Книга - In faccia al destino

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In faccia al destino
Adolfo Albertazzi




Adolfo Albertazzi

In faccia al destino





PARTE PRIMA



I

Ero da pochi giorni a Valdigorgo, e già deluso nel tentativo estremo per cui mi ero trasportato da Molinella, alla casa dell'amico Moser, alle Prealpi.

Non avevo avuto la speranza che l'aria di lassù mi purificasse lo spirito; soltanto avevo pensato che la famigliarità con gente di cuore potrebbe scuotermi il cuore. Tre anni innanzi, quando combattevo i primi fieri assalti del nemico insorto in me, non avevo attinto lassù, nuove forze alla resistenza? là non avevo provato il sollievo di lunghe tregue?

Claudio Moser con animo aperto e affetto antico; Eugenia, sua moglie, con la bontà che io non sapevo paragonare se non alla bontà di mia madre; le figliole – Marcella e Ortensia – soavi e liete; il piccolo Mino, instancabile al trotto delle mie ginocchia, quante volte parlandomi nella memoria mi avevano chiamato a loro, come in porto e a rivivere!

Ma invano! Avevo fatto invano il lungo viaggio! Fortunatamente, se io ero a tal punto da non sentire più nulla e da rincrescere agli altri oltre che a me stesso, fortunatamente io avevo trovato la famiglia Moser in condizioni diverse: Claudio, sovraccarico di faccende, s'assentava interi giorni; la moglie, non era ancora in piena convalescenza d'una malattia quasi mortale; Marcella, da brava massaia diciannovenne, s'intratteneva a diriger la casa; Ortensia, assisteva la madre; e il fanciullo, prossimo ormai all'età della discrezione, preferiva, al trotto delle mie ginocchia, tamburi, pifferi e schioppi.

– Qua sei il padrone tu – mi aveva detto Moser. – Fa quel che vuoi per annoiarti più o meno, secondo la tua filosofia.

Pur troppo io non volevo nulla: soltanto restar solo. Dal dì dell'arrivo non avevo più varcato il cancello. Mi appartavo nel giardino a giacere e a sonnecchiar ignaro.

Così indifferente ero divenuto, che non mi ero accorto della differenza delle cose intorno; non avevo riconosciuto i vecchi alberi, non osservate le nuove piante e le recenti aiuole, quasi fossero per me luogo e paesaggio nuovi ma senza novità, o vecchi e sempre uguali, e sempre visti uguali.

E non per intimo impulso, ma come per inerzia, salivo ogni dì, alle ore solite, dall'inferma. Ne' suoi occhi freddamente io scorgevo un velo di rassegnazione se la fede di guarire le venisse meno; e al suo orecchio le mie parole giungevano fredde, perchè non confortavano, ma soltanto confermavano una cosa certa alla mia scienza: la guarigione. Nè a vederla così emaciata mi veniva fatto di ripensarla quale era ancora in salute, tanto bella e fiorente una volta! Quanti anni innanzi? Non più di quattordici. Allora io, ero appena laureato; essa aveva Marcella di cinque o sei anni e Ortensia piccolina. Che bellezza a vederla con la fanciulletta a lato e quell'angiolo biondo in braccio! Una bellezza materna. E come Eugenia era bella allora, io ero baldanzoso e ambizioso. Rapito nel mio sogno di scienza e di gloria, appena mi accorgevo di quel fiore di donna; e non l'invidiavo all'amico. Restavo chiuso nella mia camera quasi tutto il giorno a studiare; non mi distraeva la delizia del luogo; non mi rimproverava la cortesia della buona signora, a cui tenevo sì povera compagnia.

Talvolta, nella passeggiata avanti desinare per andar incontro a Claudio, Eugenia, come senza volere, ingenuamente, mi aveva detto di essere troppo racchiuso in me stesso, richiamando la mia attenzione alla vita esterna, ai bei tramonti, al bel paesaggio; e che soggezione era in lei se io mi inducevo a discorrere delle mie idee e dei miei studi! Mi ascoltava avvolgendomi del suo sguardo; lo sguardo che abbelliva ora Marcella. Per la via chi ci vedeva sogguardava forse malignamente: Eugenia non aveva ombra di alcuna malizia; e quando incontravamo Moser ed essa sorrideva e s'accendeva di gioia, oh allora io mi compiacevo che neppur l'ombra di un pensiero sinistro offendesse, entro di me, l'amore e la gioia di Claudio! Non avevo avuto mai, non ebbi mai per Eugenia un pensiero di profanazione; sempre ebbi per lei una devozione affettuosa e pura.

Ma ora quasi mi pareva naturale che Eugenia fosse così intristita e smunta, quasi fosse stata sempre così. A udirla narrare adagio e piano della sua malattia e delle pene de' suoi, mi pareva d'ascoltare un racconto non più doloroso; mi pareva naturale che nello sguardo di Marcella passasse l'ombra di tante angosce; naturale che Ortensia poggiasse il capo accanto al capo della madre e che le rosee guance e le guance emaciate stessero insieme un poco sul cuscino bianco, e che le labbra vive di sangue ricercassero a quando a quando, come per riscaldarla, la fronte esangue.

Finchè un giorno, mentre Ortensia usciva dalla stanza, dissi senza intenzione di recar piacere, senza intenzione alcuna:

– Sono belle, Eugenia, le vostre figliole.

La madre non negò. Affermò:

– Sono buone.

Io tacqui, parendomi naturale che la madre, non io, che pure le conoscevo, ne avvertisse la bontà e che io tacessi.

Ma quello stesso giorno, avanti desinare, Ortensia mi sorprese laggiù, sotto i tigli.

Disse scherzosa: – Riverisco! – e s'inchinò.

– Chi t'ha svelato il mio rifugio? – domandai a mezza voce. (Ubbidendo a Moser proseguivo a dar del tu alle signorine, tuttavia bambine agli occhi del padre…)

– Lo sapevo – ella rispose. Poi aggiunse franca: – E voglio saper tutto, tutto!

– Che cosa?

– La mamma lo dice da un pezzo: Sivori è mutato. Si può sapere cos'ha?

Quantunque ardita innanzi a me, Ortensia m'interrogava con un sorriso incerto; col dubbio manifesto che non le rivelerei il mio segreto, e col rammarico che neppur lei, la mia «piccola amica» d'una volta, meriterebbe tal confidenza. Dubitava d'un mistero. E io, che non sapevo che dirle:

– Sono stanco – dissi; e la guardai in modo da toglierle il sospetto del mistero.

– Stanco fin di parlare?

– Sì…; non d'ascoltare, però. Parla tu.

– Santa pazienza! Parlare? Ma di che, con lei?

Frattanto siede nell'erba e s'abbandonò non scomposta, reclinando il capo a un tronco, e chiese:

– Che debbo dirle? Su! presto!

Ma io non avevo ancora parlato ch'essa si rialzò d'un tratto a seder meglio.

E fermando al petto un grosso mazzo di margherite:

– È stanco anche dei fiori?

Non risposi.

Allora venne a pormi due margherite all'occhiello della giacca, mentre ripeteva: – Sivori non è più lui! non è più lui!

Ed io scossi le spalle, impaziente:

– Parla d'altro!

– Cosa debbo dirle? Andiamo!

– Raccontami della tua vita in città, quest'inverno. Andavi a scuola?

– A scuola, io? a diciassette anni? Ho diciassette anni!

Ne pareva meravigliata essa stessa.

– E ne sai abbastanza?

– Di matematica, sì! Oh la maestra di matematica! Per tre mesi – siamo rimaste a Milano tre mesi – tutti i giorni quella seccatura! Io non ne azzeccavo una; le somme non tornavano, le moltiplicazioni peggio che peggio! Come sarà che da me i numeri non si lasciano moltiplicare? Basta; la maestra, poveretta, scuoteva la testa come una tartaruga e sospirava: «Non ha disposizione alla matematica!» Il guaio è che diceva lo stesso la maestra di francese, madame Duret. La conosce madame Duret? No? non la conosce? – (Rideva di gran gusto) – . Immagini un uomo vestito da donna, con una sottana di color malva corta corta, una mantellina nera, un cappello di fil di ferro, il fusto s'intende, ma con il velo e i nastri sossopra che lasciavano vedere il fusto; e un naso, oh che naso! Buona però, tanto buona, Madame Vous-vous?.. Sa perchè io la chiamavo così, Madame Vous-vous? Perchè lei diceva: Bonjour, mademoiselle! E io: Bonjour, madame. Comment vous portez? Mi dimenticavo sempre, a posta, il secondo vous. E lei: portez vous! vous! Quelle étourderie!

– Eppoi?

– Eppoi cosa?

Non trovai altra domanda che intorno i divertimenti di lei, all'inverno.

Conversazioni? Ma che! non andavan da nessuno; non ricevevan nessuno. A teatro sì, qualche volta…; a opere o a commedie, di cui finsi ignorare l'argomento per non aver necessità d'interloquire e per lasciar dire a lei, chiacchierina agile e fervida. Nell'esprimere impressioni lontane e ancora sensibili essa aveva una prontezza insolita, e s'arrestava a quando a quando per esser confermata nel suo entusiasmo. Domandava: – Non è forse un bel dramma? Che bella musica, è vero?

Ma tosto io non le badai più affatto. Mentre proseguiva a discorrere, io, non so perchè, o perchè talora ella acuisse la voce al tono fanciullesco e da ciò fossi condotto a ripensarla ragazzetta, o perchè in quell'ora i suoi occhi avessero una luce più viva, o perchè la tinta rossa del tramonto mi rappresentasse, d'improvviso, un altro simile tramonto; non so perchè e come, io ebbi l'istantaneo presentimento d'un risveglio in me nel rinnovarsi d'un ricordo. La memoria, repentinamente e spontaneamente ridesta, mi ridiede in quello stato mortale una fugace coscienza di vita.

Non rammentavo un fatto che importasse, allora, alla mia esistenza; era anzi un fatto minimo che rivedevo e nel quale mi rivedevo con precisione e reintegrazione di circostanze, di azioni, di aspetti, di suoni. Con ogni senso percepii il ricordo.

E anche oggi lo riprendo e ripeto senza sforzo alcuno; in evidenza, per me, tragica, sebbene agli altri possa parere una futile rimembranza.

Un giorno d'autunno salivo al poggio dove una volta i frati del vicino convento riposavano dagli ozi della preghiera svagando l'occhio nel paesaggio intorno, ascoltando capinere e rosignoli, odorando effluvii di menta e di ginepro, bevendo aria vitale e dimenticando, paghi, che il paradiso è per dopo la morte. Ma quel giorno, a vespero, il dominio della mia solitudine era stato invaso; e da chi mi dichiararono alcune voci più alte fra il chiasso che mi giunse a mezza costa. Erano i miei amici; ragazzi e ragazze. Che facevano lassù? Quale nobile impresa? Volli sorprenderli. M'inerpicai di traverso; mi celai a spiare tra una macchia.

Ma bravi! ma bene! Non ci mancava nessuno. Le signorine Marcella Moser e Anna Melvi diricciavano castagne a colpi di pietra e parlavano sommesse; di contro, Guido Learchi, già studente di medicina, zufolava interrompendosi per sgridare, quale direttore all'opera, e finiva di comporre un forno con mattoni e sassi. Gli servivano da manuali Ortensia Moser e Pieruccio Fulgosi, affaticati a raccogliere il combustibile.

– Là!

– Nella siepe!

– Sotto al noce!

Furettavano dappertutto e per poco non mi scovavano.

Pieruccio più svelto di tutti ammucchiava foglie e fronde, che Ortensia recava a bracciate.

Guido protestava:

– Legna grossa e secca! Con questa non si fan bracie!

– Ecco! A te! prendi!

– Che uomini! Un'ora per fare un po' di fuoco! – gridava Ortensia.

E Learchi a bofonchiarla: – Meh! meh! meh!

Poi egli diede uno scapaccione a Pieruccio ordinando:

– Spicciati, tu! Altra legna! legna! dico legna!

Finchè annunciò: – Pronti! – e appiccò il fuoco. Un clamore d'applausi salutò le prime volute di fumo.

– Forza! Siete in ordine?

– Sì, ma non le bracie!

Quand'ecco Pieruccio venne da lungi con grida più alte:

– Legna grossa, signori! legna da carbone! – Si traeva dietro una panca.

– Da bruciare?

– Sei matto?!

– Bruciamola! Bruciamola!

– Non si può! Non è nostra! – protestava Marcella.

– È rotta!

– Bene! Va bene, questa!

– Bruciamola!

– No!

– Sì!

– Sì! Bruciamola!

Urtoni, strappi, scappellotti, strida.

E io piombai in mezzo alla mischia.

Allora! Dopo il breve silenzio della sorpresa:

– Eh! Chi si vede! Ben arrivato! Buona sera! – Sta bene? – Ma si accomodi! – Che cosa comanda? – Uh, che faccia!

Sostenendo io, quantunque a fatica, il cipiglio di severità, le tre signorine, raccolte insieme a braccetto per comune difesa, mi risero in faccia; mentre Guido ripeteva inchini e chiedeva:

– In che possiamo servirla?

Quieto solo lui, Pieruccio, mi attaccava un riccio nella giacca, alle spalle.

– Punto primo! – urlai (Oh in che imbroglio mi ero messo!) – Qui si è rubato!

– Nossignore! – S'inganna! – Non è vero!

– Lasciatelo dire!

– Si sono sbattuti i castagni!

– È falso! – Calunnia! – Calunnia! – Lasciatelo cantare! Ha invidia! – Si calmi…

– Questi ricci sono stati staccati dalle piante! Ho visto! Si vede!

– Uh!.. Bugia! Li abbiamo raccolti in terra!

– Tutti? – interrogavo ora chi non mentiva mai: Ortensia.

– In terra! erano in terra!

Ma Ortensia rispose:

– Due soltanto…

– E chi li ha tolti?

– Io!

Sincera fino alla sfacciataggine. Tutti, tranne Pieruccio, il quale cheto cheto proseguiva l'addobbo al mio dorso, risero, e le dissero: – Brava!

Io urlai ancora:

– Punto secondo! È proibito mangiar castagne o cotte o crude prima di desinare.

– Brrr! – Ha ragione! – Non gliene daremo nemmeno una! – Sì! una, perchè ne faccia la voglia! – Nessuna! Nessuna! – Poverino!..

Anna aggiunse: – La finisca! – ; e la timida Marcella, anche lei: – La smetta!

A cui seguì stentorea la minaccia di Guido; la minaccia studentesca, piazzaiuola, anarchica, spaventevole:

– Abbasso i poliziotti!

– Abbasso!

Che fare? Chi mi salverebbe? Solo un incidente imprevedibile. Infatti Pieruccio, compiuta l'opera sua, mi punse d'un riccio a un polpaccio, e io mi gli rivolsi contro…

– Evviva! – Parve si scoprisse un monumento. Tal gioia fu a vedermi tappezzato a quel modo, che le signorine e il monello minore fecero, a mano a mano, catena; mi rinchiusero in un cerchio; mi rigirarono cantando in coro:

È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulera!
È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulà!

Intanto Guido sopperiva alla bisogna.

Punf! paf! Due castagne scoppiarono: Marcella e Anna mi presero a braccio; Ortensia mi ripuliva; Pieruccio accorse e si scottò le dita.

– Sia buono! – cominciarono a pregarmi i meno ingordi. – Non faccia la spia! Mangi con noi! – E mi convenne sedere al banchetto, complice o manutengolo.

Ma (approssimava il tramonto) dal fondo dell'anima io mi sentiva sorgere a poco a poco un'uggia che oscurava il sollazzo cercato con simpatia puerile; e in me avvertivo come uno sforzo a dimenticare la differenza dell'età fra me e coloro, e provavo come il rimpianto di quell'età, e mi chiedevo se a quindici anni io avessi avuto una giornata di così piena giocondità, di così assoluta spensieratezza. I compagni ridevano, motteggiavano, bofonchiavano, si eccitavano a vicenda, maggiori e minori, per esilarare ed esilararsi sempre più; e il giorno era per morire, nel modo dei giorni d'autunno.

Finchè, sazii, si levarono; avventarono nel fuoco quanto fogliame poterono raccogliere d'intorno, e dopo nuovi applausi ed evviva, a rincorse, strillando giù per il viale, tutti m'abbandonarono: un drappello di passeri che aveva spiccato il volo.

Si confusero le voci; echeggiarono forti; tornarono deboli; cessarono interrotte e furon riprese là in fondo, lontano, da un richiamo più alto; morirono.

