Книга - Novelle umoristiche

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Novelle umoristiche
Adolfo Albertazzi




Adolfo Albertazzi

Novelle umoristiche





Il suicidio del maestro Bonarca





I


Felicità è una vana parola? – Persona alta e forte; baffi neri e fieri; voce baritonale e, se bisognava, imperiosa; eppoi: un pennacchio bianco al kepì; spada al fianco e assisa quasi militare; saluto alla militare dai subalterni; dominio sul palco in piazza a dirigere la banda nei giorni di festa; precedenza a tutti nelle processioni e nei trasporti funebri; direzione dell'orchestra in teatro; autorità di maestro sui cittadini idonei alla musica; autorità di cittadino notevole; stipendio sufficiente per una vita tranquilla; tranquillità di scapolo: tutto ciò dovrebbe pur bastare a rendere felice un uomo!

Che se il maestro Bonarca incolpava i creditori dell'essere caduto in miseria da tanta sua felicità, egli era ingiusto appunto perchè ogni creditore, benefattore con o senza usura, corre il pericolo che il beneficato ponga fine al debito ponendo fine alla vita.

Ah! vana parola è la gloria; e rovinosa passione l'ambizione; e debolezza la confidenza nel nostro ingegno, non meno che fallaci, insani sono i sogni dell'anima nostra; e morbo la poesia e la melodia di cui risuoni l'anima nostra. Infatti quando il maestro Bonarca non avesse dato ascolto ai cattivi amici e a sè medesimo, non si sarebbe incamminato mai verso il canal Torbo con il proposito d'affogarvi.

Fu così: In poco tempo aveva composta la Sposa selvaggia (centocinquanta lire al poeta del libretto: prima spesa), e i giornali cittadini avevano preannunciato il capolavoro (sovvenzioni ai cronisti: seconda spesa); poi (altre spese) il maestro era andato a Milano, a Torino, a Bologna in cerca di un editore, di un mecenate, di un impresario. Quindi aveva avuta la sciagurata idea di assumere per sè l'impresa al teatro della sua città. Gli amici incitavano; qualcuno prometteva aiuto e, sebbene il Comune ricusasse la dote teatrale, uno stimato commerciante accondiscese a firmare l'avallo nelle cambiali di lui, che sacrificava alla gloria tutte le economie del passato e molte economie dell'avvenire. E la Sposa selvaggia aveva ottenuta fortuna quasi uguale a quella desiderata. Se non che i cittadini d'una città piccola non vanno a teatro tutte le sere; nè i paesani delle vicinanze, ignoranti che sarebbero accorsi in folla a udir la Traviata o il Trovatore, si lasciaron persuadere da una costosissima réclame e dalla fama dell'opera nuova. Inoltre, ammalatasi la prima donna, l'altra, chiamata d'urgenza a sostituirla, aveva messo voce e opera a caro prezzo. E infine, dopo tante angustie che solo un uomo di coraggio eroico poteva dissimulare; dopo tante contese, vinte a fatica di polmoni strepitosi e di occhi biechi, con i cantanti, i suonatori, i pittori, i macchinisti, i coristi che non rimettevano a dopo il sabato il pagamento della mercede, era avvenuta la catastrofe: il commerciante dell'avallo contro ogni previsione era fallito e fuggito. Avevano sparsa nel giorno la tremenda notizia: fuggito con i quattrini! Canaglia! ladro! assassino! Socio al maestro Bonarca. Sul quale si riverserebbero l'odio e le calunnie dei creditori; le cambiali protestate; il disprezzo della cittadinanza; la diffidenza della patria tutta. L'infelice, per colpa della sua Sposa, si vide perduto; si credè abbandonato; si sentì solo al mondo, solo con la Sposa selvaggia e col disonore…

Ond'ecco, a pochi passi, il canale e la morte.




II


Dal ponte il maestro Bonarca guardava l'acqua che trascorreva lenta e cheta, e della luna, attraverso la tenue nebbia, non riceveva luce bastevole per rifletterne a specchio l'imagine. Similmente la sua vita poteva forse trascorrere placida ed uguale, non accogliendo dall'arte maggior lume che quello sufficiente a una capacità mediocre. Ah sì! Gli parve ora d'essere rinsavito; di saper con giustezza misurare il proprio ingegno; di comprendere ch'egli s'era illuso e che l'avevano illuso; e, a convincersene, riandava ancora una volta, l'ultima volta, coraggiosamente e disperatamente, l'opera sua. L'adagio della sinfonia era soltanto una povera nenia; piacevole per il volgo. Nient'altro.

Atto primo. Vi balenava, nell'iniziale oscurità, qualche lucida frase; v'appariva un pensiero melodico, che cadeva subito come un volo cui mancò la possa dell'ali; e il duetto…; il duetto sarebbe stato bello se non avesse ricordato troppo l'Ernani. Dunque: a giudizio di critica giusta, serena, coraggiosa, il primo atto valeva poco, o nulla. Per fortuna era breve!

Atto secondo. Stringi e stringi… Vuoto! vuoto! vuoto! L'introduzione?.. Quale le promesse di certi amici. Dopo, la preghiera; che non commoveva neppure la platea e che appunto per ciò i critici avevano definita un canto di sirena nordica, senza rammentarsi che la Sposa selvaggia era affricana. Poi, il coro; elaborato senza dubbio per quella rispondenza degli ottoni al richiamo degli archi, ma privo di originalità; lento; fiacco; lungo; eterno. E il terzetto?.. Il terzetto… Ah il terzetto, vivaddio, no e poi no! Questo era bello; c'era tant'anima! c'era il cuore del pubblico che sobbalzava rapito quasi una volta a quello dei Lombardi! Bellissimo! Un pezzo simile sfidava la critica, sfidava la malignità degl'invidi, sfidava il tempo; nè chi l'aveva scritto moriva! No e poi no! Non morirebbe quantunque s'annegasse, umilmente, nel canal Torbo!

Un tal pezzo bastava a ribattere l'accusa di vanità al secondo atto; come la romanza del tenore, nel terzo, bastava a render celebre un nome!

Sposa selvaggia, addio!
Io morirò per te!

Così soave e così semplice, questa soave e semplice e limpida sorella della «Casta Diva» attesterebbe al mondo che nella terra di Bellini, non ostante le diavolerie dei wagneriani e i disaccordi che mortificano ingegni, anime e gusto; nella terra di Bellini nulla, mai, nessuno, mai, spegnerà il senso della melodia, l'amore dell'armonia, lo spirito dell'amore meridionale, il fuoco della nostra passione. Mai e poi mai! Viva l'Italia!

E morire! Ma il dì dopo, alla notizia, quella divina romanza, che tutti avevano imparata la prima sera, tornerebbe come invocazione di pietà alla memoria di tutti, anche dei nemici; e si piangerebbe il giovane maestro, che una sorte diversa avrebbe condotto a rinnovare l'antica e pura arte della patria…

Morire!.. Morire, perchè il maestro Bonarca anteponeva l'onore alla gloria; perchè il mondo non dicesse che del commerciante fuggito con i quattrini il maestro Bonarca era stato complice; perchè egli riconosceva i suoi debiti e prevedeva che non avrebbe potuto pagarli mai più; perchè insomma lo superava un destino crudele e non voleva si credesse da alcuno della cittadinanza onorata e dal sindaco che egli avesse paura di morire!

Perciò era pronto; tutto era pronto! In tasca, la lettera al questore: «Mi uccido per ragioni che è inutile rivelare…» (Infatti chi non se le imaginerebbe?) «Ringrazio i miei concittadini per la loro benevolenza alla mia Sposa selvaggia…»

Erano due righe, ma animose; di un uomo senza paura. Qual rammarico tuttavia nel pensare che la sua tragica fine servirebbe di réclame, e l'opera presto data alla Scala o al Regio o al San Carlo solleverebbe il pubblico, entusiasta del terzetto e della romanza, a chiamare il maestro, che, essendo morto annegato, non potrebbe assistere alla rappresentazione!

D'improvviso Bonarca si chiese: «Se aspettassi?..» Un'idea gli balenò nella tempesta dell'anima come suscitata da sentimenti opposti: un po' di pietà, che finalmente aveva di sè stesso, e il coraggio ch'egli era convinto di poter spingere fino all'audacia. «Se aspettassi… a vedere cosa i giornali diranno, domattina, della mia morte?» Certo, dopo morirebbe più volentieri; sia che i giudizi postumi gli confermassero meriti e compianto, sia che la pubblica giustizia, fatta libera dalla morte, lo condannasse senza pietà. Ma non era un'idea da matto? Per riflettere si strinse il capo tra le palme. E un birocciaio che transitava, lo vide; e una vecchia, la quale passava con un cesto al braccio, si volse indietro a riguardarlo. Egli si rivolse tranquillo e fiero; giacchè la sua idea non sarebbe da matto quando riuscisse a sfuggire a ogni altro sguardo fino all'ora dei giornali, e a provvedersi dei giornali. Non esitò più. Dopo tutto, ai condannati a morte è lecito soddisfare, qual si sia, l'ultima voglia!

Ed essendo impossibile che qualcuno non passasse di là, non vedesse il paletot, non leggesse la lettera e non la portasse in questura prima della notte, egli si tolse il paletot e lo pose sul parapetto del ponte; gettò il cappello alla corrente livida, e quasi a scorgere, così travolta, la sua testa o quella d'un fedele amico, ne distolse subito gli occhi per non commuoversi; quindi scese lungo la riva in cerca d'un nascondiglio. Ricordava che alla distanza di forse un chilometro, fra le canne e i giunchi, era la casupola d'un piccolo mulino abbandonato; oltre il quale il canale tornava fosso e, per esser diruto l'argine a sinistra, impaludava il piano. Si avviò per il sentiero all'abitacolo; v'entrò da una porticella, e al lume d'un fiammifero vide ove mettersi: su poco strame, dietro un pezzo di macina; nè egli chiedeva più tenero letto a riposare dalla dura battaglia. Ivi attenderebbe il giorno: per i giornali manderebbe il primo ragazzo o galantuomo che transitasse per la via e a cui farebbe credere, ridendo, che gli era caduto il cappello dal ponte. Freddo gli sembrava assai, ma sopportabile a chi non temeva il freddo della morte… Così, nell'attesa, si mise a pensare a cose che lo distraessero. Le altre sere a quell'ora, se non aveva teatro, giocava a biliardo col marito di… «Non pensiamoci!» (Non voleva pensare a donne, per non intenerirsi)… Ma quel marito, via!, non giocava mica male; anzi, da competitore formidabile… E il delegato Rosta?.. Un bravo amico, questo; sincero, sebbene questurino; giocatore mediocre a suo confronto, eppure vincitore in una classica partita… Che meraviglia! Era stato al tempo delle prove… Oh le sudate prove della Sposa!..; con quei violini che non andavano; con quella cornetta… Benvoluto da tutti, però; rispettato; temuto. Gli artisti di vaglia hanno in sè qualche cosa che fa perdonare ogni scatto. Per esempio, egli qualche volta era stato feroce; e mai un lamento. Solo Camandri, il bombardone, aveva detto a un compagno, dopo la seconda prova: – Se torna a darmi della bestia in orchestra, lo fracasso con lo strumento. – Ma lui, alla terza prova: – Camandri: è un la! un la! un la!, corpo di!..; e Camandri, giù gli occhi e il bombardone a posto; frenato e impaurito da quello sguardo…

Sparsasi la triste notizia fra i suonatori e i discepoli, quanti non direbbero, con certo orgoglio: – Bravo maestro! Gli uomini di fegato e di carattere fanno così; non scappano come quel mercante traditore… – A proposito! (fe' Bonarca) I tre soldi per i giornali? – Li aveva; aveva il resto dell'ultima lira, che si era tratta di saccoccia per l'ultimo cognac…

Dunque?

Dunque, poichè si fu riacconciata la paglia addosso ed ebbe appoggiato il capo alla pietra… a poco a poco, senza perdere il coraggio, s'addormentò.




