Книга - Parvenze e sembianze

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Parvenze e sembianze
Adolfo Albertazzi




Adolfo Albertazzi

Parvenze e sembianze





LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D'AQUINO


La corte di Carlo primo d'Angiò dopo la strage di Tagliacozzo e poscia che da un colpo di scure fu troncata l'adolescente baldanza di Corradino di Svevia, fioriva di nobili donne e baroni e cavalieri e splendeva in magnificenza di conviti, danze, tornei e feste mai piú vedute.

Ad una di tali feste messer Bertramo d'Aquino, che tra i cavalieri del re aveva lode di singolare valore e cortesia, conobbe la moglie di messer Corrado, suo amico di molti anni, la quale era bellissima donna e si chiamava Fiola Torrella; e cominciando egli subito a vagheggiarla, in breve se ne innamorò di guisa che non poteva pensare ad altro. E giacché madonna Fiola, non per freddezza di natura o per amor del marito o per sincerità di virtú, ma per diffidenza degli uomini e timore di scandalo e troppa stima di sé medesima, gli si mostrava aspra e fiera, messer Bertramo si perdeva ogni dí piú nel desiderio di lei e per lei giostrava, faceva grandezze, vinceva ogni altro cavaliere in gentilezza e liberalità.

Tutto invano: madonna era sorda alle sue ambasciate, gli rinviava lettere e doni, non gli rivolgeva pure uno sguardo. Ond'egli, che oramai non sperava piú nulla, nulla piú le chiedeva; e non sentendo alcun bene se non in vederla, triste e sconsolato, ma sempre con destrieri nuovi e mirabili, passava tutti i giorni sotto alle finestre di lei e ogni volta poteva vederla la salutava umilmente: essa moveva altrove i begli occhi.

Un amico, il quale vantava grande esperienza in conoscer le donne, confortava Bertramo: – O madonna ha un altro amante, ciò che non sembra da credere, o finirà con innamorarsi di voi – . E Bertramo per mezzi sottili ebbe certezza che Fiola non aveva altro amante; ma ella non cedeva, anzi diveniva piú rigida; sí che quell'amico esperto assai delle donne avrebbe dovuto ricredersi se la fortuna, impietosita delle angoscie del cavaliere, non avesse trovata una strana via per aiutarlo.

Certo giorno messer Corrado condusse la moglie e una gaia compagnia di cavalieri e di dame alla caccia del falcone in una villa che aveva poco lungi da Napoli; e poi che con loro fu stato in piú parti senza molta fortuna, giunto a una valletta, la quale pareva fatta dalla natura per cacciarvi, disse tutto allegro: – Ora vedrete se il mio sparviero sa spennacchiare! – I cani si misero presto sulla traccia delle starne e levandone un bracco un fitto drappello, egli fe' il getto e gridò: – Guardate! – Lo sparviero, che era ben destro, scese di furia sulle starne frullanti e le disperse; una ghermí e stracciò e inseguí le altre, come un soldato valoroso che piombi sur una schiera di nemici e abbattutone uno fughi e persegua i rimanenti. – Come Bertramo d'Aquino, mio capitano, a Tagliacozzo – disse messer Corrado; e per dar ragione del confronto tra il suo caro sparviero e l'amico assai caro, narrò di questo le belle prodezze quando l'avea veduto irrompere impetuoso nel furor della mischia.

– Certo – aggiungeva – non è alla corte e fuori chi uguagli Bertramo in piacevolezza di parlare, grazia di modi e generosità e magnificenza d'animo; e anche il re gli vuole gran bene. – E di Bertramo proseguiva a narrare piú geste e vicende.

Madonna Fiola ascoltava attenta il marito e le lodi al cavaliere che aveva posto ardentissimo amore in lei le pungevano l'animo di compiacenza, quasi lodi fatte alla sua bellezza, se la sua bellezza aveva potuto accendere senza misura uomo cosí perfetto; e come le lusinghe della vanità nelle donne possono tutto, anche piegare a sensi miti le piú proterve, ella rivolgeva nel pensiero quante pene aveva sostenute Bertramo; quanto acerba noncuranza gli aveva dimostrata, e le pareva d'aver fatto male.

Potenza d'Amore! Essa già sentiva che meglio che una durezza superba e una fredda virtú soddisfaceva il suo orgoglio l'innalzare a sé il piú ammirato dei cavalieri, senza piú timore alcuno d'abbassarsi a lui; nella esuberante sua giovinezza già serpeva un desiderio vago di consolazioni nuove e di nuove gioie suscitate e acuite, per lo spirito e per i sensi, dalla forza della passione e dalla fatalità della colpa. Perché era fatale che amasse Bertramo d'Aquino, se fino a quel giorno inutilmente aveva voluto resistergli. Tutto quel giorno pensò a lui; né sí tosto fu di ritorno a Napoli che si pose al balcone bramosa che egli, come soleva, passasse di là a riguardarla; e con suo conforto lo vide giungere all'ora usata. Ratteneva il bizzarro puledro e per quetarlo gli passava la mano su 'l collo scorso da un tremito: salutò la dama, la quale smorta e palpitante risalutò e parve sorridere, e a lui s'allargò il cuore e chiari la faccia in subita allegrezza.

Cosí Bertramo fu pronto a scrivere una lettera a madonna Fiola scongiurandola di commuoversi a misericordia e di procurargli agio a parlarle; e n'ebbe risposta: a lei era grato l'amore di lui, ma per l'onor suo e del marito ella non poteva promettere e concedere cosa che le chiedesse. Riscrisse egli assicurandola che voleva solo parlarle e che in ciò solo poneva la salvezza della sua misera vita; ed ebbe risposta: venisse, ma a parlare soltanto, una prossima sera (e Fiola diceva quale) in cui Corrado, di ritorno da una caccia lontana e faticosa, sarebbe andato a dormire per tempo.

Ecco finalmente la sera del convegno; limpida sera estiva. Bertramo s'era dilungato assai fuori della città quasi ad affrettare, ad incontrare l'ora invocata e troppo lenta a discendere; e quando le ombre confusero le cose e le stelle si specchiarono nel mare pensò: – Di già Fiola m'aspetta – ; ma non tornò a dietro, ma senti vivo il piacere d'essere atteso, egli che dell'attesa aveva patita tutta la pena. Pure il maligno compiacimento fu breve e se ne dolse; rivolse il cavallo e gl'infisse gli sproni nei fianchi: via, di aperto galoppo e di piena gioia, come all'assalto!

Intanto Fiola, visto che ebbe il marito addormentato nel profondo sonno della stanchezza, consegnò due lenzuoli di tela finissima alla piú fida delle sue donne, che andasse a distenderli su 'l molle letticciolo composto entro una casupola in fondo al giardino per riposarvi nel tempo piú caldo; ed essa corse a socchiudere la porta dalla quale doveva entrare l'amante. Ascoltò: nessuno. Allora dalle aiuole e dalle macchie si die' a raccogliere le piú belle rose e strappandone i gambi riponeva le corolle e i petali freschi in un cestello che recava al braccio: anche vi metteva fragranti vainiglie e gelsomini, e quando il cestello fu colmo lo porse alla fante e le disse: – Spargi questi fiori su le lenzuola e acconcia ogni cosa; e poco dopo che messere sarà venuto, fanne cenno d'entrare. – E stette ad attendere.

Ma alla mente di lei, che con la fantasia si spingeva da un pezzo a pregustare le voluttà del suo dolce amore, balenò a un tratto il dubbio non stesse per cadere nella vendetta di messer Bertramo, il quale troppo duramente e troppo lungamente aveva fatto soffrire; non dovesse, se messer Bertramo mancasse per inganno al convegno, esser fatta gioco di lui. E se egli non era dell'animo che suo marito le avea dipinto, non poteva ella, con acerbo dolore e vergogna, divenire la favola non solo di lui, ma de' suoi amici e di tutta la città, ella, la virtuosa donna di messer Corrado? Onde si vedeva accomunata dalla colpa e dallo scherno a quante dianzi spregiava, e si doleva d'esser caduta della sua casta fierezza e malediceva al mal concepito affetto.

Ma ascoltò: – Eccolo! – , e rapida e lieta fu incontro al cavaliere che entrava e gli aperse le braccia sorridendo e sospirando: – Ben venuta l'anima mia, per cui sono stata tanto in affanno! —

Messer Bertramo la strinse forte: – Mercé dunque del suo grande amore; pietà, o madonna Fiola, dei suoi lunghi travagli! – Le parole di lui erano ardenti non meno che gli sguardi di lei, e a lui pareva che ella avesse una luce intorno il capo biondo, e a lei sembrava ch'egli fosse ebbro d'amore.