Intanto il sole cadeva in un'onda di vivo sangue e i raggi che ne sprizzavano, colpendo il monte avverso, vibravano tra i faggi, gli abeti e i castagni della densa costa boschiva, sì che pareva, a fusti d'ametista e di zaffiro, una selva incantata, tutta fulgida d'oro, sfavillante. A nord i monti in cerchia dove non avevano luce o non ricevevan riverbero, annerivano; mancavano i profili e i contorni; scemavano e sfumavano le ultime vette; e dalla parte di mezzodì, sulla plaga che scampa alle due catene protese quasi per un impotente abbraccio, su per la pianura immensa aperta all'orizzonte, il cielo digradava dalle tinta di viola e un'opalina bianchezza, a un cilestre che diventava azzurro, a un azzurro che incupiva sempre più; finchè terra e cielo insieme terminavano nell'oscurità.

E silenzio. Non più voce alcuna; non una squilla. D'improvviso, come non mai, neppure in una notte serena lontano agli uomini e perduto sotto l'infinito; neppure in mezzo al mare ricordando la patria e cercando indarno un limite terrestre, io mi sentii allora, come non mai, solo. Non un grido, non un suono; oblio. E in quell'oblio d'ogni cosa viva per me, d'ogni mio pensiero, smarrendomi nella percezione dell'attimo, veramente io patii il senso di un superstite che scorgeva dall'una parte la cruenta morte del sole e dall'altra l'estrema illusione della vita, mentre da dietro incalzavano le tenebre, la morte precipitava; e avevo dinanzi l'infinito per rifugio, e tutte le mie forze vi tendevano quasi in un disperato ritorno per una disperata salvezza; e invano, chè una forza più valida mi avvinceva lassù: solo.

Cercai anche con incerti occhi il fumo che rimaneva del falò acceso dai ragazzi; e quel povero segno umano vaporava subito, svaniva; non altro a vederlo che quanto rimaneva d'un rogo con cui pochi mortali, già travolti nelle tenebra, avessero creduto placare il Dio o il fato inesorabile.

Non un suono, non un grido; morte. Ma allo smarrimento di me stesso, che volevo fuggire da me stesso e non potevo, mi seguiva a poco a poco una rassegnazione di schiavo, una prostrazione di vile, un impulso a pregare, una tentazione a piangere, un doloroso desiderio dei miei, che mi avevano preceduto nella morte e nell'ombra.

– Che fa quassù?

Mi voltai. Ortensia accorreva.

– È ora di pranzo – esclamò giuliva.

Ella ansimava per la corsa e per l'erta.

Ma arrestandosi d'un tratto, non attese più a me; rapita d'un tratto, più presto di me, con maggior impeto verso quella splendida agonia del giorno.

Quindi mutata in viso mormorò:

– Che tristezza, non è vero?

Io la guardai negli occhi. E vidi un'anima.

Non era strano che questo ricordo di tre anni avanti mi tornasse in mente ora, quando la mia mente ripugnava da ogni considerazione che non fosse il mio male presente e immenso?

Poi seguì al ricordo un'idea ugualmente strana: – per riprender la vita non mi gioverebbe tornar fra ragazzi quale un ragazzo? – Guardai Ortensia mentre chiacchierava… Avevo visto un'anima… Ma adesso Ortensia era sui diciassette anni; era una giovinetta; e come per tutte le altre della sua età, belle o brutte che siano, null'altro le ferveva negli occhi che la giovinezza.

Ancora deluso, in me svanì l'effetto di quel primo risveglio della memoria; scomparve l'idea che l'aveva seguito fugace al pari di un baleno; ripiombai nel vuoto.

– Ohe! Non risponde? – esclamò Ortensia quando fu stanca e, a una sua dimanda rimasta sospesa, s'accorse che non le badavo più. Aggiunse, malcontenta: – Mio Dio! che uomo!

Mi sembrò allora che la baldanza della giovinetta celasse un segreto timore; pensai ch'ella e forse altri dei Moser dubitassero di vedermi impazzire.

A confermarmi nel sospetto quella stessa sera, a desinare, Claudio si ricompose la barba come soleva in caso di pensieri molesti, e un po' oscurato nella faccia, di solito così serena, mi disse:

– Senti, Carlo: aut aut: o tu mi accompagni giù in pianura, tutti i giorni, a goderti con me trentacinque gradi all'ombra, o mi dai la tua parola…

– Ah! – interruppi – Eugenia ha detto anche a te che Sivori non è più quello?

Fu una dimanda aspra, con un sorriso amaro.

– Non c'entra Eugenia. Io, io, a ricordarmi che ho un amico a casa mia che s'annoia mortalmente e che per non annoiarsi è costretto a meditare su l'impossibile…

Scossi, annoiato, le spalle.

– … un amico che non lavora come me, all'antica, più con le gambe che con la testa, ma un uomo moderno, che lavora solo di cervello e che è venuto da me per riposarsi e non può, perchè non ha distrazioni e non ne vuole, io ci patisco, perdio! me ne dispiace molto! Sforzati a cacciare il malumore…

(Sorrisi a udirmi attribuire soltanto del malumore…)

– … Devi darmi la tua parola che uscirai dal covo, ti muoverai, andrai in paese, alla fabbrica, da qualche parte insomma, purchè quando torno a casa non ti veda con quel muso da Spinoza!

– Sta tranquillo! – feci io – ; non medito; non mi annoio: mi riposo. L'aria di Valdigorgo basterà per guarire un po' di stanchezza…

– Sicuro che dovrebbe bastare!..; ma intanto il tuo muso da Spinoza offende Valdigorgo, offende questo paradiso terrestre, offende me!

Mino chiese: – Babbo, chi è Spinoza?

Claudio lo conosceva solo di nome; tuttavia rispose pronto e feroce:

– È un bravomo senza giudizio come Sivori! Se diventassi uno Spinoza anche tu, ti strozzerei! E voi, – aggiunse rivolto alle figlie – perchè dimenticate la consegna di non lasciare a Sivori un minuto di quiete? Tormentatelo, talpe!; fategli tutte le birichinate che vi verranno in mente!..

Marcella si scusò dicendo che temevano disturbarmi. Più ardita, Ortensia mi fissò un istante e promise che lei e Mino mi avrebbero scovato da per tutto e me ne avrebbero fatte delle belle.


II

La mattina dopo mi incamminavo al di là del cancello per la via montana a cercar un nuovo e più sicuro nascondiglio. Ma troppo tardi! Ortensia mi raggiunse di corsa.

– Andiamo a salutare Giovannin?

Andammo là, presso il muricciolo di fronte alla villa, dove ogni mattina Giovannino il cieco veniva, con lo sgabelletto sotto il braccio, l'organetto in una mano e il bastone nell'altra. Ivi, accanto al muro, sedeva ad aspettare l'elemosina mentre riprendeva dallo sfiatato strumento l'«addio, mia bella, addio!»; e intanto borbottava e sorrideva, nessuno sapeva a chi.

Per gli occhi aperti e immoti non vedevano le spente pupille; non aspetto di cielo e di campagna o di persona tornava alla memoria di quel povero diavolo. Giovannin sorrideva, ma d'un sorriso cieco anch'esso, come per una insistente contrazione delle labbra, o per ebetudine; finchè non sopravvenivano i monellacci. Allora, giù l'organetto e su il bastone! S'alzava in piedi, ad armarsi anche dello sgabelletto, quando i nemici l'assalivano troppo da presso; e alle beffe rispondeva con parole oscene, che anch'egli aveva apprese. Senza dubbio però quell'omicciattolo dalle gambe rachitiche e storte, dalla testa enorme, su cui non bastava il cappello elemosinato, dalla fronte nera di schianze per botte contro i muri, dal dorso informe nel gabbano non proprio, dai piedi perduti in mostruose scarpe, quel miserabile aveva talvolta consolazioni per le quali sorrideva in altro modo, con un barlume di pensiero e di sentimento.

Ortensia gli chiese:

– Sai chi sono?

Subito egli, tutt'allegro:

– Ortensia di Claudio!

Fin da bambine Ortensia e Marcella gli recavano i dolci e le frutta.

– Mi vuoi bene?

– Come a Dio!

La ragazza ruppe in una risata esclamando: – Troppo! troppo! – Ma quel troppo rispondeva a una elemosina più copiosa del solito.

Scambiate poche altre parole col cieco, Ortensia mi chiese:

– Va a spasso?

– Sì.

– Buona passeggiata!

Nient'altro ella disse; non dimostrò intenzione d'accompagnarmi, nè fece alcun accenno alle raccomandazioni paterne della sera innanzi. Fosse nel suo contegno delicatezza spontanea, o suggerita dalla madre, le scorsi in viso il sincero augurio che la passeggiata mi facesse bene. Quasi che camminando io potessi fuggir da me stesso!; quasi che io potessi non riferir la mia miseria a ogni cosa che trattenesse il mio sguardo, a ogni persona che incontrassi! Mi confrontavo a Giovannino. Ero forse men cieco di lui io che vedevo senza lume di ragione l'infinito universo e nell'infinito universo vedevo senza un perchè l'atomo del mio corpo, l'attimo della mia esistenza? Ma Giovannin almeno or s'adirava, or sorrideva. Io invece non sentivo nulla, più nulla! Oh, non potendo amare, se avessi potuto odiare! Odiare con la voluttà del despota che uccide e distrugge, con lo scherno del misantropo che nega ai credenti e agli illusi la possibilità d'esser felici! Odiare il gregge matto che pasce e si riproduce nei pascoli opimi o fra i triboli, e bela invocazioni alla felicità! Odiare l'umanità che trovò il telegrafo e perdè Dio; che rintraccia bacilli mortiferi e patisce il raffreddore; che proclama fratellanza e perfeziona la guerra; che va in chiesa e s'uccide per amore; che scrive poemi e pute!

Ma neanche odiare potevo! Nulla! Per me al mondo non c'era più nulla! Solo quel vuoto enorme entro di me… – Buona passeggiata! – Voleva forse l'augurio che divagassi lo sguardo per i noti luoghi e ricuperassi altri ricordi?

Ebbene: mentre salivo alla strada dell'antico convento, sulla porta della prima casupola, trovai, di poco mutata, la pallida fanciulletta che un giorno, con gli occhi nel mistero, m'aveva dimandato: – Li fa la gatta i gattini?

Ed ecco da questo ricordo derivarne, non so come, un altro: di una faccia puerile anche più pallida. Era tra le memorie della mia gaia vita di studente l'impressione che provai un giorno, quando su la tavola anatomica vidi un compagno spolpare le gambe d'un bambino. Tranquillamente m'ero esercitato in più d'un cadavere… Eppure la vista di quel bambino… che impressione! Or dunque ascoltai se questo ricordo mi rinnovasse il senso penoso di quell'impressione antica. No. Rimase un ricordo del tutto mentale; non sentivo più nulla; e la pallida ragazzetta, riconoscendomi, stupì che non le dicessi nulla.

– Buona passeggiata! – Poco oltre, a una seconda casupola, intravvidi il calzolaio socialista, che, un giorno, alla mia richiesta se pensasse di non dover più tirar lo spago nella sua repubblica sociale, aveva tratto dalle ginocchia una logora ciabatta, e mostrandomela aveva risposto:

– Invece che rappezzare di queste, cuciremo scarpe nuove!

Così il ciabattino concepiva le sorti progressive dell'umanità! Ma a rivederlo, ecco un altro ricordo: nelle sorti progressive dell'umanità io ci avevo creduto più di lui! Una fede più grande io avevo avuta!

Ah i bei tempi quando dallo studiare il male in questo o in quell'uomo ero risalito a studiar la vita di tutti gli uomini; dalla medicina alla storia, dalla storia all'antropologia, alla biologia, alla psicologia, etcetera, e avevo distrutto dei e religioni, filosofi e sistemi, per conquistare positivamente Dio!

Bei giorni anche quando avevo visto morire i miei con sereno dolore, con nobile rassegnazione alla necessità della vita!

Bei giorni quando la morte non mi faceva ancora ombra all'amore e delle donne amate per brev'ora non scorgevo lo scheletro, non mi chiedevo perchè e come era viva la carne che ne rivestiva lo scheletro!

Chi mi avrebbe mai detto in quei tempi di fede: Verrà il dì che proverai in te un male a cui non basteranno le docce, da te consigliate adesso a chi non ha la tua fede! – Altro che nervi esausti! Il cuore, il cuore era esaurito; e non di sangue; e a tal punto che…

Meglio ridere!

Al bivio presi la via del monte. Ci rividi Martino, cenciaiuolo e merciaiuolo, che scendeva con la biroccia e l'asino. Dei due, chi mostrava più segni del tempo trascorso nella mia assenza, non era l'asino, era Martino. Aveva la barba bianca e camminava curvo; non come una volta a lato alla biroccia, ma dietro. L'asino invece, tale e quale: nel pelo, nell'andatura, in tutto. E dei tre, il cenciaiuolo, l'asino ed io, chi più invecchiato? Io! Ma che cosa mai aveva meritato o demeritato dalla sorte in quei due anni l'onesto Martino? Così invecchiato mi appariva, che non potei non interrogarlo.

– Nessuno al mondo è felice come voi! – io gli dissi per ridere, per divagarmi.

Mi guardò e rise lui per rispetto; chè alle canzonature degli eguali rispondeva in altro modo.

– No? – continuai. – Vostra moglie non sta bene?

– Bene; grazie a Dio.

– Foste ammalato voi?

– Grazie a Dio, nossignore.

– E l'asino sta benone! Dunque è cresciuto il prezzo della mercanzia?

– No, no! Il percalle anzi si compra meglio; anche la tela. Ma… – sospirò.

– Calato il prezzo degli stracci?

Scosse il capo guardandomi tuttavia incerto.

– Ah, capisco! Qualche disgrazia, forse, che non potete confidarmi…

Il poveretto, da uomo uso a longanimità, chinò la testa e tacque a lungo. Quindi si sfogò:

– Le par poco, a lei, lavorar vent'anni, da casa a casa, a stentare il soldo? Consumare le gambe; mangiar polenta, e non avanzarsi un soldo per…

Io lo prevenni:

– Per aprir bottega!..

– Non è vita da cani questa?

A parte la vita da cani; ah! ah! ecco il male di Martino! Una botteguccia nel villaggio gli avrebbe reso meno che il mestiere ambulante; e altra volta avevo cercato persuaderlo con argomenti e conti. Invano: la bottega era il suo sogno e il suo rovello. Più che la stanchezza di gambe e di pazienza e peggio che la polenta lo tribolava l'ambizione non soddisfatta. Affanno assiduo e pane quotidiano, per cui invecchiava, gli era un'ambizione insoddisfatta! Ma io perchè ero più invecchiato di lui? Ecco un altro ricordo: senz'aver avuto mai nè donna nè asino che mi volesse bene, o a cui io volessi bene, come Martino, io avevo avuto una assai più nobile ambizione. La gloria! la gloria! la gloria!

Quanto all'asino…

Il collo dimesso, le orecchie pendule e gli occhi sonnolenti, l'asino che io interrogavo per ridere, per divagarmi, rispondeva:

– Solita vita, caro signore! – Tritar fieno e paglia, nel sacco che gli dondolava al collo, strada facendo; brucare acacie, arrivandoci, e scorticare il prato quando aveva erba fresca; d'estate arrostarsi dalle mosche con la squallida coda o drizzare il pelo indosso l'inverno; grattarsi la schiena, nella stalla, contro il muro e fuori, in mezzo alla polvere, con ragli e gamba all'aria; dare il buon giorno, in suo modo, al padrone e tutto il giorno vagar con lui senza intromettersi a contratti e a diatribe. Neppur si curava, per ragioni sue intime, non meditate e non lamentate, delle asine in cui s'incontrasse: appena a primavera le salutava; ma d'un saluto fraterno, o d'un reciproco ingenuo poetico richiamo alla natura novella.

E poichè l'asino di Martino era anche utile al commercio e all'industria, forme e prove di progresso umano; poichè all'industria e al commercio senza dubbio è più utile un merciaiuolo che un filosofo; poichè, secondo filosofia, di me viveva meglio il cenciaiuolo, ma, secondo natura, del cenciaiuolo viveva meglio l'asino, fra i tre il più sapiente era dunque l'asino e fra i tre il più asino ero dunque io!

Ridere?.. Ripensavo:

Interrogai la divinità, non mi rispose. Interrogai gli uomini, non seppero rispondermi. Interrogai le cose, mistero! Interrogai me stesso, e seppi che non posso sapere…

Dall'asino, tutt'al più, posso apprendere che per vivere non importa sapere; e un tempo mi sarebbe bastato opporgli: senza sapere che importa vivere? E adesso io vivo senza sentire!

– Addio Martino! Cerca fortuna, per la bottega…

Per me non c'era più alcuna fortuna, alcuna speranza!

Voglio dirla la cosa orrenda! Voglio dir tutto!

Ero arrivato a tal punto d'insensibilità che i miei morti – mio padre e mia madre!.. – tornavano al mio pensiero, c'insistevano, ma io non ne avevo più il sentimento! Che io non pensassi nemmeno a mia madre morta quando nella morte scorgevo solo un fatto fisico, una trasformazione materiale, pazienza! Ma ora le ombre dei miei tornavano a me; e non parlavano più al mio cuore; come illusioni inutili! come niente! Ora io pensavo che la morte non fosse annientamento della coscienza, non fosse solo trasformazione della materia, nondimeno ogni affetto dei miei cari, anche ogni affetto dei miei cari era spento in me! Comprendete tutta la mia miseria?

