Книга - Vecchie storie d’amore

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Vecchie storie d'amore
Adolfo Albertazzi






Vecchie storie d'amore





Le passioni umane non mutano: mutano i costumi e le attitudini dello spirito nelle passioni e le sembianze dei fatti umani. A questo intesi. Per questo divagai con fantasia indulgente in quella che mi parve verità di costumi e della vita senza timore di riuscire un novellista immorale.

E mando il libro a chi, se n'udrà lode non di volgo, penserà sorridendo: io volli che fosse scritto.

    A. A.



Mantova, 15 febbraio 1895.





I





«Con donne si dee contare di cose d'allegrezza e di cortesia e d'amore…»





IL VALLETTO OSTINATO


Il castellano di Ripalta s'era allevato con amore un valletto di nome Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare, attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Né di quel bene del sire pe 'l valletto ingelosiva madonna Ginevra, poiché la giovinezza di lei fioriva sterile ed il ragazzo, tenuto quasi in conto di figlio, le risparmiava i rimbrotti del marito.

Madonna viveva lieta; e l'amore del marito, le cacce e il conversare colle sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e solitaria del castello non meno che le faccende casalinghe cui essa accudiva umilmente, con fanciullesca mutabilità. Cosí, come rideva quando le galline, che al solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano dietro, si disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che gettava loro, rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o adombrato, o se nell'arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo strappo il rattoppo: mentre cuciva presso la finestra dalla quale scorgeva l'ampio paesaggio a basso e d'intorno, ella cantava e i villani, giú nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della sua bella voce.

Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi, quantunque fosse anche temuta perché gli occhi del sire vedevano tutto con gli occhi di lei e perché ogni capriccio di lei diventava la volontà del sire: solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro, e quando fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato e mesto; ond'ella finiva con immergergli le dita tra i capelli folti, per ridere. Ugo allora si divincolava e la guardava in un'occhiata.

Veramente molte cose erano permesse ad Ugo: poteva arrampicarsi su per gli alberi dell'orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le piú strane burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero che gli minacciava un pugno; poteva spiare, dietro una porta, l'ancella che si stava spogliando; ché, accusato alla padrona, la padrona rideva, e accusato al padrone, il padrone taceva.

Ma quand'ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare costume, e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinché nessuno, neppure madonna Ginevra, lo considerasse ancora un ragazzo. E Ugo sentiva egli stesso mutarsi; sentiva una smania di cose nuove, d'altri svaghi, d'altri luoghi, d'altri pensieri, mentre la vita e la natura che fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute e gli suscitavano sensazioni nuove. E mentre la forza sensuale si sviluppava in lui e per l'istintiva penetrazione della pubescenza egli imparava da tutta la natura il segreto dell'amore umano, quel desiderio peranche indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e tenerezza. Amava, già amava, e non sapeva chi amasse e non sapeva d'amare.

Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e sotto la sferza del sole il mondo dormiva un sonno mortale) Ugo a un tratto udí cantare lontana e dall'alto, simile ad un'allodola, madonna Ginevra; e a un tratto l'imagine incerta del suo desiderio e de' suoi sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna Ginevra!

La sera nel porgere, avanti cena, l'acqua alle mani della padrona, al valletto tremavano le mani; ed egli se n'accorse, ma non chinò lo sguardo perché egli amava da uomo; senza paura, amava, e senza vergogna.

Quante consolazioni nell'avvenire la sua mente innamorata ebbe allora da fantasticare! E secondando i ricordi delle storie, che gli avevano raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro dame, e invidiando a sé stesso i pochi anni che gli mancavano alla piena giovinezza, s'imaginava vincitore di tornei in cui madonna l'assisteva sorridendo, o difensore e salvatore di madonna Ginevra in un notturno assalto di nemici.

Per altro, quell'ardore e il compiacimento di quell'ardore patirono presto il freddo dell'ignara incuranza di madonna, la quale aveva due grand'occhi solo per vedere, non per osservare; e poiché egli non fallava piú, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva neppur piú ragione d'immergergli le dita tra i capelli.

Sino a quando la dama avrebbe ignorate le sue pene?

Co 'l volgere dei mesi l'affetto di lui s'andò come condensando a modi piú virili, di guisa che la sua fantasia ubbidendo ai richiami e cedendo agli impeti dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della gioventú, l'abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali e le gioie della colpa: a poco a poco egli perdette la baldanza, il coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne scoprisse il segreto e l'intenzione. – Passarono dei mesi; passò un anno. Ma quanto piú gli diminuiva la speranza, tanto piú cresceva in lui la bramosia di essere presto soddisfatto.

Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua bella fioritura. E come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! – Il desiderio sensuale, non piú vago e dimesso ma deciso e tempestoso, affaticava l'animo del valletto non piú riposato nei primi propositi; e il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno insufficiente e un'attesa intollerabile. Già si sentiva morire d'amore; avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione pietosa e sconsolata.