Sedettero sotto un arancio fiorito scambiando piú baci che motti, e come Fiola pensava – Or ora la fante ci dà il segno d'entrare – , messer Bertramo, il quale nelle avide strette la sentiva tutta desiosa e del suo bel corpo indovinava i segreti mal difesi dalla veste sottile, poco piú tempo attendeva a godere del piacere ultimo e sommo. Ma meravigliandolo assai una tale accondiscendenza in Fiola, egli volle conoscere prima da lei perché fosse stata tanto rigida seco e qual cagione l'avesse indotta da poco a dargli un conforto sí grande.

Ella rispose: – Io non v'amava; ma mio marito, un giorno che eravamo alla caccia insieme con molti cavalieri e gentildonne, osservando un nostro bravo falcone precipitare addosso a una brigata di starne e scompigliarle tutte, si sovvenne di voi e disse che come il falcone alle starne aveva visto far voi ai nemici nella battaglia. E recò prove del vostro valore e di voi asseriva che nessuno poté mai superarvi in cortesia e liberalità. Allora io ammirando l'animo vostro mi pentii subitamente d'avervi fuggito quasi mala cosa, e ora vi dono co 'l mio cuore tutta me stessa. —

Udite le parole della donna, messer Bertramo stette alquanto silenzioso e raccolto in sé medesimo per improvvisa concitazione di pensieri e di affetti diversi; poi, con uno sforzo che parve e fu supremo, perché egli rifiutava il bene non di quella sera, ma della sua giovinezza, ma della sua vita, si levò in piedi e disse:

– Non sarà mai ch'io offenda vostro marito se egli mi ama cosí e se ha tanta fede in me! – E tolte di seno alcune bellissime gioie, le porse alla donna pregandola di serbarle per sua memoria: – Per memoria di voi, voi datemi ora un ultimo bacio. —

Madonna Fiola Torrella turbata molto, chi sa se per nuova ammirazione dell'animo nobilissimo del gentiluomo o piú tosto per vivo rammarico del perduto piacere, lo baciò sulla bocca, e messer Bertramo, senza piú toccarla, le disse addio e partí.




Sterne giungeva di rado al luogo per cui si metteva in cammino; io a ciò che mi propongo. Questa volta intendevo esaminare in confronto della dura semplicità e brevità onde Masuccio narrò primo il fatto di messer Bertramo[1 - Masuccio Salernitano, novella XXI.], la prolissità e la pompa svenevole con la quale Gianfrancesco Loredano secentista rifece e allargò, trasportandone i personaggi ai suoi tempi, questa storia d'amore[2 - Novelle degli Accademici Incogniti: par. II, nov. prima.]; ma invece, non so come e perché, la fantasia condusse me pure a rinnovare e a diffondere l'antica novella, e adesso, su 'l punto d'incominciare il raffronto, ristò chiedendomi: A che cosa gioverebbe il mio studio?

Veramente gli eruditi non si fanno sempre questa dimanda.




CHI DI GALLINA NASCE…





I


Il dí che in Firenze per frenesia di Francesco De' Medici era imposta su 'l capo di Bianca Cappello la corona di granduchessa, in Bologna Ercole e Alessandro Bentivogli facevano “dinanzi a casa loro correre a' cavalli dei Monari dodici braccia di grossogron et una berretta di panno in segno d'allegrezza„; ma Pasquino domandava al conte Ulisse Bentivogli, il quale da tre anni era marito a Pellegrina figliola di Bianca e di Pietro Bonaventura:

Si Cosmi titulos Virgo foedavit Hetrusca
Quid faciet meretrix, heu, peregrina tibi?[3 - Ant Fr. Ghiselli, Memorie di Bologna antica, manos. nella R. Bibl. Univ. di Bologna: T. XVI, all'anno 1579 (23 giugno).],

e nella interrogazione epigrammatica rideva una profezia. Spiace per altro non conoscere tutti i miracoli di cotesta contessa, che, se vera la storia, un'ultima colpa condusse a perire in età di trentaquattro anni piú miseramente di sua madre.

Il matrimonio del Bentivoglio, celebrato con gran pompa a Bologna il 24 agosto 1576 – recando la sposa allo sposo una dote di trentamila scudi e una beltà ancor puerile ma già meravigliosa[4 - Idem, anno 1576 (24 agosto). – Pellegrina era nata il 23 luglio 1564 (Cicogna, Iscrizioni veneziane, T. II, p. 211): andò dunque sposa un mese piú che dodicenne.] – , era stato “di poca soddisfazione al paese„; onde il conte avea presa dimora a Firenze. Pure il 23 febbraio 1578, in occasione d'una breve gita di Bianca e Pellegrina a Bologna, “la prima nobiltà della città, sí di cavalieri che di dame„ era mossa ad incontrarle, “per rispetto al Granduca, per essere la detta Bianca sua cosa„[5 - Rinieri, Diario (alla Bibl. Comunale di Bologna).]; cosí come ad onore della figlia non piú d'una concubina, ma d'una granduchessa, il 22 dicembre 1583 furono incontro ai coniugi Bentivoglio, di ritorno per qualche mese alla patria, “quarantaquattro carrozze di dame e gran numero di cavalieri a cavallo, oltre li cavalli leggieri; et il Bentivoglio era a man destra di Pirro Malvezzi, non ostante che fosse senatore e de' collegi„[6 - Ghis., T. XVII, anno 1583 (23 decem.); '84 (14 aprile), e T. XVIII, pagina 507.]. Nell'aprile dell'anno appresso Pellegrina si recò di nuovo a Firenze per assistere alle nozze di Vincenzo Gonzaga e di Eleonora De' Medici, e solo il 13 febbraio 1588, ma questa volta per sempre, riprese ad abitare in Bologna.

Con la fresca e fosca rimembranza della morte di sua madre si contenne allora in vita solinga? No, ché sentiva bisogno di distrazioni; e a primavera di quell'anno medesimo ebbe voglia, lasciando il marito a casa, di fare una scappata a Venezia in allegra compagnia di dame e gentiluomini; e ad autunno, nella venuta de' duchi mantovani, si compiacque d'apparire per grazia e per fasto la prima gentildonna che fosse in Bologna a quel tempo[7 - Ghis., T. XVIII, 1588 (pagina 547 e seg.).].

Ma se delle qualità vere della persona e credute dell'animo suo avevano pure in Firenze diffusa l'ammirazione Francesco de' Vieri detto il Verino, dedicandole il Discorso della grandezza et felice fortuna d'una gentilissima et gratiosissima donna qual fu Madonna Laura[8 - Firenze, Marescotti, 1581: in-8. Il Verino, “dottore ordinario e lettor pubblico della filosofia e cittadino fiorentino„, dedicò anche ad Ulisse Bentivogli una sua Lezione dove si ragiona delle idee et delle bellezze.], e maestro Fabrizio Caroso offrendole tra i balli di sua composizione una “cascarda„ con a tema musicale un sonetto che comincia:

Luci beate ove s'annida Amore,
Vivi raggi del sol, dolci facelle
Che le piú gelide alme e le piú belle
Infiammate di santo e pure ardore[9 - Il Ballarino di m. Fabrizio Caroso, diviso in due trattati, Venezia, Ziletti, 1681.]

quegli che di lei ci lasciò il piú ingenuo ricordo fu il poeta bolognese Cesare Rinaldi.

Nel 1590 egli le porgeva la terza parte delle sue rime dicendole: “L'esser piaciuto a V. Eccellenza Ill.ma di favorire talora le sue rime della vista, della voce et del giudicio suo, ripieno di tanta acutezza et accortezza insieme, onde mostra la perfetta cognizione che ha di ogni bella virtú, mi ha facilmente indotto a credere che parimente non debba sdegnare di riceverle se nello uscir fuori a scorrere il mondo in istampa, non meno create di dentro che segnate di fuori del suo Ill.mo Nome, ora ritornano tutte insieme nelle sue onoratissime mani, donde sono partite, non altrimente che si faccia, come dicono, il fiume Meandro, il quale favorito da tanti canori et bianchissimi cigni alle sue rive con le loro meravigliose armonie, pare che nello scorrer il paese, ritorcendo il suo corso et raggirando, colà se ne ritorni donde partí, quasi allettato dalla dolcissima soavità dei cigni, come… (coraggio, che il periodo finisce adesso e finisce bene!)… come le mie rime da quella di V. Ecc.za Ill.ma, veramente umano et candidissimo cigno in ogni virtú et regal costume„[10 - Pref. alle Rime, par. III: Bologna, Vit. Benacci, 1590: in-12.].