III


«Il nostro valente capobanda, l'esimio maestro, il fortunato autore della Sposa selvaggia, nel quale tante speranze riponevano gli ammiratori concittadini, l'arte e la patria, ierisera si è miseramente ucciso gettandosi nel canal Torbo. Povero, illustre amico! Quale fu la causa che ti condusse al triste passo nel fiore della balda giovinezza destinata a uno splendido avvenire? Noi, a cui la commozione e l'ora d'andare in macchina impediscono d'enumerare adesso tutti i meriti del perduto amico, noi non solleveremo il velo della sua tomba. Noi rispettiamo il segreto e il desiderio del maestro Bonarca. Solo per debito di cronaca accenneremo che, appena sparsasi l'infausta notizia, si è vociferato in città di un amore infelice…»

– Un amore infelice? – esclamò Bonarca, stupito, non comprendendo, da prima il perchè di quella invenzione. – Infelice in amore lui, che delle amanti ne aveva avute tre in una volta: una nubile, una maritata e una nè maritata nè nubile? Infelice in amore un uomo della sua forza (con quei baffi)? Alla prima rappresentazione della Sposa, quando si voltava indietro a ringraziare il pubblico, non vedeva che, volendo, tutte le signore dei palchetti, in isplendide toilettes, sarebbero state sue? Ma di fra le righe della necrologia gli venne la luce; afferrò la ragione della pietosa menzogna; si commosse fino alle lagrime.

Per la ragione stessa gli parve anche più nobile e felice la trovata del Radicale, che gli dedicava un articolo di due colonne.


················

«Sposa selvaggia, addio!
«Io morirò per te!

«Lui! lui!, il povero compositore, è morto per la sua sposa; e la sua sposa – noi lo sappiamo – era l'arte. Un artista tanto più è grande quanto più è grande il concetto che ha dell'arte sua. Povero Bonarca! Aveva appena colti i recenti allori e non ne godeva; ne soffriva anzi, perchè gli sembrava di non aver fatto nulla in confronto a ciò che fecero Rossini e Verdi, Beethoven e Wagner: a ciò ch'egli temeva di non poter fare! E la bell'anima seguendo la mente alata che volava alla gloria, su in alto, nell'armonia dei cieli, si è sbigottita, è caduta, è precipitata nel canal Torbo.

«Io morirò per te!


················

Più breve, sebbene prodigo anch'esso di lodi, il Vero cattolico concludeva:

«Il nostro cordoglio è grande, avvegnachè nemmeno per il maestro Bonarca possiamo trovare un'eccezione alla regola della religione e della coscienza. Ripetiamolo a norma dei nostri lettori dilettissimi: Ogni suicida è un peccatore che o mancando di fede ha patito l'influenza del demonio, o è soggiaciuto a una improvvisa demenza.»

Proprio così: nell'opinione dei giornali, cioè nell'opinione pubblica, egli poteva, doveva essersi annegato o per il diavolo, o per il cervello voltosi sossopra, o per la donna, o per l'arte; non per la causa vera, nota a tutti. Come dire: che un artista il quale s'ammazza per i debiti non è artista. E questa era la ragione di quelle menzogne.

Ma artista e grande lo proclamavano tutti; con sincerità evidente, perchè essendo morto, nessun interesse lo legava a quei giornalisti; e perciò annegandosi egli compirebbe una corbelleria. E questa era la ragione del buonsenso.

Ecco l'efficacia d'un giusto conforto! ecco la necessità della logica! Doveva lamentare d'aver deposto il paletot con in tasca la lettera, sul ponte. Ma se non avesse deposto il paletot, non si sarebbe convinto della sua postuma gloria. Doveva lamentare di non essersi annegato subito. Ma se si fosse annegato subito non avrebbe appreso che annegarsi per debiti è una corbelleria. E, d'altra parte, non impunemente si scrive a un questore «mi uccido»; giacchè il ridicolo è anche peggio dell'onta, nè v'è cosa che più muova a disprezzo e a riso del venir meno per viltà a una faccenda seria come il suicidio. Ah! che errore non essersi buttato nell'acqua la sera innanzi mentre passava il birocciaio! Buttarcisi ora, in vista a qualcuno il quale lo salvasse, sarebbe peggio che peggio! A quest'ora nell'opinione pubblica egli era morto; cadavere era, quando a mente fredda (e si sentiva tutto intirizzito dal freddo della notte) rifletteva che alla fine il diavolo non è brutto come si dipinge e i creditori non sono crudeli quanto s'imagina; che agli artisti meritevoli della stima universale non mancò mai, alla fine, un insperato soccorso; che se egli, da quell'uomo coraggioso che era, avesse vinta l'ultima battaglia, l'avvenire l'avrebbe consolato di gloria e di quattrini. Morire, misero Bonarca, quando a' suoi occhi d'artista natura e vita apparivano così belle, pur nel grigio mattino autunnale, tra i miasmi del padule e nella desolazione dell'abituro ov'egli era tornato a gemere! Oh la natura! Udiva il cinguettare dei passeri; un lontano abbaiare; un lontano scampanare a festa e, giocondo, lo squasso dello sciacquatoio. Oh ammirare ancora una volta il sole, il verde!

Per vedere, si affacciò alla finestra… Ma si ritrasse d'urto, atterrito: due carabinieri, preceduti da un signore nero, in abito nero… (Forse l'amico Rosta? Il delegato Rosta? il compagno delle partite a biliardo?..) si avvicinavano al mulino. Ad arrestar chi? lui? per i debiti? per simulato suicidio?.. con le pertiche? Rosta! Confuso, spaventato quasi, il maestro s'avvolse nella paglia, si ritrasse in sè…

Le voci s'avvicinavano sempre più; si fermarono proprio sotto la finestra, chiarendosi benissimo la voce dell'amico Rosta. Ma non entrarono.

… – Che imbecille! poteva ammazzarsi in altro modo. Cinque ore di perlustrazione, signor delegato: siamo proprio stanchi!

– Certo, poteva impiccarsi!

– O farsi saltare il cervello.

E la voce del delegato amico gridò, forse a quelli delle pertiche:

– Spicciatevi, ragazzi!

Poscia:

– Se avesse posseduto un revolver, caro brigadiere, l'avrebbe venduto in piazza…

A chi si riferivano tali parole? Per fortuna l'amico s'interruppe di nuovo a chiedere con voce più alta:

– Si sente? C'è?

Da lungi uno rispose:

– Niente!

Proseguiva il dialogo, mentre proseguiva la misteriosa ricerca.

– Dicono che avesse da dare anche duecento lire al trattore…

– … E cinquanta alla padrona di casa – fece la seconda voce ignota, del carabiniere. Allora Bonarca fu certo di chi discorrevano.

Rosta aggiunse: – Sfido! Non ne aveva nemmeno da pagare i debiti di gioco. A me, mi doveva le ultime tre partite che gli ho vinte a biliardo.

Ah cane! ah vigliacco! Che voluttà arrivargli addosso con un paio di schiaffi da rovesciarlo e dirgli: – Eccoti la paga delle tre partite, questurino mentitore! – Invece, no, non poteva muoversi; doveva restar lì rannicchiato nella paglia! «Mentitore infame!» Una delle partite, ne aveva vinta: una sola! per caso! «T'insegnerei io a calunniare i morti!»

Di nuovo l'amico s'interruppe a chiedere:

– Niente?

Silenzio. Quando risposero, ripeterono:

– Niente!

Il delegato ripigliava:

– In fondo, però, era un buon diavolo. Ebbe il torto di dar retta ai giornalisti, che per quattro pezzi rubati qua e là e cuciti insieme alla meglio, gli avevano fatto credere che diventerebbe un Mascagni!

Gridarono: – Non c'è!

Non ci poteva essere: Bonarca già si era ricordato che al mulino del canal Torbo si pescavano i cadaveri degli annegati. Coloro che gridavano non c'è erano senza dubbio i suoi becchini.

– Cercate ancora! Cercate!

Il brigadiere frattanto preferiva la Cavalleria Rusticana al Nabucco e stancava vieppiù il delegato; il quale propose:

– Se andassimo a sedere qui dentro?

Parve a Bonarca che il pertugio dell'abitacolo si oscurasse all'interporsi d'una faccia e si sentì, con un brivido, perduto. Ma il brigadiere sconsigliava:

– Non sente che tanfo?

E i tre si mossero verso i ricercatori; lasciando il misero in una disperazione così grave e violenta che fu per fracassarsi la testa su la macina. Certo si sarebbe impiccato se si fosse sovvenuto della cinghia con cui usava reggersi i calzoni.

Ma in verità era un dilemma atroce: egli avrebbe dovuto vivere per dimostrare che tutti i calunniatori, come quell'amico infame, avevan torto e che avevano ragione i giornalisti; e vivere non poteva senza meritarsi il disprezzo universale!

Quando, poco dopo, coloro tornarono indietro.

… – Vuol scommettere che invece d'annegarsi è scappato anche lui?

– Non credo. Non era uno da farcela così da furbo. Dite piuttosto che si sarà buttato giù, con una pietra al collo, in altro sito, per non essere pescato. Del coraggio ne aveva…

Meno male!

– Andiamo, ragazzi! – E i ragazzi – i becchini – trascorsero anch'essi. Uno sbadigliò:

– M'è venuto appetito.

… Indi a poco, per finirla, Bonarca uscì di soppiatto; si diresse non alla parte del borro pieno e profondo, perchè i manigoldi avrebbero forse udito il tonfo, ma alla parte dove per l'acquitrino o per lo scolare di poc'acqua, imputridiva una gora. Ivi non era possibile annegarsi. Se non che ci si affoga anche nel pantano. E d'un salto, deciso com'era, vi balzò.

Giù… giù… Nera e fetida l'acqua gli affluì intorno, alla superficie; e sotto, adagio adagio, i piedi, e poi i polpacci, e poi i ginocchi, e poi le coscie erano invischiate, impeciate, prese, strette dalla tenace poltiglia. Giù… giù…

Egli tendeva gli occhi ai manigoldi che se n'andavano per l'argine opposto. Nè poteva fermarsi: se avesse voluto, non avrebbe avuto ramo o tronco a cui aggrapparsi; nè i piedi incontravano sasso o fondo sodo. Che morte!

Giù… sebbene più piano; giù… Gli premeva il ventre quel brago in cui forse pascevano i più schifosi vermi; gli fasciava lo stomaco; gli saliva al petto. Oh Dio!; nè si fermava. Al petto! aveva la pegola al petto! Gli toglieva oramai il respiro; e se gli arrivava alla gola, alla bocca…

Che orribile morte! E ancora giù, adagio adagio… Maledetta la Sposa selvaggia!.. Addio, Elena (la maritata)! Addio, Teresa (la nubile)! addio, Lilì, per sempre!

Non si fermava ancora… Ancora?

Quando gli parve d'aver toccato fondo, chiuse gli occhi per non vedere la sua morte, così. Ma a voce alta emise il grido degli estremi spiriti:

– Oh Dio!

Non chiedeva aiuto, lui! Nè fu udito. Infatti, non voleva morire?

Più forte gemettero gli spiriti vitali: – Diooò oh! E fu un urlo che finì in modo straziante; atroce, acuto, lungo. Egli però non capiva più nulla. Non volle capire più nulla. Finchè con l'aiuto di Dio, dopo un secolo…

– È lui! Corriamo!

– È Bonarca!

– Là! presto! affoga! – Correvano.

– È lui! Chi sa da quante ore!

– È già spacciato! – Arrivavano.

– No; non vedete? Muove la testa come una galana…

– Una corda… Le pertiche!

– Maestro! maestro!

Senza dir nulla egli intravvedeva a pochi metri il delegato, i carabinieri, i becchini; e udiva battere il suo cuore, ton, ton, ton, a grande velocità.

– S'attacchi!

– S'attacchi alla pertica!

– Attáccati, amico!

– Forza!

– Coraggio, caro maestro!

Niun dubbio che per essere salvo gli sarebbe bastato afferrarsi alle pertiche. Ma non voleva morire?

– Coraggio! – Forza! – Bravo!

– Tira!

– Viene!

Salvo? Non doveva morire? Sì, ma che colpa n'ebbe lui?

Gli spiriti vitali si aggrapparono essi a quelle pertiche. Alle pertiche, prima; poscia a quelle braccia. Egli si lasciò trascinare e afferrare…

E salvo, ma svenendo davvero nelle braccia dell'amico, balbettò:

– Lasciatemi morire…




La giocatrice





I


Con un semplicissimo ragionamento, e chiarissimo, Gianni Limosa avrebbe dovuto convincersi che il suo affetto non escluderebbe mai dal cuore di Claudia Verbani l'affetto delle carte; che Claudia giocatrice – eppure così bella, così giovane, così vedova! – non aveva, nè avrebbe mai più, tempo, voglia, affanni d'amore.