Un mattino, montando il suo cavallo migliore e seguito da scudieri in nuove vesti, il sire di Ripalta partí per un torneo. Quantunque era quello il giorno aspettato dal valletto con penoso e lungo desiderio, tuttavia appena il sire fu scomparso al basso del colle tra le macchie, egli, nell'imminenza della sua felicità se l'assistesse la fortuna, o del suo ultimo malanno se madonna non volesse ascoltarlo o mancasse a lui il coraggio d'ottenere ascolto, provò un turbamento grande di paura. Pensava: «Prima di notte le dirò tutto. Le dirò il bene che le voglio. Ma come comincerò?»

E il sole cadeva ch'egli non aveva ancora trovato il modo acconcio per incominciare. Ma quando, a sera, s'accorse che la padrona era entrata nelle sue stanze, non piú dubitando salí, s'introdusse guardingo, spinse francamente quella porta.

Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po' discinta, sedeva su la cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo e componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: – Vieni, vieni. Che vuoi? Ad Ugo, rinfrancato, venne súbito in mente la dimanda che s'era proposto di far dopo e raccolto che ebbe il fiato bastevole a non restare a mezzo: – Madonna – chiese – , se chierico o cavaliere, borghese o valletto, non importa chi, amasse da gran tempo una bella donna, damigella o dama, contessa o regina, non importa chi, e non avesse cuore di dirglielo, sarebbe savio o stolto?

La dimanda piacque a madonna, lieta nonostante l'assenza del marito, e per burlarsi del ragazzo gli rispose: – Sarebbe stolto. Anche un valletto, purché fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n'avrebbe almeno almeno compassione.

Ugo con tutta l'anima bevve le parole buone ed esclamò: – Madonna Ginevra, ecco colui! Colui sono io! Quanto ho patito per voi! Aiutatemi, madonna!

La dama non rise; non credé che il ragazzo volesse burlarsi egli di lei perché gli scorse la passione in faccia, e indispettita d'essersi lasciata cogliere e offesa dall'audacia del valletto, gli gridò: – Ah, ma tu sei matto! Che vai cicalando con le tue fole? Che so io de' tuoi amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa t'ho risposto? Vattene, vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene!

Stordito, gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse; pure, nel tumulto della mente, ebbe forza di cercare in un'idea la suprema invocazione alla pietà della dama, l'affermazione estrema del suo amore e una minaccia quasi di vendetta all'acerbità di lei, e disse: – Voi mi sgridate cosí e la colpa è vostra, che m'avete ferito cosí. Perché non mi uccidete? In fe' di Dio, io non mangerò piú finché non mi avrete accontentato; – e con un'angoscia che pareva lo strozzasse uscí di là.

Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che cosa gli è venuto in mente a quel ragazzo?»; e, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripeté: «Che cosa gli è venuto in mente?»; poi si distese sotto le lenzuola e, come il marito era lontano, s'addormentò senz'altro pensiero, co 'l riso su le labbra.

Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello, per non piangere si dimenò a lungo per il letto e non riuscí a chiudere occhio prima d'essersi convinto che la prova la quale si era imposta era degna d'un cavaliere innamorato, se era prova che gli metteva in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica e quasi pena a riandare il fatto della sera innanzi; capí d'aver commessa un'imprudenza; credé fino d'aver commesso un grosso errore, fino un'azione puerile; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che guisa comparire al cospetto di madonna? E l'amore gli dié ragione; gli rinfocolò la fantasia; gli fece parere eroica la deliberazione presa. Né si levò da letto; e quando furono a cercarlo disse: – Ho un gran peso qua – e segnava lo stomaco – ; non posso piú mangiare.

Il giorno dopo madonna chiese del valletto. – Non ingola nulla – risposero; né egli cedette ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo dí una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che faceva voglia, e un'altra un ovo ancora caldo, ma egli chiudeva gli occhi e rifiutava; e anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d'uva primiticcia con acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina, tra altri ancora rossi ed in agresto. Egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo respinse.

Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre egli ordinava alcune cose per la stanza, quasi fra sé, disse:

– Tornerà il sire; ma non staremo allegri.

– Perché? – chiese con simulata indifferenza la padrona.

Rispose l'altro: – Ugo morirà: non gli va giú un granello d'uva.

Madonna Ginevra arrossí; si levò, e si recò alla cameruccia del valletto.

Stava il valletto con le pálpebre abbassate perché nel languore dell'inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso stanco e smorto smorto. Trasalí ai passi leggeri di madonna, riconoscendola.

– Valletto Ugo, dormi? – ella chiese dolcemente. Egli disse: – Per Dio, madonna, abbiate mercede di me!

A che essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: – Da me non avrai mai grazia nella maniera che domandi. Questa è la tua ricompensa al bene che ti vuole il sire? È questo l'amore che gli porti? Tornerà…

– Oh se tornasse! – sospirò Ugo, insensato piú che ardito.

E la dama: – Tornerà e s'arrabbierà, e ti romperà le ossa!

– Ma non mangerò – conchiuse Ugo.

La dama uscí co 'l proposito di dire ogni cosa al marito a pena fosse giunto; se non che, mentre cuciva, cominciò a temere che egli la rimproverasse d'avere tentata per capriccio e accarezzata in qualche modo la folle passione del valletto: e a nascondergli la verità non la rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e con premure? Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi, quand'ecco s'udí il corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano arrivava in compagnia di piú ospiti.