Candidissimo cigno in ogni virtú la figlia di Bianca Cappello? Ohibò!; e le rime son troppo “create di dentro„ co 'l nome di lei:

Cauto a gl'inganni Amor l'armi depose,
L'ale agli omeri strinse e le coperse:
Di pellegrino in forma ei mi s'offerse
E pellegrina idea nel cor mi pose.
Or vo pellegrinando…

A l'ombra di duo neri archi sottili
Due pellegrine stelle il mondo ammira…

Qual or io ti vagheggio,
Pellegrina gentil, misto in te veggio
Col celeste il mortai, col nero il bianco:

(allusione, pare, alla sua bellezza):

Sotto l'oscuro velo
Scopro candor di Delo;
Sotto la spoglia frale
Scerno virtú immortale,
Ond'al mirar non è l'occhio mai stanco;
Miro e mirando i' godo, e 'n viso adorno
Scorgo la terra e 'l ciel, la notte e 'l giorno…

… Quale al nascer di Palla alta e immortale
Versò dorato nembo
Sovra Rodi dal ciel l'eterno Giove,
Tali e piú care a te piovvero in grembo
Nel felice natale
Nove grazie d'amor, bellezze nove.
Folle chi mira altrove,
Che 'l bello è in te raccolto,
Vertú nel petto et onestà nel volto:
S'impresse a mille il tuo valor nel seno,
Quando coi pensier casti
Pellegrinasti, o Pellegrina, al Reno.
Qui ten vivi al tuo sposo onesta e bella
Sotto il soave giogo,
Qual Penelope fida al caro Ulisse…

Ma durante l'assenza del “caro Ulisse„, il quale nel 1595 fu con Antonio De' Medici alla guerra in Ungheria[11 - Ghis., T. XX, 16 agosto 1595.], il poeta dovette farse avvedersi come era fallace la virtú da lui cantata immortale e come la non fida Penelope sapeva intessere varie tele di colpe.




II


Nell'estate del 1598 su la famiglia Bentivoglio passava con tragica ombra una strana sciagura, che quarant'anni di poi porgeva argomento a uno sciatto romanzo di Girolamo Brusoni: la tragedia, se tale quella sventura, era stata velata di mistero, e il romanzo La Fuggitiva[12 - Cito il mio libro Romanzieri e romanzi del cinquecento e del seicento, avvertendo il lettore che ne scrisse assai male il noto critico Zannoni nel fasc. XXIV della Nuova Antologia (1891), pag. 781-783. – Delle persone mascherate nella Fuggitiva diedero i nomi veri il Ghiselli, il Mazzucchelli, il Giordani ed altri, ma non furono concordi a determinare quello dell'amante piú fortunato di Pellegrina: che fosse Fl. Malvezzi dice il Montefani (Spoglio delle famiglie bolognesi, ms. nella R. Bibl. di Bologna), fam. Bentivoglio. – L'anno della morte di Pellegrina cercai inutilmente nelle memorie e nei diari bolognesi. Il cavalier Saltini, a cui mi rivolsi e a cui debbo grazie, suppone come probabile il 1598 (estate) ed io tengo certa questa data, per piú ragioni che sarebbe troppo lungo dichiarare. È curioso che il marito e i figli della Bonaventura “adirono„ all'eredità de' beni di lei soltanto il 22 maggio 1615: ma forse fu perché si sopisse il ricordo della sua fine. Infatti il notaio che redasse il rogito non sapeva pur egli la data della morte di Pellegrina e scriveva: “… cum multis annis iam elapsis ab intestato decesserit Ill. et Ecell. dona Peregrina De Bonaventura et de Capellis…„ (Scritture della fam. Bentivoglio: Archivio di Stato di Bologna).] lasciando indovinare facilmente il nome dei personaggi e dei luoghi, parve ralluminarla; però esso ebbe, senza merito artistico, una grande fortuna. Ma quanta parte del lavoro fu imaginaria? Spoglio d'ogni particolare inutile e d'ogni sfogo di secentismo ne resta questo.

– Ulisse Bentivoglio, a festeggiare la recente nascita d'un figliolo, indisse una giostra nella quale il fratello di lui, Francesco, fu vinto solo da un incognito cavaliere: Flaminio Malvezzi, “giovinetto di mediocre fortuna ma di nobili spiriti„ e fatale amante di Pellegrina, che fino a quel dí “era rimasta indifferentissima degli amori„. Il valoroso Malvezzi presto ammalò di passione e la contessa durante un'assenza del marito lo consolò di baci; indi, in villa a Bagnarola, di qualche cosa di piú; e tanto andò la bisogna, come dice il Boccaccio, che l'adulterio venne a conoscenza della signora Isotta Manzoli, la zia del marito. Ma i consigli di questa dama prudente all'imprudente Pellegrina tornarono vani; vane le esortazioni di Filippo Pepoli, quando seppe anche lui la brutta faccenda, all'amico Malvezzi, per salvare l'onore del povero Bentivoglio; e alla fine una traditrice cameriera rivelò la tresca al suo innamorato, il figlio maggiore del conte! Il conte chiarito di tutto dal figlio dié incarico a suo fratello Francesco di ammazzargli o fargli ammazzare il Malvezzi e ripose la sorte della moglie in balía del granduca di Toscana. Onde meglio sarebbe stato per Pellegrina fuggire con l'altro suo amante, un Riario, che inutilmente gliene avea fatta proposta, perché un dí arrivò a Bagnarola Antonio De' Medici ad assassinarla. —

Poco nel romanzo e meno, ma peggio, nella storia.

“Questa donna – Pellegrina – non seppe contenersi nelle sue inclinazioni; il perché da' figliuoli mal sopportata, fu con motivo d'andare a spasso nelle valli d'Argenta sommersa in quell'acque per opera del figlio Francesco, che facendo nascere l'accidente da un meditato ripiego lasciò dar volta al legno ov'era, e la povera dama restò miseramente, senza verun aiuto, sommersa„[13 - Ghiselli, op. cit., T. XXVI.].

Il drudo Flaminio Malvezzi trovò la morte nel 1629 militando in Fiandra sotto le insegne del marchese del Vasto[14 - Montefani, Fam. Malvezzi.]: il marito Ulisse morí nel 1618, già vedovo da undici anni della seconda moglie Virginia Olivi: dei cinque figli di Pellegrina, Giorgio era stato ucciso a Firenze nel 1611 dal cavaliere Lanfreducci[15 - Galeati, Diario (Bibl. Com. di Bologna), all'11 maggio 1618; Ghiselli, T. XXII, al 23 dicem. 1611.]; Francesco, il probabile matricida, benché protonotario apostolico e cavaliere di Malta, fu decapitato a Roma in Torre di Nona il I dicembre del 1636 per mala vita e per aver offeso in satire il papa Urbano VIII[16 - Galeati, op. cit.]; Bianca, se non finí tragicamente, fu cagione di tragedia, sempre per quella necessità d'atavismo che l'esperienza fermò nell'adagio – Chi di gallina nasce convien che raspi. —




III


Andrea di Bartolommeo Barbazza fu, chi credesse ai suoi ammiratori contemporanei, un grand'uomo. Per l'esperienza sua nelle “arti cavalleresche„ acquistò nome come padrino in duelli, maestro e giudice di campo in tornei e giostre, compositore di querele non solo fra concittadini ma sí fra ragguardevoli personaggi stranieri che ricorsero fiduciosi al suo consiglio; piú, quale cittadino benemerito ottenne sommi onori in patria, a Bologna, dove a venticinque anni, nel 1607, fu eletto degli “anziani„ e rieletto nella stessa carica nel 1616 e nel '28, e nominato senatore nel '46 e nel '51 gonfaloniere; piú ancora: egli ebbe lode di poeta “insigne„ e compose nientemeno che una “favola tragicomica boschereccia„, L'amorosa Costanza; una favola musicale, Atlante; un “intermezzo per musica„, Apollo e Dafne; un volume di “lezioni accademiche„ e non so quanti sonetti stampati qua e là per le raccolte[17 - Del Barbazza letterato e poeta e accademico Gelato, Incognito, della Notte, etc., dissero anche troppo il Fantuzzi (Scrittori bolognesi), il Mazzucchelli, l'Aprosio (Biblioteca, 1673, pag. 324-329); io, per il breve mio studio, credo d'aver detto abbastanza pur essendomi dimenticato di ricordare che il Barbazza fu anche autore d'un dramma – Il Ratto di Proserpina – recitato a Bologna nel 1640. Dimenticanza grave!]. Ma il gran fatto della sua vita fu in partecipare alla liberazione di Giambattista Marini incarcerato a Torino e la grande opera sua in difender l'Adone: egli fu protettore e amico del piú famoso poeta del secolo XVII!

