Книга - Top

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Adolfo Albertazzi






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IL CANE DELLO ZIO PROSPERO





I


– Top!

Il cane seguitò per la sua strada, proprio opposta a quella da cui veniva il padrone – Prospero Marzioli – nel tornar a casa.

– Top!

Al secondo più forte richiamo il bracco dovè ricordarsi del castigo meritato altra volta facendo il sordo: una schioppettata della quale, più che pallini, gli restava addosso una gran paura. Piegò il capo; si fermò un istante, quasi a riflettere; poi accorse. E dimandava grazia con la coda e con gli sguardi. Se non aveva da temer lo schioppo – perchè si trovavano in paese – , c'era il bastone non meno spaventevole a rammentarne i colpi; e a vederlo già alzato – misericordia! – si comportò come soleva in tale pericolo. Una tattica tutta sua: s'abbatteva in terra supino, le gambe piegate e rattratte. Così salvava almeno il cocuzzolo e il dorso ed esponeva solo la parte del corpo più tenerella e più acconcia, secondo lui, a commuovere la pietà padronale.

Ma quel giorno nel rivolgere la testa e il collo espose al padrone anche una cosa più commovente: di sotto al collare uscì una carta, un bigliettino che, ben arrotolato, vi era tenuto stretto da un filo. Oh!

Oh! oh! Mentre il signor Prospero se ne stava tranquillo dal barbiere o dalla tabaccaia, Top serviva dunque da portalettere, da messaggero, da… A chi? Uno strappo; e, senza neppur leggere intera una parola, gli fu manifesto, al signor Prospero, chi commetteva il contrabbando. Non gliel'aveva insegnata lui, all'Elena, la calligrafia?

Elena – innamorata!

Ebbe la tentazione di leggere tutto: ma si trattenne, vinto da un senso di profanazione e disgusto, dall'amarezza che gli salì alla gola e quasi dal dubbio che il suo tradimento fosse più riprovevole dello stesso inganno in cui gli pareva d'esser caduto.

Ricompose il biglietto; tornò a legarlo; poi comandò iroso: – Su! Via! – ; e accennava al cane la strada della missione incompiuta.

E Top, contentissimo, scappò a compierla.




II


Innamorata – Elena! Di chi? Non gl'importava saperlo; particolare secondario nel fatto enorme. Questo: che la bambina di ieri, la fanciulletta in cui egli aveva raccolta tutta la sua affezione e una gioia superiore forse a quella di padre, Elena già palpitava per un bene segreto, celato a lui, lo zio, come a qualsiasi altro che potesse contaminarlo! Peggio che un inganno, quella condotta non dimostrava oltraggiosa diffidenza? ingratitudine? E perchè non avvertire il fratello o la cognata? Non ne aveva l'obbligo, Prospero Marzioli?

Egli rincasò fermando questo proposito nella mente confusa. Ma non entrò per la porta grande: entrò per la porta del camerone che da secoli era usato, dai Marzioli – razza di cacciatori – a uccelliera, museo di vecchie armi, magazzino e officina d'ogni arnese da caccia. E con un calcio spedì la civetta a soffiare in disparte, e avanzando ad aprir la finestra rovesciò la panca con su le pentole del vischio e le ciotole dei chiodi. Quella mattina si sbagliò fin nel distribuire il pasto ai richiami: mise vermi e cuor trito nel beccatoio dei fringuelli; i merli ebbero miglio e canepa. Anche, un beveratoio gli sfuggì di mano e andò in pezzi. E ruppe del tutto, e quindi gettò sotto la tavola, la gabbia di vimini da accomodare. E passato nella camera da pranzo appena fu certo di non essere visto, salì nella sua camera; e adocchiò dalla finestra scostando un po' la tenda.

Elena se ne stava là, nel cortile, all'ombra. Cuciva. – Innamorata!

Ebbene: c'era da meravigliarsene tanto? Diciott'anni; ormai diciannove; e una bella ragazza. Molto bella! Due occhi di una dolcezza ineffabile; un sorriso di anima pura; i capelli biondi…

«Ah quando tu, zio, le dicevi: – perchè ti pettini così? – e lei diceva: – perchè è di moda – , e tu ribattevi: – non mi piaci – , tu mentivi: avresti voluto che nessuno la vedesse pettinata alla moda, i biondi capelli spartiti su la fronte bianca e serena. E quando, vestita di nuovo, la mortificavi: – questa tinta non ti si confà; stai male – , tu ingelosivi dell'ammirazione che susciterebbe. E quando la sorprendevi nell'atto di specchiarsi e l'accusavi di vanità, e lei, timida, arrossiva quasi colta in fallo, tu dubitavi fin d'allora che verrebbe il giorno in cui, specchiandosi, essa non penserebbe solo a sè, penserebbe a chi non sarebbe certo suo zio».