Il ragionamento chiarissimo e semplicissimo sarebbe dovuto esser questo: L'uomo può dedicarsi con le sue energie a più vizi in una volta; dove la donna, con le energie sue, non si dà quasi sempre che a uno solo, e con l'anima sua in uno solo raccoglie, smarrisce tutta sè stessa. Ma ogni vizio è una passione; e come, da che mondo è mondo, la donna ebbe taccia d'incostante in amore, l'amore per la donna o non è una passione, e quindi non è un vizio, o tutt'al più è passione non intensa e profonda quanto un vizio: per esempio, il gioco.

Se non che Limosa invece d'essere un filosofo era uno sportman innamorato; perciò non è meraviglia ragionasse, o meglio, sragionasse così: «Questa donna, che è una signora eccezionale, io l'amo alla follia e con buone intenzioni: per forza; perchè è onesta; e la sposerei anche. Disgraziatamente essa non mi ama perchè ha un vizio. Un vizio? Sì: come Luisella la mia puledra… Luisella adombrava al passaggio del treno o d'una bicicletta, e balzava o scappava o voltava indietro; sudava tutta; tremava; e guai se gliel'avessi data vinta! Io, traendola alla ferrovia e facendola sorprendere incontro, dietro o di fianco, con una bicicletta, e intanto frenandola e frustandola a mio modo, l'ho domata che è diventata un'agnellina. Ma Luisella è una cavalla, e Claudia una signora. Per questa dunque mi atterrò a un metodo affatto contrario.»

Ora, la fallacia del ragionamento apparisce manifesta nel credere che per essere Luisella una bestia e Claudia una donna, l'una ragionevole e l'altra no, patissero o peccassero in modo affatto contrario e bisognassero di opposti rimedi.

Ma, salvo il rispetto, in una qualità almeno rassomigliavano: che eran femmine ambedue.




II


Gianni Limosa aveva molti meriti: capelli neri a spazzola; barba corta all'inglese; abiti che rivelavano il tipo, quasi scomparso ai nostri giorni, del gentiluomo campagnolo, ma abiti di stoffa costosa e di bella fattura; muscoli temprati agli esercizi del corpo; un naturale buon umore e bastevole intelligenza e cultura perchè egli non si confondesse in conversazione alcuna. Dei contadini, fra cui viveva otto o nove mesi dell'anno senza orgoglio e senza abbassarsi troppo, o degli amici e delle amiche che trovava ai campi di corse, chi mai se lo sarebbe imaginato timido e trepidante? Bisognava vederlo tirare ai piccioni! saltar le siepi! guidare Luisella!

Però egli meritava anche scusa, tant'era graziosa e sagace quella signora Claudia; con certi modi ingenui e volontari da far girar la testa a ben altri che a uno sportman non filosofo! Nè Claudia stentò molto a introdurre il povero Gianni in un dialogo per cui egli credè meglio finirla e confessarsi innamorato cotto.

– Sissignora! Io sono un uomo alla buona, franco, robusto, sano. Non leggo romanzi, io! E non avrei mai creduto d'innamorarmi fino a questo punto.

– Di chi?

– Oh bella! Di lei!

Gianni rispose con voce un po' aspra, perchè il cuore gli picchiava il petto; e con la sinistra accomodava la barba, mentre Claudia, niente affatto meravigliata, restava con la testa appoggiata al divano mostrandogli, senza volere, la bianca gola e sorridendo d'un'ironia lieve, non priva d'indulgenza.

– Povero Limosa! – ella disse poi. – Non conosce neppur tutta la gravità del suo malanno! Perchè, scusi, se non è sano chi legge romanzi, non sarà sano neppure chi è innamorato come nei romanzi e come dice di essere lei.

Egli mormorò:

– Già, mi contraddico; non capisco più nulla!.. Tanto più che io amo non da eroe, ma da onest'uomo; disposto a qualunque sacrificio.

– Bravo! E quale sarebbe il sacrificio più grande?

– … Rinunciare alla mia libertà!

Il modo con cui fece l'offerta e il tono che aveva imposto alle parole un peso maggiore a quello stesso ch'egli v'attribuiva, ottennero dalla signora una risata schietta.

– Dio mio! Ma il sacrificio della propria libertà è il più piccolo, il più semplice, il più naturale per l'amore, cioè per il matrimonio! È necessario; se no, il matrimonio non sarebbe un legame!

– Ebbene – disse rosso in volto Limosa – , io farò di più: rinuncerò ai cavalli, alla caccia, alla campagna; andrò nel bel mondo; leggerò dei romanzi; cercherò duelli; farò della politica; ascolterò concerti wagneriani; ballerò la season…

– Inutile, povero Limosa!

– Perchè lei non mi amerà mai? mai?

Che impeto nella dimanda! che passione, che disperazione nel secondo «mai!»

Allora Claudia abbassò il capo, coprendosi la faccia con le mani, ascoltandosi e riflettendo; indi scosse il capo a viso scoperto.

– Io – disse – potrei rinunciare a tutto: ai cavalli, al mondo, ai romanzi, ai concerti, alla season…; a tutto, fuorchè alla mia libertà!

– Come? – esclamò pieno di gioia Limosa, dopo aver riflettuto anche lui. – Voi, dunque?.. Voi… lei… Amandomi lei non rinuncerebbe alla sua, alla nostra libertà? Voglio dire che se poteste non rinunciare alla vostra libertà, voi forse…?

Non solo Claudia, ma nessun altro ci avrebbe capito nulla; o avrebbe capito che il cervello a quell'infelice gli aveva dato la volta.

Tuttavia la signora strinse le ciglia quasi dubitasse d'un'offesa e attendesse un opportuno schiarimento.

– Sì! – egli dichiarò. – Non son io che lei odia; non è l'amore che lei odia: è il matrimonio!

E pareva aggiungere: «Quando tutto l'ostacolo stesse qui, non ci vedrei tante difficoltà a superarlo.»

Ma la signora con voce e attitudine convenevoli alle parole, eppure quasi benigna:

– Io non odio nulla e nessuno, amico mio; solo, non ho voglia d'amare, perchè più mi piace viver libera; nè una donna come me intenderebbe l'amore senza il sacrificio assoluto e… legale della propria libertà. Chiaro?

A ogni parola la faccia di Limosa era andata acquistando una linea di mestizia; sicchè all'ultima rassomigliava, lui, a Iacopo Ortis, ma in barba corta all'inglese.

– … Perciò, amico mio… lasciate… (dolcemente ella cedette al voi)… lasciate questo discorso; e piuttosto facciamo una partita a scopa.

Il naso sul mento e il mento sul petto, Gianni, quando rispose, disse con un sospiro che venne fuori dal broncio:

– Non conosco le carte!

– Nemmeno avete imparato a conoscerle? – ella domandò tra compassionevole e ironica, secondo la sua usanza.

Allora egli proruppe:

– Per l'addietro vi dicevo: non so giocare; oggi, signora, vi dico: nemmeno conosco le carte! e me ne vanto!

– Oh oh!.. Ma dunque che fate assistendo alle nostre partite? a che pensate?

La passione lo rese eloquente e furente.

– A voi penso! Io vi guardo; vi studio; vi esamino; vi giudico; entro in voi; scappo disperato; mi perdo… Oh che martirio amarvi e vedervi con le carte in mano! Un supplizio! Diventate cattiva e debole; perfida con chi vince; lusinghiera con chi vi fa vincere…

– Limosa!

– Quante volte soffro io più di voi a vedervi palpitante, tremante, pallida in attesa d'un colpo di fortuna! Quante volte vi ho sorpresa con occhi pieni di fiamma interrogare, invitare, accarezzare un compagno più brutto del demonio! Quante volte ho dovuto augurarmi d'essere io il re bello, che vi rallegrava, o l'asso di bastoni o il bagattino!

– O l'angelo, o il diavolo, bugiardo che siete! – esclamò giuliva la signora. – Conoscete fino i tarocchi!

Ma l'altro seguitava a infuriarsi:

– Quante volte ho pianto, ho quasi pianto a vedervi consumare in tal modo gioventù, bellezza, salute, intelligenza, anima! Ma io che vi amo tanto, io giudico che anche questa è una colpa, perchè è questo esecrabile vizio, questa obbrobriosa catena che v'impedisce di amare e di rinunciare alla vostra libertà. Vergogna!

A questo punto Gianni s'aspettava che ella rispondesse un «grazie» per canzonatura, o che inferocita lo mettesse alla porta; tanta foga egli aveva data all'invettiva. Al contrario, fredda e severa, Claudia parlò:

– Il vostro rimprovero è ingiusto. Non mi offende: mi affligge; e non vi perdonerei se non vi credessi innamorato perbene e troppo inesperto nell'amore onesto.

Bel colpo!; che Gianni ricevette senza ribattere.

– Sapete voi perchè gioco? – ella continuava.

Cosa poteva saper lui, che non sapeva neanche perchè si fosse innamorato così?

– … Gioco perchè l'alcoolismo in una donna è turpe; perchè se sono religiosa, non sono bigotta, non ipocrita nè egoista; perchè (e qui la bella voce s'inteneriva), perchè quando mio marito m'ebbe abbandonata sola al mondo, io, che l'amavo perbene, non gli sarei sopravvissuta e mi sarei lasciata struggere dal dolore se non avessi trovato scampo e consolazione in una passione onesta. Inebriarmi? Schiodar Cristi? Mai! Il mio Vittorio m'aveva insegnato lui il faraone, il macao, il tresette, i tarocchi, la scopa!.. – E sgorgarono le lagrime; piovvero lagrime sul fazzoletto.

– Perdono, perdono! – scongiurava Limosa, pari a un eroe da romanzo, afferrandole una mano e coprendola di baci; mentre si chiedeva: «Debbo mettermi in ginocchio?»

– … Perdonatemi! – riprese. – La colpa è proprio della mia inesperienza! Se io fossi avvezzo a innamorarmi, non invidierei le carte e non desidererei per me quel che date a loro; mi negherei il diritto di ingelosire; riconoscerei il mio torto di amarvi tanto; mi persuaderei ch'è pazzia voler persuadere una donna che… che… Mi fate impazzire! Parola d'onore, impazzisco!

In fatti si stringeva il capo tra le mani. Onde, al suo solito modo, Claudia un po' s'affliggeva e un po' godeva.

– Allontanatevi, amico – ella consigliò buona buona. – Guarirete.

– Allontanarmi? Ma se per venire dalla mia villa alla vostra non ho cavallo che corra abbastanza! Se fin Luisella mi sembra una tartaruga!

– Distraetevi.

– Già, mi distrarrò! – egli disse alzandosi e sospirando. – Mi distrarrà o il vino, o la religione, o… una rivoltella!

– Limosa! Gianni! – gridò impaurita la signora trattenendolo. – Che discorsi sono questi? Fermatevi, Gianni, per carità!

Egli la guardava tra minaccioso e meravigliato che ci fosse da spaventarsi in quella maniera. Finchè lasciò trarsi per il braccio, dolcemente… Dove?.. A un tavolino.

– Sedete! Ubbidite!

Ubbidì.

– Ora – ella conchiuse ridente, bellissima – v'insegnerò io, signorino, come si gioca a scopa!




III


Ma studiando indefessamente, sin quasi ad ammalare di neurastenia, otto giorni dopo Gianni aveva imparato anche gli altri giochi d'ingegno e d'azzardo che appassionavano la signora Verbani, e s'era deliberato a questi termini: «O io rovinerò lei, o lei me; e verrà il giorno che, per rimorso, o per gratitudine, o per necessità, Claudia maledirà le carte e un prete benedirà il nostro amore.»

Con Luisella, la puledra, Gianni Limosa non sarebbe venuto mai a un tal patto:

«io accopperò te; o tu, me.»

Intanto gli amici vecchi e brontoloni, che dalle ville intorno si recavano dalla Verbani per le partite diurne e notturne, cedettero ogni primato al nuovo competitore e, invidiando, assistettero ai singolari certami per cui boni da cento lire sostituirono nelle poste quelli da dieci. Benevola, pur troppo, e d'accordo col proverbio (fortunato in amor…) la fortuna assisteva Gianni Limosa, a cui sarebbe parso meglio rovinarsi; poichè vincendo temeva guadagnarsi anche l'antipatia della signora. E alle occhiate di sfida e di corruccio sempre rispondeva con occhiate dimesse, a rassegnazione e a doglianza, come a ripetere: «Io v'amo!» Ella aveva talvolta sorrisi di scherno e lampi d'odio. Ma poscia la fortuna si stancò di favorire chi non la curava, anzi l'incolpava di danni; e Claudia vinse; vinse tanto, in poche settimane, che la somma, sebbene profusa in beneficenza, scandalizzò la compagnia e il mondo intorno.

