porta d’ingresso del ricovero. Avrebbe fatto la stessa cosa all’inverso alla fine della giornata. Avrebbe tenuto sempre attiva la funzione di localizzazione del suo telefono e avrebbe chiamato Ari sia quando arrivava al lavoro che quando partiva per tornare a casa.

La speranza era che con l’aiuto di Kat e di Jessie Hunt, la polizia prendesse quell’uomo, in modo che lei potesse tornare a una vita il più vicina possibile alla normalità. Sapeva che altre tre donne avevano vissuto il suo stesso incubo, tra cui una che era appena fuggita ieri notte. Non voleva che nessun altro dovesse soffrire a quel modo. L’incontro di domani era il passo successivo per mettere fine a questa storia.

Mentre metteva gli ingredienti del suo spuntino sul ripiano della cucina, udì un forte rumore metallico provenire dall’esterno. Tutto il corpo le si pietrificò per la paura. Prese un coltello da macellaio dal ceppo sul ripiano, spense la luce della cucina, andò di soppiatto vicino alla porta laterale e accese la luce del portico.

Ciò che vide le fece tirare un sospiro di sollievo. Un procione stava cercando con forza di entrare in uno dei loro bidoni dell’immondizia ben chiusi. Era riuscito a infilare una zampa nel piccolo spazio che c’era tra il bidone e il coperchio, ma non riusciva a passarci attraverso. Quando la luce si accese, l’animale sollevò la testa di scatto e a Morgan parve quasi di vedere del senso di colpa nei suoi occhi, prima che saltasse giù e scomparisse nel buio.

Rise silenziosamente tra sé e sé. Se un procione ladruncolo poteva farle venire le palpitazioni, allora le ci sarebbe voluto un po’ per tornare a qualcosa che assomigliasse alla vita normale. Riaccese la luce e tornò al banco della cucina per preparare il suo snack.

Ma messo giù il coltello, mentre si apprestava a prendere il tacchino, notò che la tortilla era sparita.

Avrei giurato di averla tirata fuori.

Si rigirò verso il frigo. Fu lì che notò l’impronta sporca di quello che sembrava uno stivale. Né lei né Ari indossavano scarpe in casa. La fredda sensazione di paura che si era appena placata tornò all’improvviso, come se un’enorme mano di ghiaccio le si fosse improvvisamente chiusa attorno al corpo. Morgan riprese il coltello da macellaio. Lanciando un’occhiata al banco della cucina, notò anche un’altra cosa: anche il piccolo coltello da cucina era sparito dal ceppo.

Stava per chiamare Ari quando un’ombra sfrecciò fuori dalla dispensa alle sue spalle, mettendole una mano sulla bocca un secondo prima che lei potesse pronunciare il nome del marito. Morgan tentò di lottare per liberarsi, ma lui le aveva già piantato il coltello da cucina contro la base della schiena per ben quattro volte. Anche lei tentò di far roteare verso il suo assalitore il coltello ben più grosso che teneva in mano.

Morgan annaspò sotto alla mano che le copriva la bocca. Non aveva idea se l’avesse colpito o meno, dato che il dolore e lo shock erano troppo grandi per poter capire null’altro. A un tratto perse il conto di quante volte il piccolo coltello le si era piantato nella pelle morbida sopra alle anche, ma a un certo punto Morgan crollò a terra.

Atterrò con forza sul pavimento della cucina e sentì la testa rimbalzare contro le piastrelle dure. Era prona a terra, ma aveva gli occhi aperti e poté vedere l’uomo che rimetteva delicatamente il coltello sul ripiano della cucina con mani guantate. Poi si chinò su di lei e pulì la lama del coltello che lei teneva in mano. Morgan non riuscì a vedere il suo volto.

“Pentiti,” le sussurrò l’uomo in un orecchio.

Anche se stava rapidamente perdendo conoscenza, Morgan provò un brivido di orrore riconoscendo la stessa voce del suo rapitore. L’uomo si rialzò in piedi e la guardò con medio interesse prima di voltarsi verso la porta.