Dalla voce che gli parlava dentro in tal modo il signor Prospero derivò argomento a darsi, per minor rimprovero, dell'imbecille.

«Timida? Imbecille! È timidezza l'amoreggiare e ricorrere a sotterfugi? valersi di strattagemmi piuttosto che confidare nel senno dello zio, se non della madre o del padre?».

Ma l'intima voce opponeva: «Che sai tu, vissuto fuori del mondo, delle audacie a cui una ragazza, appunto perchè timida, appunto perchè ha soggezione dei suoi e dello zio, può essere indotta dall'amore? Che sai, tu, di quel senso di pudore verginale per cui un'anima ingenua affronterebbe ogni rischio anzi che svelarsi appunto a chi crede d'aver acquistato il senno dall'esperienza della vita? Che sai, tu, degli ostacoli che Elena veda per la realtà del suo sogno e della fede che abbia solo in sè stessa per superarli? E perchè mai la rimproveri nel tuo pensiero, appiattato dietro una tenda, e non le manifesti apertamente il tuo pensiero, il tuo dispetto, il tuo rammarico? Saresti timido anche tu? innamorato… anche tu, di lei?».

Come se la tenda si sollevasse di colpo e Elena di laggiù e il mondo intero gli leggessero in faccia quest'ultima dimanda, il signor Prospero si tolse dalla finestra, e si accasciò su la poltrona ad ascoltarsi e a consultarsi.

Innamorato, no, non gli pareva di essere (non gli pareva: a quarantatrè anni! di sua nipote!), ma geloso, sì: non poteva negarlo; non poteva ammettere che quella creatura bella, a cui aveva dato tanto del suo cuore e del suo animo, divenisse preda d'un altro, d'un indegno, forse; non poteva immaginarla fidanzata, immaginarsi spettatore dei sommessi colloqui di lei, felice. Un martirio insopportabile!

– Top! Vieni qua, Top! il mio Top! – gridava Elena.

E il povero zio scattò in piedi; tornò ad osservare di soppiatto. Il cane, di ritorno a casa, era venuto a lei; lei lo accarezzava; lo premiava con lo zucchero o i dolci; e intanto rigirava il collare di sotto in su; ne staccava il cartellino, la risposta.

«L'ammazzo!». Ohibò! Ammazzato Top, perduta Elena, che gli resterebbe al mondo? Con la visione rapida e precisa di un morente, il signor Prospero scorse tutto il suo passato, la sua esistenza inutile. Non un amore serio; non una salda amicizia; nessun altro svago, altro diletto che la caccia; nessun altro scopo. Eppure durante diciotto anni gli era sembrato di vivere pienamente, nell'affetto della nipote. Elena! Elena! Quando, piccolina, gli veniva incontro ad abbracciargli le gambe! quando, su le ginocchia, gli tirava i baffi! quando – e lui fingeva di non accorgersene – apriva gli sportelli delle gabbie, e i cardellini e i verdoni, via! Chi gli avrebbe mai detto allora che per lei dovrebbe soffrire? E quando la piccolina si ostinava a non capir le lezioni, e piangeva, e lui s'inquietava e la giudicava poco intelligente, chi gli avrebbe detto: un giorno la conoscerai più furba di te?

«Come avrà fatto a istruir Top? – L'ammazzo!».

Ohibò, signor Prospero! Non bastava levargli, a Top, il collare? Elena comprenderebbe che lo zio sapeva; tremerebbe; gli confesserebbe tutto.

E il signor Prospero deliberò di levar il collare a Top. E, per la speranza di soffrir meno, prese anche una deliberazione più grave.