Tra le molte è memorabile questa lettera che il Marini gli aveva scritta a Bologna dopo lo spavento della pistolettata del Murtola: “Veramente io confesso di dover non meno alla memoria che V. S. serba di me et al zelo che mostra alla mia salvezza, che alla protezione della fortuna, che con particolar privilegio mi liberò di sí grave pericolo… Son vivo, sig. Barbazza, e godo piú di vivere nella grazia di V. S. che nella luce del mondo; et credami che vive un suo servidore prontissimo a spendere in suo servigio quest'avanzo di vita in quel fervore di volontà che si richiede a tante obbligazioni. Io pensava di venire in persona a servirla et a godere le delizie del carneval bolognese, ma questo disturbo mi ha impedito… Delle mie poesie non ho che mandare a V. S., perché tutti i pensieri mi son fuggiti dal capo al romor delle archibugiate. Le Muse son come gli usignuoli, i quali se mentre stanno a cantar sopra un arbore sentono lo scoppio del cacciatore, sbalorditi dalla paura non vi tornano a trescar per un pezzo…„[18 - Lett. del Marini, ediz. 1673, pag. 269.].

Non è meraviglia dunque se il Barbazza di ritorno di Francia co'l cardinale Ferdinando Gonzaga, del quale a trent'anni era divenuto maestro di camera e co'l quale aveva viaggiato anche in Spagna; il Barbazza, che da Caterina De' Medici aveva ricevuto in dono una collana d'oro e la croce dell'ordine di San Michele, e in Torino riceveva omaggi come poeta e diplomatico egregio, s'adoperò affettuosamente a salvare il poeta dalle calunnie e dalla prigione. Per amore del Barbazza il Gonzaga s'uní con l'ambasciatore d'Inghilterra a impetrar il perdono del duca, e il Marini libero e grato chiamò Andrea “difensore della sua riputazione„[19 - Vedi il Mazzucchelli e l'Aprosio (Biblioteca, pag. 324); e per le relazioni tra il Marini e il Barbazza, il Menghini, Vita e opere di G. B. Marini (Roma, 1888).].

E che meraviglia se piú tardi il letterato bolognese assalí l'autor dell'Occhiale nelle Strigliate a Tommaso Stigliani, che stampò co'l leggiadro pseudonimo di Roberto Pogommega?[20 - Spira, appresso Henrico Starckio, MDCXXIX, in-12. Ma non Roberto, Robusto Pogommega. Errore gravissimo!]Peccato che “per accidente„ rimanesse fuori da esse Strigliate questo Sonetto “molto galantissimo„, come fu detto dall'Aprosio che lo riferí nella sua Biblioteca:

Mentre, Stiglian, vo' pel tuo Mondo in busca
E in lodarti il cervello mi lambicco,
Trovo che 'l naso in ogni buco hai ficco
Onde tanto saver non ha la Crusca.
È il tuo stil piú piccante di lambrusca
E del tuo Mondo novo assai piú ricco,
Onde pien di stupor tutto m'incricco,
Ché il tuo splendor l'istesso Apollo offusca.
Han le tue rime cosí nobil metro
Che qualora con esse altrui scorreggi
Mi raccapriccio ed ascoltando impietro:
Che se canti d'amore o se guerreggi,
O se rompi agli eroi su 'l fronte il pletro
Nell'armonia con gli asini gareggi.




IV


Nel 1613 Ferdinando Gonzaga rinunciando al cappello cardinalizio e assumendo nome e potere ducale concesse ad Andrea Barbazza l'ufficio di cameriere segreto e l'onore di intimo consigliere. Ma presto il poeta sentí noia della corte di Mantova, e poiché aveva trentadue anni e nell'amor delle muse non trovava tutti i conforti che sono nell'amor delle donne, venne a Bologna a prender moglie: una figlia del conte Ulisse Bentivoglio Manzoli e di Pellegrina Bonaventura, quella tal signora famosa per errori e bellezza, pareva fatta per lui. E la sera del 23 aprile 1614 fu conchiuso il matrimonio con rogito del notaio Ercole Fabrizio Fontana, e tre giorni dopo la contessina Bianca Bentivoglio e il cavaliere Andrea Barbazza, testimoni i conti Battista Bentivogli e Alessandro Barbazza, si giurarono fede eterna nella chiesa di San Martino Maggiore[21 - Galeati, Diar. (Appendice I, pag. 8); Ant. Maria Carati, Li matrimoni contratti in Bologna, fedelmente estratti da' loro originali parrocchiali, T. I (ms. alla Bibl. Com. di Bologna). – Bianca ebbe in dote 40000 scudi.].

Né alla solennità delle nozze mancò l'omaggio della poesia in forma d'un portentoso sonetto epitalamico dell'immortale Marini:

Vide Tebe due soli a le nefande
Opre crudeli, allor che 'l fier Tieste
Le mense formidabili e funeste
Colmò di sozze e tragiche vivande.
E due ne vide ancor Roma la grande,
Quando l'esequie dolorose e meste
Pianse di lui, ch'or nel seren celeste
Fatto lucida stella, i raggi spande.
Ecco or su 'l picciol Reno a gli occhi nostri
Non minor meraviglia il Ciel produce,
Non d'orror ma d'onor prodigi e mostri.
Coppia, ov'arde valor, beltà riluce,
Tu quasi un sole a noi doppio ti mostri,
O de la fosca età gemina luce[22 - Fra gli Epitalami del Marini.].

In Bianca riluceva la beltà della nonna e della madre; era un angiolo, e ce l'attesta una lista di “motti„ pubblicati anni dopo e ricopiati poi dal Ghiselli, nella quale essa per un verso solo ebbe lode piú grande che tutte le belle gentildonne bolognesi del tempo suo. Giacché poco importa che a Francesca Sampieri convenisse dire:

Santi i costumi son, sante son l'opre,

e a Laura Pepoli:

Alma real degnissima d'impero,

e ad Orsina Leoni Magnani:

Al tuo presumer ben s'agguaglia il merto.

Non stimo grave danno non aver veduta Isabella Angelelli

Nelle ruine ancor bella e superba;

forse fu piena di grazia Benedetta Pinelli Ercolani

Oh quanto è ritrosetta, oh quanto è schiva!,

e furon forse desiderabili Imelda Lambertini,

Primavera nel volto e nella testa,

e Pierina Legnani:

Bruna sei tu ma il bruno il bel non toglie;

dovette anche recare certa consolazione piegare a soavi atti donne come Costanza Cospi,

Un sí bel viso, un cuor di tigre e d'orsa!;

Aurelia Marsili,

Beltà ch'asconde un cuor ritroso e schivo;

Laura dall'Armi,

Mirata de ciascun passa e non mira,

e la contessa Bianchi

Campeggiar d'occhi e fulgorar di sguardi;

né dovettero spiacere le carezze di Ginevra Isolani

Oh bella man che mi trafigge il cuore!;

ma quale de' gentiluomini bolognesi non avrebbe ceduto magari l'amore di tutte per l'amore della sola Bianca Bentivogli Barbazza

Alli spirti celesti in vista eguale – ?[23 - Ghiselli, T. XXII, p. 525-529.]