Un attimo prima che uscisse e se la chiudesse alle spalle, Morgan lo vide portarsi la tortilla alla bocca e prenderne un grosso morso. Poi chiuse la porta e sparì. Tre minuti dopo, era andata anche lei.




CAPITOLO NOVE


Jessie era frustrata.

Sapeva che sarebbe dovuta andare a letto. Dopotutto era quasi mezzanotte e Ryan sarebbe rimasto a dormire a casa sua. Ma non era stanca. Aveva le cartelle di tutti e quattro i rapimenti disposte sul letto. Mentre ascoltava Hannah che rideva dalla stanza accanto, mentre guardava un episodio di Top Chef, lei cercava di unire i puntini.

Anche se queste donne avevano un sacco in comune, non c’era niente che le balzasse all’occhio come ovvio schema. Erano tutte attorno ai trent’anni, erano come minimo di media classe, se non proprio benestanti, e vivevano in bei quartieri. Ma lì le somiglianze finivano.

Nessuna di loro viveva nella stessa area della città. Nessuna di loro era stata trovata vicino al posto dove era stata rapita, né in prossimità delle altre vittime. Tre erano sposate, ma una, la più recente, non lo era. Tre erano bianche, ma la terza vittima, Jayne Castillo, era latino-americana. Una aveva figli. Le altre tre no. Due lavoravano in ufficio, una aveva un’attività che gestiva da casa e una era una madre casalinga. Nessuna di loro aveva la fedina penale sporca.

Avrebbe voluto avere qualcosa di positivo da condividere con Morgan Remar quando l’avesse incontrata l’indomani mattina. Ma adesso non c’era molto da cui partire. Sperava che magari Morgan le dicesse qualcosa che poi potesse collimare con ciò che aveva sentito oggi da Brenda Ferguson.

Era dibattuta se dire ad Hannah che era ora di andare a letto, quando il suo telefono suonò. Era Ryan.

“Ti manco?” gli disse.

“Sempre,” le rispose lui. “Ma non è per questo che ti chiamo. Mi hanno appena assegnato un caso. Decker vuole che stai con me. Ci sto andando adesso. Posso passare a prenderti strada facendo? Sarei lì tra quindici minuti.”

“Certo,” gli rispose, mentre iniziava a mettere via le cartelle delle donne. “Che caso è?”

“Non so ancora molto. Solo che l’uomo ha trovato la moglie morta in cucina meno di un’ora fa. Vivono a West Adams. Aveva meno di trent’anni, pugnalata diverse volte alla schiena e morta dissanguata.”

“Ok,” disse Jessie. “Ti aspetto davanti fra quindici minuti. Così ho il tempo che mi serve per implorare Hannah di andare a letto.”

“Buona fortuna.”

“Grazie. Sta guardando una trasmissione di cucina, quindi ne avrò bisogno.”


*

Parcheggiarono davanti alla casa a mezzanotte e 35. L’area attorno alla villa era già delimitata e circondata da quattro auto della polizia, un’ambulanza e un furgoncino del medico legale.

Jessie e Ryan smontarono a mezzo isolato di distanza e passarono accanto a diversi palazzi centenari prima di raggiungere la scena del crimine. Anche questa casa era grande e impressionante, ma più fatiscente delle altre. Una tela cerata e una catasta di legna nel cortile antistante suggerivano che i proprietari stessero tentando di porvi rimedio.

Ryan mostrò il suo badge e un agente sollevò il nastro di delimitazione in modo che loro potessero infilarvisi sotto e dirigersi alla porta d’ingresso. L’agente Pete Clark andò loro incontro: era un veterano con ispidi capelli grigi e due braccia da He-Man. Conosciuto nel dipartimento per il suo atteggiamento severo, non smentì le aspettative.

“Come va, Pete?” chiese Ryan quando lo incontrarono sulla soglia.

“I Dodgers stavano per battere alla fine del tredicesimo inning quando mi hanno chiamato, quindi potrebbe andare meglio. Questa cosa mi ha fondamentalmente rovinato la serata.”

“Mi spiace che questo fastidioso omicidio si sia messo in mezzo tra te e la tua partita di baseball,” rispose Ryan con finto tono di solidarietà. “Ti spiacerebbe aggiornarci su quello che è successo?”