Orribile! Se la scienza, non per effetto necessario ma per sola conseguenza occasionale, può avere condotto un uomo, un solo uomo, a tale estremo, sia pur maledetta la scienza!

– Buona passeggiata! – Proseguivo per l'erta via che congiunge Valdigorgo a Paviglio. Da Valdigorgo giungeva ancora, a quando a quando, un confuso murmure di voci e d'opere. Salivano donne fastidiosamente liete della vendita o della compera al mercato; transitavano carbonai e somieri: ai lati, ora spazi di campi, ora lembi di bosco, e verdi ripe, lente o scoscese; qua donne con le vesti succinte che ammucchiavano il fieno; là una mucca che pasceva, una pecora che sbucava da una macchia; più oltre una casupola nitida. Chioccolii nella fratta. Ma la vita che scorgevo e udivo intorno a me, no, non mi ridava l'anima! Tra due massi scaturiva un'acqua sorgiva che rigava d'una limpida vena un fossatello senza limo. Nè io avevo sete. Un birocciaio però, venendo con la biroccia carica di legna, lasciò procedere i muli, e gettatosi in ginocchio a terra, con la testa indietro e teso il collo, ricevette il zampillo nella bocca; avido, ingordo, d'un solo fiato. La gola riarsa si dilatava, palpitava al passar del liquido e della frescura.

Ristoro ineffabile! Splendevano gli occhi all'uomo quando si rialzò con un forte: – Ah!.. – E riafferrata la frusta mentre si asciugava la bocca col dorso dell'altra mano, egli la fe' schioccare, e mandò da lungi un grido alle sue bestie.

A me parve un uomo che avesse ricuperato la vita.


III

Si vedrà poi il perchè io mi costringa a raccontare la mia storia. Non la racconto, certo, per voluttà di dolorose rimembranze – le spasmodie romantiche han stancato il mondo, – nè per dilettantismo letterario – bel gusto parere un letterato ai medici e un medico ai letterati! – No, no; il mio intento è non so se più umile o più alto.

Ma poichè la prima cagione di un lungo soffrire fu l'infermità che mi condusse a Valdigorgo, bisogna pure che io accenni un po' più chiaramente a quel che avevo.

Medico non senza qualche nozione di psichiatria, facilmente io avrei saputo definire in altri il mio caso. In costui – avrei detto – ci sono indizi sicuri di «lipemania», c'è «atonia della sfera psichica», c'è «malinconia lucida». Se non dimostra egli stesso gravi anomalie o asimmetrie somatiche, il suo albero genealogico deve annoverare individui colpiti da pazzia degenerativa: costui è candidato al manicomio o al suicidio. – Così avrei detto di un altro; ma di me mi ostinavo a pensare diversamente, e non solo perchè mi mancavano di quelle tali anomalie o asimmetrie gravi, e non solo perchè il mio albero genealogico, da quante generazioni ne conoscevo, non aveva fruttato mai pazzi o lipemaniaci.

Del mio male senza dubbio c'eran cause all'in fuori dell'ordine fisiologico. Quali cause, insomma? Vi dirò: immaginate un uomo che credè di poter volare al cielo… – «il sapere» disse Shakespeare «è l'ala con cui si sale al Cielo» – , e immaginatelo quest'uomo precipitato dall'alto del suo sogno in un abisso buio e freddo, con addosso l'irrisione di tutto l'universo e di sè stesso. Non comprendete? Oh come manifestarvi allora, in poche parole, la mia miseria? Io ero vittima del mio orgoglio e mi ritenevo nientemeno che una vittima del secolo scientifico. Nell'immenso, stupendo progresso delle scienze nel secolo XIX avevo sorprese certe relazioni forse sfuggite a tutti, certe comprensioni sintetiche sfuggite a tutti nell'abuso dell'analisi; e poggiando su di esse avevo preteso di superare i limiti della scienza… Il meglio della mia vita era stato sacrificato così, dolorosamente, ad apprendere la vanità de' miei sforzi. Eran stati lunghi anni di lotta. Avanti per la verità! avanti per la gloria!; e ogni giorno più dubitavo e soffrivo; finchè, al crollo del mio edifizio, caddi, vinto, nel nulla. Nel nulla!

Forse fu ingiusta l'imprecazione di un filosofo: «Scienza, perchè arricchisci la mente a scapito del cuore?»; forse ciò non è vero. Ma io, che non ero più uno scienziato o che, avendo violentato il potere della scienza, non lo fui mai, io più spaventosamente d'ogni altro dovevo pagare il fio della mia insania: il mio cuore era esaurito; non sentivo più nulla. Ecco perchè non giudicavo quest'apatia un semplice caso di «atonia della sfera psichica».

Non basta. Negli esauriti o neurastenici è frequente la tentazione della morte e, insieme, l'orrore della morte. Ed io pure, uomo divenuto inutile a tutti, a tutto e a sè stesso, io pure desideravo morire e non osavo. Ma in me non c'era un avvilimento inconsapevole: io avevo voluto dimostrare con modo e metodo positivo che al di là della trasformazione del nostro organismo in dissoluzione l'anima sopravvive…; e da quel tentativo di confermare con la scienza l'antica fede mi era rimasta l'apprensione dell'al di là. Ecco perchè non mi credevo semplicemente un neurastenico. Mi credevo invece caduto non per stanchezza ma per disperazione; e nello stesso tempo mi vedevo pessimista insanabile non per «depressione del tono vitale», ma per la certezza che eran stati vani i miei sforzi e sarebbero sempre vani gli sforzi della scienza a varcare i limiti di ciò che si definì l'inconoscibile.

Non importa dire in che errasse, o quanto, la mia diagnosi: importa vedere com'era grande la mia miseria. Consideravo in me effetti e fenomeni diversi da quelli ben noti alla psichiatria, e pur scorgendone la somiglianza con quelli, li consideravo più paurosi, d'un'entità vaga e più vasta; la mia miseria era quindi più grande che quella di un medico che scorga in sè stesso una malattia incurabile, con fenomeni fisiologicamente chiari, patologicamente certi, senza tenebrose estensioni…

Eppoi… Eppoi, tiriamo innanzi!


IV

Tra i pochi che venivano alla villa Moser c'era per me una sola persona nuova; l'ingegnere che Claudio aveva assunto a dirigergli la fabbrica di laterizi. La fornace che era stata principio alla fortuna di Moser e che aveva dato aumento al lavoro degli operai in Valdigorgo, era divenuta una delle più rinomate nell'Italia settentrionale; a vigilarne l'andamento non bastò più la sola attività di Claudio da quand'egli si fu addossato altre imprese.

E soli assidui alla villa, per lo più di sera, erano i Fulgosi, i Learchi e le Melvi: pochi, perchè Moser pretendeva libertà e pace almeno in casa sua, nell'asilo del suo riposo, sebbene anche qui piuttosto che riposare egli svariasse la sua alacrità.

Profittando della distanza dal paese (la villa era a monte e il paese tre chilometri a valle), Eugenia sapeva accontentare il marito conservando buone relazioni con le famiglie paesane più notevoli senza che queste potessero, come forse desideravano, turbar la pace di lassù. Non la turbavano essi, i villeggianti prossimi e vecchi d'amicizia e di consuetudine. Ma nell'infermità dei miei tristissimi giorni come eran noiosi, insoffribili per me anche quei pochi e vecchi conoscenti!

Primo, il cavaliere Fulgosi. Un uomo invidiabile; uno di coloro a cui il mondo serve di sfondo e cornice per la loro figura, per la loro apparenza. Pensionato d'uno di quegli uffici che rendon l'uomo uniforme, preciso e sciocco come un regolamento, a sessant'anni poco o nulla differiva da quel che era stato a trenta: sempre elegante, cioè vano; sempre amabile in società, cioè fatuo. A Valdigorgo chi poteva competere con lui? Unico a far toilette due o tre volte al giorno; unico a portar in tasca lo specchietto e il pettinino per considerare ogni mezz'ora se gli scarsi capelli, d'un biondo bianchiccio e d'un biondo sporco, celassero, ben disposti, le lacune dell'età, e se i baffetti rilevassero l'esili punte su e contro il profilo della barbetta, e se la cravatta, a colori sentimentali, conservasse sempre il giusto mezzo; unico a contemplar in sè medesimo ora il candor delle unghie o la forma delle scarpe, ora i gemelli o i polsini o le armoniche tinte delle calze di seta; ora l'orecchia del fazzoletto, gentilmente colorato, fuor della tasca, o il brillar degli anelli nelle scarne dita. Per parlare egli s'era adornato della fraseologia e dei motti dei giornalisti brillanti; spropositava spesso nella pronuncia delle frasi inglesi, ch'eran le preferite, e ripescava, per di più, qualche sentenza scolastica o classica.

Con aria diplomatica discuteva troppo spesso in politica, poichè un'ambizioncella politica gli si era inacidita nel cuore, nè ancora aveva cessato di ripetere a se stesso: j'attends mon astre. Aveva il suo programma nel motto «ordine nella libertà e libertà nell'ordine» senza che paresse comprenderne egli stesso il pieno, solenne significato che pareva attribuirvi. Infatti questo amatore della libertà nell'ordine, questo amabile gentleman, era stato un tirannico capo-ufficio ed era adesso un petulante marito pensionato. Angustianti smorfie e tic nervosi gli opponeva la signora Fulgosi; ma apostrofandolo «imbecille» in casa, la moglie non mancava mai di chiamarlo «cavaliere» fuori. Ella portava a Valdigorgo la correttezza dei modi e la scorrettezza dei pettegolezzi e degli isterismi aristocratici. Il loro figliuolo, Pieruccio, nato certo in conseguenza di un litigio, manifestava, ora più che sedicenne, com'erano inconciliabili anche in lui la natura materna e paterna. Fastidioso e incoercibile per metà del giorno; compassato e affettato la sera, dopo la toilette; antipatico sempre.

Involontario riscontro ai Fulgosi facevano i Learchi. Egli, Learchi padre, era un risaiolo arricchito. Aveva dunque il diritto d'insegnare agli altri la maniera di viver bene. In tutto si sarebbe dovuto fare come aveva fatto e faceva lui. Ignorante e testardo; gran mangiatore e non minore bevitore e fumatore di pipa. Ligio alle pratiche religiose, vi tranquillava la coscienza; si assicurava con esse a star di là, anche meglio che di qua, e frattanto sorreggeva il perfetto egoismo cattolico dicendosi clericale «e me ne vanto». Sua moglie, la signora Redegonda, era buona di cuore e sempre ilare; ma di testa piccola. L'universo per lei consisteva nella cucina, dove esercitava molt'arte, e con ingenua rozzezza stupiva a ogni altra cosa che non fossero manicaretti, pasticci, dolci d'ogni sorta. Felici entrambi dell'aver maritata bene, a un ricco, la figliola, aspettavano per di più la consolazione di aver dottore il figliolo. E questi – Guido – poteva piacere o spiacere al pari d'ogni cuor contento.

Quanto alle Melvi, la madre non riusciva a nascondere a me l'ipocrisia e la malignità della paesana che non potè mai uscir di paese e che in paese vuol sembrar amica di tutti perchè invisa a tutti. Lingua iniqua! Ma quante esclamazioni, espansioni d'affetto! La bontà si sarebbe detto trasudasse da tutti i pori della sua piccola e grassa persona; la virtù in lei sembrava tanta da permetterle di congratularsi a ogni nuovo matrimonio che s'annunciasse o celebrasse a Valdigorgo, quando la rodeva l'invidia, la tormentava il dubbio di non poter accalappiare un marito per la sua Anna;, la sua Anna, irresistibile, per lei, di vezzi e più di carne. Ed Anna… Che dire di Anna Melvi: come esprimere quel che io provo ora, scrivendo queste due parole?

Di rado tutti costoro, nei primi giorni del mio ritorno lassù, si eran trovati insieme alla villa. Di solito l'una e l'altra mamma saliva da Eugenia, e sol talvolta, quando Eugenia riposava, le ragazze e i giovani si erano raccolti nell'ampia sala a terreno, o nella terrazza, ai loro giochi di pegni, mentre Moser si divagava aizzando il cavalier Fulgosi contro il Learchi padre. Io per lo più avevo cercato scampo nella mia camera, col pretesto di dormire.

Ma venne la buona novella; il medico curante, pago della mia approvazione non che del buon effetto delle sue cure, annunciò che a giorni permetterebbe alla convalescente d'alzarsi.

Eugenia era in piena convalescenza. Ed io?.. La sera della buona novella andavo per la casa cercando invano di raccogliere in me il senso di quella letizia che vedevo fuori di me. Non potevo fingere un piacere che mi sfuggiva; avrei voluto fuggire accusandomi quale un amico indegno; neppur mi commoveva la gioia di Claudio!

Egli fece portare due bottiglie nel salotto, per gli amici; e mi attendeva con Fulgosi e Learchi. Dovetti entrare.

– Lupus in fabula! – esclamò il cavaliere. – E Claudio: – Sentite questa! Quando eravamo all'Università a Bologna, io agli ultimi anni e Sivori ai primi, facevamo qualche scappata a caccia nelle risaie di Molinella. Ci accompagnava un omicciattolo, un falegname soprannominato il Biondo… Ah! il Biondo! ma par di vederlo! Aveva uno schioppo che pareva un catenaccio; mirava chiudendo gli occhi, e non sbagliava un colpo. È vero?

Accennai di sì col capo; non celando la poca voglia di riudire aneddoti della mia biografia. Ma Claudio proseguì:

– Dunque mentre io e il Biondo stavamo alla posta delle anitre, e non pensavamo che alle anitre, quel bel matto lì (e accennava a me) era spesso colla testa nelle nuvole e metteva giù lo schioppo per guardare al libro che portava in tasca. Una bella maniera d'andare a caccia! Non si sarebbe accorto d'un rinoceronte quando leggeva. Ma un giorno che ritornavamo in barca – era d'autunno inoltrato – io gli prendo il libro e glielo scaravento in mezzo all'acqua. Cosa fa lui? Spicca un volo e gli va dietro alla pesca.

– Non fu così – interruppi fiaccamente.

– Così! Proprio così! Il Biondo è ancor vivo e sano, e sebbene sia il tuo fittavolo, adesso, è un galantuomo capace di testimoniare la verità… Bene! noi sudammo a pescar lui, l'amico; lo tirammo su sporco e fracido come si meritava; e con la tremarella addosso. Io gli davo quanti pugni potevo, più per sfogare la rabbia che m'era venuta che per mantenergli la circolazione del sangue, e Sivori, lo credereste?, si lamentava: – Il mio libro!.. Il mio libro… Non ho capito una cosa!.. – Non vi dico altro! Quasi quasi si era affogato solo perchè non aveva capito una cosa!

– Non è vero! – brontolai. – Era un'edizione pregevole…

Nessuno mi badò. Ridevano tutti, e più di tutti rise il piccolo Mino, che era venuto in cerca di me. Non desiderando di meglio che sottrarmi alla filosofia del buon senso, chiesi al ragazzo che cosa voleva.

– Se mi comperi i burattini, ti racconto una bella favola.

Ripigliò Moser: – Sublimi poi erano le discussioni col Biondo falegname! Sivori sosteneva che ammazzare una quaglia era uno strappo all'anima universale, come diceva lui; il Biondo invece sosteneva che Domineddio non avrebbe creato le quaglie se non dovessero essere mangiate arrosto. Avevano così diversi punti di vista che Sivori con cinquanta colpi non strappava nulla, e il Biondo – lo confesso, lo ripeto – tirava meglio di me! Ma le quaglie chi le mangiava? chi le gustava di più? Ah quei bocconcini di anima universale! Altro che Spinoza eh, Sivori?

Risero di nuovo. Finchè Mino tirandomi per la giacca mi forzò ad appartarmi con lui in un angolo. Ivi solennemente prese a raccontare:

– «Castelli in aria»… Beppe andava per il bosco.

Intanto udivo Learchi sentenziare, vuotato il bicchiere:

– La filosofia sta nel seguir la volontà di Dio, ricordandosi però che lui dice: «Aiutati che t'aiuto!»; e quando la coscienza è tranquilla, tutto va bene a questo mondo!

– Il mondo bisogna farselo! – ribatteva Moser. – Farsi una, famiglia; lavorare per la propria famiglia e non pensare ad altro!

– Io sono fatalista – avvertiva il cavalier Fulgosi. – «Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce…»

Tratto dall'astuccio il piccolo pettine, il cavaliere si pareggiò i baffi, si mirò allo specchietto; poi aggiunse che io ero uno di quelli nati apposta per far camminare il mondo.