III


Se, poco oltre mezzodì, lo zio Prospero non sedeva a tavola ad aspettar il fratello, la cognata avvertiva la domestica o l'Elena: – chiamate il cane! – ; e se il cane non arrivava, eran certe che lo zio desinerebbe in campagna e rincaserebbe solo la sera. Quel giorno dunque si meravigliarono a veder il cane e a non veder lui. In ritardo? Non tardava mai. Invitato da qualche amico? Non aveva amici che lo invitassero a pranzo, e quando ne avesse avuti, non ci sarebbe andato. Cos'era successo? L'Elena stentava a dissimulare l'angustia. Ma per fortuna nessuno, all'infuori di lei, si accorse che a Top mancava il collare; e, per fortuna maggiore, suo padre – nonostante il fiero aspetto – era l'uomo più pacifico di questo mondo. Egli si limitò a dire:

– Chi non mangia, ha mangiato.

Non sospettava di nulla. E non si meravigliava di nulla, Adelmo Marzioli! La spiegazione della strana assenza l'avrebbero, prima o poi: inutile preoccuparsene.

Egli, infatti, l'ebbe prima di averci ripensato: due ore dopo mezzogiorno, alla Congregazione di carità ov'era segretario.

Prospero gli comparve dinanzi con gli occhi semichiusi sotto le ciglia folte e lunghe, in un'attitudine quasi violenta per lo sforzo della volontà. E al fratello, che attendeva zitto e cheto, parlò con un lieve tremito nella voce.

– Ho pensato che è meglio ci dividiamo. Io mi tengo la Valletta; a te l'altro podere, la vigna e la casa. Nella casa mi riservo il camerone. Ci mettiamo il letto; il camino c'è: mi basta.

– Come vuoi – disse Adelmo Marzioli.

– Incarichiamo del rogito il notaio di qui o di Faenza?

– Come vuoi.

– Siamo d'accordo?

– D'accordo.

E Adelmo Marzioli riprese a scrivere.

Se non che mentre Prospero stava per uscire successe quasi un miracolo: il fratello aveva qualchecosa da aggiungere.

– Ehi! Senti!

Prospero si voltò.

– Cosa ne dirà il paese?

Prospero rispose: – Dirà quel che dico io: che io sono un uomo all'antica e le tue donne vanno alla moderna; che, secondo me, voi spendete troppo in proporzione al tuo stipendio e alle entrate, e io voglio assicurarmi della mia parte per quando sarò vecchio e per lasciarla, quando morirò, a mia nipote se non si mariterà, o se sposerà uno della sua condizione. È chiaro?

– È chiaro.

– C'è altro?

– Nient'altro.


***

La separazione non dispiacque neanche alla cognata. Non che Prospero le avesse mai dato soverchio disturbo; sempre però l'avevan tenuta in un certo disagio quel suo carattere scontroso e quelle sue abitudini di misantropo, e da un pezzo in qua egli la seccava con le osservazioni a ogni spesa che si faceva per l'Elena. – Ah ah! vestito nuovo; scarpine nuove! oro! gioielli! Durerà? – Dispiacere, e più che dispiacere, provò invece l'Elena. Come ad accorgersi di Top senza collare pensò che lo zio aveva scoperto la marachella, all'avvenimento che seguì pensò che lo zio era impermalito con lei; e dubitò d'averlo contrario nelle sue speranze. Avrebbe voluto impietosirlo dicendogli: – Io le sono tanto affezionata! sia buono! – , o magari provocarne lo sdegno dicendogli: – Che cosa le ho fatto, io? – ; purchè parlasse! Il silenzio di lui l'atterriva. Ma non osava andar a trovarlo nel camerone; affrontarlo. Finchè ebbe un'idea. Dall'uscio che dal camerone metteva nella stanza da desinare la madre aveva tolta la grossa chiave. Elena s'avvide che per il buco della toppa passava una spera di luce. Allora si chinò, guardò, scorse le gambe dello zio andare e venire. Benissimo! E colto il momento che nessuno poteva udirla, fece, a voce bassa:

– Zio! zio!

Lo zio palpitò; volse lo sguardo intorno; e non fiatò.

– Sono qui dall'uscio! M'ascolti! Una parola, zio!

Egli non fiatò; non si mosse.

– Io le sono tanto affezionata, e lei non mi risponde nemmeno! Cosa le ho fatto, io?

Ma a questo punto Top, il quale giaceva nel cantuccio vicino alla civetta, tese gli orecchi, si alzò, precipitò all'uscio; e drizzato su due piedi contro di esso, si mise ad abbaiare e a guaire affettuosamente.

– Ah Top! il mio Top! Tu sei buono! Diglielo tu allo zio che è cattivo, che mi fa soffrire!

Cattivo? Soffrire? Era un'ingiustizia! un'infamia! Lo zio non ci resse più. Esclamò, ironico:

– Soffri, eh, perchè ho levato il collare a Top?