Dicono che Bianca Cappello ebbe i capelli biondi e gli occhi neri (io non ricordo la tela in cui la ritrasse il Bronzino); il poeta Rinaldi pareva ammirare in Pellegrina Bonaventura il candore della carnagione nel lume dei neri occhi e nel riflesso dei capelli neri; a Bianca Barbazza, rassomigliante in questo alla madre piú che alla nonna, fu pure attribuita la vivacità del “nero e del bianco„ in altra serie di “motti„, parte satirici e parte laudatori. Eccone alcuni:



Piombino da muratore – Virginia Ricordati Maranini

Il zibellino – Dorotea Albanesa Bulgarini

La mula del papa – N. Simoni Peppia

Il guardo soave – Diana Barbieri Rinieri

Il parapetto – Caterina Caccialupi Alamandini

La Ninfa – Livia Rossi Fantuzzi

La modesta – Camilla Beri Bandini

La tramontana – Camilla Orsi Leoni

La buona – Camilla Orsi Ghisellieri

La favorita – Doratrice Oro Gambari

La matrona – Silvia Orsi Sampieri

La pensosa – Valeria Lambertini Guidotti

La buona notte – Claudia Fantuzzi Paltroni

Il delfino, La cassa di noce – Camilla Fantuzzi Bandini

Il buondí – Clementina Orsi Ercolani

Il falcone – Orsina Foscherari Favi

L'Armida, Il Giardino d'Amore – Lodovica Amorini Campeggi

La parlatrice – Olimpia Guerrini Ghiselli

La splendida – Ippolita Campagni Ghiezzi

Il bianco et il nero – Bianca Bentivogli Barbazzi[24 - Ghiselli, T. XVIII, pag. 370 e seg.].


Ma le sembianze di Bianca Bentivogli meritaron ben altro che l'insulsa indeterminatezza di questi attributi! Ella, “sole di beltà„, come la chiamò il Malvasia nella Felsina pittrice, per arte di Guido Reni si rivide immortale in figura d'una Cleopatra che Andrea Barbazza acquistò, non so l'anno, e Antonio Bruni credette di rendere in rima:

… Non sembra in tela espressa,
Perché il pittor l'avviva, amor l'ancide;
Le dà spirto il pennel, l'angue l'uccide[25 - Malvasia, Felsina Pittrice, p. IV, pag. 42.].

Cosí dunque, con lieve sforzo di fantasia, possiamo imaginare Bianca nell'effusione di tutto il giovanile splendore a quella festa che né pure un anno dopo le sue nozze, al carnevale del 1615, fu data nel palazzo del Podestà, e che per magnificenza d'apparati e vestiari e novità d'invenzione e per la nobiltà dei cavalieri che vi tornearono – con essi anche il Barbazza e il fratello di Bianca Alessandro – parve meravigliosa e degna d'imperituro ricordo[26 - Ghiselli, T. XXIII, pag. 462-579. A stampa: Breve descrizione della festa nella gran sala del Sig. Podestà l'anno 1615, il dí 2 di marzo: Bologna, Stamperia Camerale.].

Ne era venuta l'idea a parecchi gentiluomini i quali avendo ricercato una sera, come solevano di frequente per passare le ore, “qual fosse la piú espedita via d'acquistare la grazia dell'amata donna„, né essendo riusciuti ad accordarsi sulle varie proposte, avevan risoluto di rimettersene al giudizio delle armi. Detto, fatto; e per l'operosità in ispecie di Gabriele Guidotti, che inventò favola e macchine, curò l'allestimento del teatro e instruí i cavalieri, il 2 marzo a un'ora di notte tutta l'eletta società di Bologna poté convenire all'atteso divertimento.

Tre ordini di gradini e tre ordini di logge accolsero gli spettatori: nei gradi a mezzodí le dame; di fronte a loro il cardinal legato Capponi e i magistrati; a destra e a sinistra i cavalieri. Nella scena dell'azione s'ergeva un tempio dorico circondato d'alberi; nell'alto, al principio, s'aprí una nube e apparve Giove in mezzo agli dei; e a lui Venere, con a lato il figliuolo cui accennava, chiese licenza di scendere in terra per soccorso e consiglio delle misere donne. Giove, manco a dirlo, assentí, e la nuvola si rinchiuse. Ed ecco uscire dal tempio un coro di sacerdoti, i quali si disponevano a sacrificare alla dea un leone un capro e un drago, quando a suono d'una musica sí dolce che – asserisce uno il quale l'udí, non io – “tutti gli spettatori sembrava ardessero del soavissimo fuoco d'Amore„, comparvero Venere e il figlio e l'amico di casa, Marte. Amore liberò le belve dall'imminente sacrificio:

E questo altar or sia – disse —
Il tribunale ove porrò la seggia
Per giudicar de' cori
Quali sian di pene e premi
Meritevoli ardori.

Un Amorino venne a querelarsi al picciolo Iddio di certa giovinetta che aveva abbandonato l'amante suo, ma poiché Venere difese la colpevole e poiché Marte, il quale aveva ragioni sue proprie di contraddizione alla dea, sostenne il cavaliere amante, bisognò trovare la fine del contrasto in particolari certami e in un generale torneo. Veramente ci fu ad intermezzo la comparsa della Gelosia in forma di larva orrenda con uno stuolo di “mostri neri ignudi alati„ e “con uno strepito di anime perdute„ in una voragine di fuoco; ma come la femmina maligna non riuscí a “mettere contagio nell'anima degli spettatori„ – asserisce uno spettatore, non io – posso risparmiarne la descrizione.

E siamo cosí al meglio dello spettacolo. Arrivano due tamburini, ventiquattro paggi con scudi, e sei staffieri con due azze, due picche e due mazze; e dietro loro i cavalieri padrini del mantenitore, Francesco Cospi e Giovan Gabriello Guidotti; poi infine il mantenitore di Venere, Alessandro Bentivoglio, “vestito di morello e d'argento; calza intiera con tagli di cordelle d'argento, foderate di tela d'argento e morella, e strascinandosi dietro lunghissimo manto di seta morella, ricamato di fiori d'argento e di vari colori, tempestato di grosse gemme e perle, con cimiero altissimo di piume in pomposa mostra„. Di contro a lui, in una pianura, sorge uno scoglio con sópravi una donna – la Terra! – , che esorta le donne ad amare e cantare le lodi di Amore e quindi se ne va, mentre giunge una testuggine (qualcosa come il cigno wagneriano) recando con i loro padrini i due cavalieri Florimanno e Ribano – Alessio e Giovanni Orsi – , i quali vengono a sostenere “che la virtú non è compagna d'Amore„. Ma mal per essi, giacché Candauro, ossia il Bentivoglio, li abbatte entrambi. E sparisce la scena e apparisce il mare in cui s'eleva Proteo a dire anche lui non so quali belle parole: indi due altri cavalieri arrivano per farsi vincere dal cavaliere di Venere. Seguono due altri condotti da Iride, dei quali pure avviene l'abbattimento, e poi…

“… udissi un rimbombo… et il cielo incominciò a rosseggiare, e balenando e fiammeggiando in guisa che parea che egli veramente ardesse, e a poco a poco radunandosi tutte quelle fiamme in globi, formarono come nuvola di fiamme in mezzo della quale udivasi la voce di persona, che rassomigliava il Fuoco, e cosí diceva de' suoi cavalieri:

E questi miei di vive fiamme ardenti,
Fiamme, che il loro Amor, che l'altrui sdegno
Si nutre al cor cocenti,
Non troveran da te pace e pietade,
Rigida inesorabile beltade?
Io qui con lor, donne gentili, vegno
Per palesarvi solo,
Nel fiammeggiante lor tacito aspetto,
Qual sia la pena e 'l duolo
De l'infocato petto…

“Dopo le quali parole chiusasi la nuvola, continuamente spargendo raggi e faville di odorate fiamme, venne ad abbassarsi infino all'orizzonte, e quivi scoppiando con molti tuoni e baleni, espose fuori… (oh meraviglia!)… il signor Andrea Barbazzi, cavaliere dell'ordine di San Michele e giovane di animo eguale alla grandezza del suo nascimento et di vero valore, et insieme il signor Ippolito Bargellini, non inferiore di generosità d'animo et di altezza di pensiero a chi si sia, i quali erano vestiti superbamente con calze intiere alla spagnuola, a tagli di cordelle d'oro e d'argento, foderate di tela d'oro ardente, con fiamme rosse, con le facelle di fuoco ardente in mano, cimieri altissimi fabbricati con piume rosse e fiori d'oro, a guisa di lingue di fiamme, che in forma di piramide ascendevano al cielo…„. “Li seguivano due gran Ciclopi ignudi, se non in quanto erano ricoperti vagamente in parte nel petto e nei fianchi da drappi dell'istesso colore del quale erano vestiti i primi; portavano due gran facelle nelle mani accese et pesanti martelli, et avevano un sol grand'occhio in mezzo la fronte; la faccia affumicata e rabbuffati i crini, e barba folta, sicché propriamente parevano Sterope e Bronte che venissero dalla fucina di Volcano e da gli incendii etnei ad accompagnare i cavalieri ardenti„. E tanti altri cavalieri successero che se ne composero squadre e, seguendo il torneo generale, gli eroi, sempre per divergenza d'opinioni intorno il miglior modo d'amare, “incominciarono con li stocchi in tal maniera a ferirsi che fecero impallidire i sembianti ed agghiacciare di gelata paura il cuore a molte di quelle bellissime dame„. Ma a conforto di esse si fé innanzi Amore a comandare tregua e quiete e a dar la sentenza pacificatrice:

Chi cerca, amando e oprando, amore e fama,
Merta il pregio d'Amore e sol ben ama.