“Certo,” rispose Clark, chiaramente non offeso dalla battuta di Ryan, e passando subito in modalità professionale. “Seguitemi.”

Prima di entrare in casa, Jessie si prese un momento per mettere insieme i suoi pensieri. Tutto ciò che stava per vedere era un potenziale indizio della disposizione mentale dell’assassino. Si levò dalla mente tutti i preoccupanti pensieri della sorellastra e delle donne rapite ed entrò. Mentre Clark li conduceva lungo il corridoio, camminando pesantemente sull’irregolare e scricchiolante pavimento di legno, illustrò loro la situazione.

“La vittima è una donna di ventinove anni, sposata, niente figli. Suo marito era appena andato a prenderla all’aeroporto di Los Angeles dopo una conferenza fuori città a cui aveva partecipato. Lui è andato a farsi una doccia mentre lei si preparava qualcosa da mangiare. Quando è uscito, l’ha trovata morta sul pavimento della cucina. È stata pugnalata undici volte alla base della schiena. Il cibo era ancora sul ripiano della cucina, come anche un piccolo coltello ricoperto di sangue. Lei aveva in mano un coltello da macellaio, ma non pare abbia avuto modo di usarlo.”

Arrivarono alla cucina, dove un altro agente porse loro dei copri-scarpe da infilarsi. Jessie vide la vittima distesa a faccia in giù sul pavimento dall’altra parte del bancone. La sua testa era rivolta dalla parte opposta rispetto a loro, in direzione della porta. La gamba sinistra era ingessata e la fasciatura era macchiata da schizzi di sangue.

“Abbiamo trovato delle impronte di scarpone sul pavimento che conducono al vialetto,” aggiunse Clark. “Il marito dice che loro non portano mai scarpe in casa, quindi le stiamo facendo testare. Ancora nessun risultato. Il team della scena del crimine dice anche che il manico del coltello da cucina è stato ripulito, quindi non sono ottimisti sulla possibilità di trovarvi qualcosa.”

“Chi è la vittima?” chiese Ryan.

“La cosa folle è questa,” rispose Clark. “Era una delle donne rapite che era recentemente fuggita. Si chiamava Morgan Remar.”

Jessie allungò involontariamente una mano aggrappandosi alla cornice della porta per sostenersi. Ryan si voltò a guardarla, scioccato quanto lei.

“Ne sei sicuro?” chiese a Clark.

“Sì. Suo marito ci stava raccontando di come finalmente si sentisse abbastanza a suo agio da tornare al lavoro domani per la prima volta da quando è accaduto il fatto. È davvero un peccato.”

Quando fu certa di potersi tenere in piedi da sé, Jessie fece il giro dell’isola della cucina, portandosi davanti alla vittima per poterla vedere bene in faccia. Anche con il volto azzurrognolo e gli occhi castani vuoti e lucidi, Jessie la riconobbe dalle foto della cartella, anche se i capelli castano chiaro, che in ospedale le erano stati tagliati, ora erano molto più corti. Eppure era la donna che avrebbe dovuto incontrare domani.

“Segni di furto?” chiese sommessamente, sorpresa di sentire la propria voce. “Non è stato preso niente? Oggetti di valore? La sua borsa?”

“Per ora niente,” disse Clark.

“Dov’è il marito?” chiese Ryan.

“È in camera sua. Era piuttosto distrutto, mi è sembrato decisamente sotto shock. I medici vogliono portarlo in ospedale, ma lui non vuole andare fino a che non porteranno via il corpo della moglie. Dice che non può lasciarla qui.”

“Sappiamo se abbia precedenti?” chiese Ryan.

“Non ne ha,” rispose Jessie. “È stato arrestato durante una rissa al bar vicino al campus quando studiava all’UCLA. Ma le accuse poi sono state fatte cadere.”

“Come fai a saperlo, Hunt?” chiese Clark stupito.