«Chi sa – rifletté madonna Ginevra – che a vedere il padrone non lo domi la vergogna? Indurrò il sire a impaurirlo.» E quando nel tinello, dove su la tavola, imbandita co 'l piú ricco vasellame, fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie disse a lui: – È a letto da tre giorni, e non vuole piú toccar cibo. Provatevi voi a rimettergli il giudizio.

Il marito volle andare a vederlo, ed essa lo seguí.

– Che hai? – domandò il sire entrando.

Ugo rispose: – Un peso qua, alla bocca dello stomaco; e non mi va giú niente.

– Non è vero! – ribatté súbito la dama. – Non è vero! Per il male che ha potrebbe mangiare. – Poi rivolta ad Ugo disse: – Ora io dirò al sire perché digiuni da tre giorni. Mangerai?

– Voi potrete ben dire. Io non mangerò – rispose quegli che raccoglieva gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque quella risposta cosí franca e cui dava sospetto l'aria misteriosa della moglie, già incolpava la moglie d'alcun torto verso Ugo. Ma Ginevra aggiunse:

– Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi spogliavo… – ; onde il sire capí come il torto era proprio del ragazzo e – Perché? – le domandò impaziente. E la dama in vece tornò a chiedere al valletto: – Mangerai?

Il valletto, che era risoluto di morire, negò co 'l capo, sospirando. – Io mi spogliavo – proseguí la dama – e lui venne da me, tutto strano, a domandarmi Imaginate!

– Insomma! – fece il sire.

– Mangerai? – ripeté la dama per l'ultima volta; e per l'ultima volta – No! – ripeté forte Ugo che teneva fissi gli occhi negli occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva: – Mi richiese…; – ma il marito senza piú badarle, come nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera scosse il braccio del valletto e gli gridò bieco: – Che cosa le chiedesti?

Ugo tacque. Da' suoi occhi traspariva una volontà virile che l'amore rendeva ineluttabile: disperato amore, piú forte della morte; e madonna Ginevra ammirando tale fermezza minacciosa insieme e supplichevole e temendo a un punto stesso per sé e pe 'l valletto l'ira del marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà, dall'ammirazione e forse dall'amore (quel ragazzo era un bel giovane) concepí un'idea provvida e sagace.

– Mi chiese – rispose ella – il vostro falcone pellegrino, che non dareste né a conte, né a principe, né ad amico; e, per averlo, s'è impuntato a digiunare.

Alle parole della donna il credulo marito contenne l'ira; anzi rise e disse: – Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia. Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. – Ed uscí.

Ma la donna prima d'andarsene si fece piú presso ad Ugo, che la speranza aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:

– Già che il sire ti vuol contento, anch'io ti vorrò contento. – E meglio che con le parole promise sorridendo con uno sguardo lungo e tenero come una carezza.

Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.




IL LEARDO





I


Nella notte, tra 'l gracidare delle rane e lo stridere dei grilli, gli amanti, che la fossa divideva, mescevano brame molte e piú promesse in lieve suono di parole, come di sospiri.

Essa stava a una finestra del castello; egli di qua dalla fossa, al margine ultimo. Cosí ogni notte, perché ser Lapo, l'avaro signore del Farneto, non consentiva l'amore della figlia con quel povero cavaliere che era Raimondo di Santelmo; e all'albeggiare Raimondo inforcava il suo fido e bel leardo, e Giovanna lo accompagnava con gli occhi intenti finché egli spariva per il bosco.

La boscaglia in quell'ora si svegliava e l'indefinita letizia della vita universale al far del giorno invadeva l'animo del cavaliere co 'l canto degli uccelli, l'odore delle erbe e degli alberi, la frescura dell'aria: sussurravano le foglie, stormivano le rame, cinguettavano le passere, chioccolavano i merli, strillavano le gazze: murmuri, palpiti, fremiti; voci e canti ed inni: un inno concorde e solenne di gioia e di grazie della natura universa al sole ed all'amore.

Il cavaliere non affrettava il cavallo. E le sembianze dell'amata, mal certe al suo sguardo durante il colloquio, allora gli s'avvivavano nell'imaginativa sí che rivedeva piú bella la donna; le parole di lei risonavano al suo orecchio piú dolci e piú distinte e, come voleva la letizia dell'ora, egli, che di lei non aveva per anche tócca una mano, ne sognava l'intero possesso con ingannevole gaudio. – Oh le morbide guance di rosa e le carni gigliate e fresche!

Ma la notte, traversando la boscaglia alla volta di Farneto, un'ambascia grave gli pesava su l'animo, e quanto piú disperava di un lieto fine al suo amore tanto piú ardeva dal desiderio di rivedere almeno e di riudire Giovanna cosí, di furto, la notte. E mentre cercava tra le fronde spesse la vista delle stelle, scorgeva delle ombre nere che passavano tra i rami dei cerri e delle querce: delle streghe, che l'accompagnavano con mala intenzione, male augurando, sommessamente, al suo povero amore; sommessamente.

Egli rideva forte, e gli avessero pure additato, le streghe, la chiocciola d'oro dai pulcini tutti d'oro, la quale, al dire della gente, si trovava dentro il bosco, ch'egli avrebbe ben saputo rapirgliela, al demonio!