V


Può darsi che Bianca Barbazza vivesse parecchi anni rattenuta in onestà dalla trista rimembranza della madre sciagurata, ma alle amiche le quali ne invidiavano la bellezza, ai corteggiatori che non potevano sperare trionfi su lei, a tutta quella società che l'attorniava avida di pettegolezzi e di scandali dové poscia e finalmente recare conforto la voce d'un fatto sicuro: Bianca aveva per amante il marchese Fabio Pepoli e traeva una tresca con lui. Si riferiva il tempo e il luogo de' loro segreti convegni e nelle conversazioni e nei ritrovi si coglievano senza fatica le loro occhiate bramose e i sorrisi e gli accenni; e il Pepoli ardendo di violenta passione non avvertiva di procedere cauto, e la dama o non sapeva frenare l'impeto suo, o cieca anch'essa d'amore gli consentiva senza troppi riguardi. Forse solo il marito poeta non s'adombrava per la solerzia del marchese in servirgli la moglie e si spiegava ogni cosa con la libertà delle “convenienze cavalleresche„; ma i fratelli di lui, cui premeva intatto il “lustro„ della famiglia, osservavano bene e ascoltavano. Però il conte Guido Antonio trovandosi nell'estate del 1621 a certa festa di ballo, alla quale erano pure gli amanti o si discorreva di loro, disse abbastanza alto da essere udito: – Provvederemo! —[27 - Ghiselli, T. XXIV, pag. 567-573. Posidonio e Fr. Maria Tagliaferri, Diario (alla Bibl. Universitaria di Bologna), pag. 51-52; Galeati, Diario, pagina 21.]

I Barbazza non scherzavano e i loro bravi erano usi “di fare all'archibugiate ogni giorno„, onde Fabio Pepoli, messo in guardia, volle prevenire il compimento della minaccia con audace prontezza, e d'accordo con gli amici Aldrovandi, Vizani e Riari il 6 luglio su l'ora di notte venne in piazza san Domenico verso casa Barbazza: il luogo era deserto; solo, un po' lungi dalla porta, Guido Antonio se ne stava al fresco. E su lui precipitarono i giovani cosí all'improvviso che egli non fu in tempo a ritirarsi in casa e dové schermirsi male armato ma con cuor di leone: i colpi piovevano e uno lo feriva al capo; egli indietreggiava urlando, e indietreggiando stramazzò nella chiavica ch'era in mezzo della strada. Cosí fu salvo, perché gli assalitori persuasi d'averlo morto fuggirono e sfuggirono ai fratelli del conte giunti in soccorso. Guido guarí dopo poco della ferita e per attendere a sicura vendetta – ebbe il nome di vendicatore prudente – interruppe il romore dell'accaduto asserendo con tutti di ignorare chi l'avesse aggredito e dando a credere d'essere stato còlto in isbaglio.

Non passarono quattro mesi che Guido Antonio incominciò dal mover questione e dal ferire il conte Filippo Aldrovandi, compagno di Fabio Pepoli nella bella impresa contro di lui[28 - G. B. Guidicini: I Riformatori dello stato di libertà della città di Bologna dal 1394 al 1797, T. III, pag. 47. Il Guidicini trascrisse dal Ghiselli la relazione dell'assassinio del Pepoli; errò ponendo il primo ferimento dell'Aldrovandi al 1620 anzi che al 1621. L'Aldrovandi fu ferito anche da Ugo e Giacinto Barbazza dopo che il Pepoli fu ammazzato da Guido Antonio.]: quanto al Pepoli, come malaccorto, avrebbe finito co 'l farsi egli provocatore. Infatti l'ultimo giorno di gennaio del 1622 in via San Mamolo, dove i cittadini carnescialavano al corso delle maschere, Fabio s'imbatté in Guido Antonio e susurrò qualche cosa all'orecchio d'un amico, né, ad un secondo incontro, disse piano queste parole:

– Conviene che m'imbatta sempre ad incontrare questa razza di b… f…! —

– Quest'è troppo: andiamo! – disse allora il Barbazza a un suo confidente; e l'uno e l'altro furono in due passi a casa a mascherarsi da villani, e armati di terzette tornarono nel corso. Il satellite avrebbe dovuto sparar egli una archibugiata alle spalle del Pepoli quando gli tornasse appresso, ma al momento opportuno gli mancò il coraggio; il conte allora mirò rapido e sí dritto che colpi a morte il marchese; poscia si dileguò tra la folla in confusione per l'accaduto, corse a casa, depose gli abiti di maschera e tornato subito in San Mamolo venne alla farmacia della Pigna, dove giaceva il moribondo, e con voce ferma eppure compassionevole: – Che peccato – esclamò – che questo cavaliere abbia fatto una tal fine! —

Ma tosto Guido Antonio, Astorre, Romeo e Giacinto Barbazza con un loro zio, pei quali tutti oramai spirava mal'aria in Bologna, si nascosero in casa di Giambattista e Aldobrandino Malvezzi, loro fratelli uterini, e con l'aiuto di essi scalarono nella notte le mura della città e si diressero a rifugio in Piemonte. Troppo tardi l'indomani fu per ordine del Cardinal Legato pubblicata una grida che proibiva l'andare in maschera “sotto pena di galera et altre pene„ e furono chiuse le porte della città, ad eccezione di quelle di Strada Maggiore e San Felice, per le quali tuttavia non era concesso d'uscire “senza bollettino, sotto pena della vita„[29 - Galeati, Diario, pag. 21.].

Fabio Pepoli, dopo ventiquattr'ore di strazio, spirava lasciando il dovere di vendicarlo ai fratelli suoi Guido e Giampaolo. I quali pregarono anzi tutto il Granduca di Toscana d'intromettersi ad accertare se i Malvezzi avessero per caso avuto parte nell'assassinio del loro fratello: il Granduca indusse il Legato Ubaldini a raccogliere prove che i Malvezzi non erano colpevoli; poi egli e il cardinale, per amore di pace, fecero giurare a Giambattista e ad Aldobrandino Malvezzi “su l'onore di veri cavalieri„, e il giuramento porre in scrittura di notaio, che “non avevano dato consiglio aiuto e favore alcuno, né con assistenza né con qualsivoglia altro modo ad eseguire l'assassinio di Fabio Pepoli„, e che mai avrebbero porto “consiglio, favore et aiuto ai signori Barbazza„, né avrebbero mai offesi i Pepoli o “tentato d'offenderli né per sé né per mezzo d'altri„[30 - Ghiselli, T. XXIV, luogo cit.]. Ma non giurarono, furbi!, di non aver aiutati i loro parenti a fuggire. I Barbazza scampati alla forca rimasero molti anni alla corte piemontese: Astorre, il quale ebbe su l'anima parecchi delitti, fu condannato a morte in contumacia, ma ottenne poi grazia nel 1659, “in riguardo alla sua grave età„, pagando quattro mila scudi[31 - Galeati, Diario pag. 112.]; e la pace fra le famiglie dei Barbazza e dei Pepoli non fu conchiusa che morti Guido e Giampaolo Pepoli e solo per intromissione dei príncipi di Savoia e di Toscana.

Quant'odio dall'amore di Bianca Bentivoglio!




VI


E quanto misero il retaggio di Bianca Cappello; retaggio di colpe, di sciagure e drammi foschi! Ancora un mistero: la contessa Barbazza nei sette anni che trascorsero fra la morte del Pepoli e la sua morte, quetò forse, per sconcia avidità dei sensi, ricordi e rimorsi in nuovi amori, finché la frenò e a poco a poco l'uccise il veleno propinatole dai congiunti, o piú tosto patí ella sette anni interi, da prima la cupa fantasia rinnovandole giorno a giorno lo strazio di quella scena – a un colpo d'archibugio l'uomo amato cadere sanguinante e dolorare e gemere tra una folla di maschere – e poi, di pari, consumandola giorno a giorno la corrosione lenta della tisi, se non del veleno e della vendetta maritale? – “Il 15 ottobre 1629 morí Bianca Bentivoglio Barbazza d'una lunghissima e penosissima infermità, che a poco a poco l'andò struggendo; e non fu chi non dubitasse che non le fosse stato dato il diamante a causa della corrispondenza col marchese Fabio Pepoli„[32 - Ghiselli, T. XXVI.].