Godeva Gianni di quelle voci avverse; ne accrebbe la gravità vendendo, quasi per bisogno, due cavalli; inoltre un giorno, senza bisogno, chiese quattrini in prestito a uno di quegli amici ostili. Repugnanza e rimorso non tardarono quindi ad abbattere la gentile colpevole, e le partite a scopa moderate a poche lire tornavano alla memoria di lei come, dopo il fallo, il bene della virtù perduta. Ah retrocedere! Ah limitarsi alle pure briscole!

Ma Gianni, ch'era sano, robusto e caparbio, procedeva nelle scope, e peggio.

– Quest'inverno vado a Montecarlo – le disse un giorno.

– Non voglio! – ella esclamò. – La roulette è stupida.

Ah sì? Egli tacque dicendo press'a poco con gli occhi:

«La roulette è stupida? E la briscola no? e il macao? e la scopa? e la bestia? e io? e voi? Non comprendete dunque il vostro lungo delitto? il mio lento suicidio? Non potremmo fare qualche altra cosa di meglio?»

Seguì un giorno nuvoloso; di un nuvolo coerente e indifferente, in quella tinta grigia, di latta, onde par greve sino la luce; e solo, a quando a quando, snebbiava un po' di pioggia; minuta, silente, inutile pioggia. Mortificate, le piante del giardino non muovevan foglia; senza tremito eran le frange degli abeti; senza voci gli alberi e il tetto; senza volo gli uccelli; senz'anima la vita; senza vita l'universo; senza l'universo… Una giornata insomma o da briscola o da suicidio. Ebbene, chi lo crederebbe?..

Claudia mormorò:

– Non ho voglia di giocare, oggi!

E a Gianni, riavutosi dallo stordimento repentino, non parve vero d'esclamare:

– Facciamo qualche altra cosa!

– Chiacchieriamo.

Egli tacque.

– Non andate a Erba, quest'anno?

– No: Gringoire s'è azzoppato.

– E Luisella?

– Non è da corsa a galoppo: l'ho allevata al trotto; e non la sciuperò mai in un ippodromo.

– È buona… lei?

– Oh sì!

– Senza vizi?

– Un tempo adombrava delle biciclette: adesso, più.

– Bella, è bella – dovè ammettere un po' a malincuore Claudia. Indi chiese: – Siete venuto qua con lei? con la charrette?

– Sì.

Che capriccio le veniva? Andò alla finestra; disse:

– Se non piovesse… vorrei conoscere anch'io le virtù di Luisella.

– Facciamo una trottata! – gridò Gianni.

Il cielo, a sua consolazione, si rischiarava; non sgocciolava più.

– Posso fidarmi?

– Di Luisella? Garantisco!

– E di voi?

Da uomo leale Gianni tacque prima di portare una mano al petto; ma poi rispose: – Sì.

… Andarono per la diritta via, che la puledra, con trotto uguale, ampio e sonante, sorpassava recando nella charrette il signore e la signora.

Provava questa il piacere d'un sollazzo fanciullesco e quegli d'un rapimento giocondo; e l'uno sussurrava e l'altra ascoltava vezzose apostrofi: – Biondina…; birichina…; capricciosa…; cattiva, etc.; – mentre l'aria, risentita dell'autunno e rinfrescata dalla recente pioggia, al veloce incontro suscitava nel loro sangue brividi di delizia.

– Yop! Via, Luisella!

Luisella volava.

– Mi comprendete, oggi? – chiese Gianni, a un punto, con nuova dolcezza.

E Claudia:

– Comprendo il piacere d'aver domato così bene questa bella bestia.

– Oh c'è una gioia più grande: domare un angelo!

– Difficile impresa per un uomo!

– No: per un asino come me, che ha soggezione di voi anche oggi!

Gianni s'adirava.

– Un altro non si sarebbe messo una mano al petto…

– E io, allora, non mi sarei fidata. Dunque, buono! e… sperate. Da bravo! Dicono che Amore faccia miracoli.

Divina creatura! Quando parlava sul serio, non si poteva crederle; ma quando scherzava, persuadeva.

Rassegnato, tratto tratto Gianni si specchiava negli occhi di lei, ove gli pareva vedersi più vivo e più bello, o attendeva a vedere come l'aria lusingava que' fini capelli biondi. Intanto Amore preparava il miracolo.

Ecco: modestamente la signora, fra quelle carezze, e arditamente Luisella, guardavano innanzi per la strada diritta e libera, mentre Gianni guardava da un lato; e non si sa quale delle due prima, Claudia… – oh Dio!..: una bici… – vide; e Luisella, a tal vista – una bicicletta! – sbalzò, per voltare indietro…; voltò. Un indefinibile, duplice grido: l'urto della ruota a un paracarri: la fredda, rigida sensazione d'un istantaneo volo, d'un rapido rovescio, d'una botta tremenda a terra per cui l'anima s'insaccasse e profondasse nel corpo e il corpo si schiacciasse… Tutto ciò in due secondi! La catastrofe d'un sogno mortale; la realtà d'un salto mortale!

Dal cielo in terra! Gesummaria, che disastro! In terra, fermi, inerti, tutti e due; anzi, tre, con la charrette senza stanghe.

… Nè prima Gianni ebbe certezza di non essersi rotto nulla, che si vide appresso, morta, Claudia; vide quel della bicicletta accorrere a loro; vide già lontana lontana correr via, maledetta!, Luisella; poi non vide più che la signora, morta!

– Claudia! Claudia! – invocava disperato, anelante, bianco di terrore in faccia, e tutto inzaccherato. Ma il ciclista giungeva avvertendo: – Io medico! medico, io! – ; e affannoso anche lui, colui s'inginocchiò a slacciare il busto della poverina e a richiamarla in vita; mentre Gianni, che non aveva mai vista una donna svenuta, si strappava i capelli e ripeteva: – Morta!

Ma ecco il miracolo: rinvenne: sospirò: emise un gemito lungo…

– Rotta! – fece lo straniero nel deporla con cura.

Gianni lamentava: – Claudia! Claudia! Ah sì! la poverina s'era rotto un braccio! Ora bisognerebbe descrivere l'animo di Limosa, in cui combattevano e si confondevano la voglia di ammazzare il ciclista a pugni, e dolore, amore, disperazione, speranza; bisognerebbe rappresentarlo nell'angosciosa attesa della carrozza mandata a prendere alla villa per un contadino; ma sarebbe cómpito arduo non meno che rintracciar le parole italiane, francesi, tedesche con cui quel medico straniero pregava la pericolata che facesse il piacere di ricuperare i sensi per non ismarrirli di nuovo, subito dopo. Tre volte ella tornò in sè a gemere, da sul cuscino, ch'era caduto con loro dalla charrette; finchè alla quarta rimase, più dolente e piangente, in vita.

Adagiatala, quando Dio volle, su la carrozza – poichè il forestiero raccomandava di portarla al luogo più vicino – la trasferirono senza scrupolo a Villa Limosa. Del resto, il medico ciclista la credeva moglie del signore. E con gran premura accertò Gianni che, fuori del braccio, votre femme non aveva patito danno notevole; e si compiacque a fare lui, benissimo, la fasciatura; e lasciò qualche consiglio pel collega italiano che arriverebbe dal paese; e dimandò, a solo compenso, la firma nell'album dei ricordi. Infine, lieto d'essere stato utile, saltò in bicicletta e buon viaggio! – Al diavolo!

Era a quel che aveva detto e a quel che si seppe poi, un medico di gran nome; il quale per provare i benefizi della ginnastica e per convincere della sentenza mens sana in corpore sano faceva il giro del mondo in bicicletta.




IV


Il giorno dopo Claudia chiamò Gianni e gli disse:

– Iddio mi ha castigata, amico mio!

A che, triste, l'amico:

– Ci ha castigati tutti e due; purtroppo!

– Avrei preferito – essa aggiunse – rimetterci il braccio che offendere il mio buon nome. Pensate: sono in casa vostra!

Ribattè Limosa:

– E io? tocca a me rimediare!

– Io – soggiunse la signora – sperava di non rimaritarmi se non di mia spontanea volontà.

– E io – ribattè Gianni – non voleva sposarvi prima di esser certo di tutto il vostro amore… Claudia – pregò – , me ne date almeno un poco?

Ella tacque; poscia rispose:

– Sono così dolente della percossa che non ho più forza di sentir altro. Lasciate che mi ricuperi l'anima, che possa riflettere, che mi ricordi.

Più tardi lui tornò da lei; ed ella gli disse come se dicesse una cosa buffa:

– Mi ricordo che quando mi parve d'andar per aria e invece andavamo in terra, sentii che con voi morivo volentieri.

Ah! quale allora il cuore di Gianni! Ella lo amava! lo amava sul serio! Così, finalmente, un purissimo bacio fu suggello alla promessa fede di quelle due anime oneste.

Dopo il quale, Gianni corse nella scuderia a veder Luisella; e, a vederlo, Luisella, ch'egli aveva bastonata a furia, nitrì senza rancore e senza rimorso.

Se la puledra avesse perduto il vizio, Claudia si sarebbe mai accorta di amarlo fino a sentire di morir volentieri con lui?

No. Dunque il grave odio, l'ardente ira da cui il giorno prima egli era stato infiammato contro Luisella, non solo per la caduta di Claudia ma per la ricaduta d'essa, la puledra, nell'antico fallo (e se non fosse stata una bestia, certamente l'avrebbe uccisa), ora divenne fervida e carezzevole riconoscenza. Gianni Limosa abbracciò al collo la sua cavalla.




V


Appena in grado di levarsi la signora partì per la città ad affrettarvi i preparativi delle nozze e la riparazione dello scandalo: questo tanto più ingiusto in quanto che era seguito a una disgrazia grave. Ma incrudelivano nelle chiacchiere i vecchi compagni di gioco; e quindi una nuova ragione per Limosa a detestare le carte. Egli, in quel mentre, rimeditava la purissima luna di miele anticipata; le ore di felicità trascorse al letto dell'inferma quando, parlassero o stessero cheti, sì dolci cose s'erano dette.

Era un fenomeno stranissimo: pareva a Gianni che Claudia si adattasse a lui con le parole, gli sguardi, i sorrisi, le intenzioni del pensiero e dell'animo; nè avvertiva che lui s'adattava a lei, s'ingentiliva, poetizzava sè medesimo; e parlava a voce sommessa; e camminava in punta di piedi…

Come ebbero risoluti tutti i problemi della felicità avvenire e scelti i luoghi da stare durante le quattro stagioni, e i viaggi da fare, e i metodi da tenere nell'educazione dei figlioli maschi e femmine, e contenuti i trasporti d'amore, per divagarsi si eran dati alle Letture. Limosa leggeva I tre Moschettieri, ritrovandosi non in Porthos, a cui rassomigliava un poco, ma in D'Artagnan; ed ella trovando lui in Aramis, al quale non rassomigliava affatto. Oh la beatitudine di quelle ore!; la gioia di comprendersi a vicenda, di conoscersi ogni dì meglio!

Inutile dire che le carte non eran state desiderate dalla signora, la quale avrebbe dovuto giocare (ohibò!) con un braccio solo e sul letto; e che il buon Limosa alle carte quasi non ci pensava più. Pensandoci diceva tra sè: «Se mi sbagliai nel metodo di correggere Luisella, che è una bestia, non sbagliavo certo per Claudia, che è un angelo. Nessun dubbio che dalla mia abnegazione era già nata la pietà, e che dalla pietà sarebbe venuto l'amore. Luisella però – che sia benedetta in eterno! – l'ha fatta innamorare e guarire del vizio in un colpo solo. Adesso posso star sicuro che di gioco non se ne parlerà mai più.» Infatti chiodo scaccia chiodo, o un diavolo scaccia l'altro.