Poi con desiderio intenso e disperato di Giovanna affrettava il leardo per un sentiero che era segnato dalle sole orme del leardo e che lo guidava al suo amore piú presto e di nascosto.




II


Giovanna del Farneto tanto desiderava per marito Raimondo di Santelmo quanto questi desiderava lei per moglie; e se Raimondo si doleva della sua sorte e minacciava di penetrare nel castello, essa, per gran paura che le fosse ucciso (giorno e notte vigilavano le guardie a custodia del ponte: fonda e larga era la fossa, alta la cinta e ferrate le finestre) gli si prometteva ancora e gli si raccomandava di fidare in lei. Poi una notte lo consigliò cosí:

– Mio padre non vuol maritarmi a voi perché non siete ricco; vorrebbe se quel vostro zio di Monveglio vi donasse delle sue terre: andate dunque dallo zio a pregarlo che finga donarvi delle sue terre, e noi, sposati che saremo, gliele renderemo secondo patto giurato e stipulato. – Piacque il consiglio al cavaliere, il quale, il dí appresso, cavalcò alla volta di Monveglio.

Vi giunse che era tardi, e trovò lo zio molto lieto, come uno che ha cenato bene e cenando ha bevuto vino buono, di quello che rischiara la mente, ravviva lo spirito e intenerisce il core.

– Che volete, mio bel nipote? – domandò. E intesa la richiesta, rispose súbito: – Sí sí, faremo questo patto; e parlerò io a ser Lapo del Farneto, che m'è vecchio amico. – Poi strizzando gli occhi: – Ma di' – chiese – , è molto bella la figliola di ser Lapo?

Raimondo rispose: – Innamorai di lei per udita, e quando la vidi non me ne pentii. Voi la vedrete.




III


Mentre ser Lapo del Farneto numerava delle monete lucenti, che sembravano esser state battute allora allora, e accarezzandole cogli occhi le ammucchiava su la tavola, uno scudiero avvertí la scolta che il signore di Monveglio veniva a trovare il castellano. All'annuncio messer Lapo si alzò puntando le mani sui bracciali del seggiolone, e con quanta fretta gli era consentita dalle deboli forze e dai malanni che gli intorpidivano le membra ripose il tesoro nella cassapanca e diede l'ordine: – Ben venga il vecchio amico!

I due, in rivedersi dopo tanti anni, dissimularono entrambi la sorpresa di un sentimento maligno: d'invidia il signore di Farneto perché egli, scarno, smorto e male in gambe, scorse rubesto, rubizzo e grasso quello di Monveglio; di gioia questi per confronto del suo stato con quello dell'amico. Ma Lapo chiamò la figliola, bramoso che l'altro gli invidiasse almeno un bene ch'egli non aveva; e il signore di Monveglio, vedendo la bella giovane, con gli occhi gaudenti ne scoprí le carni gigliate e fresche; sentí di essa una súbita concupiscenza; dimenticò il nipote e quindi lo ricordò, ma per tradirlo.

– Voi avete una fortuna, che non ho io – disse a ser Lapo quando Giovanna fu uscita. – Che mi valgono i quattrini a me? – Indi chiese: – La maritate?

Arcigno in viso, con tonò aspro, ser Lapo rispose: – Essa è bella, savia e d'alto lignaggio: a chi volete che la dia? – E si dolse del tempo presente, quando non era piú cavaliere degno di sua figlia. – Ma io – aggiunse l'avaro – , non voglio dotarla prima di morire.

Allora parlò il signore di Monveglio, e parlò in guisa che l'altro lo comprese disposto a prendere una moglie senza dote. – Ma non sono piú giovane – lamentava il signore di Monveglio.

– Mia figlia è savia – ribatté ser Lapo. E fu conchiuso il parentado.

Durante la cena i vecchi amici discorsero della loro giovinezza, ilare e rubicondo l'uno, l'altro sempre scuro e sempre astioso. Neppure a ripensare la letizia della sua giovinezza ser Lapo poteva ridere, quasi una colpa o sciagura della virilità amareggiandogli la vecchiaia piena d'acciacchi lo rimordesse fino d'essere stato giovane. Pure dimandava anch'egli – Vi ricordate? – , e narrava bei fatti anch'egli: i due vecchi narravano fatti di liberalità e di cortesia e biasimavano il tempo presente. Ma di quei due uno era traditore e l'avaro, l'altro, era di tale coscienza che non rideva mai.

Questi, dopo la cena, chiamò la figliola e – Sei sposa – le disse; e accennando all'amico: – Messere è il tuo sposo – ; e quegli stringendo la mano della giovane timida e confusa non sentí quant'era fredda.




IV


Corse la fama che la bella Giovanna del Farneto andava in moglie al vecchio sire di Monveglio; e la gente compiangendo la donzella ne ignorava tutta la sventura, ignorava che il suo dolore era quale il segreto dolore di Raimondo di Santelmo.