“Stavo fornendo la mia consulenza sul caso delle donne rapite per un’investigatrice privata mia amica,” spiegò. “A dire il vero ho letto la cartella di Morgan proprio stasera. So tutto della formazione scolastica dei Remar, di come si sono conosciuti, quando si sono sposati, da quanto hanno gli attuali posti di lavoro. Sapevo addirittura che vivevano a West Adams. Solo che non avevo fatto il collegamento.”

“Perché avresti dovuto?” le chiese Ryan. “Voglio dire, che possibilità c’erano che fosse la stessa vittima?”

“Questa è la domanda che dovremmo seguire,” mormorò Jessie, parlando quasi a se stessa.

“Cosa stai dicendo?” chiese Clark scettico. “Che lo stesso tipo che l’ha rapita è tornato a finire il lavoro? Da quello che ho visto non sembra essere il suo modus operandi.”

“Hai ragione,” ammise Jessie. “Non lo è. Potrebbe essere una terribile e sfortunata coincidenza.”

“Oppure,” aggiunse Ryan, “potrebbe essere che il signor Remar abbia deciso di approfittare della situazione per sbarazzarsi della moglie. Con il suo rapimento, aveva tutto dalla sua parte per poter depistare i sospetti. Dovremmo parlare con lui prima che passi troppo tempo.”

“Fai pure,” disse Clark. “Il corpo non verrà rimosso prima di venti minuti almeno. Dato che non ha intenzione di andare da nessuna parte prima che ciò avvenga, avete un’opportunità perfetta.”

Li condusse verso la camera matrimoniale, dove Ari Remar sedeva sul suo letto, piegato in avanti con la testa tra le mani. Aveva un inizio di calvizie e aveva deciso di non nasconderla, ma di rasarsi in modo da lasciare solo una leggera peluria dietro alla testa. Sembrava fragile e patetico con la sua maglietta bianca e i pantaloncini, gli abiti che a quanto pareva si era messo addosso dopo la doccia.

Jessie lo immaginò andare in cucina, sperando di poter convincere sua moglie ad andare a letto dopo una lunga giornata, cercando di metterla a suo agio prima di tornare al lavoro per la prima volta l’indomani. Ma poi le entrò nella mente un’altra immagine, che non poté ignorare. Si voltò verso Clark.

“Qualcuno ha controllato la doccia?” chiese.

“Cosa intendi dire?” le chiese.

“Il team della scena del crimine ha controllato se ci sono residui di sangue sul pavimento della doccia, nello scolo o nelle tubature sottostanti?”

“Vado ad assicurarmene,” disse Clark.

“Per favore,” insistette Jessie. “Immagino che daranno anche un occhio all’immondizia per vedere se ci siano dei vestiti sporchi.”





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“Un capolavoro del thriller e del mistero. Blake Pierce ha fatto un ottimo lavoro sviluppando dei personaggi con un lato psicologico così ben descritto da farci sentire come dentro alle loro teste, seguendo le loro paure e gioendo per i loro successi. Pieno di svolte, questo libro vi terrà svegli fino a che non girerete l’ultima pagina.” . –Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il killer della rosa) . L’ALIBI PERFETTO è il libro #8 di una nuova serie di thriller psicologici dell’autore campione d’incassi Blake Pierce, che comincia con La moglie perfetta (scaricabile gratuitamente) ha quasi 500 recensioni da cinque stelle. . Una moglie e madre di periferia scappa dalle grinfie di un serial killer psicotico, finendo assassinata poche settimane dopo… È stata una coincidenza?. Oppure c’è là fuori un serial killer che sta facendo un orribile giochetto di prendi e molla… e poi riprendi?. Riuscirà la famosa agente dell’FBI Jessie Hunt, 29 anni, a scuotersi di dosso i propri traumi personali ed entrare nella mente dell’assassino? Potrà salvare la prossima vittima – e forse se stessa – prima che sia troppo tardi?. Un thriller psicologico veloce e pieno di suspence, con dei personaggi indimenticabili, L’ALIBI PERFETTO è il libro #8 di una nuova serie che vi terrà incollati alle pagine e non permetterà quasi di andare a dormire… Anche il libro #9 nella seria di Jessie Hunt—IL VICINO PERFETTO—è disponibile..

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