Compiuti dunque i preparativi, subito Claudia telegrafò: Sono pronta; e Gianni, che era pronto da un pezzo, accorse…


*

… I testimoni e i congiunti più stretti hanno accompagnati gli sposi alla ferrovia, ammirando la disinvolta esperienza nella sposa, la semplicità d'uomo un po' inesperto in certe cose di circostanza, ma sicuro di sè, nello sposo. E senza lagrime si affrettan gli addii; sono giocondi gli auguri di buon viaggio.

Tatà… Un fischio… Partenza!

Nè il treno è ancor fuori della tettoia che già lo sposo tira le tende della carrozza, forse perchè il sole a loro festa dardeggia i cristalli, o perchè non gl'importa, a Gianni, della veduta esterna. Or come la sposa lascia cadere il mazzo di fiori, che effondono una fragranza soverchia, lo sposo mormora:

– Finalmente soli! liberi! Sei mia, Claudia! Legàti per sempre! Oh Claudia!

Ella sorride in un modo, in un modo…

Ma ecco: si alza, si svincola; e mentre col braccio risanato trattiene lui e l'impedisce, dalla tasca del mantello trae fuori un pacchetto, e mostrandolo vittoriosa, gloriosa, irresistibile:

– Facciamo una partita?




Doni nuziali





I


… – Gioielli, no; che a te come a me non piace il lusso; e neanche alla sposa, speriamo. Dunque?

– Ma niente, zio… Non si disturbi!

– E tu dàlli! Torno a dirti che non voglio sfigurare in faccia a nessuno. Cosa daranno i parenti della sposa, quelli così signori? E i testimoni?

– Ma…

– Eh eh! Me l'imagino: chi la spilla, chi le boccole, chi il monile… Vedrai…: sciocchezze, grandezze! moda! fumo, insomma! Ma se io avessi preso moglie (non l'ho presa perchè le donne costano), primo patto: fuori di casa i parenti della sposa, i parenti alla moda!

– Già!, chi potesse…

– Niente regali! nessun obbligo, con nessuno! Perchè, si sa, i parenti che non hanno più cuore che quattrini, presto o tardi ti fan scontare le carezze e i regali. Ma io…

– Oh sì! lei è buono; mi ha sempre voluto bene… – interruppe Terpalli.

– Mio dovere. Dunque?

– Non so…

– Al corredo ci avrà pensato la mamma della sposa; alla mobilia ci hai pensato tu. Scommetto anzi che hai provveduto a tutto, da bravo omino; che non vi manca proprio nulla!

– Ho fatto il possibile…; ma provvedere a tutto… capirà…

– Ti bisognano tovaglie e salviette? Hanno aperto un bel negozio in via Garibaldi…

– No: grazie; ne abbiamo.

– Seggiole?.. Tende?..

– Grazie…

– Che imbroglio, Signore Iddio! Parla! Di' su! spiegati!

– Faccia lei!.. Quel che vuole…

– Quel che voglio? Io non voglio niente, io! L'orologio? l'hai. Vestito, sei vestito… A meno che non ti bisognasse… Oh! Vuoi un bel lume?

– Piuttosto…; giacchè lei è così buono, se crede…; se non le par troppo…; anche la Gigia gradirebbe «un servizio da caffè».

Pareva avesse invocata una cosa dell'altro mondo!

– Un servizio da caffè? – esclamò lo zio.

– Prendete il caffè voi altri?.. Non vi dà ai nervi?

– Ma… per gl'invitati; per qualche amico che capiti, alle volte…

– Bene bene! Vada per il «servizio »; conforme, però, alle mie povere forze; se vi contenterete…

Contentissimo, Gustavo Terpalli invitò lo zio alla colazione nuziale; lo scongiurò che non mancasse.

Poi quando egli fu giunto di corsa dalla fidanzata, ed ebbe detto a lei e alla madre del casuale incontro con lo zio Tarabusi, tutti e tre scoppiarono in una risata gioconda. Infatti, da che aveva avuta notizia del prossimo matrimonio, lo zio sfuggiva il nipote – al quale, scontroso e timido, rincresceva andare a cercarlo – e per risparmiarsi il dono di nozze si sarebbe nascosto sotterra; quantunque fosse pieghevole ai rispetti umani e sempre dubitasse di apparire avaro come era.

– Figuratevi con che aria mi diceva «me ne rallegro!»; con che inchini ha risposto all'invito della colazione, e con che bocca mi ha detto (e Terpalli boffonchiava): «Grazie! Vedrò… potendo.»

La fidanzata rideva sino alle lagrime e le sembrava vedere quella faccia nuda e tonda simile a quella d'un comico, e il lungo soprabito, e gl'inchini…

– E figuratevi come è diventato rosso a udire chi sono i vostri parenti. Ah ah! signori!.. signoroni!

– E il regalo? – domandò la mamma.

– L'ha proposto lui!

– Lui?

– Lui? Che cosa?

– Eh! dopo mia lunga tiritera… per non cascare in cose di troppo costo… ha offerto… un lume!

La Gigia battè le mani.

– Io invece mi son fatto coraggio e gli ho domandato un «servizio da caffè».

– Bravo! – esclamò la Gigia. – È meglio! molto meglio!

Ma la madre scosse il capo.

– No. Era meglio il lume.

– Scusi – ribattè Gustavo – ; ieri sera non diceva anche lei che il «servizio da caffè» ci sarebbe necessario? Chi deve pensare a regalarcelo?

– Una bella lampada nel salottino ci vuole: l'ho detto sempre – insisteva la vecchia. – Adesso è fatta…

– La compreremo.

No e sì. Comprerebbero piuttosto due candelabri. Sì e no. Ma l'orologio avvertì Gustavo che era trascorsa l'ora, perchè aveva perduto tempo con lo zio.

– Addio, Gigia; addio, mamma…

E via.

… Povero e bravo Terpalli! La buona volontà, la nativa tendenza ai protocolli e ai libri mastri, la mano calligrafica e il bisogno gli consentivano poco più di mezz'ora ogni giorno e di un'ora ogni sera agli amorosi colloqui con la sposa e con la suocera. Oggidì quanti giovani potrebbero enumerarsi che stiano dalle nove alle quindici in un ufficio comunale; poi dalle sedici alle diciotto e quindi dalle venti alle ventidue in un ufficio privato, ove senz'astio, tranquillamente, sommare rendite e spese d'un conte milionario? A un uomo che si sottoponga a così disumano lavoro e che non scorga al suo termine una oasi o un giardino fiorito, non la gloria, non la ricchezza, ma sempre cammini con passo uguale per una pianura uguale sempre, per un deserto lungo una vita intera, a un tal uomo non basta il conforto di fumare qualche sigaro. Troppo poco! Era destino che Gustavo Terpalli si ammogliasse. E, per economia, egli smise anche il vizio di fumare; e guai per lui se non fosse incappato in una donnina savia: Ma in fatto di mogli la fortuna, che in altri generi talvolta sembra parziale per i birbanti, è imparziale e davvero cieca con tutti. Terpalli aveva potuto chiamarsi fortunato e restare un onesto ragazzo quand'era venuto ad alloggiare in casa d'una umile vedova, la cui soave figliola sentiva volare il tempo senza speranze di nozze e di vita.

Proprio la ragazza adatta a lui! Egli era magrolino e timido d'animo come di baffi, che radi radi sotto il naso acquistavano un po' più di vigore solo agli angoli della bocca; e la Gigia era piccolotta e grassoccia, molto timida fuori di casa, e con un po' di peluria anche lei agli angoli delle labbra. Finchè, un bel giorno, alla dimanda della vedova: – Perchè non prende moglie, signor Terpalli? – , egli aveva risposto guardando alla figliola:

– Ci penso spesso, all'ufficio. E lei? (Non osava dire «signorina».)

La ragazza era arrossita sino alla gola ridendo commossa, eccitata dal suo stesso pensiero che le occhiate patetiche e fuggevoli del giovane, nei dì addietro, non dissimulassero un inganno; e, poverina, per trarsi d'impaccio e giustificare quel riso disse una stupidaggine:

– Se ci penso… all'ufficio?

Parve una canzonatura; per cui Terpalli, un po' permaloso, aveva scosse le spalle e tenuto il broncio quasi una settimana. Dopo, si pacificarono con nuove occhiate; e poi la dimanda alla madre, e l'assenso.

Ed era una consolazione a vederli, quei ragazzi; così di rado la fortuna aiuta con indulgenza e prontezza due cuori a intendersi e ad appagarsi pienamente l'uno dell'altro. Che se l'amore buono è interpretazione, chiaroveggenza reciproca, presentimento e consentimento, è telepatia, l'amore della Gigia e di Gustavo Terpalli era un perfetto amore. Pensava l'uno durante le ore d'ufficio:

«Cosa farà adesso?.. Adesso ripulisce i miei panni; aiuta la mamma a spolverare». Oppure: «Cuce per il corredo; discorre con la sarta». Oppure: «Attende al desinare… Batte il prezzemolo… Ohi ohi!: affacciatasi per caso, un momento, alla finestra, un giovanotto la guarda…; e lei, via!; scappa. È un angelo!»

E l'altra pensava:

«Cosa farà?.. Mette lettere a protocollo; registra un atto; esaurisce una pratica; sbriga un importuno… Oh Dio! Scrive per il conte, di nascosto, tanta ha voglia di spicciarsi stasera… Ma se lo sorprende il capufficio?.. Ecco, ecco: lo sorprende, lo sgrida!..» – E accadde che un giorno Gustavo si sforzasse a contener l'ira a cui l'aveva acceso il capufficio, perchè la Gigia lo quetasse e l'esortasse a non infrangere mai più, per amor suo, alcuna regola; ed accadde che con la mite cattiveria delle ragazze ingenue e buone la Gigia un giorno raccontasse a Gustavo:

– Oggi, sai, mi sono affacciata un momento alla finestra, e passava un bel giovinotto… – Per gioco si bisticciavano, talora, quei figlioli: e la mamma li lasciava fare guatandoli felice.

Non mancavano tuttavia i gravi pensieri; le spese per allestire la nuova casa. A provvederla di solo quanto era necessario, e non superfluo, non sarebbero bastati a Terpalli i risparmi di due anni, se la mamma non gli fosse venuta in soccorso con tutto il suo avere; e per le cose superflue – di assoluta necessità, una volta provviste le altre – lasciarono l'incarico al caso nella consuetudine dei doni nuziali. Uno specchio per il salotto; una lampada da appendere, o due candelabri; uno o due vasi giapponesi, di quelli in cui si gettano, sparsi, fiori e penne; un bell'«album» da ritratti e un cofano, alla moda, per i biglietti, eran tutte cose che premevano. Seguivano, soltanto desiderabili, sei posate in luogo di quelle comuni ereditate dalla mamma; e forse d'un «servizio da caffè» non avrebbero potuto fare a meno neppure se Gustavo non si fosse imbattuto in quell'ipocrita dello zio Tarabusi.




II


Questi, subito, quasi avesse fretta di levarsi un peso d'addosso, mandò un «servizio» di sei tazze, poh! abbastanza fine: Ginori di seconda qualità.

– Di terza, di terza! – mormorò la mamma, meno paga e sempre astiosa con l'ipocrita e avaro donatore. Ma – A caval donato… – aggiungeva per suo stesso conforto.

Quanto agli altri regali desiderati e attesi: nessuno; e quale rabbia allorchè una prozia e una cugina, su la cui intelligenza s'era fatto assegnamento, inviarono la prima un ombrello di raso paonazzo e la seconda un astuccio per guanti! Stupide! La Gigia era forse una donna più da passeggio che da casa? Chi regalerebbe ora il cofano, i candelabri o il lume, lo specchio e l'album? Forse la zia paterna, ch'era ricca assai, manderebbe alla sposa le posate? Forse lo zio paterno manderebbe i vasi giapponesi?

… – Vostro zio? – domandava Terpalli ogni volta che rincasava, facendo quattro gradini alla volta.

Sì! Lo zio materno – a loro che avevano rinunciato al viaggio di nozze – regalò… una borsa da viaggio!

… – La zia?

Un monile bello, assai bello, regalò la zia; ma la Gigia avrebbe preferita qualche cosa di più utile sebbene di minor prezzo; avrebbe preferito restar disadorna lei a lasciar il salotto disadorno, nudo.