Le nozze s'annunciavano magnifiche. A un'abbazia a mezza strada tra Monveglio ed il Farneto, alla quale d'ogni parte dovevano convenire i parentadi degli sposi, si sarebbe celebrato il matrimonio una mattina presto; e messer Lapo, che non poteva girare e cavalcare, avrebbe attesi gli sposi nel castello al convito delle nozze.

Magnifiche le nozze; ma neppure la solenne circostanza fece liberale messer Lapo, e per non spendere nei cavalli che recassero le parenti e i servi di scorta alla figliuola, egli mandò attorno qua e là a domandarne in prestito. Di che avuta notizia Raimondo di Santelmo desiderò che il suo buon leardo, già ignaro testimone del suo amore lungo e sfortunato, fosse testimone a Giovanna anche del dolore e della fede sua richiamandole il ricordo di lui per ogni passo del cammino doloroso; e inviò un valletto a chiedere di grazia a messer Lapo che disponesse a palafreno della sposa il suo cavallo. – È quieto – disse il valletto – e la porterà soavemente.

Messer Lapo acconsentí. E la mattina delle nozze, quando avanti giorno le fantesche vestivano la povera Giovanna e gli scudieri allestivano gli altri cavalli per la compagnia, e in tutto il castello era un affaccendarsi rumoroso e gaio, il leardo fu condotto da Santelmo. Al lume dei torchi, per la finestra della sua stanza, messer Lapo vide partire la compagnia, e guardò a lungo la figliola, la quale gli parve bella e bene adorna; ma non porse attenzione a come fosse bello e bene adorno anche il leardo che la portava ambiante, dolcemente.

La cavalcata procedeva triste. I primi raggi del sole si spegnevano in una nuvolaglia biancastra e nell'aria plumbea non si moveva una foglia di tutto quel bosco entro cui la strada penetrava perdendosi nel fondo fitto; non un uccello cantava allegro; e la sposa sentiva cosí enorme il peso della sua sventura che non aveva forza di piangere e le mancava il respiro. La cavalcata procedeva triste. Nel cielo, sopra, la nuvolaglia si addensava a poco a poco e dinanzi l'aria si rabbuiava sempre piú, quasi annottasse: però alcuno della scorta, interrogato il tempo, proponeva di tornare indietro.

– Siamo a mezzo viaggio: avanti! – dissero gli altri. E la sposa, smarrita nel suo dolore enorme la considerazione delle cose, non vedeva e non udiva; non udiva che ripercuotersi nel cuore il passo uguale del leardo: Raimondo! Raimondo! Raimondo!

Già un rombo sordo passava per le nuvole imminenti: cavalieri e dame incitarono destrieri e palafreni e con paura tentavano di ridere. – Povera sposa! L'acquazzone la coglieva per la strada! – Infatti l'intemperie cominciò a risolversi in gocce grosse e rade e poi in un'acqua dirotta, crosciante, fragorosa. Nel fondo livido i lampi guizzavano e s'inseguivano tra gli alberi che al bagliore parevano mostri sbigottiti, e il tuono, dentro quel cielo e dentro quel bosco era il rotolare d'un traino infernale.

Finalmente con strepito di schianto repentino un fulmine stridette e scoppiò da presso ed il leardo spaventato prese la corsa d'una furia: corse cosí, non piú veduto, un lungo tratto della strada; poi, non piú veduto, balzò dalla strada oltre un rio e dietro un sentieruolo obbliquo; e la sposa, avvinghiata alla criniera, cieca di terrore sembrava tendesse lo sguardo ad un abisso nel quale s'aspettasse di precipitare.

Quanto camminò il leardo traverso la boscaglia? D'improvviso Giovanna riacquistando la vista delle cose si scorse fuori del bosco, sotto il cielo terso e luminoso e davanti a un piccolo castello bianco e solatio. Il leardo nitrí. Dal castello uno scudiero guardò e riconobbe il leardo; guardò il sire del luogo, Raimondo di Santelmo, e riconobbe Giovanna; e poiché fu abbassato il ponte lestamente, Giovanna cadde dal cavallo nelle braccia di Raimondo.

Ma lo scudiero aveva a pena dato da mangiare al cavallo madido di pioggia e di sudore che il sire venne nella stalla e comandò: – Salta in groppa e corri dal proposto di Sestale: che per nessuna cosa al mondo manchi di essere qua prima di notte.

Né era ancora notte quando, mentre le genti del Farneto e di Monveglio ricercavano tuttavia pe 'l bosco la donzella, il signore del Farneto e il signore di Monveglio appresero che madonna Giovanna, in cospetto di Dio e del prete di Sestale, era divenuta moglie a Raimondo di Santelmo.

«Mi sta bene» disse quel di Monveglio; ma l'altro bestemmiò Iddio e la sorte e la figliola. E piú tardi, imparando il fatto del leardo, «Maledetto quel cavallo! – gridò con rabbia – . Per lui ho rinnegata la figliola e lascierò al diavolo la mia roba.»

Ser Lapo, la notte, nei sogni torbidi osservava un cavallo furioso con sópravi la figlia traverso il bosco, e la visione e l'impressione dei sogni perdurandogli nella mente turbata e affievolita, egli ripeteva spesso anche di giorno: – Ah quel cavallo! quel cavallo!