Troppo lasso di tempo sembra che fosse tra l'offesa e il castigo; ma pure un fatto aggraverebbe sopra Andrea Barbazza il sospetto di uxoricidio: egli compose e pubblicò una canzone, una canzone di ventinove stanze, in morte di sua moglie[33 - Canzone del Sig. Cav. Andrea Senatore Barbazza in morte della Contessa Bianca Bentivoglio defonta li 29 ottobre 1629: ms. nella Bibl. Com. di Bol. – A stampa: Bologna, 1631: in-4.].

Da sí vasto ocean d'amari affanni
Ov'ondeggio caduto,
Deh! chi recando aiuto
Sia che mi tragga a riva? E chi consola
Naufrago il cor tra le miserie e i danni?
So ben che morte sola
Può dar fine al martir, posa al cordoglio,
Ma sol per piú morir, morir non voglio…

E nel secentesimo di questi e di quest'altri versi sarebbe bastevole e facile prova di ipocrisia e di mal tentato inganno:

Quando l'alma di lei che 'l Ciel mi diede
Dal casto vel si sciolse
E 'l Ciel se la ritolse,
Privo restai de l'anima e del core,
Orbo di gioie e d'aspre cure erede;
Ond'è solo il dolore
Che mi sostiene e serba il petto vivo,
Benché de l'alma io sia vedovo e privo…

Se non che seguono altri versi per cui converrebbe supporre nel cavaliere Barbazza una perversa sottigliezza a coprire il suo delitto. Egli lamenta in un punto:

Vidi…
… la beltà che tanto amai
Farsi preda a maligno
Umor, che di sanguigno
Foco sparse il bel volto e del bel petto
Tinse il candore, e chiuse agli occhi i rai
In cui visse il diletto
E col diletto Amor, ch'ha per fortuna
D'aver la tomba ov'ebbe in pria la cuna…;

No! Io sono docile alla commozione della poesia; io odio la malignità nella storia; io credo al diarista Galeati: “Il 29 ottobre 1629 (data certa) morí l'illustrissima signora contessa Bianca del conte Ulisse Bentivogli, di febbre etica„. E con pena sincera do fede a un povero marito che si duole, privo degli occhi languidi consolatori e preganti consolazione della sua moglie soave, cosí:

Quegli occhi, dico, a me sí dolci e cari,
Ch'ancor nel duol sepolti
In me vidi rivolti.
Quasi ad uopo maggior languidi e mesti
Pietà chiedendo in muti accenti amari…

Pietà! – gli aveva chiesto Bianca con i brividi del malore e del rimorso; ed Andrea le aveva perdonato, son certo, con gentile misericordia di poeta; né, lei seppellita, poté forse resistere a non piangere piú volte nella chiesa del Corpus Domini e a pregare spesso Santa Caterina de' Vigri, vicino al cui corpo incorrotto è la tomba dei Bentivoglio, che Iddio lo ricongiungesse alla pallida e tremula fiammella della sua Bianca.

Canzone, imponi al canto, al pianto freno:
Ben so ch'a me non lice
La mia cara Euridice
D'indi ritorre ove beata splende,
Ch'ivi affanno non ha di duol terreno.
Ma lieto amor l'accende
Che 'n Dio la stringe e con devoto zelo
Fa che m'inviti a rimirarla in Cielo.

Affettuoso uomo fu Andrea Barbazza: tanto vero, che per il bene che egli volle alla sua nuora impudica, Settimia Mandoni, le male lingue asserirono ottenesse il senatorato ed altri uffici mercè i favori di lei[34 - Guidicini, op. cit., pag. 52.]tanto vero, che a sessantasei anni s'accese di Silvia Boccaferri, la quale egli, rimasto vedovo quasi vent'anni di Bianca Bentivogli, sposò in Santo Stefano il 30 maggio del 1648.




GREGORIO LETI SPIRITO SATIRICO





I


Non fu tutto merito e tutta colpa dello zio vicario se Gregorio di giovane scapestrato divenne uomo d'austeri costumi; d'incredulo cattolico fidente calvinista e di fanullone uno scrittore fecondissimo. Già nella fanciullezza e giovinezza prima troppo l'avevano fatto digiunare e dir pater nostere servir messe e baciar mani sporche di preti e di frati quelle due figure paurose del padre Merenda e di Don Grassi. Poiché da sua madre, Isabella Lampugnani, rimasta vedova di Geronimo Leti governatore d'Antea, era stato posto nel 1639 alla scuola de' gesuiti di Cosenza, ed egli, irrequieto scolaro e incomposto chiericuzzo, era cresciuto dai nove fino quasi ai vent'anni con l'oppressione e il fastidio addosso del Grassi per custode e del Merenda per precettore: tanta oppressione e tale fastidio che quando gli morí la madre e passò in Roma alla tutela dello zio don Augusto, “non poteva piú vedere né chiese né sacerdoti„[35 - Gregorio Leti: Lettere sopra differenti materie (Amsterdam, 1700: in-8) T. I, 30. – Una volta per sempre: Moreri, Dizionario; Niceron, MémoiresT. II, pag. 359-379.].

Lo zio, il quale era un po' petulante, sí, ma in fondo un'ottima pasta d'uomo, e vagheggiava pe 'l nipote la fortuna medesima ch'egli aveva avuta nella prelatura, avvedendosene, con che sbigottimento s'imagini!, pensò dargli a maestro e guida di coscienza quello sciocco del suo cappellano; Non l'avesse mai fatto! Il cappellano si mise a mortificare Gregorio nelle confessioni frequenti e a gravarlo di sbadigliati digiuni e rabbiose recitazioni d'offici, e Gregorio, caduto dalla padella nelle bracie, prese con maggiore ardire a ridere per le strade in faccia ai preti e per le chiese ai santi; a dire qualche porcheriòla; a leggere libri proibiti e ad accarezzare le ragazze. Per dire la verità, che colpa avea lui se le donne vedendolo “fresco, sano, robusto e ben fatto della persona„, gli volgevano occhiate lusingatrici e se egli, piú tosto che ad attendere i beni del sacerdozio, si sentiva “inclinato a godere la dolcezza del maritaggio?„ Basta; còlta un giorno nella chiesa vescovile una bella e docile giovinetta e trattala pudicamente dietro un banco le diede solo sette baci, e poi, cosí per gioco, s'andò a confessare dal cappellano; e questi in penitenza gli ingiunse su 'l serio “di mangiare o almeno ben masticare sette fila di paglia della lunghezza ciascuna di un piede, per causa che la confessione portava sette baci„.[36 - G. L. Lettere, T. I, 32.]Era dunque l'esorbitanza d'una ridicola e proterva severità, e Gregorio stucco e ristucco piantò lo zio e si recò a Milano dai parenti della madre, presso cui stette due anni.

Ma pur troppo don Augusto Leti saliva rapido la scala degli uffici ecclesiastici, e divenuto vicario d'Orvieto con in vista la nomina a vescovo, volle ancora il nipote con sé.

Lo riebbe infatti, e cominciò ad esortarlo con paterna dolcezza che, non avendo beni sufficenti per vivere gentiluomo, si facesse prete o alla peggio soldato, e onorasse la famiglia nella maniera di suo padre. Gregorio scuoteva la testa: Né armi né brevario! Piú tosto medico o legale; ma lo zio vicario, che con ragione aveva poca fede nella scienza e nella legge umana, scuoteva egli pure il capo sospirando e scongiurando Iddio, e alla fine lasciò Gregorio libero di sé e della roba sua: chi avrebbe potuto frenarlo?

Il giovinotto lieto e avventato come un puledro che si senta le briglie su 'l collo, vagò alcun tempo per l'Italia e sprecò gran parte dei quattrini lasciatigli dalla madre; indi, com'era naturale, fece ritorno allo zio già vescovo in Acquapendente, che l'accolse tuttavia con bontà e con speranza di rimetterlo per la strada buona. Ma in Gregorio non c'era solo lo scapato, c'era l'incredulo, e che guajo per monsignor vescovo avere un nipote il quale non voleva piú comunicarsi!