– Senza filosofia, caro signor Learchi, il mondo non camminerebbe. È la scienza delle scienze, che innalza l'umanità. Excelsior!

– Il mondo andrebbe benone lo stesso! – urlava Learchi. – Religione, fede per sopportare i guai; e basta!

Mino tornò da capo:

– … Beppe andava per il bosco, e trovò un pulcino. Lo portò a casa e lo mise a dormire nella stoppa. Beppe diceva: Quando il pulcino sarà grande, diventerà una gallina; e la gallina farà le ova e comprerò un'agnellina. E l'agnellina diventerà una pecorina, e la pecorina farà le ova…

Le ova della pecorina? Mi sovvenne delle mie opere. Il pulcino morto nella stoppa della scienza? Il mio ingegno!.. Questa, questa, o esimio cavalier Fulgosi, questa è la morale della favola!

… Non mi sarei dunque stancato mai d'interporre sempre, da per tutto, la mia accidia? Con stento ero entrato là nel salotto a udir parlar di me; con stento ascoltavo il ragazzo…; ma appunto perciò avrei dovuto avvertire un risveglio nella mia volontà. In me c'era già stato qualche mutamento notevole. Non seguirebbe questi mutamenti, sebbene lievi, una riscossa dell'anima? Come in un barlume riflettei su le mie impressioni e le mie azioni dei giorni innanzi.

Già Mino era riuscito a farmi guardar il mondo attraverso un vetro color rosa e a farmi dire con lui che così il mondo era più bello; mi aveva costretto a inventare e a narrargli una favola, che ora ricambiava con: «Castelli in aria» e con le ova della pecorina. Già la timida Marcella mi aveva veduto salir più spesso a trovar la madre e a sorprender lei nell'ansietà delle faccende domestiche, la cui importanza ironicamente esageravo. Ortensia poi aveva ripresa con me tutta la confidenza d'un tempo, di quando era la mia «piccola amica». Ah se avessero potuto immaginare che fatica mi costava tutto ciò! Ma intanto io mi domandavo perchè non approfitterei del loro aiuto a ricuperare il dominio della mia volontà. Volli restar con Mino; volli vedere che facevano gli altri… Mi affacciai alla porta della sala dove la signora Fulgosi cominciava a tempestar un waltzer sul pianoforte; le ragazze e i giovani le facevan chiasso d'intorno. Quand'ecco tonò una voce gioconda.

Era l'ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.

– Arrivo! Pazienza! – egli rispose alle voci che lo chiamavano.

Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a prender ordini. Di sulla porta io l'osservavo.

L'ingegner Roveni quando parlava d'affari era parco nelle parole, immobile, attento. Aveva risposte pronte. L'antipatia che mi separava da tutti gli estranei non poteva resistere contro di lui; anzi dal primo giorno che l'avevo visto non mi era spiaciuto quel giovane dalla fisionomia decisa: non bella per il naso breve un po' all'insù, ma abbellita da due folti baffi biondi; e dalla persona robusta e a mosse un po' dure, quasi di macchina non ben levigata e non in piena attività, eppure in un perfetto equilibrio di tutte le forze alla regola dell'arbitrio. Per una inesplicabile contraddizione non mi spiaceva quell'uomo, ambizioso, si vedeva, fin dal modo di camminare.

Passandomi accanto egli mi salutò con un franco:

– Buona sera, dottor Sivori! – e andò difilato a prender Anna Melvi per ballare il waltzer.

Io mi riaccostai agli uomini seri.

– Che fibra! – disse Claudio, che ora parlava di Roveni. – Tutto il giorno lavora per me e la notte studia per sè.

Aggiunse che Roveni s'occupava con passione in studi d'elettricità.

Quindi disse:

– Io penso con dolore al giorno che dovrà abbandonarmi.

Una risposta mi venne al pensiero e alle labbra: – «Hai un mezzo molto semplice per trattenerlo: dagli in moglie una delle tue figliole».

Ma sarebbe stato come dire a uno che possegga un tesoro: – dallo al tale – , o almeno sarebbe stato come proporre un sacrificio intempestivo; perchè nel sereno egoismo del suo amor famigliare, Moser non s'era ancora accorto che le figliole pervenivano all'età da marito. Perciò tacqui.

E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi d'improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo cuore.

Sì: la timida Marcella… con Guido Learchi… Mentre con Roveni ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano l'uno negli occhi dell'altra la propria felicità. Non ne mostravano meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere, ridere d'ironia. – Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei fare all'amore anch'io? – mi chiesi; e fissai Guido ridendo.

Egli venne da me rosso in faccia, con l'indice al naso:

– Zzz… zitto, per carità!

– Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?

– Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla – rispose con voce dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi crudele chiamai Marcella:

– Debbo dar retta a Guido?

Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.

– Perchè? che vuol dire?

– Debbo aiutarvi?

– Non so… non capisco… Mi lasci andare!

Invece la strinsi al braccio e le chiesi piano:

– Gli vuoi molto bene? – ; e la guardavo negli occhi come per impedirle di sfuggirmi. Sentiva essa la punta della cattiveria nelle mie parole e nei miei modi apparentemente scherzosi? Ah io volevo distrarmi: volevo sottrarmi a me stesso: interpormi meschinamente alla vita che vedevo fuori di me, e che mi sfuggiva!

– Non è vero!..; non so… Chi gliel'ha detto? – rispondeva la poverina, cedendo a poco a poco.

– E tua madre lo sa?

Abbassò gli occhi, esitando ancora:

– Sì… credo di sì; ma il babbo, no! – Mi scongiurava con i begli occhi.

– Il babbo presto o tardi dovrà saperlo!

– Oh per amor di Dio non dica nulla! È tanto buono lei! Non ci comprometta, Sivori! Guai, guai, se il babbo lo sapesse ora! – Pregava apertamente; sperava nella sua preghiera ed in me, e appariva ancor timorosa del pericolo. Soave creatura!

Anna Melvi, rasentandoci, ammiccò; fece: – Zzz… – e ruppe in una bella risata; e i due colombi, Guido e Marcella, mi scapparono.

Passavano davanti a me, intanto che Anna afferrava Pieruccio e si slanciava con lui, Roveni e Ortensia. Forse anche questa una coppia amorosa? Mi sembrarono estranei l'uno all'altra. L'ingegnere era tutto intento a condur giusto il passo e a non farsi scorger peggior ballerino di quel che era; e Ortensia non dimostrava che il piacere della danza: in un pieno abbandono d'ogni energia al ritmo; con ogni energia raccolta e diffusa nel giacere che le vibrava nel sangue, tutta la persona di lei esprimeva giovinezza lieta, e solo gioia e grazie ignare. Nondimeno allorchè ella cessò il ballo e venne a me, io le dissi con intenzione maligna:

– Bel giovane, Roveni…

Oh! essa non si turbò per nulla! Rise domandando:

– Lo dice a me?

– A chi dovrei dirlo, piuttosto?

– Ad Anna.

– E due! – esclamai persuaso che Ortensia intendesse svelarmi in Anna e nell'ingegnere il secondo paio d'innamorati.

Appunto allora Roveni, il quale conversava e scherzava ugualmente con le vecchie e con le giovani, lasciava la Melvi madre e la Learchi, e come avrebbe parlato a qualsiasi altra delle ragazze domandò a Ortensia: – Sarà lei che farà ballare il dottor Sivori? – Ma Ortensia non fece in tempo a rispondergli, perchè Anna si staccò d'un tratto da Pieruccio, lo piantò e si porse a Roveni; e via.

Pieruccio rimase intontito là dove l'aveva lasciato Anna; con quegli occhi bovini rivolti verso di noi, anzi verso Ortensia. A questa susurrai, col solito sarcasmo:

– Quell'infelice soffre; e si direbbe che soffre per te.

– No – ella rispose – : soffre per il colletto. – L'alto e rigido colletto l'attanagliava infatti; l'affogava.

In questo mentre la Melvi accresceva l'esitazione di Roveni e l'induceva a stringerla più forte mancando al tempo o cadendo in contrattempi: gli s'abbandonava affaticata e liberava una mano per risollevare i capelli che le si erano sciolti; ansimava e rilevava il petto turgido alla inspirazione frequente. Poscia di fronte a Pieruccio Fulgosi sorrise a lui, lusinghiera insieme e beffarda. Civettava con l'ingegnere e nello stesso tempo si burlava del giovincello. Ma questi era degno figlio di suo padre, e con l'aplomb di un uomo di spirito s'avvicinò ad Ortensia:

– Permette?.. Posso?

Ella accondiscese senza dir nulla; rivolse a me un'occhiata che diceva quanto colui era antipatico anche a lei, e riprese dopo pochi passi quella letizia ingenua che nel ballo dimostrava con ogni compagno.

Io tornai ad osservar Marcella. Più di Ortensia la vista di lei tratteneva la mia attenzione perchè Marcella, che, a guida di Roveni e di Fulgosi danzava in maniera scolastica e fredda, la vedevo ora, che ballava di nuovo con Learchi, quasi arrisa tutta dal lume de' suoi occhi: era la felicità di un rapimento, l'accondiscendenza di un'anima pura alla felicità dell'anima che la rapiva seco. Ugualmente per Guido. Inconsci di quanto poteva essere di materiale e d'umano nel commotivo sollazzo, trasalivano in rapidi giri con un desiderio di sollevarsi, guardandosi così, lungi agli uomini, fuori del mondo, liberi da quello stesso contatto dei corpi che li inebbriava e li intimidiva a vicenda. E quando Learchi accompagnò Marcella a sedere, egli ristette in piedi presso di lei senza parole; ambedue in un'attitudine quasi dolorosa: quel distacco repentino, quel ritorno al riposo materiale, era uno strappo alle loro anime che, accomunate nel piacere, non avrebbero voluto o potuto dividersi subito così.

A tal vista io provavo un rancore, un astio di cui non avrebbe dato sufficiente ragione neppure l'invidia, se l'invidia fosse stata possibile in me.

– Che fa lei qui? – mi chiese Anna Melvi.

– Studio – risposi, per dir qualche cosa.

Mi fissò per un attimo e disse:

– Ne imparerà delle belle!

Avrei voluto pungerla, ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò subito a me dicendomi, felice:

– La mamma dorme… Vedesse! È queta queta.

Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare. Finalmente cercai parole che sembrassero buone.

– Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?

– Sì! E lei starà sempre con noi? Non scapperà più? Non sarà più stanco e nelle nuvole? Terrà compagnia alla mamma?

Certo – risposi appena.

Ortensia mi ringraziò e nel ringraziarmi ella mi guardò quasi dicesse: «Lei crede di comprendere tutto il bene ch'io voglio a mia madre. Ma io gliene voglio di più, molto di più!»

Come dopo un riposo la signora Fulgosi ebbe trovato l'andare del dancing, l'ingegner venne a prendere Ortensia. Su di lei raccolsi ora la mia attenzione quasi sperando da lei sola una commozione diversa e benefica. Ancora ella procedeva semplice e vaga, pur quando la nuova danza imprimeva una consapevole mollezza e cadenze a riprese leggiadre fino alla leziosaggine; e nei trapassi violenti al ritorno vorticoso, trascorreva leggera e composta, liberandosi con spontanea agilità dal contatto terreno.

Una voce dietro a me susurrò:

– E charmante quella bambina!

Aveva parlato il cavalier Fulgosi.

– Che pezzo di carne! – disse invece il signor Learchi padre, alludendo ad Anna, che si rapiva Pieruccio.

– Anna è più coquette – giudicava il cavaliere. – E Learchi:

– Ha più grazia di Dio addosso. A quel che pare, suo figlio in queste partite è della mia opinione.

– Prime armi! – fe' contento il mondano genitore.

Io continuavo a considerare Ortensia.

Alta, snella, bionda. I copiosi e fini capelli non erano di un biondo aureo, ma acquistavano riflessi d'oro a ogni luce; le linee del volto erano già in armonia così viva che essa poteva forse scemare, non perfezionarsi nella piena fioritura della giovinezza. Gli occhi aveva strani per un colore nè cilestre nè verde, e ombrati da palpebre lunghe; e sotto agli occhi due archi pallidi ma lievi lievi sarebbero stati segni di mestizia a chi l'avesse vista riposata e silenziosa: se non che era un po' difficile vedere Ortensia riposata e silenziosa!

Le labbra si componevano insieme con un vezzoso moto involontario se prolungava le parole: meno belle quando parlava, anche per giuoco, con ira; e forse non belle in esclamazioni di dolore e di pianto: erano fatte per sorridere.

Mirabili, signorilmente perfette, le mani… E a quella freschezza giovanile cresceva lume una nativa gentilezza, manifesta per i modi spontanei, per le acconciature semplici, per le vesti umili e le tinte chiare, e sin per i fiori che si puntava al petto.

Ma a lei, se Roveni perde vasi con Anna, non restava altro adoratore che l'antipatico Pieruccio?

Meglio così per «la mia piccola amica»!; meglio ritardasse a conoscere i perfidi inganni della giovinezza e le stupide illusioni dell'amore!..

E in quella sera di gioia per tutti, a me parve non aver altro pensiero buono che questo.


V

A tanto era ridotto il sapiente osservatore della vita umana nel tramite dei secoli: a scrutare anime di giovinette e a rintracciare amori di villeggiatura!

Ma io medico, che dovevo curare me stesso d'un male così strano e pauroso, intravedevo ancora un progresso nella mia coscienza: dai ricordi ero passato a osservazione di cose, persone, animi; e seguendo il barlume di ragione che m'aveva condotto, quella sera, a interpretar l'animo di chi mi stava intorno e a dimostrarmi cogli altri abbastanza disinvolto e mutato, pensavo ora che potrei di nuovo essere attratto alla vita e ricuperare la facoltà di sentire. N'era prova l'amarezza suscitata in me dallo spettacolo della giovinezza e della gioia.

Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l'esercizio della volontà.

Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.

Sì, anche doveri. L'amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all'amore e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva? Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non dovevo tradir l'amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.

Gli parlai infatti, appena lo vidi.

Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.

– E Eugenia?

– Interrogò subito Marcella. – Sì che gli voglio bene, a Guido – (Il ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l'innamorata). – Allora la signora chiamò me e mi fece una predica…

– Una predica? Eugenia?

– Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi d'essere assiduo; che, d'altra parte, finchè non fossi laureato, l'ingegnere s'opporrebbe… Capisce, lei, adesso, perchè abbiamo tanto giudizio? – conchiudeva Guido ingenuamente – Marcella io non la vedo che la sera…

– Di sera in casa…; di giorno alla finestra.

– Ahi! – Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò il dispiacere d'essere stato scoperto.

Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti ne obblighi d'intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice. Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio; e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre; la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini di sua madre; l'arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!

Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l'assecondava; come indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.

Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall'orco.

Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo Diderot:

«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza accorgersene.»

Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana libertà della mente umana…

Ohi ma se tutte le gioie dell'amore, tutte le lusinghe dell'arte e del sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le passioni, valgono in realtà meno che le favole della nostra fantasia, e lo scopo della vita è l'illusione, l'inganno, l'oblìo della vita, a che vivere?

… Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un'anima semplice e umile presso a me benediceva la vita.

Per Eugenia era imminente il «gran giorno».

La sera prima di quello Ortensia mi chiamò.

– Venga con me!

– Dove?

– Dove? Dove? Venga con me: lo saprà. Avrà una bella improvvisata.

Mi fece andar da sua madre. La convalescente era ancora alzata nella poltrona, presso l'ampia finestra, e avevan spenta la lampada, poichè la luna, quasi piena a mezzo il cielo, bastava.

Eugenia sembrava una imagine di cera in un velo di luce bianca.

– Alzata? – io dissi entrando. – Non vi affaticherete troppo?

– Mi sento così bene – rispose. – Guardate che sera!..

– Una delizia! un incanto! Par di sognare! – esclamò Ortensia, entusiasta. – Io stasera sono felice.

Felice, venne ad appoggiare la sua guancia a quella della madre, come soleva.

– E Marcella? – chiese poscia la madre.

– Sono tutti nella terrazza.

– Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.

Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente. Finchè dissi:

– Dunque dimani vi avremo in giardino?

Allora la mia voce ruppe l'incantesimo di quella bianca luce che nel silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido viso.

– Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere…; un piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo il perdono, dopo un'espiazione…

Scosse il capo.

– No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare… Questa notte – proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare l'apparenza del sogno – questa notte ho sognato che prendevo dall'armadio la biancheria, per darle aria, e che l'odore della tela e il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso mi sento intorno il profumo di lavanda.

– Segno che siete guarita – dissi io freddamente – , ma che siete debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.

L'ammonimento tolse da noi l'impressione di gioia che aveva avuta la sua voce trepida; e io non provavo che un'impressione di freddo, di silenzio e d'immobilità a guardare il lume di luna. Esanimi, gli alberi del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non rischiarava che l'impenetrabile vôlta d'aria sospesa su questo povero mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto, scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.

Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello splendore un'anima fluiva per tutto e tutto era un'anima. Una creatura sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n'ero privo: il mio cuore n'era privo! Pativo in me la condanna di un'esclusione inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.

– Il piacere della convalescenza! – dissi a un tratto. – Ecco un piacere che non proverò più!

Eugenia fissò ne' miei occhi il suo sguardo appena percettibile.

Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l'ora in cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:

– Io ho da chiedervi perdono, Sivori.

– Perchè?

– Dubito che le ragazze e Mino v'importunino… Siete troppo buono con loro, soprattutto con Ortensia…; e io commisi l'errore…

L'interruppi.

– Credete forse che io resterei quassù, da voi, se qualcuno mi desse pena o se dubitassi di dar troppo pena a qualcuno?; se non mi paresse di star meglio qua che a casa mia?; se non fossi certo che in nessun altro luogo troverei amicizia così riguardosa, così paziente? – Ma ciascuna di queste interrogazioni era cercata per attenuare la durezza che mi restava nella voce e nell'aspetto.

Invece Eugenia fu commossa essa di gratitudine. Mormorò:

– Noi vorremmo vedervi contento, Sivori…; ma comprendo che purtroppo questo non sta nè in noi nè in voi.

– In chi sta, dunque? – chiesi con violenza mal repressa. Ella non rispose subito; poi rispose:

– In Dio.

Esclamai:

– Ah Dio mi ha tradito anche lui!.. Voi pensate che Dio bisogna cercarlo non nella mente ma nel cuore, è vero?

– Sì.

– Sì, perchè Dio dovrebbe esser la vita e la vita dovrebbe esser qui (mi toccavo il cuore). In tal caso (e cercai d'attenuare in forma dubitativa ciò che per me era certo) in tal caso, io comincio a temere che la vita non mi serbi più nulla, più nessun bene! Temo, Eugenia, che la mente mi abbia divorato il cuore.

– Sivori! Sivori! – pregava la buona donna. – Non vi abbandonate alla tristezza, al dubbio. Siete ancora giovane, non siete un debole…

Tacevamo di nuovo. Ingrato e tristo io invocavo Ortensia, o qualcun altro, a liberarmi, o a mutar discorso. E fui soddisfatto. Batterono all'uscio. Il cavalier Fulgosi veniva a portare i suoi omaggi, le sue congratulazioni, i suoi auguri alla «cara signora Eugenia».

– Come va, cara signora?

– Sono molto debole…

– Sfido! È stata una gran batosta! Ma adesso ne siamo fuori… A la bonne heure!

Ripigliò:

– Eh, io lo dicevo anche con mia moglie: la nostra signora Eugenia è più forte di quel che sembra. Vedrete che se la cava; vedrete! Poi è bene affidata. Un gran bravo dottorino, quel Minguzzi!; lo dicevo ieri col sindaco: un giovane studioso, tranquillo, in questi tempi che tutti i medici fanno i socialisti e dovrebbero piuttosto essere moderati. La scienza, è vero, dottor Sivori?, deve procedere adagio. Festina lente. Soprattutto la medicina. A lei, che più che un medico è un filosofo, posso confessarlo: nella medicina io ci credo poco. Medice, cura te ipsum! E per me, di medicine non ne prendo mai… Un po' di cremor tartaro, alle volte. S'intende però che nei casi seri, come il suo, signora Eugenia, bisognava aiutare la natura con tutti gli sforzi della scienza. Basta: ora ringraziamo il Cielo e stiamo allegri. Hurrà! Domani a desinare in casa Fulgosi si leveranno i calici alla salute della signora Moser, e mai toast sarà stato più cordiale.

– Grazie – ripeteva Eugenia, – grazie, cavaliere!

– E lei, dottore, benone? Si vede.

– Benone – io feci.

– Già l'ingegner Moser esagera a dire che il troppo studio ammazza. Eh! quando si è sani le fatiche intellettuali si sopportano come le altre… Ne so qualche cosa anch'io…

In quel mentre al lume di luna il cavaliere si guardava alle scarpette nere e lucenti: ad una delle quali il nastrino s'era sciolto, o almeno sembrava non più del tutto uguale all'altro. Lo ricompose; e rialzando il capo guardò alla luna e l'apostrofò a tu per tu.

– Casta diva… Che sera! eh, dottore? Peccato non aver vent'anni!.. Del resto, per tornare a quel che si diceva, mens sana in corpore sano; e, viceversa, se è sana la mente è sano anche il corpo. Quando non si è sani e forti, non si fanno le opere del dottor Sivori… No, no, dottore; mi lasci dire. Non è flatterie, è verità…

– Voi siete ancora molto debole, ed è tardi – io dissi a Eugenia, alzandomi…


VI

Nel giardino, dietro i due abeti gemelli, un folto di ligustri, mirti e semprevivi formava capanna. Là Claudio e il medico curante portarono, sulla poltrona, Eugenia. Li avevamo seguiti io e le ragazze, timorose queste; ma io non provavo niente di quel che provavano gli altri.

Più visibili, là fuori, erano nella convalescente le tracce della malattia che l'aveva prostrata; manifeste vene azzurrine segnavano alle tempie la pura fronte; profonde e oscure, nel pallore diafano del volto, le occhiaie; infossate le guance; violento il rilievo agli zigomi e alle mandibole. E le mani… così bianche! così affilate!..

– Ah Sivori! – ella mormorò con un pallido sorriso, quasi mi dicesse: «Come sono contenta».

– Zitta! – impose Moser. – Zitte anche voi! – disse alle ragazze, che non fiatavano e guardavano ora alla madre ora al medico.

Ma questi, ristato un po' in attenzione dinanzi ad Eugenia, si mostrò del tutto tranquillo per lei e pago di sè.

Io pensavo che avrebbe dovuto consigliarla a chiudere gli occhi, a riposare, forse anche a dormire, piuttosto che permetterle di guardare, ascoltare, accogliere di urto, subito, la vita che le ferveva intorno. Invece egli disse solo:

– Si ricordi, signora, che appena si sentirà stanca dovrà dirlo; e l'ingegnere e il dottor Sivori la porteranno in casa. Mi raccomando!

Dopo la quale raccomandazione e poche altre parole, prese commiato.

– Come ti senti? – chiedeva Moser indi a poco.

– Bene, tanto bene!

Per lasciarla tranquilla, Claudio si mise ad andar su e giù lungo il viale, al margine dell'erba, fermandosi a quando a quando a riguardare. Marcella, tacita, sedette sul sedile di macigno, presso alla madre e ripigliò il crochet; e Ortensia di su un più basso sedile di pietra, dall'altro lato, poggiava il mento su uno dei bracciali della poltrona; e non potendo tacere, susurrava puerili e dolci espressioni d'affetto: – Mamma buona…; mamma bella… – Io, in piedi, ero col dorso appoggiato a un tronco. Ora con interpretazione perspicace, sicura, seguivo in Eugenia ogni successiva impressione; i moti del cuore e dei nervi; la vicenda e l'aumento delle sensazioni; e insieme con queste il rampollare delle idee… Appena oso dirlo. Prevedevo che l'impeto della vita fra breve sarebbe, per la delicatezza e sensibilità di Eugenia, troppo rapido e violento; ma non ne avevo timore. Freddamente, curiosamente, l'osservavo; e senza sforzo, come per abitudine antica a oggettivarmi, vedevo tutto quello che succedeva in lei. Tutto!

Il suo viso, così pallido, esprimeva la meraviglia, lo stupore di una coscienza adulta in un corpo che rinasca; l'ineffabile, sovrumana letizia d'un'anima che scorga e misuri e accresca di sè un rinnovarsi di sensazioni infantili.

Poichè i suoi sensi, che il lungo riposo aveva affinati e indeboliti la malattia, non comportavano tutte le impressioni in una volta, ella, da prima, non potè non socchiudere gli occhi e raccogliersi come percepisse indistinta, dalla minor vista e dai più tenui fremiti, l'anima universa; e, con l'imaginativa, in ogni vena d'erba, sentì fluire dalla terra l'umor fresco, fecondo e perenne; e vide l'alito che molceva le foglie, passava tra le fronde; e potè discernere, fugaci o più vive d'ogni altro suono, recondite armonie di api e d'insetti. Che sapore incerto di menta e di timo! che vago profumo! Dei fiori, volle; ma poco odorosi, poco odorosi… Poi guardò; volse lo sguardo: a lungo attese a una turba di moscerini che in vortice, per un inesplicabile fine, s'incorreva entro una spera di sole; e la distrasse una ragnatela che fra due rami riluceva quasi d'argento; e vi tremava al disopra una foglia da una fibra sola trattenuta in un'agitazione alacre e incessante. Ma ecco: una capinera, lontana lontana, accennò, interruppe, riprese con arte. Mentre così cantava la capinera, lontana lontana, men lungi, repentinamente, un uomo urlò e prolungò un nome.

E intanto – anche prima? – l'arguto ribattere di un incudine, che nel suono rendeva una visione di sprizzanti scintille, a ogni colpo. Da presso, non prima udita, rumoreggiava per uomini e per carri la via: eppure non si perdette nel tumulto uno stridìo di rondini…

Ma stordiva il tumulto, a poco a poco sempre più vasto, molteplice, pieno: stormivano le frasche, cinguettavano i passeri, risonava la strada, e l'incudine; e umane voci; e uno schiamazzar di galline; e un trottar fondo di cavalli; e un rimbombar di echi. Un richiamo di mille voci in una voce sola; un clamoroso accordo d'innumerevoli creature in terra; una sensibile intesa di anime in cielo; una confusione enorme; un portentoso palpito; un'intensa fatica; una gioia insopportabile; un affanno mortale…

– Mamma! – gridò atterrita Ortensia, più pallida della madre. – Mamma! mamma! – invocò Marcella. E Claudio accorse.

Ma io, che avevo previsto, mi mossi appena.

– Non è nulla – dissi – ; una lieve commozione… È vero, Eugenia?..

Essa, scorgendo con quale angoscia avevan dubitato che mancasse, e strappandosi del tutto, con la volontà, da quella partecipazione intensa e da quell'abbandono della sua vita rinnovata alla vita universale, e risentendosi del tutto salva, nel sangue e nell'anima, salva per l'amore de' suoi, sorrise; e pianse.

Ripeto: tutto ciò, o per vista o con immaginazione positiva, io avevo osservato con «occhio clinico»; avevo inteso con scientifica penetrazione, misurato e valutato con razionale precisione, senza turbamento alcuno! Anche il grido d'Ortensia e di Marcella, e l'accorrere di Claudio, e le lagrime di Eugenia tutto, tutto «naturale», tutto «necessario», come la «funzione» d'un qualsiasi organo, o l'andamento di una qualsiasi macchina! Il miglior amico dei Moser era rimasto impassibile alla loro angustia. Non solo: io avevo taciuto ciò che, per aver previsto, avrei dovuto consigliare evitando agli altri un'apprensione grande, e un pericolo, forse, ad Eugenia…

Pensai allora, in quegli istanti, che anche un delitto in me era possibile… Possibile? Per provar rimorso indietreggiai nei ricordi; riflettei sul diritto che aveva Claudio alla mia gratitudine e al mio affetto: niente!.. Rammentai la bontà di Eugenia…: niente! Il mio cuore era sordo; il mio cuore era incurabile!..

– Rientriamo? – ripeteva, insisteva Claudio.

Eugenia pregava:

– Ancora un poco…: dite, Sivori?

– Ma si!; un poco…

… Ah che respinto del tutto in me stesso, non cercavo più che me stesso, disperatamente!

«Anche un delitto era possibile». Con rapida, ansiosa riflessione, volli accertarmi del mutamento in cui per qualche giorno avevo confidato; tutto quel che avevo detto e fatto ricercai con la disperazione di chi comprende d'aver tentato invano; e non vorrebbe credere…

Invano avevo ripreso l'esercizio della volontà; invano mi ero raccolto, per dimenticarmi, in azione e considerazione di piccole cose; invano avevo giocato con Mino e avevo voluto abbattermi nella puerilità.

Io era un uomo che una vendetta orrenda aveva gettato a vivere in un abisso e che di laggiù, dalla profondità tenebrosa, per rincrudimento alla condanna, riceveva fuggevoli barlumi… Peggio! Peggio! Io era un naufrago alla cui speranza era rimasto, in mezzo alle onde, il solo appiglio di fuscelli!

«Anche un delitto…» E perchè no? Forse mi bisognava ricorrere al male, a un male più grande, per uscire da quello stato in cui mi trovavo; ricorrere a qualunque mezzo… Io dovevo procurarmi forse un rimorso per mezzo d'una colpa a cui non potesse sfuggir più la mia coscienza.

Eugenia risollevò le palpebre. Sorrideva; mi sorrise.

– Vedete che la mamma ride? Vedete? – disse Ortensia beandosi nelle carezze che faceva a sua madre.

Io fissai Ortensia: bionda; rosea in viso; bella; con gli occhi luminosi; con un sorriso che aveva e dava luce. Che bella figliola!

Quale disgrazia se l'ala della morte toccasse d'improvviso quel fiore! se quella giovinezza cadesse atterrata; fatte smorte quelle guance; chiusi quegli occhi; fermo e freddo quel cuore: divenuta, a vederla in volto, quale il ragazzo che, da studente, avevo visto spolpare nella sala anatomica…

Ecco: c'era lì dinanzi a me una madre la cui esistenza era stata trattenuta per un filo, mesi e mesi, all'esistenza de' suoi… con tante cure! con tante ansie! con una vicenda crudele di speranze e disperazioni. Quante volte Claudio, mentre era tra gli operai e le opere, al veder sopravvenire qualcuno di casa, aveva temuta la notizia… Moribonda?.. morta?

Più d'una volta Marcella e Ortensia, sole nella camera vegliando la notte, col brivido, esse, della morte, avevano creduto che la madre assopita fosse morta…

Ebbene: questa madre ora sorrideva per piacere alla sua figliuola, che l'accarezzava; sorrideva, per non ingelosirla, pure a Marcella; e due vite tornavano a compiersi della sua, ch'era stata sospesa e tronca anche per loro; e nella loro si reintegrava la vita di lei. Che spaventevole commozione proverebbe mai un uomo…; proverei io, se d'improvviso… in un modo sanguinoso, precipitassi a colpire… io, al cuore… la più vivace di quelle tre creature?.. Che istantaneo strappo;… che strazio… se io lì, presente sua madre… io… in tanta gioia, nel silenzio di beatitudine così tranquilla, ora, in tanta luce… ammazzassi, io… strangolassi… Ortensia? Ah gettarmi su di lei! Un attimo…

Come mi trattenni? Sono certo che se avessi avuto un'arma avrei compiuto quel che pensai in quell'attimo. È vero! È vero! Un coltello… e l'avrei piantato nel cuore di Ortensia… Inerme, trattenuto forse dalla percezione di una insuperabile difficoltà materiale, ebbi il tempo di avvertire l'enormità del mio pensiero…

Rimasi come in preda a una allucinazione, con un nodo alla gola; eppoi con uno sforzo sovrumano uscii dalla capanna, adagio, senza gridare, disperato:

– Salvatemi! Salvatemi!


VII

Ero salvo.

Per quanto attento a me stesso io non comprendevo che vagamente quel che era accaduto dentro di me; e, non volendo ammettere d'essere lipemaniaco, la tentazione o l'allucinazione del delitto, che nei lipemaniaci è frequente, mi aveva lasciato uno stupore enorme e un orrore profondo. Tosto però ebbi l'impressione che finalmente mi si fosse disgelato il cuore; un'onda, quale di passione a lungo contenuta, irrompendo infrenabile, aveva sollevato dal petto il peso che mi soffocava; il rimorso m'aveva ridestata del tutto la coscienza.

Tornerei lieto di speranza? Smetterei per sempre quel sarcasmo che mi avvelenava le parole?

Non potevo ancor chiedermi questo. Neanche avvertivo che un indizio che il mio pensiero restava non poco torbido era nel bisogno di tornar a considerare i passi della mia vita dolorosa e di misurare gli sforzi sostenuti.

Che giorni! e a che prezzo avevo ricuperato la facoltà di sentire!

Sì: ora soffrivo; non rivedevo più Ortensia senza patire, patire veramente, un vero rimorso; desideravo che ella mi dicesse a parole o a sguardi che mi credeva buono. Non più per infingimento, ma per moto sincero dell'animo, cercavo ora di mostrarmi diverso… E cercai anche di mitigare le antipatie che mi avrebbero reso insopportabile. Così, di sera, scambiai qualche parola con le signore; lasciai che la Fulgosi, sbattendo le palpebre e raggricciando il naso, mi riferisse le delizie delle soirées aristocratiche; ascoltai dalla Learchi ricette di buon mangiare; concessi alla Melvi madre di narrarmi, in disparte, con grandi scossoni di risa, l'ultimo scandalo paesano. Ad Anna Melvi mi accostai senza quell'aria di uno che volesse provocarne l'ostilità, sebbene ancora mi urtasse l'intenzione manifesta in lei di sedurre il sicuro e guardingo Roveni; e le strizzavo l'occhio quando scomponeva quel manichino di Pieruccio. Ma di Pieruccio e delle sue occhiate languide a Ortensia mostravo di non curarmi affatto; Ortensia non gli badava e correva volentieri a raccontarmi tante cose! (E che orrore di me se, mentre Ortensia parlava, mi rammentavo del mio immaginario delitto!)