V


Un giorno d'autunno, in tanto che madonna Giovanna e una fantesca distendevano il bucato al sole, arrivò di corsa a Santelmo uno scudiero del Farneto. – Madonna – disse – , messer Lapo sta male e vuol vedervi. – Ciò udito madonna Giovanna affollò lo scudiero d'inchieste e Raimondo fece sellare il leardo.

Presero per via piú breve il sentiero occulto che l'amore di Raimondo aveva tracciato dentro il bosco. E andando, con l'anima in pena, la donna si raffigurava il padre morente nella camera ove egli era rimasto lieto un mattino ad attenderla sposa e poi in un tormentoso abbandono era rimasto dei mesi ad aspettare la morte; lo rivedeva quale l'aveva veduto un giorno fanciulla portare di peso dai servi entro la stessa camera, il volto contraffatto e gli occhi gonfi e sanguigni, brutto, pauroso; e a secondare cosí con la fantasia commossa il ricordo lontano, sentiva quasi un conforto risalendo piú addietro nelle memorie della puerizia, quando per virtú della sua gaja innocenza quetava le ire del padre, ne raddolciva le asprezze e ne dissipava forse i truci disegni: su 'l castello gravavano leggende di misteri foschi. Essa, con la visione precisa dalle cose infantili, ricorreva ora per le camere ampie fredde e sonore; nella corte chiusa da muraglie umide; nell'orto incolto; sotto il porticato conventuale; attorno la cinta tutta screpolata e macchiata di licheni e di muschi, e chiamava il padre con strilli di terrore e di gioia; ed egli con un pallido sorriso l'accoglieva nelle sue braccia.

Ma ora egli moriva e forse era già morto senza averla riveduta, dopo averla invocata e attesa invano: forse era già morto! Ella guardò il marito che le veniva appresso pensoso e silenzioso.

Sotto i piedi del leardo crepitavano le foglie secche. Nel bosco era una tristezza lugubre.




Giunti che furono al castello madonna Giovanna corse dove ser Lapo, adagiato sopra un seggiolone e sorretto da guanciali, traeva a stento il respiro presso un'ampia finestra. Il suo aspetto non era piú quello di un tempo e non era quello che la figliola s'era raffigurato: nel viso esangue traspariva la sofferenza di un micidiale dolore per gran tempo raccolto e protratto, ma l'anima, che aveva conteso il corpo alla morte e per brev'ora aveva vinto, quasi purificata dalla contesa e dalla vittoria gli effondeva nel viso esangue una luce nuova di bontà e di pietà. Gli occhi non piú irosi e torvi guardarono con dolcezza placida, a lungo; poi dalle labbra raggricciate e livide uscirono finalmente parole miti e generose. E messer Lapo, che aveva perdonato a' suoi figli, volle vedere Raimondo, e riconoscendolo disse: – Muoio.

Seguí un silenzio d'alcuni minuti, eterno, e rotto soltanto dai singhiozzi della figliola e dal gorgoglioso respiro del padre. Poi questi, quasi vaneggiasse o afferrasse in una riflessione estrema un'estrema ricordanza, balbettò ancora: – Quel cavallo… quello…

O era l'ultima volontà di ser Lapo? Ordinando di condurre nella corte, sotto la finestra, il leardo, madonna Giovanna indovinava essa l'ultima volontà di ser Lapo? – Poco dopo il leardo raspava giú nella corte, e la figlia china su 'l padre – È là – disse tendendo la mano verso il cavallo.

Il vecchio alzò le pálpebre ed abbassò uno sguardo dalla finestra; lo vide e parve che sorridesse: ma le pálpebre non ricaddero sopra le pupille spente.

– Padre! – gridò la donna.

Il sire di Farneto, morto, pareva che sorridesse.




LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D'AQUINO


La corte di Carlo primo d'Angiò, dopo la strage di Tagliacozzo e poscia che da un colpo di scure fu troncata l'adolescente baldanza di Corradino di Svevia, fioriva di nobili donne e baroni e cavalieri e splendeva in magnificenza di conviti, danze, tornei e feste mai piú vedute.

Ad una di tali feste messer Bertramo d'Aquino, che tra i cavalieri del re aveva lode di singolare valore e cortesia, conobbe la moglie di messer Corrado, suo amico di molti anni, la quale era bellissima donna e si chiamava Fiola Torrella; e cominciando egli súbito a vagheggiarla, in breve se ne innamorò di guisa che non poteva pensare ad altro. E giacché madonna Fiola, non per freddezza di natura o per amor del marito o per sincerità di virtú, ma per diffidenza degli uomini e timore di scandalo e troppa stima di sé medesima, gli si mostrava aspra e fiera, messer Bertramo si perdeva ogni dí piú nel desiderio di lei e per lei giostrava, faceva grandezze, vinceva ogni altro cavaliere in gentilezza e liberalità.

Tutto invano: madonna era sorda alle sue ambasciate; gli rinviava lettere e doni; non gli rivolgeva pure uno sguardo. Ond'egli, che oramai non sperava piú nulla, nulla piú le chiedeva; e non sentendo alcun bene se non in vederla, triste e sconsolato, ma sempre con destrieri nuovi e mirabili, passava tutti i giorni sotto alle finestre di lei e ogni volta poteva vederla la salutava umilmente: essa moveva altrove i begli occhi.