Nè le amiche poterono far molto: un libro da messa; una scatola di profumi; cinque metri di pizzo; un cuscino da sofà; un portafogli ricamato all'antica…

Quand'ecco, alla vigilia del gran giorno, la mamma su la scala venne incontro a Terpalli più che desolata, irosa e sbuffante. Una combinazione incredibile! La signora Tecla, antica loro conoscente, memore d'aver visto nascere la Gigia, aveva pensato a un regaluccio: e aveva pensato proprio a… un «servizio da caffè»! A guardare la faccia della mamma mentre diceva: – Eh! che ne dite? – , Gustavo credè leggervi come un'accusa di complicità sua col caso; e provò tal pena a veder lagrimosa la Gigia mentre essa diceva: – Si può essere più disgraziati? – che si sforzò a ridere, da uomo di spirito.

– Faremo così: quello di mio zio – disse – l'useremo per romperlo; e quello della signora Tecla lo metteremo nel salotto per conservarlo.

– Già: sulla tavola, con l'ombrello aperto! e, sotto, la borsa, il libro da messa, la scatola di profumi e il cuscino! Che bel salotto! – esclamò la Gigia.

Propose Gustavo:

– Perchè non avvertire la signora Tecla? Potrebbe ottenere qualche cosa in cambio, dal negoziante.

– Oh io non m'attento! – borbottò la mamma.

E la figliola:

– Nemmeno io!

– Dunque si tiene il secondo «servizio» e si ringrazia! – disse Terpalli, al quale rincrebbero il broncio della vecchia e l'ironia della sposa.

– Lo butterei dalla finestra! – esclamò la Gigia, alla quale per contro rincresceva l'indifferenza ostentata dallo sposo.

– Ma la colpa è vostra! – esclamò la mamma, che il riso del genero aveva inviperita.

– Che colpa?

La vecchia tacque; poi sospirò e borbottò:

– E siete senza parenti; non avete che quell'avaro gesuita!

– Colpa mia? – Gustavo dimandava. – Colpa mia? – ripeteva.

Presentendo il litigio, la ragazza pregò:

– Zitti! basta!

– Se non ho parenti, ho degli amici – asserì lo sposo. – Ho i colleghi!

Allora la signora Clotilde si mise a ridere lei.

– I colleghi? Un mazzo di fiori e tanti saluti! Un bouquet, come daranno i vostri testimoni; e ciao!

– E il conte? Perchè è in viaggio credete si dimentichi?.. Mi vuol bene, lui!

Terpalli l'aveva ricordato per il colpo finale.

Il signor conte non solo non si dimenticherebbe, ma spedirebbe o le posate o lo specchio.

– Vedrete!

Questa la sua fede.

– Il conte? – ribattè la mamma rivelandosi del tutto suocera. – Neanche un biglietto vi manda! Ci scommetto!

– Forse sì e forse no.

– Oh che pretendereste da lui? Cosa può regalare a un impiegato così… modesto come voi?

– Il lume! – rispose in modo di canzonatura Gustavo.

Frattanto la Gigia pregava:

– Smettetela; finitela…

– Il lume dovevate chiederlo a quel tanghero; e adesso non avreste due servizi da caffè!

– Ma sono un profeta, io? – urlò Terpalli.

– Profeta, no; timido, sì.

… – Mamma! Gustavo!

– Timido?

– Timidissimo! Avete avuto paura d'obbligarvi troppo con vostro zio, e gli avete domandato quel che costa meno!

– Sissignora! E ho fatto uno sforzo a domandare anche così poco!

– Ma Dio vi ha castigato! Chi non si aiuta… mio marito lo diceva sempre, muore senza aver goduta una zuppa calda!

– Mio marito; – grugniva Gustavo senza attendere alla Gigia che lo tirava per la giacca. – Sempre «mio marito»! Lui, lui sapeva stare al mondo!

– Ah, meglio di voi, signorino!

– Infatti…

… E la Gigia scoppiò in pianto. E lo sposo afferrò il cappello, e scappò via.

– Gustavo! Gustavo!

– Mio marito era un uomo! – la suocera gli gridava dietro. – Si può dir forte: era un uomo lui! Se fu disgraziato…

Insomma, la buona donna aveva bisogno di sfogare un gran malumore; e la buona figliola ebbe ragione di gemere:

– Il cuore me lo diceva che eravamo troppo felici!




III



ALLA CITTÀ DI PARIGI


Grande assortimento di orologi e sveglie


Novità in ogni genere


Bijouteria – Chincaglieria – Argento christofle


Revolvers e fucili


Emporium per regali – giocattoli

Il commesso s'inchinò ai tre signori, che entrando l'uno dopo l'altro gettarono uno sguardo intorno, come per sorprendere un oggetto e riposarvi il pensiero incerto; quindi, dopo i tre inchini, chiese:

– Desiderano?

– Un regalo per nozze.

– S'accomodino. Ne abbiamo di tutte le sorta.

Infatti troppe cose attiravan l'occhio là dentro.

Per di più, Bonariva, Sandri e Guizzi, quantunque d'accordo a spendere poco in cosa che desse apparenza di molta spesa, erano discordi nel dono da scegliere.

– Se prendessimo… un tavolino da lavoro, per la sposa? – suggerì primo Bonariva; quantunque poco lieto lui stesso della proposta.

– Ti pare? – esclamò Sandri. – Tocca farli ai parenti cotesti regali da buona famiglia! Tocca alle amiche della sposa.

– Piuttosto due vasi – proponeva Guizzi.

– Vasi di vero Giappone, o d'imitazione tedesca… Da trecento lire a quindici. Vedano… – Così dicendo il commesso accennava a quelli da trecento lire.

– Ce ne mostri da venti – rispose Guizzi, intanto che Bonariva disapprovava col capo.

– Belli, eh? Mi piacciono. – Piacevano anche a Sandri, e costavano poco.

– Osservo – disse Bonariva – che i vasi sono pericolosi…

– Già, se vanno in terra…

– No, non per questo! Chi non sa che cosa regalare, regala due vasi, sempre: c'è il pericolo d'una combinazione.

Nè Sandri poteva dargli torto. Guizzi allora mutò consiglio.

– Prendiamo uno specchio.

– Peggio! Credi che non l'abbiano uno specchio?

– Ma bello; per il salotto.

– Che! Non son gente da salotto!

– Veramente sarebbe meglio conciliare il bello con l'utile – mormorava Sandri.

E a lui il commesso:

– Un nécessaire da viaggio?.. Un lavabo?

– No, no. – Bonariva insisteva per qualche cosa di più utile e di meno comune.

– Un astuccio per guanti? un cofanetto? Sono di moda; servono a tanti usi! Guardino questo: dorato a fuoco. Resterà tale e quale cent'anni.

– Perchè no? – Guizzi quasi quasi… Ma Bonariva scoteva il capo.

– Costa? – domandò Sandri.

– Ottanta lire!

– Ahi!

– Un calamaio?.. un portafogli?.. un fermacarte? un portabiglietti?

– Io torno alla mia prima idea – Sandri disse – : un bell'album con i nostri ritratti…

– È pericoloso! Potrebbe indur la sposa in tentazione – fece Bonariva, mentre Guizzi, per gusto suo, maneggiava e considerava un bastone dal pomo cesellato, e diceva:

– Vuoi che non l'abbiano un album?

– Eppoi, io non l'ho neanche il ritratto! – aggiunse Bonariva. Quand'ecco, a sollevare o a distrarre la pazienza del commesso, entrò una signora. I tre rimasero così a guardarsi in viso, con un'aria di tacito e vicendevole rimprovero; finchè uno chiese a un secondo giovane del negozio:

– Cos'è quell'affare là, di vetro?

– Un portafiori in cristallo di Boemia: stupendo! Se vuole…

– No, no! È troppo bello!

Guizzi adesso mormorava:

– Non abbiamo pensato a un ventaglio… – Quasi a sì bella idea fosse possibile il consenso degli amici!

– Ohibò!..

– Si regalano alle signore che non si maritano, i ventagli!

– Dunque?

Parlava il giovine:

– Scusino… Vogliono fare un dono cumulativo?

– Cioè?

Ah, l'aveva avuta lui l'idea buona!

– Dodici posate d'argento Christofle…?

– Troppo, troppo!

– Sei, allora…

– Poco: troppo poco!

– Poi le avranno già le posate! – Sandri ripeteva.

Proseguiva il commesso:

– Oggetti di toilette? Candelabri?..

– Un lume! – esclamò Bonariva alla fine, contento. Se non che Guizzi si mise a ridere.

– Un lume! Gli amici che mandano il lume! – E al commesso che proponeva: – Un orologio? una sveglia? – , rispose: – Da sveglia farà la sposa: non dubiti!

Così fu eccitato il riso anche in Bonariva, che quando cominciava non la smetteva più. Disse Bonariva:

– Prendiamo un organetto, o un'armonica per calmare la signora dopo la luna di miele!

A che Guizzi:

– Sarebbe meglio un revolver!

Ma Sandri, avendo moglie, ammonì con un'occhiata i colleghi ad essere seri. Anche, li rimproverò:

– Se aveste dato retta a me e avessimo chiesto allo sposo che cosa gradirebbe…

Perchè non sapevano proprio che cosa scegliere.




IV


Impazienza, ira e litigi promuovono le piccole sventure; non le grandi, le quali abbattono quanti ne sono colpiti in un pietoso filantropico accordo.

– Che volete farci? – mormorava la signora Clotilde dinanzi al terzo «servizio da caffè» e alla muta desolazione dei fidanzati. – Buon viso a cattiva fortuna, figlioli!

Disse finalmente Gustavo:

– Dimani bisognerà ridere; ingoiare la rabbia; fingere che niente sia; se no, ci metteranno su le ventole!

– Sarà bene avvertirli prima, gl'invitati, perchè si meraviglino meno – disse la Gigia, finalmente.

Non era possibile, infatti, nascondere i due primi servizi, il donatore e la donatrice essendo invitati alla colazione; e non volendosi sottrarre il terzo, quello dei colleghi, che appariva, al confronto, magnifico. Per suprema ironia era magnifico!

Nè il domani mattina alla funzione nuziale, in chiesa prima e dopo al municipio, fu alcuno che al vedere la sposa un po' turbata, un po' troppo smorta, non ne ammirasse la commozione del solenne ufficio che si compieva, il verginale panico per il solenne sacrificio a cui era condotta, il trepido cuore per l'amore che la beava: nessuno ci fu che pensasse a un estraneo disturbo di tanta felicità. La poverina aveva, insistente, la visione d'un collegio di chicchere vigilate da matrone, che erano le caffettiere e le zuccheriere. Quanto allo sposo, avanti di arrivare a casa, rivelò a un testimonio una sola causa di cruccio: l'ingratitudine del conte.

– Nemmeno un biglietto! E son dieci anni che lavoro per lui senza aumento di stipendio!

– Pensate – aggiungeva – che ogni volta che capitava in ufficio era sempre lì a dirmi: «Terpallino… Gustavino…: quando la facciamo la corbelleria?»

– Dov'è adesso? – chiese uno.

– A Firenze col maestro di casa, che mi promise di rinfrescargli la memoria… Ma sì!..

Esclamò uno dei testimoni, che era socialista: – Tutti uguali i nobili! – L'altro, moderato, tacque.

Avanti d'entrare in casa, Terpalli s'arrestò dicendo:

– Ora vedrete i tre «servizi»!

Tanta serenità e disinvoltura indussero tutti a ridere: anche la sposa e la mamma; anche gli invitati che attendevano, e quelli che sopraggiunsero; toltane, s'intende, la vecchia amica signora Tecla, a cui il suo servizio sembrava il più brutto dei tre, e s'arrovellava a valutare gli altri due.

– Che caso! – Oh che caso!

– Sono casi però che fanno rabbia – disse lo zio materno.

– Son brutti scherzi del destino! – esclamò un secondo. – Una cosa che non si crederebbe! – borbottava un terzo; di guisa che l'ilarità diveniva compianto sincero nell'attesa della colazione.

– A tavola! a tavola! – chiamò la mamma.

– Chi manca?

Mancava lo zio di Gustavo. Ma lindo, nitido, sorridente, senza peli, con una impressione di maschera benevola su la faccia tonda, eccolo, lo zio Tarabusi.

– Fortunato!.. felice!.. Stieno comodi – rispondeva alle presentazioni, dopo aver baciata su la fronte la sposa, la «cara figliola» – Oh caro: oh! carissimo! – diceva a quelli che conosceva. – Tanto, tanto piacere! – ripeteva alle nuove conoscenze… Finchè diede una sbirciatina alla tavola dei regali. – To'! quante chicchere! Pare un reggimento di fanteria…

– Eh, zio: che ne dice? – Raccontavano la storia.