Fin al cavalier Fulgosi rivolgevo dimande intorno le condizioni politiche di Valdigorgo, col pericolo che la mia affabilità divenisse davvero per lui, com'egli diceva, una great attraction, cioè egli mi s'attaccasse come una sanguisuga.

Soprattutto mi sforzavo a rasserenarmi quando stavo con Eugenia, o rincasava Claudio.

Ogni giorno le ragazze ed io ci mettevamo con Eugenia al solito rezzo. Essendo noi soli, mentre le ragazze cucivano o ricamavano, non di rado cadeva il discorso; ma i brevi silenzi erano pieni d'anima; d'anime concordi nell'armonia del giorno e della vita. Io la sentivo, quell'armonia; non in me ma intorno a me. Sentivo…: io sentivo!

Allorchè non interloquiva Ortensia a bisticciarsi, per chiasso, con la sorella, interrompeva il silenzio la capinera da lungi, o, da presso, il reattino. Zerr…; ed ecco la più lieta fra le più liete creature del mondo, sbucare, balzar dalla siepe al cespuglio; penetrarvi svelto, riuscirne alacre; arrestarsi spiando, inchinando il capo per curiosità e drizzando la coda; e subito con un nuovo zerr, giù in terra!; e via, difilato, rapidissimo, a ficcarsi nel noto intrico, ove pareva trovar sempre qualche preda.

Diventò presto nostro amico, quel reattino così ardito e pettegolo, seppure il tremendo Mino non sopravveniva a spaventarlo; e quando s'era cibato ben bene, non dimenticava una modulata lista di note cadenti, sgranate e limpide, che si ricomponevano in trillo.

– Bravo!

– Dov'è?

– Sparito! S'è consumato nel canto.

Spesso interveniva Guido Learchi, o perchè si diceva mandato dalla madre a prender notizie della convalescente, o perchè passava di là «per caso». Io e Ortensia trovavamo i motti che pungevano lui e Marcella; ed egli arrossiva, si schermiva mal destro. Marcella levava dal ricamo il suo sguardo ombrato e trepido, quasi a dirci: «Sì, tutto il mondo lo sa che ci vogliamo bene. Non siate cattivi, voi due…»

Pur Eugenia, esente da inutile severità o furbizie materne, sorrideva.

E quanti fiori recava Guido Learchi! Per monti e boschi, con lo schioppo sulla spalla e tutto in pensieri di Marcella, raccoglieva fiori insoliti o non facili a raccogliere, che servissero a copia di ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, bacche, foglie a vaghe tinte e a strane forme.

– Questo? – domandava Guido scegliendo, per l'esame di botanica, fra il mazzo.

Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo. Marcella, ingenua, correggeva:

– Euphrasia officinalis.

E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.

Finchè l'ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada, ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano, e annunziavano spesso a una voce:

– Il babbo!

Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.

– Ben arrivato! Babbo, babbo!

Nè prima la carrozza s'arrestava al cancello, che già Moser era a terra d'un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d'un giorno d'assenza, con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.

– Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio? (a me) E Mino?

Il monello, giungendo, gli si gettava al collo.

– Basta! Auff! Che caldo! Sono stanco morto! Capite: 35 gradi all'ombra, laggiù! – Perde, frattanto che snoda la cravatta e respira a pieni polmoni, con piena gioia, cartocci e carte; esprime dal volto onesto il sollievo della fatica; la consolazione come d'un premio meritato; la forza e la bontà. – Ah! ora sto meglio! Andiamo a sedere.

Tutti c'incamminiamo lasciando parlare lui solo; il quale si guarda felice intorno e par che non creda d'essere salvo dall'afa e dalla carcere e dalle faccende cittadine.

– Valdigorgo! Questo è il paradiso! Una delle più belle opere di Domineddio! Che cielo! Che aria! Che fresco!

Poi a vedere le figliole che corrono per il bicchiere di acqua, già prima d'esserne richieste, si ricorda che ha sete e urla:

– Marcella! Ortensia! un bicchier d'acqua! Ho sete!

– La fabbrica? – domanda Eugenia.

– A meraviglia! Siamo al terzo piano; e tra un mese…; insomma, un buon affare, Eugenia; sta sicura!

E arriva l'una o l'altra delle figlie col bicchiere annebbiato.

– Oh che acqua! l'acqua di Valdigorgo! Non vantarla sui giornali, amico (egli mi prega): se no, ce la portan via, o vengono a bercela!..

Segue una pausa, perchè le ragazze e Mino possan chiedere:

– La lana, babbo?

– La trottola?

– La lana?! la trottola?! Oh credete che non abbia per la testa, laggiù, che i vostri capricci? La fabbrica, i capomastri, gli artieri, le seccature; corri in provincia, in comune, allo studio, dai clienti: chi mi cerca, chi mi sfugge… Paga questo; licenzia quest'altro… E voi, come se nulla fosse, la lana? la trottola?

Ma poi egli trae di tasca il cartoccino della lana e lo getta alle ragazze; mentre parla a me:

– E tu hai scoperto finalmente la quadratura del circolo?

Rispondo: – Eureka! – quando già le ragazze strillano:

– Dio! che lana!

– Che colore! Cos'hai fatto, babbo? Ma il campione?

– Il campione! il campione! – brontola il padre. – Dunque non ci ho colto?..

– Un orrore!

– Eh… se l'avessi avuto, il campione!..

– Te l'ho dato!

– Te l'abbiamo involto in un pezzo di giornale. Lo mettesti nel gilet!

– Sì! E io sono corso dal negoziante, prima di partire. «Mi vuole della lana così…» Se non che il campione non si trova. Fuori tutte le tasche; cerca tra le carte, sul banco, sotto il banco, per la strada: irreperibile! Non importa: «mi dia della lana verde per pantofole… da regalarmi nel mio onomastico…»

Altro grido delle ragazze: – No! Non è vero!

Tuttavia, rifacendo la scena, prosegue egli:

– «Di verdi, signore, ce ne sono molti…»

«Bene, me li mostri…» Che volete? Io mi ricordavo tanto bene il tono della voce di Marcella quando mi disse «un verde così», che ho scelto tra le matasse a colpo sicuro.

– Vergogna!

– Cattivo!

– Scegliere la lana a orecchio!

– Eh… per pantofole…

– No: per un berretto da notte!

È questa la vendetta delle ragazze.

– Ah! infami! Un berretto da notte a me?.. a me?!

Infine Claudio si ricorda che è stanco e si rimette a sedere con le mani in tasca. Allora, non senza sua grande meraviglia, come a un miracolo, leva la destra con qualche cosa fra le dita…: il campione della lana.

Ma segue Mino, che richiede il giocattolo.

– Non mi amareggiare, figliolo! Non ho potuto comprarlo; non avevo più soldi…

Il ragazzo si vendica puntando, senza piangere, l'indice al viso del padre e accusandolo alla madre.

– Mamma: il babbo ha detto una bugia! Guarda! guarda che bugia!

Talora giunge anche Roveni, per il viale, con quel suo passo da conquistatore.

– Oh! Roveni! Novità?.. Andiamo!

E quell'uomo, stanco morto, corre col giovane nello studio; dove rimane fino a che, chiamato una terza volta a desinare, precipita in camera da pranzo, arrabbiandosi contro di me.

– Bravo, Sivori! Che uomo sei, perdio? Neppur buono a dar scodelle! Come fate quando non ci sono io?.. Vedi: si fa così!

Ma non è raro il caso che un ritardo ad afferrarla, o un disguido, rovesci, tra le grida e le risa, la scodella sulla tovaglia.

Egli, Moser, fu più lieto dopo che ebbe visto rischiararsi la mia faccia.

– Finalmente Valdigorgo ti fa bene anche a te – mi diceva. – Bada che sino alla prima neve non si parte di qua: nessuno!

Negli occhi e nei modi d'Eugenia io notavo invece il dubbio che mi facessi forza a stento.

Talvolta il cuore intende meglio dell'ingegno.

Al consueto luogo, nel giardino, colsi una di quelle occhiate per dirle:

– Claudio ha ragione: sto meglio. Quest'aria fa bene non solo a voi; ed ero forse più esaurito, più debole di voi, io!

Eugenia scosse il capo, e arrossendo lievemente:

– Voi – disse – non siete debole. Ora vi dominate per non affliggerci.

– Perchè pensate così? – domandai io con impeto. – Che cosa pensate, che cosa avete pensato di me? Voglio saperlo! Non temete di svelarmi tutto il vostro pensiero, se davvero credete che io non sia debole… Vi prometto che non torneremo mai più su quest'argomento.

– Dirvi quel che penso? quel che ho pensato di voi? Ecco: i primi giorni ch'eravate qua dubitavo soffriste per una passione.

– Una passione d'amore? – feci ridendo.

– Sì – rispose senza ridere. – Non ci sarebbe stato da meravigliarsene; nulla di strano. Ma presto capii che il vostro male era molto più grave.

– Perchè?

– Una passione… – esitava; indi risoluta: – forse me l'avreste confidata o, almeno, non avreste tentato di nasconderla così, a noi, a me. Il vostro male doveva essere molto più grande, perchè avevate timore che io e Claudio ce ne accorgessimo…; eppure non potevate nasconderlo. Non eravate più quello d'una volta. Perchè? Da prima ero un po' curiosa, lo confesso; ma l'altra sera, quando vi costrinsi io a svelarvi un poco, indovinai, e avrei voluto non indovinare.

– Come? Che cosa indovinaste?

– Ricordavo con che entusiasmo mi parlavate una volta dei vostri studii. Io sono una povera donna; non so nulla. Ma quante volte mi dissi: «E se non fosse possibile arrivare dove Sivori vuole?» Comprendevo le fatiche che doveva costarvi il vostro ideale; comprendevo che voi non avevate nulla, non volevate nulla fuori di quello. Tutta la vostra vita era là. Mi dicevo: «Sivori non vuole ammogliarsi… Come vive? perchè vive? Per i suoi studii. Non ha altro bene al mondo. Ma: e se per una causa qualunque perdesse la sua fede?..»

– Avete indovinato! – esclamai stringendomi il capo tra le mani e coprendomi la faccia con le palme.

Perplessa, col timore d'avermi fatto troppo male a vedermi in quel modo, essa ristette un poco. Poi riprese:

– Debbo dirvi tutto. Avere un ideale come il vostro e perderlo, deve essere un dolore immenso, una sventura immensa! Ma voi avete resistito. Avete sostenuto una lotta terribile, è vero?; ma avete resistito! Vedete dunque che siete forte. E siete ancora giovane. Perchè non volete persuadervi che potete avere altri affetti, altre consolazioni, forse un'altra fede?

– No! Quando si è perduta, la fede non si riacquista più; e io ho perduta la fede più bella, la fede di me, del mio ingegno, del mio cuore In chi credere? in che cosa? L'altra sera vi dissi: «temo che la mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto; «sto meglio», e infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo, non è forse peggio che non sentir nulla?»

Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane? o alla squallida miseria d'un uomo roso da un morbo insanabile?

– Una sorella… – mormorò in fretta, seguendo il corso del suo pensiero mentre Ortensia veniva a noi. – Perchè Dio non vi ha dato una sorella?

Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che ambasciata, o notizia.

– Cervellina! – le disse la madre in tono di soave rimprovero, rialzandole i capelli su la fronte. – Cervellina!

La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia allo schienale della poltrona.

Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:

– Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine materna che sopravvive.

La signora annuiva. Ma io mi corressi:

– Forse esagero, perchè attribuisco a questo bene, che mi manca e che comprendo, anche la parte pura del sentimento che nessuna donna esaurì pienamente dal mio cuore. Sono certo però che quest'affetto può bastare a sè stesso; gli basta, per sussistere, nutrirsi di sè stesso; e ciò lo rende superiore forse a ogni altro.

Eugenia disse:

– Infatti quante mogli non buone sono sorelle buone.

Io proseguii concitato.

– Oh l'affetto che nessuna colpa contamina, che nessuna volontà o finzione o profitto dirige, e che si esprime spontaneo, placido, continuo, in prove d'abnegazione, nella voluttà del sacrifizio! Disperato, solo, io mi son visto in un'interminabile via, irta di triboli. Tutti i beni a cui feci rinuncia eran perduti, e la vetta a cui tendevo era sparita. Sarei caduto se avessi avuto le parole che son balsamo allo strazio? le stesse parole che avrebbe avute per me mia madre? Maledirei così il mio pensiero se io vedessi negli occhi di una sorella le lagrime stesse che piangerebbe, a udirmi, mia madre? Maledirei la vita se sentissi un cuore fraterno partecipare del mio cuore? Ma – conchiusi, triste: – una sorella non si trova!

Eugenia taceva, triste. Senza guardarmi, essa rigirava gli anelli nelle dita, considerandole, pareva, come bianche.

Mi guardava intanto, fisa, stupita, Ortensia; quasi quella mia disperazione fosse una rivelazione per lei…

Ed io le vidi l'anima negli occhi, come un'altra volta le avevo veduta…

Fu un attimo. In un attimo ebbi io pure l'impressione d'una rivelazione improvvisa, d'una gioia ineffabile, d'un sollievo insperato e certo al mio lungo soffrire. Due anime, in quell'istante, s'intesero. E Ortensia sorrideva d'un sorriso trepido, quale il suo sguardo…

Un attimo: le nostre anime ricaddero in noi. Ma l'affettuoso patto era già conchiuso.


VIII

– Vuoi esser tu la mia sorella?

– Sì.

– Per tutta la vita?

– Sì! – rispose Ortensia con maggior fermezza.

Mi porgeva, a conferma, la mano. Ma credè non bastasse:

– Sarò buona. Vedrà! Glielo prometto!

A me parve più bella; e mi sovvenne del birocciaio che avevo visto, stanco ed assetato, gettarsi alla sorgiva, innondare di ristoro il petto e riprender l'erta con vigore nuovo. Un benefizio consimile ma più grande, più grande io avrei dal consentimento di Ortensia; e questo non era, no, un'allucinazione, un'aberrazione, una puerilità di mente immiserita e di animo appena ridesto in un rinnovamento precario e ingannevole. No! Non speravo una guida al lume della fede e del vero; non supponevo nemmeno un ritorno alla fiducia in me stesso; ma dalla corrispondenza di un semplice affetto, di un bene umano, mi attendevo ciò che nessuna altra cosa avrebbe potuto darmi: ricupererei pienamente il senso della vita; il mio pensiero si purificherebbe nel pensiero di Ortensia; il mio cuore tornerebbe vigile e buono; l'anima triste si allieterebbe dell'anima lieta. Attendevo, volevo il ristoro di quella inconsapevole dolcezza, di quella spontanea vivacità, di quella ingenuità forse non più ignara del male, ma su cui la conoscenza del male passava come ombra che non agita e non intorbida…

Qua, sorellina, che ti riveda! Riluce ne' tuoi occhi la poesia che un'eterna forza di giovinezza esprime in mille modi, in vite innumerevoli d'intorno a te: i sogni, i tuoi sogni, ti accompagnano a volo, t'avvolgono il capo biondo e tolgono ogni nube alla tua fronte. Li scorgi? Guarda: ti si specchiano dinanzi nella realtà… Qua che ti riveda nella veste più umile: la gonna bleuastra, il corpettino chiaro con la fascia di seta bianca, e i fiori al petto, mentre con mano impaziente rialzi i capelli sulla fronte e sorridi. A vederti, dilegua ogni ricordo di morte. Parla! Le parole sgorgano limpide dalla tua bocca e cadono con soavità lunga…

– Che uomo! Sempre triste! Su, signor dottore! A raccoglier dei fiori; presto! andiamo!

Va; e che le spine non pungano le tue mani divinamente belle!..

… Il dolore risparmierebbe quell'anima? Già questo io mi chiedevo. Non era dunque un affetto egoista, il mio, se già mi facevo questa domanda; e un'affezione disinteressata mi pareva tuttavia utile al mondo: per Ortensia non sarebbe inutile avere in me un bene fraterno, quand'anche la fatalità della sventura le fosse indulgente.

Ma io che difendevo Ortensia, io che la conoscevo meglio di tutti, scorgevo meglio di tutti i pericoli dell'indole sua. «Cervellina» la diceva la madre; nè la queta e mansueta Marcella, che troppe volte doveva attender da sola alle faccende domestiche, aveva tutti i torti a lamentar frequenti strappi ai diritti della primogenitura e a chiamarla svogliata. E le altre?