Un amico, il quale vantava grande esperienza in conoscer le donne, confortava Bertramo: – O madonna ha un altro amante, ciò che non sembra da credere, o finirà con innamorarsi di voi – . E Bertramo per mezzi sottili ebbe certezza che Fiola non aveva altro amante; ma ella non cedeva, anzi diveniva piú rigida; sí che quell'amico esperto assai delle donne avrebbe dovuto ricredersi se la fortuna, impietosita delle angoscie del cavaliere, non avesse trovata una strana via per aiutarlo.

Certo giorno messer Corrado condusse la moglie e una gaia compagnia di cavalieri e di dame alla caccia del falcone in una villa che aveva poco lungi da Napoli; e poi che con loro fu stato in piú parti senza molta fortuna, giunto a una valletta, la quale pareva fatta dalla natura per cacciarvi, disse tutto allegro: – Ora vedrete se il mio sparviero sa spennacchiare! – Presto i cani si misero in traccia delle starne e levandone un bracco un fitto drappello, egli fe' il getto e gridò: – Guardate! – Lo sparviero, che era ben destro, scese di furia sulle starne frullanti e le disperse; una ghermí e stracciò e inseguí le altre, come un soldato valoroso che piombi sopra una schiera di nemici e abbattutone uno fughi e persegua i rimanenti.

– Come Bertramo d'Aquino, mio capitano, a Tagliacozzo – disse messer Corrado; e per dar ragione del confronto tra il suo caro sparviero e l'amico assai caro, narrò di questo le belle prodezze quando l'avea veduto irrompere impetuoso nel furor della mischia.

– Certo – aggiungeva – non è alla corte e fuori chi uguagli Bertramo in piacevolezza di parlare, grazia di modi e generosità e magnificenza d'animo; e anche il re gli vuole gran bene. – E di Bertramo proseguiva a narrare piú geste e vicende.

Madonna Fiola ascoltava attenta il marito e le lodi al cavaliere, che aveva posto ardentissimo amore in lei, le pungevano l'animo di compiacenza, quasi lodi fatte alla sua bellezza, se la sua bellezza aveva potuto accendere senza misura uomo cosí perfetto; e come le lusinghe della vanità nelle donne possono tutto, anche piegare a sensi miti le piú proterve, ella rivolgeva nel pensiero quante pene aveva sostenute Bertramo; quanto acerba noncuranza gli aveva dimostrata, e le pareva d'aver fatto male.

Potenza d'Amore! Essa già sentiva che meglio che una durezza superba e una fredda virtú soddisfaceva il suo orgoglio l'innalzare a sé il piú ammirato dei cavalieri, senza piú timore alcuno d'abbassarsi a lui; e nella esuberante sua giovinezza già serpeva un desiderio vago di consolazioni nuove e di nuove gioie suscitate e acuite, per lo spirito e per i sensi, dalla forza della passione e dalla fatalità della colpa. Perché era fatale che amasse Bertramo d'Aquino, se fino a quel giorno inutilmente aveva voluto resistergli. Tutto quel giorno pensò a lui; né sí tosto fu di ritorno a Napoli che si pose al balcone bramosa che egli, come soleva, passasse di là a riguardarla; e con suo conforto lo vide giungere all'ora usata. Ratteneva il bizzarro puledro e per quetarlo gli palpava il collo scorso da un tremito: salutò la dama, la quale smorta e palpitante risalutò e parve sorridere, e a lui s'allargò il cuore e chiarí la faccia in súbita allegrezza.

Cosí Bertramo fu pronto a scrivere una lettera a madonna Fiola scongiurandola di commuoversi a misericordia e di procurargli agio a parlarle; e n'ebbe risposta: a lei era grato l'amore di lui, ma per l'onor suo e del marito ella non poteva promettere e concedere cosa che le chiedesse. Riscrisse egli assicurandola che voleva solo parlarle e che in ciò solo poneva la salvezza della sua misera vita; ed ebbe risposta: venisse, ma a parlare soltanto, una prossima sera (e Fiola diceva quale) in cui Corrado, di ritorno da una caccia lontana e faticosa, sarebbe andato a dormire per tempo.




Ecco finalmente la sera del convegno; limpida sera estiva. Bertramo s'era dilungato assai fuori della città quasi ad affrettare, ad incontrare l'ora invocata e troppo lenta a discendere; e quando le ombre confusero le cose e le stelle si specchiarono nel mare pensò: – Di già Fiola m'aspetta – ; ma non tornò a dietro, ma sentí vivo il piacere d'essere atteso, egli che dell'attesa aveva patita tutta la pena. Pure il maligno compiacimento fu breve e se ne dolse; rivolse il cavallo e gl'infisse gli sproni nei fianchi: via, di aperto galoppo e di piena gioia, come all'assalto!