– Oh bella! bellissima!.. Ma se io avessi potuto prevedere… Oh senti – aggiunse con quella sua bocca melliflua, traendo a sè lo sposo. Quindi a bassa voce: – Sai? debbo partire…: alle dieci e trenta per Modena…

– Come?

Più piano:

– Eh!.. Bella figura m'hai fatta fare!..

– Ma… zio…

– Dovevi avvertirmi…; tuo dovere… I confronti sono odiosi.

– Creda…

– Dovevi avvertirmi!

Ogni preghiera fu inutile. Tornò mellifluo tra gli altri.

– Dicevo qui, a Gustavo, che non posso trattenermi… Mi scusino… Debbo partire… per Modena: alle dieci e trenta. Mi scuseranno tutti questi signori…

– Rimanga, zio!

– Resti, signor Tarabusi!

– Diavolo!.. signor Tarabusi!

… – Non posso, davvero… Sposina, i miei auguri!

– Due confetti, zio…

– Grazie…

– Il caffè, zio? Un goccio di caffè, almeno…? Offrire il caffè a lui (in quale delle chicchere?) sarebbe stato un grave insulto, se lo zio non avesse compatito il nipote come uno che avendo preso moglie aveva perduta la testa, e se Gustavo non si fosse corretto subito:

– Un cognac, almeno…?

– Bevo di rado cognac… Grazie… Un'altra volta, caro. Addio! riverisco! addio! Stiano bene… tutti! – E con un nuovo inchino e un: – Evviva gli sposi! – quel Tarabusi se ne andò.

… La colazione nondimeno procedè benissimo. Vini e liquori dissiparono ogni ombra dall'anima della sposa, rapirono allo sposo il ricordo dello zio e dell'ingrato conte; avvivaron giocondità e malizia nelle giovani donne; suggerirono motti agli uomini, e bei racconti. Quando, d'improvviso, squillò il campanello. Chi mai?

Alla Gigia era sobbalzato il cuore. E Gustavo correva alla porta gridando:

– Il conte! – Un telegramma forse?.. o il regalo?.. – Il conte!.. – Il conte… senza dubbio!

– Oooh!.. – fecero tutti, vòlti al facchino dell'agenzia che veniva a deporre una cassetta.

– Viva il conte! – Su la cassetta era scritto fragile; la sposa vi teneva lo sguardo smorto.

– Presto! un martello, un coltello! – Con una lama da interporre alle assicelle del coperchio Gustavo tornò dalla cucina; mentre il testimone socialista gridava:

– Il primo aristocratico galantuomo che conosco!

– Oh ce ne sono! – ribatteva il testimone moderato. – E di cuore!

– Se vuol bene a Gustavo, Gustavo se lo merita: ecco tutto! – osservava un altro.

– Non dico; ma…

– Viva il conte! Viva il conte!

Crac fece l'assicella allo sforzo di Gustavo. Allora tutti tacquero, ansiosi, nell'attesa che la cassa fosse aperta interamente. Ma perchè la cugina aveva scambiato uno sguardo d'intelligenza col socialista, quasi a un vicendevole ridevole dubbio? Perchè lo zio paterno tabaccava adagio, quasi a togliersi d'imbarazzo? Perchè il testimonio moderato fumava in fretta guatando alle donne; e la mamma e l'amica Tecla tenevan gli occhi su la sposa come temessero d'uno svenimento? Quale idea uscita di mente alla sposa o dalla cassetta, e venuta in mente a tutti, accresceva l'ansia e dipingeva nel viso di chi più avrebbe dovuto esser felice il terrore d'un malefizio, e accendeva negli occhi degli altri una perfida speranza di lunghe risa? Gravava un destino assurdo o tremendo su quella cassa, su quelle anime?..

Lo sposo – crac – con l'angustia di quando, ancora in preda a un sogno funesto, si ricorre, nel destarsi, alla vita, sollevò del tutto il coperchio…




Dall'Eldorado





I


Raccogliendo e riprendendo con la sinistra la scarsa barba, dalla tavola a cui sedeva Polla guardava a quanto poteva scorgere del temporale. Passavano di furia i nuvoloni neri: uno ne dilacerò un fulmine. E cominciava a piovere; nè ancora cessava il vento che faceva sbattere le imposte, da Polla lasciate sbattere.

«Oh portasse via la bufera anche la casa! Una tempesta enorme rovesciasse Roma e tutte le città d'Europa! Un ciclone rovinasse, magari, il mondo!»

Non che Polla – il quale amava tutti gli uomini come fratelli e pel quale i borghesi sfruttatori e capitalisti erano non uomini ma belve – si arrovellasse così, in un desiderio di distruzione, per malanimo o per teoria socialista o per lotta di classe: no, no; solo risentiva lui stesso di quel turbamento elettrico e meteorico e, per di più, gli sommoveva pensieri neri come le nuvole, che si aggrappavano nel cielo di contro, un appetito ahi quel dì insaziabile! All'ora infatti in cui i borghesi andavano a desinare, egli restava alla tavola deserta, perchè già pioveva e non aveva ombrello e perchè non aveva un soldo in tasca e non sapeva qual trattore potesse più accoglierlo a credito. Fino a quando?.. Ah che appetito! In verità, quel giorno sarebbero appena bastate al suo desiderio una porzione di spaghetti, una di lesso, una di vitello, una di fragole e una bottiglia di barolo, il vino che prediligeva.

Frattanto, di sottovento, la pioggia entrava nella camera con tal impeto e abbondanza che il buon Polla finalmente si alzò per chiudere i vetri. Ed ecco sembrargli che una nuvola più densa, opaca, precipitasse, abbattuta da una ventata, giù, alla volta della sua finestra… Una nuvola? Arrivava con la velocità d'una palla da cannone e non era una nuvola: un corpo strano, solido, straordinario: un enorme animale!.. Oh! Nell'attimo, Polla fece appena in tempo a scampare alla parete, che già piombava nella camera: vi cadde con un tonfo profondo su l'impiantito… Che cosa? Chi?..

Un condor spaventevole, un pipistrello pauroso? Era un misterioso involto, che, come cosa morta, non si moveva più affatto. Riavendosi però dal primo spavento, invece d'invocare soccorso, il socialista tacque, avanzò; retrocedette. Non era un condor, non era un'aquila, non era un pipistrello! Avviluppata nell'ali che s'erano raccolte al cessare del volo, l'insolita bestia non dava a conoscersi che per le estremità inferiori. Ebbene, Polla si avanzò di nuovo e ruppe in un'esclamazione di meraviglia alla vista di sì fatti piedi e di cosifatte gambe. Quell'animale era un uomo o, alla peggio, una donna volante! Una creatura umana, immota, svenuta o morta al suolo della sua stanza!

Con che cuore egli la volse supina e ne udì battere il cuore (era un uomo)! Con che cuore si sforzò a trascinare e adagiar il miracoloso viaggiatore nei suo lettuccio, dopo averlo spogliato delle fine e seriche ali e della giubba cui stavano connesse! Un uomo non calvo! I capelli lunghi e aurei diffusi su la bianca fronte e la lunga e gentile barba non scemavano giovinezza all'aspetto venerabile; e tutta la persona incuteva tal rispetto di beltà che, non potendo paragonarlo a un angelo, in cui non credeva, il positivista Polla lo paragonò a Adone, se pure Adone aveva la barba. N'esercitava frattanto il sangue al cuore con massaggio; ne spruzzava d'acqua il volto; finchè sospirarono entrambi: l'uomo che ricuperava vita e coscienza, e l'uomo che aveva salvato un fratello, quantunque volante.

Polla disse subito:

– Good day!

No. Era biondo, ma non inglese.

– Guten abend! – Non tedesco.

– Bonjour, monsieur! – Non francese.

– Buenas dies, caballero! – Non spagnolo.

Ricordandosi infine di essere italiano, Polla fece, cortesemente:

– Ben arrivato!

D'un soave sorriso, avvivando gli occhi da prima incerti quali d'uno che davvero sia cascato dalle nuvole, lo straniero mormorò qualche melodiosa incomprensibile parola; poi contorse la bocca a pronunciare una parola di lingua evidentemente non sua; di lingua internazionale.

– Volapuk?..

– Volapuk! – gridò Polla, che dai comizi aveva presa l'abitudine di parlare a voce alta. – Oh, oh! Al vostro paese si studia il volapuk? Non ha attecchito da noi! Non importa. A poco a poco, fratello, c'intenderemo lo stesso! E, ditemi…

Ma o per quel chiasso dell'eloquente socialista, o per il dolore della caduta, o per lo sfinimento di cui era prova il pallido viso, l'infelice forestiero sarebbe svenuto ancora, quando con uno sforzo supremo non avesse rialzato il capo, e stringendo all'estremità le dita della destra, non avesse portata due volte la mano alla bocca mentre lo sguardo aiutava l'espressione del gesto.

– Avete fame? – comprese e chiese Polla. – Poveretto! Anch'io ho fame! Ma io non posso offrirvi che un bicchier d'acqua!

Quasi indovinasse le condizioni economiche dell'ospite, l'altro affrettava un segno della mano verso l'involucro rimasto sul pavimento. E Polla ubbidì. Presso al punto ove ai fianchi dell'arnese (fosse corpetto o giubba) eran fisse le ali, egli avvertì subito due bisacce; nè esitò a introdurvi la mano, quantunque il forestiero già accennasse di tastar più in basso. Ma… e là cosa c'era? Sentiva un peso non lieve, come di ciottoli, e per accertarsi se era o no la zavorra, introdusse la destra. Questa volta Polla, che non credeva in Dio, che credeva solo nel «fattore economico», esclamò:

– Dio! Non sono pezzi di vetro! Non sono sassi! – Che cosa erano? Che cosa erano?

Erano diamanti, smeraldi, oro! E non un sogno! Ma realtà! Un miracolo! Diamanti! smeraldo! rubini! oro! Fu tale la meraviglia di Polla che attese a lungo prima d'accorgersi come l'infelice girasse e chiudesse gli occhi, e sveniva. Presto, più giù, ove disperatamente il misero aveva volto il cenno, l'ospite trovò un grazioso vasetto piccolo piccolo, che quasi si aperse da sè effondendo un cordiale profumo… Conteneva roba così buona che ne bastò un pizzico a ristorare d'un tratto dal profondo del cuore, il forestiero estenuato. Il quale poscia offerse il vaso all'amico; sorrise d'un suo dolce e luminoso sorriso; e per riposare reclinò il capo e chiuse gli occhi, non più alla morte, ma al sonno.

Polla aveva fame: aveva sotto gli occhi, sotto il naso, presente alla gola l'«estratto» ch'effondeva quel profumo saporito, ineffabile; eppure non lo toccò, sdegnò ristorarsi anche lui, per tornare all'involucro volatile. Nè riusciva a persuadersi che non sognava; la zavorra era tutta quanta di gemme preziose! E se poteva ingannarsi intorno alla qualità e al prezzo d'alcune delle pietre, su altre non s'ingannava certo. Convinto, alla fine, le depose tutte in terra, in un mucchio, e stette a contemplarle. C'era proprio da impazzire; tanto più che la fatica della contemplazione accresceva la debolezza del digiuno… E non si risolveva ancora ad approfittar dell'«estratto»! Solo quando si sentì venir meno, allora prese un pizzico di polvere dal vasetto, e parendogli néttare o ambrosia ne prese un secondo, eppoi un terzo, eppoi un quarto, eppoi un quinto; finchè n'ebbe nausea; che quella roba era troppo sostanziosa e focosa. Ma sublime! ma incomparabilmente migliore d'ogni nostro più squisito cibo! Inoltre, a ingoiarla, seguiva un fervore nel sangue, come per un eccitante liquore, e una gran fretta e lucidità di idee e una gran letizia nell'animo.