La signora Redegonda – la madre di Guido – chiudeva un occhio, ridendo senza volere, allorchè giudicava Ortensia. – Buona sì; ma non le piaceva star in cucina; non una donnina da casa come Marcella.

E la Fulgosi s'eccitava e agitava a vantar l'educazione inglese, che concede molta libertà alle ragazze, e biasimava Ortensia appunto perchè godendo tanta libertà non era seria come le ragazze inglesi.

Peggio poi la vecchia Melvi. Diceva che Ortensia era «una farfalla, leggera leggera». Lei, la madre di Anna, diceva così, in tono di rimprovero! E pensare che sua figlia, anche quando scherzava chiassosa e pareva abbandonata alla più innocente gaiezza, non diceva parola, non faceva atto che non ubbidisse a un'intenzione o a un'abitudine acquistata per intenzione! Ma Anna non era riprovevole perchè era falsa.

Ortensia invece era spontanea in tutto; schietta e franca anche nei difetti: presto o tardi n'avrebbe danno; l'ammettevo io pure. A diciassette anni, era ancor troppo mutevole e impetuosa: non potevo negarlo. Troppo la sua volontà cedeva alle facoltà spirituali, che nè gli ammonimenti materni nè il nativo buon senso bastavano a disciplinare; era irriflessiva spesso; troppo fiduciosa di sè e degli altri; impaziente… Concedevo tutto questo. Ma Eugenia notava: – Quando Ortensia ha detto no, è no! Per fortuna – aggiungeva – , a saperla prendere è facile prevenire il no e ottenere il sì.

Dunque Ortensia aveva forza d'animo. Me lo confermavano alcuni ricordi.

Anni innanzi, quando era sui dodici anni, Ortensia s'impauriva ancora ad andar sola, di sera, nell'oscurità. Una sera il padre la derise, per questo, più del solito. Improvvisamente lei s'alzò da tavola; traversò tutta la casa al buio; e tornò pallida, ma vittoriosa.

E da bambina respingeva ogni tentazione di dolci e di frutta che le venivan offerti a patto di rivelare chi delle sue compagne di scuola avesse commesso qualche marachella. Golosa, mangiava quelle buone cose con gli occhi, ma non c'era modo di farla parlare. Ed ora perchè sembrava più ardita e più consapevole di sè, quando, sul serio o per gioco, esclamava d'impeto: – Voglio! – ?

Allorchè tant'anima si raccoglierebbe nell'amore o nel dolore, che forza di volontà avrebbe al suo soffrire! Era figlia di Claudio Moser, il quale tutto doveva a una volontà ferrea. Come pure aveva del padre la focosa cordialità, che manifestava spesso puerilmente.

– Tesoro! – quanti erre nell'esclamazione, mentre quasi soffocava il gatto con le carezze. Io le dicevo:

– Una volta o l'altra ti graffia. Sei troppo fidente: credi buoni sino i gatti!

– Ma non vede com'è bello?

E il vitellino alla cascina? Era un lattonzolo fulvo e ispido, che ne ascoltava le più affettuose espressioni con i grandi occhi stupiti e immoti e le gambe anteriori tese e aperte a un imminente sbalzo, se non di riconoscenza, di pazza gioia. Espressioni per il vitellino da fare invidia a un innamorato! Quanto a Sansone, il vecchio e bianco cavallo di Moser, lo abbracciava mentre esso le posava il capo su la spalla e tritava lo zucchero; ed erano abbracci così furiosi che per miracolo quello non se ne liberava con una zampata.

Con tali indizi d'indole affettuosa andavan altri che davano a conoscere non men vive le facoltà spirituali.

– Dopo che la mamma è guarita non provo più nessun bisogno di pregare. Come sarà? Certo non va bene!

Questo era effetto della giovinezza ritornata del tutto lieta; ma chiedeva a me:

– E lei non prova mai il bisogno di pregare? Mai?..

Io sorridevo, tacendo.

– È orribile! – Ortensia esclamava allora, dolente in modo da rivelare uno spirito passionale e profondo.

Che sarebbe di quest'anima all'uso della vita? Tenace nella passione, a chi s'affiderebbe quest'anima? Scemando l'esuberanza della giovinezza, così impulsiva, che mutamento avverrebbe in lei? Ogni indagine mi pareva una preparazione a difenderla un giorno, e nello stesso tempo accresceva l'intima ragione del mio affetto.

Volli sapere i suoi più grandi desideri.

Alla domanda, dondolandosi a pena a pena nella poltrona ad arco, chinò le palpebre su gli occhi, quasi a raccogliere e a precisare una visione.

– Viaggiare! Viaggiar molto! viaggiar sempre!

– Perchè?

– Oh bella! Per vedere il mondo; altri monti; pianure; città; il mare. Oh il mare!

– Calmo…; a lume di luna… – suggerivo io.

– E in tempesta no? Non l'ho mai visto in tempesta. Dev'essere stupendo!

– Dalla spiaggia…

– … Le onde bianche, il cielo nero, i lampi… Brrr! che bellezza!; ma a non esserci, là in mezzo!

– Brava! E poi?

– Un altro desiderio grande grande? Un bel cavallo roano… Roano o morello? Morello! con una stella bianca nella fronte!; e mi portasse via di galoppo, dove volessi io… S'intende, più giovane e più focoso di Sansone. Sa che è un bel tipo, Sansone? Cascasse il mondo, lui non si turba! Sola io riesco a farlo inquietare un po', quando non gli lascio ingoiar lo zucchero… È buono, Sansone; tanto buono!; ma con lui si va poco lontano!

– E poi? altri desideri?

– Mi lasci pensare…

Invece io la prevenni:

– Gioielli?, toilettes?, feste?, teatri?

– Si sa! Quale è la ragazza che non le desideri, queste cose?

– E poi? – io continuavo. – Diventar moglie d'un gran signore; magari d'un principe?

– Uh!, non mi dispiacerebbe.

– Ma io avrei preferito che tu dicessi: moglie d'un grand'uomo; d'un grande artista…

– Non ci ho mai pensato!

– Ah, dunque pensi a diventar moglie d'un principe?

– O di chi, allora? Di Pieruccio Fulgosi?

Fece una risata così significativa che anche a me parve di veder Pieruccio conficcato nell'alto colletto, smorto, con gli occhi imbambolati e i calzoni rimboccati.

– Sei senza pietà con quel povero ragazzo…

Arrossendo, Ortensia dimandò:

– Troppo sgarbata, è vero?

– Ierisera cosa ti disse quando gli voltasti le spalle?

– Eh! la solita storia!; non sa dir altro.

– Cioè?

– Che sono bella.

– E tu?

– Seccatura! Io non so dirgli altro che seccatura! Se lo merita; bamboccio!

– Però non gli dai torto del tutto quando ti dice che sei bella.

– Per me son tutti belli, fuori che lui! È bello per me anche suo padre!

Un'altra risata; e si levò di scatto per andar a guardarsi a una delle specchiere, che stavano alle pareti opposte della sala, quasi per togliersi un dubbio improvviso.

– Pfu! – fece, mentre ripeteva atti soliti: rialzò i capelli sulla fronte, e interponendo la destra al colletto che le stringeva la gola, tentò allargarlo, irosa, alzando gli occhi: bellissimi per il contrasto luminoso delle pupille e dell'iride col bulbo chiaro, che lo sforzo più distingueva.

– Però – riprese – , gli occhi di Marcella son più belli dei miei. Marcella ha gli occhi della mamma. Non sarebbe meglio fossi bruna io e bionda mia sorella? Tanto, a Guido gli sarebbe piaciuta lo stesso, e io mi piacerei di più a me!

Io dissi, tornando in argomento:

– Via!, consolati; chè gli artisti preferiscon le bionde. Ti daremo in moglie a un poeta.

– No, un poeta no. Non lo voglio!

– Perchè?

– Perchè?.. Perchè?.. non lo so nemmen io il perchè. Un pittore, forse… un maestro di musica, celebre…

– Perchè preferiresti uno di costoro?

– Ma sa che è un bel tipo anche lei? Vuol sapere il perchè di tutto! Perchè? perchè? perchè?..

Mi canzonava. Fu così travolto in riso il resto della mia indagine.

Ortensia rideva di gusto; e se non ne trovava il motivo fuori di sè, lo trovava in sè medesima, quasi per espressione, e sfogo di giovinezza; saltando, magari, e cantando per ridere delle sue mosse e del suo canto; ma non era mai un riso sciocco. E diceva:

– Lasciatemi ridere, ora che la mamma è guarita!

Poi mi piantava lì, dov'ero, per correre a veder la madre.

… Quantunque non protesse star molto in piedi, Eugenia aveva ripreso a dirigere le faccende di casa. Più brevi divennero quindi le nostre conversazioni al rezzo; più lunghi i miei colloqui con Ortensia, la quale adesso ardiva sgridarmi non solo se mi vedesse accigliato e col «sorriso brutto», ma anche se non la ubbidivo e trascuravo certe sue giuste pretese. Per diritto e dovere fraterni mi sgridava se m'impolveravo gli abiti e non attendevo abbastanza alla toilette; e spazzolandomi e riacconciandomi la cravatta, borbottava:

– Oh che uomo! oh che uomo!


IX

Ero certo che l'amore non aveva ancor molestato il cuore di Ortensia e che nessun corteggiatore le dava maggior pensiero di Pieruccio Fulgosi.

La breve dimora a Milano, l'inverno, le aveva consentito la molteplice distrazione d'una grande città, ma le abitudini della famiglia l'avevano sottratta alle occasioni di conversazioni e ridotti, che son propizie agli innamoramenti.

A Valdigorgo non vedevo chi potesse innamorarla.

Quando le Moser passavano in paese – e fuor dei giorni festivi era assai di rado – il giovane ufficiale postale e telegrafico esponeva il capo dall'inferriata dell'ufficio; l'assistente del farmacista correva sulla soglia della bottega; i perdigiorni del caffè interrompevan la partita a carte o a bigliardo.

– Le Moser! le Moser!

Ma tutti costoro, e gli altri non da meno e non da più di essi, restavano come a una visione celeste e tiravan di gran sospiri: il cielo è solo per gli eletti!

Dell'ingegner Roveni io non sospettavo affatto, perchè ero sicuro di questo: nelle poche ore che restava alla villa egli non trattava Ortensia diversamente da Marcella, cioè con confidenza disinvolta e, insieme, un po' rude.

– Un giovane serio! – ripeteva Ortensia. Infatti, nè con lei nè con Marcella scherzava mai come con Anna Melvi; e con la Melvi, la quale lo provocava, scherzava in modo che pareva dire: «Tu cerchi di farmi cascare, ma non ci riuscirai. Sarà brava quella che ci riuscirà!»

E rideva, con Anna, quasi per togliersi di imbarazzo, quasi per forza; in modo che – ridendo egli poco o punto con tutti gli altri – poteva parere un po' volgare. Anche ciò mi confermava nell'opinione che fosse un uomo lontano e libero da preoccupazioni sentimentali; libero fors'anche per misura, forse per calcolo. Ma non poteva passarmi per la mente l'idea che dissimulasse; nè, pensandoci, ci avrei potuto trovare ragione alcuna.

Del resto, Ortensia, per parte sua, col suo carattere, mi persuadeva che quando pur avesse avuto cento adoratori attorno, e uno più esperto dell'altro, sarebbe stata ugualmente lontana dal pericolo di languir di passione. Chi pensa a sè stesso, perchè ama o è in attesa di amare, non ha di quelle impressioni improvvise, di quei rapidi entusiasmi per la vita esterna che aveva lei.

In ciò rassomigliava alla madre quand'era giovane; ma mentre in Eugenia l'ammirazione dei fenomeni naturali era temperata dall'affetto raccolto nel marito e nella famiglia, in Ortensia la stessa ammirazione prorompeva giù spontanea, più vivace, più grande; immediata. Ecco forse perchè all'arte della poesia, che domanda, a comprenderla e a gustarla, studio e riflessione, essa preferiva la pittura e la musica.

Con Ortensia non si facevan molti passi, non si stava un po' fuor di casa, senza udirla ripetere: – Guardi! che bellezza! Stupendo, è vero? – E mi chiamava spesso a voce alta: – Sivori! venga a vedere! corra!

Se non che per godere del tutto la libertà delle sue giornate, Ortensia non avrebbe dovuto aver nulla da fare in casa. E, pur troppo, la vecchia cameriera veniva in cerca di lei con gravi incombenze di Marcella o della madre.

Uf! che pazienza! Di solito scappava in casa di corsa per trarsi d'impaccio al più presto possibile; ma talvolta rispondeva:

– Sì, sì, ho capito! Subito! Vengo subito! – e allora a rivederci, Marcella; o arrivederci, mamma!

Quando poi non poteva esimersi dal cucir qualche cosa, o dal rammendare il bucato, si addossava in un giorno il lavoro di una settimana. In quel giorno di clausura, che manteneva con fermezza eroica, io la vedevo di giù, dal giardino, seder presso una finestra, contro al fondo scuro della camera.

A capo un po' chino, con movimento ritmico, alzava il braccio e tendeva il filo a ogni punto: ne scorgevo ad ogni volta la mano bianca; e come di tratto in tratto elevava il capo a guardar fuori, al cielo, i suoi occhi mi parevano più luminosi e profondi.

Ma ottenere di cotesti miracoli era impossibile per imposizione.

Aveva la ribellione nel sangue; al punto che si ribellava anche a Sivori.

Una mattina ricorsero a me, l'una dopo l'altra, Marcella, la cameriera, Eugenia.

– Sa dove sia Ortensia? – ; dove sia la signorina? – ; dove sia la cervellina?

No, neppur Sivori lo sapeva. L'avrebbe saputo Mino; ma Mino appunto era stato prescelto da lei ad accompagnarla nel bosco, di là dall'antico convento, per raccogliervi bulbi di ciclami.

Senza di me! Quando tornò a casa, la rimproverai con acerbezza; come avesse commessa una colpa grave davvero. Essa però prese i rimproveri allegramente.

– Perchè non ho chiamato lei, invece di Mino? Perchè?.. per farle, dopo, una improvvisata! Non va bene? Una scusa che non va? Allora perchè…: per evitare una sgridata! Raccoglier cipolle di ciclami nel bosco… Orrore! Ma no: neppur questo «perchè» la soddisfa? Ecco dunque la verità: m'è parso un passatempo non da uomo così… burbero!

Quindi a me non rimase da far di meglio che star a vederla a piantar i bulbi nell'aiuola, solo sgridandola che s'interrava le mani, e lodando Mino, il quale, più savio, scavava con un paletto.

– Che m'importa delle mani? – ella disse. – Vedrà, vedrà che ciclamini! Io li preferisco a tutti i fiori… E lei? Qual è il fiore che le piace di più? Dica! Voglio saperlo!

E Mino anche lui: – Di' dunque, Sivori!

– Indovinate – risposi, ripensando al tempo che mi piacevano i fiori.

Mino esclamò, pronto:

– Le freddoline!

Ma Ortensia:

– I fiordalisi? Di giugno, quando il frumento è alto e giallo, i papaveri e i fiordalisi, là in mezzo, non son belli forse?

Non era il fiordaliso che io ammiravo di più, un tempo…

– La rosa! – gridò Mino con l'entusiasmo di una scoperta indubitabile.

Via! Ortensia non poteva ammettere che il fiore che più piace a tutti, più piacesse a me.

– La rosa thea?

Dissi:

– Anche le thea hanno le spine…

Con alacre pensiero, cogliendo le immagini più vive che le venivano alla mente, Ortensia proseguì:

– La camelia? È stupida! Il mughetto? Sì, è grazioso… ma poi! I tulipani? l'ireos? No, no, non credo. Il tuberoso? Niente di straordinario! Le viole? Peggio!; le viole mammole le han fatte diventar noiose a scuola, con la storia della modestia; le viole del pensiero io non le posso soffrire! Dopo l'ortensia, la viola del pensiero è il fiore più antipatico per me. Ortensia!: potevano ben mettermi un altro nome!

– Il geranio è bello – disse Mino.

– Sta zitto, tu! L'orchidea?.. – continuava l'altra. – Ma lo dica, una volta! Il garofano?

Assentii.

Mino gridò: – È brutto!

Ma Ortensia riflettè un istante; e poscia:

– È vero; è molto bello il garofano!

Quanti anni eran passati da quando il mondo a me pareva bello anche nei fiori, e il garofano il più bel fiore?

Rividi nella memoria il mio paese nativo, ai dì di festa; mia madre… Era molto bello il garofano rosso; il fiore del popolo: fiore della forza e della libertà; fiore dell'idea e fiore del sangue.

– Prendi! – disse Mino portandomene uno, di corsa.