– Gregorio, Gregorio – gli diceva – : se tu non pigli altra strada, o che tu morrai eretico, o che sarai processato in qualche inquisizione! —[37 - Lettere cit., T. I, 21.]

Quand'ecco un giorno di settembre del 1658 monsignor vescovo cerca il nipote e non lo trova; e una giovine, Antonia Ferretti, che il nipote di monsignore aveva fatta uscire di monastero con promessa di matrimonio, cerca l'amante e non lo trova: né lo zio seppe piú nulla di lui fino a che apprese ch'egli si perdeva in Bologna nell'amore d'una cantatrice; né la fidanzata ebbe piú altra notizia di lui fino al dí in cui le fu detto ch'egli era a Ginevra calvinista e ammogliato! Tutto vero; perché da Acquapendente Gregorio era corso ancora qua e là in cerca di vita allegra, e venuto a Bologna con la cantante e compiute chi sa quali pazzie, aveva poi considerato seco medesimo come seguitando di tal passo avrebbe in poco tempo dato fondo a quel po' di roba che gli rimaneva, e come il meglio gli sarebbe stato recarsi a Parigi per cercarvi fortuna alla corte. Cosí postosi subito in viaggio e giunto a Valenza, vi aveva ottenuta la protezione del marchese di Valavoir generale dell'armi francesi in Italia; s'era inteso con un capitano ugonotto a rilevare i mali della Chiesa di Roma, e poscia s'era invaghito di portarsi a Ginevra, luogo di paradiso per la libertà del governo e per la rettitudine del calvinismo che vi si professava. Rimasto a Ginevra alcuni mesi dopo fatta l'abiura e passato a Losanna, qua aveva stretta amicizia co 'l celebre medico Guerin, padre d'una ragazza bellissima diciottenne; e come il medico filosofo l'innamorava sempre piú della riforma, egli pian pianino innamorava di sé la figliuola di lui, la quale presa in moglie tre mesi dopo, s'era ricondotto in Ginevra.

Appena fu risaputo ch'egli abitava in quel covo di eretici, il povero zio e la povera Ferretti gli scrissero amorosamente che tornasse.





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notes



1


Masuccio Salernitano, novella XXI.




2


Novelle degli Accademici Incogniti: par. II, nov. prima.




3


Ant Fr. Ghiselli, Memorie di Bologna antica, manos. nella R. Bibl. Univ. di Bologna: T. XVI, all'anno 1579 (23 giugno).




4


Idem, anno 1576 (24 agosto). – Pellegrina era nata il 23 luglio 1564 (Cicogna, Iscrizioni veneziane, T. II, p. 211): andò dunque sposa un mese piú che dodicenne.




5


Rinieri, Diario (alla Bibl. Comunale di Bologna).




6


Ghis., T. XVII, anno 1583 (23 decem.); '84 (14 aprile), e T. XVIII, pagina 507.




7


Ghis., T. XVIII, 1588 (pagina 547 e seg.).




8


Firenze, Marescotti, 1581: in-8. Il Verino, “dottore ordinario e lettor pubblico della filosofia e cittadino fiorentino„, dedicò anche ad Ulisse Bentivogli una sua Lezione dove si ragiona delle idee et delle bellezze.




9


Il Ballarino di m. Fabrizio Caroso, diviso in due trattati, Venezia, Ziletti, 1681.




10


Pref. alle Rime, par. III: Bologna, Vit. Benacci, 1590: in-12.




11


Ghis., T. XX, 16 agosto 1595.




12


Cito il mio libro Romanzieri e romanzi del cinquecento e del seicento, avvertendo il lettore che ne scrisse assai male il noto critico Zannoni nel fasc. XXIV della Nuova Antologia (1891), pag. 781-783. – Delle persone mascherate nella Fuggitiva diedero i nomi veri il Ghiselli, il Mazzucchelli, il Giordani ed altri, ma non furono concordi a determinare quello dell'amante piú fortunato di Pellegrina: che fosse Fl. Malvezzi dice il Montefani (Spoglio delle famiglie bolognesi, ms. nella R. Bibl. di Bologna), fam. Bentivoglio. – L'anno della morte di Pellegrina cercai inutilmente nelle memorie e nei diari bolognesi. Il cavalier Saltini, a cui mi rivolsi e a cui debbo grazie, suppone come probabile il 1598 (estate) ed io tengo certa questa data, per piú ragioni che sarebbe troppo lungo dichiarare. È curioso che il marito e i figli della Bonaventura “adirono„ all'eredità de' beni di lei soltanto il 22 maggio 1615: ma forse fu perché si sopisse il ricordo della sua fine. Infatti il notaio che redasse il rogito non sapeva pur egli la data della morte di Pellegrina e scriveva: “… cum multis annis iam elapsis ab intestato decesserit Ill. et Ecell. dona Peregrina De Bonaventura et de Capellis…„ (Scritture della fam. Bentivoglio: Archivio di Stato di Bologna).




13


Ghiselli, op. cit., T. XXVI.




14


Montefani, Fam. Malvezzi.




15


Galeati, Diario (Bibl. Com. di Bologna), all'11 maggio 1618; Ghiselli, T. XXII, al 23 dicem. 1611.




16


Galeati, op. cit.




17


Del Barbazza letterato e poeta e accademico Gelato, Incognito, della Notte, etc., dissero anche troppo il Fantuzzi (Scrittori bolognesi), il Mazzucchelli, l'Aprosio (Biblioteca, 1673, pag. 324-329); io, per il breve mio studio, credo d'aver detto abbastanza pur essendomi dimenticato di ricordare che il Barbazza fu anche autore d'un dramma – Il Ratto di Proserpina – recitato a Bologna nel 1640. Dimenticanza grave!




18


Lett. del Marini, ediz. 1673, pag. 269.




19


Vedi il Mazzucchelli e l'Aprosio (Biblioteca, pag. 324); e per le relazioni tra il Marini e il Barbazza, il Menghini, Vita e opere di G. B. Marini (Roma, 1888).




20


Spira, appresso Henrico Starckio, MDCXXIX, in-12. Ma non Roberto, Robusto Pogommega. Errore gravissimo!




21


Galeati, Diar. (Appendice I, pag. 8); Ant. Maria Carati, Li matrimoni contratti in Bologna, fedelmente estratti da' loro originali parrocchiali, T. I (ms. alla Bibl. Com. di Bologna). – Bianca ebbe in dote 40000 scudi.




22


Fra gli Epitalami del Marini.




23


Ghiselli, T. XXII, p. 525-529.




24


Ghiselli, T. XVIII, pag. 370 e seg.




25


Malvasia, Felsina Pittrice, p. IV, pag. 42.




26


Ghiselli, T. XXIII, pag. 462-579. A stampa: Breve descrizione della festa nella gran sala del Sig. Podestà l'anno 1615, il dí 2 di marzo: Bologna, Stamperia Camerale.




27


Ghiselli, T. XXIV, pag. 567-573. Posidonio e Fr. Maria Tagliaferri, Diario (alla Bibl. Universitaria di Bologna), pag. 51-52; Galeati, Diario, pagina 21.




28


G. B. Guidicini: I Riformatori dello stato di libertà della città di Bologna dal 1394 al 1797, T. III, pag. 47. Il Guidicini trascrisse dal Ghiselli la relazione dell'assassinio del Pepoli; errò ponendo il primo ferimento dell'Aldrovandi al 1620 anzi che al 1621. L'Aldrovandi fu ferito anche da Ugo e Giacinto Barbazza dopo che il Pepoli fu ammazzato da Guido Antonio.




29


Galeati, Diario, pag. 21.




30


Ghiselli, T. XXIV, luogo cit.




31


Galeati, Diario pag. 112.




32


Ghiselli, T. XXVI.




33


Canzone del Sig. Cav. Andrea Senatore Barbazza in morte della Contessa Bianca Bentivoglio defonta li 29 ottobre 1629: ms. nella Bibl. Com. di Bol. – A stampa: Bologna, 1631: in-4.




34


Guidicini, op. cit., pag. 52.




35


Gregorio Leti: Lettere sopra differenti materie (Amsterdam, 1700: in-8) T. I, 30. – Una volta per sempre: Moreri, Dizionario; Niceron, MémoiresT. II, pag. 359-379.




36


G. L. Lettere, T. I, 32.




37


Lettere cit., T. I, 21.



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