– «Il tuo è mio!» – cantava Polla tornando alle gemme per raccoglierle e metterne nella sua tasca più d'una. Ma, e se il forestiero non le teneva in conto di ciottoli ed era un borghese? Ebbene, in tal caso, éccogli restituita la sua zavorra! Lui, Polla, non prendeva che uno smeraldo per far moneta, per esercitare secondo conveniva gli uffici dell'ospitalità e provvedere da pranzo non a sè, che non aveva più fame e solo aveva sete di un po' di barolo ma all'ospite, che tra poco si sveglierebbe e avrebbe fame e sete. In ogni caso, lo strano uomo dalla strana visita contraeva obbligo di gratitudine, di amicizia, di compenso al disturbo… Lui, Polla, si prendeva dunque uno smeraldo. Una cosa da niente in confronto al resto! Un ciottolino da non ringraziarne nemmeno la Provvidenza, quand'anche un socialista marxista e inscritto al partito avesse potuto ammettere la Provvidenza.

Dopo di che Polla sarebbe uscito di casa, allegro come mai in vita sua, se al limitare non l'avessero trattenuto queste domande: Lo smeraldo non era troppo grosso e non susciterebbe ingiusti sospetti nel gioielliere? Qualcuno non aveva forse visto entrar là l'uomo volante? Aveva questi un foglio di via? Non ne sapevan nulla le guardie di pubblica sicurezza?

Per tutta risposta, tornò indietro, sollevò giubba e ali; osservò meglio il piccolo e semplice congegno di molle riposte tra seta e fodera e provò di adattarsi quell'abito. Ma dopo inutili tentativi s'avvide che il congegno era guasto; forse irreparabilmente guasto! Gli bisognava restare a terra, restar a Roma. Rassegnandosi, Polla sostituì al grosso smeraldo un men grosso rubino, e dimenticandosi, non di mettere questo in tasca, ma quello nel mucchio, con uno sguardo pieno di gratitudine stette a considerare il forestiero che dormiva dolcemente, senza russare; ad ammirare quell'uomo la cui bellezza assumeva a' suoi occhi un'imagine bella come nessun'altra mai.

Caro amico! Si rassomigliavano senza dubbio, lor due, quantunque Polla avesse il naso un po' troppo aquilino, e l'altro l'avesse perfettamente fidiaco; Polla avesse barba scarsa, dura e rossiccia, e l'altro una barba aurea, fine e copiosa; Polla fosse calvo e l'altro capelluto; Polla vestisse nè con garbo nè con grazia, e l'altro indossasse sandali, calzoni e maglia di un'ignota materia che aderiva alle membra e le proteggeva senza impacciarle. Ma a Polla sembrava di vedere se stesso elevato a una razza superiore, o sè stesso trasferito in un secolo di perfezionamento futuro; e lieto anche di questo, uscì e discese. Si era già accertato che aveva ben chiuso l'uscio a chiave.




II


Anche l'ambrosia può far male. Polla, di ritorno a casa con una sporta gravida di vettovaglie e con una bottiglia di barolo vecchio, fu costretto a sedersi sul primo gradino della scala per riacquistar lena e rimettersi in equilibrio. Alla testa gli si era diffuso lo spirito di quello squisito estratto, mentre lo stomaco, contraendosi, stentava e soffriva a digerirne la parte soverchia, e l'intestino già cominciava a dolersi di ricevere sostanza sconosciuta e così calorosa. Però, consapevole dell'ebbrezza, Polla non dubitava di non ragionare; anzi credeva di ragionare benissimo, e ora guardando alla bottiglia, ora premendo col braccio il petto e il portafogli, vedeva naturale quella sua avventura quasi inverosimile; gli pareva la cosa più semplice del mondo che un uomo volante fosse stato portato da una corrente aerea fino a Roma e spinto proprio dentro la sua finestra; giudicava agevole ottenere in dono dall'ospite metà almeno delle pietre; pensava che dopo ciò non gli sarebbe più necessario fare il socialista e che se non gli riuscisse d'arrivare, per una via o per l'altra, al paese di quel signore, potrebbe vivere allegramente, conservatore o borghese, anche in Europa. E i compagni? e la promessa fede? e l'aiuto al partito? e la teoria di Marx? e l'evoluzione pacifica? e tutti i problemi economici e sociali? Sciocchezze! Adesso un problema solo aveva da risolvere: in che modo salirebbe fin lassù alla sua stanza, al quarto piano, ahi, con la testa in giro e le viscere commosse.

Nondimeno, e dopo molte pause, vi giunsero sane e salve la sporta e la bottiglia; e lui, senz'altro male che dolori forti come morsi. Ma allorchè intoppava la chiave Polla udì ridere dentro la camera. Aperto che ebbe, lo straniero gli venne incontro con viso di giocondità cordiale e con graziosi inchini.

– Ridete? – gemette Polla abbandonandosi su d'una seggiola. – Io invece sono rovinato! Accidenti…! Mai più estratti! mai più peptoni! – Quindi premendosi con le mani: – Oh che male allo stomaco! – aggiungeva. – Oh che male alla pancia!

– Stomaco?.. Pancia?.. – ripetè l'altro, che non essendo tanto afflitto dalle doglie dell'amico quanto studioso d'apprenderne e ritenerne il linguaggio, indovinava dagli atti il significato di quelle parole.

– Se provassi – continuava Polla – se provassi a mandar giù un po' d'acqua, o un sorso di barolo?..

– Barolo? – ripetè lo straniero. E sorridendo alla forma della bottiglia la sollevava e la sturava lui stesso.

Come ebbe bevuto, a sentirsi meglio, il socialista disse:

– Bevetene anche voi! Bevete: è mio e vostro. Sorseggiando un mezzo bicchiere lo straniero ebbe una grande voluttà; sicchè, con un sospiro, portò una mano al cuore per troppa dolcezza, quale un uomo che non avesse mai gustato vino.

– Mangiate qualche cosa… – Polla esortava, meglio che a parole, a cenni. – Tanto, io… per ora almeno… ahi!.. non posso farvi compagnia.

Da qual paese veniva quel signore così intelligente che subito coglieva il significato dei cenni e delle parole e con meravigliosa facilità fonetica ripeteva le parole udite? Era un uomo così straniero che al veder le fragole e le ciliege fuori della sporta, rimase come resterebbe uno di noi a scorgere fragole e ciliege grosse più che cocomeri!

Non si descrivono neppure le espressioni delle labbra, degli occhi e dell'armonico eloquio con cui accertava che mai, mai avrebbe pensato di trovar sì buone quelle fragole così piccole. Anche, non gli spiacque il roastbeef; benchè da prima quasi gli repugnasse e benchè non ne mangiasse più di mezza fetta. Ma le ciliege a dirittura lo deliziarono, lo fecero ingordo al punto da ingoiarne il nocciolo.

Polla, che ora stava peggio, gli raccomandava di mangiare senza complimenti, di mangiar tutto e mormorava:

– Si direbbe che costui non è avvezzo che agli estratti e ai peptoni chimici.

Infatti ogni incitamento divenne inutile, perchè l'altro diede a conoscere che non solo era sazio, ma che aveva mangiato troppo. Sempre cortese, dopo, dimandò:

– Stomaco?.. Pancia?..

– Ahi! – rispose Polla, a cui l'ebbrezza soltanto era cessata, non il male.

Per passare il tempo e arricchire la sua cultura l'uomo volante cominciò allora a toccare questa o quella cosa, rallegrato o stupito dalla forma di esse e dai nomi che ai suoi atti di richiesta gli diceva Polla.

– Catino… Già… per lavarsi; e quella, sì, la brocchetta dell'acqua… Sedia! si chiama sedia!.. Il letto, appunto, da dormire! Questo?.. Comò!; da tenervi i vestiti… chi ne avesse!

A che l'altro, con prontezza di lingua e di memoria, riepilogando:

– Catino per lavarsi; brocchetta dell'acqua; sedia; letto da dormire; comò da tenervi i vestiti chi ne avesse.

Era proprio un brav'uomo, oltre che bello; e da qualunque parte fosse giunto, per l'ingegno che aveva non poteva essere che un socialista. Pertanto, in un momento di tregua, l'ospite declinò il suo nome.

– Io ho nome Polla, e voi?

– Nome… Polla? – Non aveva compreso.

– Mi chiamo così! – Poscia, a spiegarsi meglio, finse che uno lo chiamasse «Polla!», e finse di rispondere: «Eh?»

– Io ho nome Edon! – esclamò l'altro avendo compreso bene.

– Fortunatissimo, caro Edon, di offrirvi la mia ospitalità e i miei servigi! – Polla disse, mentre gli prendeva e gli stringeva la mano; senza prevedere che dopo questo atto l'altro correrebbe al catino a lavarsi. Certamente in quel paese non usavano salutarsi in tal modo contrario all'igiene.

… Ripreso l'esercizio di nomenclatura e di lingua vi s'intrattenevano da quasi un'ora, quando Edon, non avendo peranche finito di ridere a veder Polla che accendeva una candela, s'abbandonò sul letto e in puro italiano lamentò:

– Oh che male allo stomaco! Oh che male alla pancia!

Era vero. Come aveva imaginato Polla, egli non era uso che ai cibi chimicamente ridotti, e aveva fatta un'indigestione grave di quel poco cibo nostrano.

Entrambi giacquero perciò fraternamente addolorati, eppur lieti di cominciare a intendersi e di poter chiacchierare? con le interruzioni di gastrici ohi ed ahi! Nè è meraviglia se già prima d'addormentarsi Polla ebbe appreso come Edon veniva da un luogo ove tutti gli abitanti volavano, e come era stato rapito dal vento. E poichè i giornali avevano preannunciato un ciclone in viaggio dall'Atlantico, giustamente il socialista pensò che l'amico proveniva da una qualche terra d'America; la quale, abbondando di ciottoli ch'erano smeraldi, rubini, diamanti e pezzi d'oro, doveva essere l'Eldorado.




III


… – E perchè fuggire da un paese come l'Eldorado?

– Ero infelice – mestamente rispose Edon, e rilevò gli occhi dal vocabolario italiano-volapuk che Polla, la mattina, gli aveva portato a casa e da cui egli in due ore aveva imparato quanto linguaggio basterebbe a certi eruditi professori per uso domestico se non universitario.

Alla risposta dell'amico, Polla s'intenerì. Non potendo credere che in un paese dove per le vie e per i campi tutti potevano raccogliere di quei tali ciottoli, ci fossero divisioni di classi, nè che dove gli uomini volavano ci fossero tiranni e mancasse la libertà, pensò che qualche terribile sventura, fuori dell'ordine economico e politico, avesse colpito l'uomo a lui caro, ormai, più che un fratello; e si propose di tenerlo allegro, distrarlo in ogni modo e, sopratutto, nascondergli i guai della nostra vita civile. «Edon ha cuore – diceva fra sè – ; ha l'intelligenza di un uomo perfetto; dunque per non affliggerlo con suicidi, delitti, miserie e con le carneficine internazionali e i resoconti dei Parlamenti, abolisco i giornali quotidiani!» Gli premeva insomma che, essendo irreparabile l'ordigno per volare, l'amico non scappasse per ferrovia appena fosse deluso e stanco del vecchio mondo e dopo che si fosse accorto del pregio che vi hanno i diamanti, gli smeraldi, i rubini e anche i pezzi d'oro.

Certo, sarebbe stato meglio per ambedue che Edon non apprendesse mai il potere delle gemme e dei quattrini in cui Polla le convertiva; e da bravo amico Polla ci si provò, recandosi lui solo dai gioiellieri con una o due pietre alla volta e piccine, e pagando di nascosto i conti all'albergo nel quale s'erano trasferiti. Ma presto l'altro volle andare in tram, dove curiosamente vide scambiare i soldi coi biglietti.

– Non usano questi da voi? – chiese l'amico con faccia tosta, mostrandogli le monete.

Edon sorrise; negò col capo; cercò di esporre l'ordinamento economico della sua patria. Ivi i quattrini non usavano più da secoli, perchè vi abbondavano i frutti della terra da cui la scienza chimica traeva e riduceva gli alimenti; vi abbondavano inoltre i prodotti del suolo necessari alle arti e alle industrie, sì che ciascuno viveva secondo il proprio bisogno e secondo il proprio desiderio.

Polla era rimasto intontito, quasi a ricevere un colpo di mazza sulla testa.

– Come? – gridò poi. – Non solo ci avete la realtà dell'ideale socialista, ma anche dell'ideale anarchico!

– Ideale socialista?.. – ripeteva Edon traendo il vocabolario, – Ideale anarchico? – ; e intanto Polla ricorreva alla difficoltà più grande che aveva incontrata ne' suoi studi e nella sua fede.





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