Ecco… Il calice capace e alto, merlato, ben munito al fondo; i petali copiosi, con quelle brevi frange marginali che sembrano moltiplicarli; il calamo così sottile e lungo, che ai nodi non si piega ma si tronca – frangar non flectar – ; le foglioline del gambo esili ma salde, forti, affilate come lame; e quel colore ardente fra l'umile verde opalino della pianta, e lo sboccio impetuoso fuori dell'intricato cesto, gli danno una apparenza di bellezza audace, di stranezza semplice, di letizia rude, di vigoria nobile e selvaggia.

Al mio paese, tornando dai vesperi, i giovani portano il garofano all'orecchio, quale segno di conquista; e le ragazze non se ne adornano esse, ma li coltivano con gelosia in una pentola crinata, che adorna la finestra della loro camera, e se ne valgono a prove d'amore; tentazioni, sfide, promesse, premi e pegni d'amore.

Ma se ci son fiori che appaiono più belli quando sono sbocciati appena appena, o in prima fioritura, il garofano non è bello che nella virilità. Prima, allorchè gl'innumerevoli petali, vivi e freschi, fanno forza al calice che li costringe a non espandersi e nascondono le antere e i pistilli, come per un pudore di adolescenza, allora è di una timidezza senza grazia, di una robustezza troppo impacciata e quasi stenta. Ma quando è maturo e aperto, quando nella festa della sua vita fende il calice, prorompe con vigore esuberante, e i petali, per la fenditura, in basso, formano un bitorzolo bianco come son bianchi gli organi generativi non più nascosti, e in alto i petali sorgono pieni di colore e di sangue, e quelli esterni si chinano e soggiacciono quasi alla stanchezza di una fatica, grande e gioconda; quando da tutta quell'intima complessione tenera e viva sgorga il profumo intenso che non cesserà nella morte, oh allora è mirabile il fiore del desiderio ardente, dell'amore cupido e della voluttà!

… Ebbene, da quel giorno, spesso Ortensia si mise, insieme, due o tre garofani sul petto; e da quel giorno il garofano perdè ai miei occhi ogni espressione sensuale, e mi parve più bello.


X

– Ho promesso e mantengo! – proclamò l'ingegner Roveni. – Domani si va alle Grotte.

Lo ricompensò un clamore di grida gioiose; e subito le ragazze furono intorno a me per costringermi ad andar con loro.

Anna Melvi urlava:

– Chi fa l'istanza? chi ci è più interessata? – e sospingeva Marcella, timida e ridente in quel suo modo per cui stringeva un po' le ciglia e velava con le palpebre gli occhi soavi.

Inanimita, Marcella pregò:

– Andiamo, Sivori!: sia buono! Se non verrà anche lei, la mamma non ci lascerà andare.

E la Melvi:

– Dovremmo rivolgerci al cavaliere. Francamente, tra i due, preferiamo ancora lei!

Io tacevo con un sorriso incerto.

– Non capite che Sivori non ne ha voglia? – esclamò Ortensia dopo avermi fissato a lungo, in silenzio.

– Si annoierà più a restare in casa – ribattevan le altre.

– No, no! Si vede! È inutile: non-ne-ha-voglia!

Pronunciando in cadenza l'ultima affermazione Ortensia manifestava malcontento e nello stesso tempo minaccia di abbandonarmi alla mia svogliatezza.

Io le dissi:

– A quel che pare, tu sei disposta a andar senza di me. Mi vuoi o non mi vuoi?

Rispose forte e soltanto:

– Sì!

– E io ci verrò!

Il dì dopo andammo dunque noi sette – io, i tre giovani e le tre ragazze – a far colazione alle Grotte.

Se durante quella gita io avessi potuto o saputo conoscere a dentro l'animo d'alcuni della compagnia; se avessi potuto scorgere i motivi reconditi di atti in apparenza quasi involontari e di parole in apparenza leggere; se quel giorno avessi pensato un po' meno a me stesso, quanto dolore sarebbe stato evitato?

Per andare da villa Moser alle Grotte si teneva prima il sentiero che guidava al piccolo oratorio del Crocifisso; ivi si passava per il ponte di legno e si prendeva la strada, la quale or costeggia la destra del fiume, ora se ne allontana; ora aperta, ora chiusa in lembi di bosco o solo ombreggiata da noci e da querce, finchè si arriva all'aspra montagna che la via mulattiera assale fra i castagni frondosi e bistorti.

L'ingegnere s'accompagnò subito a me, ed Anna, chiassosa fin nella veste rossa, fu costretta a correre innanzi con Ortensia e con Pieruccio, la vittima, schiamazzando. Dietro andavano Guido e Marcella nella lor piena felicità. Roveni, fatti pochi passi, respirò ampiamente come chi si solleva dalle spalle un peso enorme e come dicesse: «il mondo è mio», disse:

– Questa giornata di svago mi voleva e me la prendo! Moser è rimasto lui alla fabbrica, oggi; ma senza bisogno: ho predisposto tutto io stanotte.

Era la prima volta che discorrevamo insieme liberamente noi due soli, e colsi l'occasione per dirgli:

– Moser prevede che lei, che gli è così utile, lo abbandonerà.

Senza guardarmi l'ingegnere mormorò:

– Vedremo.

– … Però le dà ragione. Lei può pretendere migliore impiego.

– Davvero? Moser non me ne vorrà male, se mi converrà lasciarlo?

Era grato anche a me, che l'accertavo di no.

Io pensavo intanto: «Ecco un uomo! Abbastanza di sentimento; ma finchè non gliene venga danno». Pensai pure: «Se Ortensia avesse qualche anno di più…» Ma guardando il giovane respinsi subito quel pensiero. «Una moglie a costui sarebbe d'impaccio. Per andar lontano, vuol essere libero. Costui è un uomo!»

Egli proseguiva:

– Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell'asino. Avrei potuto andarmene già l'anno scorso. È vero che… Basta! La vita è lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.

Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche aveva compiuti gli studi… Poi ripetè che a Moser egli era tanto affezionato…

Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle sue parole, e in quella reticenza: «È vero che…», per cui si era trattenuto da una confidenza inopportuna?

Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era quel giorno mentre mi camminava accanto – più alto e più robusto di me; energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo sicuro come il passo – anche ora mi sembra naturale che allora io soggiacessi alla simpatia di quell'uomo. Notai, sì, ch'egli mi guardava di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in lui l'abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l'ambizione; ma la stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.

Proseguiva:

– Ho lottato sempre e non dispero di vincere. – Aggiunse: – Lei è di quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?

– Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra – risposi.

– La forza di volontà non basta! – ripigliò il giovane. – Bisogna ben determinare il campo d'azione; saper limitarlo secondo le proprie forze; segnarvi la via diritta da percorrere, e correre, correre, correre! La vita moderna è una corsa. Ma non basta. Vede? Moser corre. Però dissipa qua e là le sue forze: architetto, costruttore, appaltatore e fabbricatore di laterizi. Troppo! Ma criticare è facile. Io riuscirò dove voglio?

Interrogava l'avvenire.

– Lei riuscirà – dissi con amarezza, pensando a me stesso più che a Moser, quantunque la parte del discorso che gli si riferiva avrebbe dovuto raccogliere la mia attenzione. – Lei sa misurare gli ostacoli e li abbatterà.

– Non basta! non basta! La vita moderna pretende che abbattiamo anche intorno a noi, non solo davanti a noi! I concorrenti bisogna abbattere che mirano al nostro scopo e al nostro posto, e son tanti! Ma non è facile. Mai come in questi tempi bisognò armarsi di prudenza per colpire poi a spada tratta…

Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in me stesso.

E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.

– Oggi non rideremo come l'anno scorso, quando andammo a Monfalco – disse Ortensia.

Presero a raccontarmi della gita dell'anno innanzi, ch'era stata interrotta da un nebbione formidabile.

– Dovemmo pernottare in una capanna.

– Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire – disse Marcella a Ortensia.

Pieruccio affermò:

– Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!

– Non è vero! – gridò Guido. – Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla capanna, per paura di perdervi.

– Ci arrivammo!

– Storie!

Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così piccola impresa.

– Oh che notte, là dentro! Che notte! – ripeteva Marcella. Raccontava Ortensia:

– Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare un poco. Che freddo!.. Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò che non ci fosse nemmeno un po' di tè. Allora chi si mise a sospirare perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva le pantofole; chi voleva l'acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le portavano due guanciali!

Ma Anna, sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro particolare ricordo:

– Nemmeno l'ingegnere chiuse occhio in tutta notte.

L'ingegner Roveni sorrise appena e disse: – Lei non dovrebbe saperlo se io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.

Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro, perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità, alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell'anima il crollo di una grande speranza. Ora, come l'anno prima nell'altra gita, Ortensia era lontana da me, lieta senza di me.

Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane di Guido, che impazzava a levar passeri, o ristava per dire qualche cosa a ragazzi o a vecchi che vedeva nei campi o nella strada, o ascoltava me e Roveni e borbottava: – Noiosi! – , e s'accompagnava per breve tratto a Pieruccio e ad Anna.

Per divertirsi di più, ottenne da Guido, il quale aveva una naturale attitudine a contraffar il prossimo, che imitasse Roveni: persona eretta, mosse risolute, passi lunghi, gambe svelte e solide. Poi, la studiata andatura di Pieruccio. Risate. Quindi imitazione della mia voce e alcune attitudini mie. E applausi. Ancora: gallicinii e qua qua. Gli disse Pieruccio:

– Fa l'asino, che ci riesci così bene!

Tranquillamente Guido si mise a ragliare; e da una cascina un cane accorse abbaiando; e il cane di Guido gli s'avventò contro: ne nacque una zuffa, aizzata dal terzo cane, ch'era Guido, e dalle grida delle ragazze.

Tra queste pur Marcella mi spiaceva e mi pareva perdesse quella soavità di spirito che le dava una beltà così gentile; ma per Ortensia sempre più provavo il senso doloroso di un intimo distacco e lo strappo di un'illusione necessaria.

Ahimè! bastavano quelle poche distrazioni, cui ella acconsentiva, per persuadermi che l'affezione di lei, per quanto sincera, scemerebbe a poco a poco nel mutare delle circostanze della nostra vita.

Mi chiedevo ora se avrei osato confessare ad altri, pur ad Eugenia, che io avevo creduto sul serio di sopperire a un affetto naturale con un affetto che non doveva in realtà superare i limiti dell'amicizia.

Non mi riderebbero in viso gl'innamorati (Guido e Marcella); i desiderosi d'amore (Pieruccio e Anna); la gente positiva (Roveni), se io chiamassi Ortensia, per uso, col nome di sorella? Dunque la mia speranza era insana! Ortensia stessa doveva comprendere d'aver ceduto a un'ingenuità puerile promettendomi il suo affetto, se una breve interruzione della nostra consuetudine quotidiana e l'uscir fuori dei soliti luoghi, in cui restavamo insieme, potevano così distoglierla da me.

Intanto Anna, indispettita perchè l'ingegnere rimaneva al mio fianco, sfogava il suo rovello impedendo a Pieruccio di rimaner con Ortensia. Chi più disgraziato dei due: io o Pieruccio? Chi più ridicolo?

Povero ragazzo, che forse aveva riposte tante speranze anche lui in quella passeggiata!

Aveva il binocolo a tracolla, e poichè non poteva servirsene a mirar Ortensia o ad ammirar sè stesso, come suo padre faceva con lo specchietto, ogni punto di vista gli era buono perchè traesse l'arnese dalla busta e ristesse a osservare il paesaggio.

– Signor dottore: vuole? – mi chiedeva con un inchino. Ma Ortensia e Anna accorrevano.

Ortensia, che poco prima aveva rifiutato il binocolo, ora insisteva:

– Voglio veder io! voglio vedere!

Ma da Ortensia il cannocchiale passava ad Anna; e cominciava la guerra per ricuperarlo. Anna fuggiva ridendo e sperando d'esser rincorsa anche da Roveni. E risate e grida.

Io mi servii di Pieruccio per sfogare il mio tedio.

– Oh l'infelicità del primo amore! – dissi con l'ingegnere. – Che fatiche! che sacrifizi! L'adolescente innamorato patisce un appetito formidabile e rifiuta il cibo; casca di sonno e si sforza a vegliare; con tutto il pensiero cerca l'immagine adorata, che dovrebbe specchiarsi chiara e netta alla sua mente, ma col naso divino, gli occhi divini, la bocca divina, che la mente gli delinea, non riesce mai a comporre la faccia divina, e invece gli balzan dinanzi le facce più estranee e più antipatiche. E questo è nulla! Vagheggiare qualche eroica impresa; o salvar da un pericolo mortale la bella per meritarne l'amore, o sfidare e ferire a morte il rivale, e sudar intanto nelle scarpe troppo strette o troppo larghe, e fare e rifare il nodo della cravatta, or sperando or disperando che parta da essa il colpo della vittoria! E questo è nulla! Proporsi di esser spiritoso e irresistibile, e non riuscir a trovar motto che non sia stupido e a trovar un gesto che non sia goffo.

Questa volta Roveni rise sgangheratamente; troppo. Non rise Ortensia; mi fissò e disse:

– Brutto giorno, oggi! – e via!

A un punto la perdei di vista; finchè, ella ricomparve con Anna, su di un poggiòlo in mezzo a una fratta. Di là ci chiamavano, urlavano i nostri nomi.

Disse Roveni: – Che bella voce ha Anna! – E forte: – Canti, signorina Melvi!

Allora la monellaccia, con voce squillante:

L'amore è una catena!
L'amore è una catena
che non si spezza…

… Quando arrivammo a Rivalta, il villaggio dei tagliapietra, a più che due terzi del cammino,, era già tardi, e noi assetati e affamati. Or mentre io guardavo ai tagliapietre e agli scalpellini che quadravano e appianavano i massi – e schegge e lapilli balzavano diffusi ai colpi dei martelli, e i birocciai davano voce ai muli, e rintronavano da lungi le mine – le ragazze avvertirono, entro una porta, un magnifico cesto di pere, e si misero a mangiarne ingorde, invitando noi a pagarne il prezzo.

Allora, nel veder mordere i grossi frutti dalle polpe succose, come io invidiai la gioia di vivere!

Non bastavano quelle belle frutta a dimostrare la provvidenziale disposizione della natura alla gioia umana? Non erano destinate a gioie umane quelle labbra rosse, che sui pericarpi color d'oro secondavano il taglio avido dei denti?

E mi volsi a cominciar solo la salita dell'ardua costa montana.

Da un lato s'ergeva la costa a perpendicolo, tutta di massi grigi e neri sovrapposti come per un gigantesco assalto alla vetta; dall'altro lato precipitava la rovina sino al fiume, sul greto del quale il sole batteva irradiato dalla scarsa corrente.

Io non guardavo là dove il sole splendeva: a un passo più scosceso una nera croce di legno ammoniva che di là un viandante era precipitato e morto. Morire così!

Ma mi raggiunsero i giovani; mi raggiunse la vita, e sempre più incresciosa. Anche ora risento di quell'uggia; e non riferirei più oltre di quella gita se non fossero state gravi le conseguenze che ebbe.

… Come entrammo nelle grotte, avanzarono per primi Ortensia, Marcella e Guido; seguimmo io e Pieruccio e gli altri due. Roveni, senza opposizione, reggeva la candela rifiutata da Pieruccio.

Intanto il cane si precipitava fin dove giungeva l'ultimo riverbero e s'arrestava abbaiando alle tenebre; poi facendo l'occhio all'oscurità, o scorgendo altro barlume, procedeva ancora e si perdeva, e impaurito a non udir le nostre voci o a udirle lontane, latrava e guaiva, finchè riusciva a trovarci, per riprendere quel nuovo sollazzo subito dopo. Acute strida seguivano a fremiti veri o immaginari di pipistrelli. E veramente ogni volta che si rinnovava l'oscurità, perchè o aria o ala di pipistrello od altro spegnesse la candela, la tenebra gravava su di noi; il freddo umido penetrava le ossa e l'attesa della nuova luce pareva eterna a chi frattanto non facesse qualche cosa.

Che facesse Anna non sapevo; ma insospettito, quando la candela fu riaccesa la quarta o quinta volta, mi ritrassi da parte per lasciar l'adito a lei e Roveni; e sorpresi Anna nell'atto di soffiare alla fiammella.

Finalmente usciti di là e superata l'ultima costa, tornammo nel prato, a far la colazione che un servo aveva predisposta.

Di lassù spaziava la vista della valle, ove le case apparivano frequenti come un gregge bianco in parte diffuso e in altre parti raccolto: verdi di boschi erano i monti prossimi, e tra il verde, or cupo or diverso per mezzi toni o sfumature ai riflessi di luce, casupole e ville; giù, candido il fiume, e i monti anteriori eran brulli e scuri, e azzurrine o già nebulose le estreme vette.

D'improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora: l'Angelus vibrò nell'aria.

Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi tardi e fiochi. Stranamente, dall'immagine ancor viva dei tagliapietre, che mi pareva veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io corsi all'immagine dell'operaio al mio paese: deponeva la vanga e traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva e fresca… Infelici i poveri!





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