Intanto Fiola, visto che ebbe il marito addormentato nel profondo sonno della stanchezza, consegnò due lenzuoli di tela finissima alla piú fida delle sue donne, che andasse a distenderli su 'l molle letticciòlo composto entro una casupola in fondo al giardino per riposarvi nel tempo piú caldo; ed essa corse a socchiudere la porta dalla quale doveva entrare l'amante. Ascoltò: nessuno. Allora dalle aiuole e dalle macchie si die' a raccogliere le piú belle rose e strappandone i gambi riponeva le corolle e i petali freschi in un cestello che recava al braccio: anche vi metteva fragranti vainiglie e gelsomini, e quando il cestello fu colmo lo porse alla fante e le disse: – Spargi questi fiori su le lenzuola e acconcia ogni cosa; e poco dopo che messere sarà venuto, fanne cenno d'entrare. – E stette ad attendere.

Ma alla mente di lei, che con la fantasia si spingeva da un pezzo a pregustare le voluttà del suo dolce amore, balenò a un tratto il dubbio non stesse per cadere nella vendetta di messer Bertramo, il quale troppo duramente e troppo lungamente aveva fatto soffrire; non dovesse, se messer Bertramo mancasse per inganno al convegno, esser fatta gioco di lui. E se egli non aveva l'animo che suo marito le avea dipinto, non poteva ella, con acerbo dolore e vergogna, divenire la favola non solo di lui, ma de' suoi amici e di tutta la città, ella, la virtuosa donna di messer Corrado? Onde si vedeva accomunata dalla colpa e dallo scherno a quante dianzi spregiava, e si doleva d'esser caduta dalla sua casta fierezza e malediceva al mal concepito affetto.

Ma ascoltò: – Eccolo! – ; e rapida e lieta fu incontro al cavaliere che entrava e gli aperse le braccia sorridendo e sospirando: – Ben venuta l'anima mia, per cui sono stata tanto in affanno!

Messer Bertramo la strinse forte: – Mercé dunque del suo grande amore; pietà, o madonna Fiola, dei suoi lunghi travagli! – Le parole di lui erano ardenti non meno che gli sguardi di lei; e a lui pareva che ella avesse una luce intorno il capo biondo, e a lei sembrava ch'egli fosse ebbro d'amore.

Sedettero sotto un arancio fiorito scambiando piú baci che motti, e come Fiola pensava – Or ora la fante ci dà il segno d'entrare – , messer Bertramo, il quale nelle avide strette la sentiva tutta desiosa e del suo bel corpo indovinava i segreti mal difesi dalla veste sottile, poco piú tempo attendeva a godere del piacere ultimo e sommo. Ma meravigliandolo assai una tale accondiscendenza in Fiola, egli volle conoscere prima da lei perché fosse stata tanto rigida seco e qual cagione l'avesse indotta da poco a dargli un conforto sí grande.

Ella rispose: – Io non v'amava; ma mio marito, un giorno che eravamo alla caccia insieme con molti cavalieri e gentildonne, osservando un nostro bravo falcone precipitare addosso a una brigata di starne e scompigliarle tutte, si sovvenne di voi e disse che come il falcone alle starne aveva visto far voi ai nemici nella battaglia. E ricordò le prove del vostro valore e di voi asseriva che nessuno poté mai superarvi in cortesia e liberalità. Allora io ammirando l'animo vostro mi pentii subitamente d'avervi fuggito quasi mala cosa, e ora vi dono co 'l mio cuore tutta me stessa.

Udite le parole della donna, messer Bertramo stette alquanto silenzioso e raccolto in sé medesimo per improvvisa concitazione di pensieri e d'affetti diversi; poi, con uno sforzo che parve e fu supremo, perché egli rifiutava il bene non di quella sera, ma della sua giovinezza, ma della sua vita, si levò in piedi e disse:

– Non sarà mai ch'io offenda vostro marito se egli mi ama cosí e se ha tanta fede in me! E tolte di seno alcune bellissime gioie, le porse alla donna pregandola di serbarle per sua memoria, e aggiunse: – Per memoria di voi, voi datemi ora un ultimo bacio.

Madonna Fiola Torrella turbata molto, chi sa se per nuova ammirazione dell'animo nobilissimo del gentiluomo o piú tosto per vivo rammarico del perduto piacere, lo baciò sulla bocca, e messer Bertramo, senza piú toccarla, le disse addio e partí.




II





«Sempre alla lussuria séguita dolore e penitenza…»





LA SALVAZIONE DI FRA' GERUNZIO


Da una cella nel monastero di Pentula frate Gerunzio guardava in basso, lontano, sotto un chiaro lembo di cielo la massa scura di Gerico, né poteva pregar bene Iddio; e interrompeva piú volte le preci rituali con preci sue, angoscioso e lamentevole.

– Signore, che restituisti il vedere a Bertimeo, perché lasci cieca l'anima mia? Perché tu, che risuscitasti Lazzaro e il figliolo della vedova, non risusciti a te l'anima mia? Perché dai miei occhi non sgorgano lagrime degne di grazia come le lagrime del ladro e dell'adultera e io perdo, senza che tu m'aiuti, l'anima mia? Non mi abbandonare, Signore! Fa, Signore, ch'io oda la tua voce, la stessa mia voce nelle mie orazioni; fa che io le senta, che io senta nell'anima le mie colpe come tu su la fronte le spine de' Farisei! —





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