Poi, con sarcasmo per lei e per sè medesimo:

– A far all'amore non potrebbe servirti, in cambio, il buco di una serratura?

Nessuna risposta. Non s'udì più che il vario vocìo dei richiami. E Top tornò ad accucciarsi vicino alla civetta.




IV


Non molti giorni dopo, mentre stava aggiustando gli staggi a una rete, il signor Prospero udì battere alla porticella di strada e chiedere forte:

– È permesso?

Nè aveva ancora risposto – avanti! – che un signore entrò; giovine.

– Disturbo, signor Marzioli? Mio padre mi ha consigliato di venir da lei per…

– Chi è vostro padre? – interruppe il Marzioli senza muoversi da sedere e senza far complimenti.

– Tarelli! Io sono Diego Tarelli.

Ah! aveva dinanzi il figlio del conte; il più ricco del paese: bisognava riceverlo con garbo.

– S'accomodi! Mi dispiace… – affrettò cerimonioso e imbarazzato – ; in questa stamberga… in questo disordine…

– Amabile disordine! – esclamò, disinvolto, il giovine. – Sapesse come l'invidio, signor Prospero! Lei è il più famoso cacciatore di Romagna! Quante volte a Roma ho pensato a lei!

– A Roma?

– Ci ho compiuti gli studi; e adesso sono, vorrei diventar cacciatore anch'io. Ecco – aggiunse contemplando le gabbie in terra o appese al muro – : ecco i richiami, i cantaiuoli! Quaglie. Un merlo. Cardellini. Fringuelli. Un fanello…

– Un frisone – corresse il signor Prospero.

– Sbagliavo: un frisone; un…

– … bigione.

– E quante reti! Di quante sorta! Piccole, grandi, a maglie larghe e a maglie strette. E han tutte il loro nome, eh?

– Sì. Quella lassù, distesa, si chiama aiuolo; quella accanto, paretella; quell'altra, è una ragna. Queste qui giù sono erpicatoi, diluvi. Questa che sto aggiustando è una lungagnola.

Intanto Diego Tarelli cercava accostarsi all'uscio (l'uscio dal buco della serratura aperto); e come ci fu, volse il dorso e alzando gli occhi alla parete di contro:

– Anche armi antiche – disse – . Curiose!

Il signor Prospero accennava:

– Uno schioppetto del seicento. Una cerbottana; una balestra.

– E gli ordigni, più in basso?

(Com'era difficile…).

– Corni da polvere.

– No: intendo dir gli altri, là, a terra.

(Com'era difficile infilare un bigliettino nel buco della serratura voltandole le spalle!).

– Sono trappole; pignuole; bertovelli.

– E il modo d'usarli?

– Semplicissimo.

Il signor Prospero andò a prendere una gabbia col ritroso per dimostrarla da vicino al visitatore; e questi intanto riuscì a spingere nel buco il biglietto che la mano dell'Elena da un pezzo era pronta a ricevere.

Ma la faccenda non doveva finir bene. Colpa di Top.

Il quale, spalancata d'un salto la porta, entrò, e a veder Diego Tarelli gli fece la festa dovuta a un caro amico.

– Top! Top! – Il giovine non potè fingere di non conoscerlo.

Allora un sospetto balenò alla mente del signor Prospero. Strinse gli occhi sotto le ciglia folte e lunghe. Dimandò, cupo:

– Vi conoscete?

– Chi non conosce Top? Tutto il paese! Io poi ne sono un ammiratore; e appunto perciò sono venuto a disturbarla, signor Prospero. Me lo vende? a qualunque prezzo…

«Me lo vende?» Ahi ahi! Cotesta dimanda, cotesta proposta, urtando nel sospetto che tornò a insistergli in mente, strappò, a un tratto, fuor di sè lo zio. Parve investir il visitatore, minacciarlo con la gabbia in mano. – Vendere, io, Top?

Vendere Top, la sola creatura affezionata che, perduta Elena, gli resterebbe al mondo, almeno per qualche anno?

– Vendere il mio cane? – ripetè più forte. – Io? Top?

E prima che l'altro potesse articolar parola, tanto era rimasto sorpreso da quella veemenza, seguitò:

– E voi dite di essere, di voler essere cacciatore? No! – gridava e gli agitava, avanti e indietro, sotto il naso, la mano sinistra con l'indice teso – . No! Cacciatore tu, giovinotto, non sarai mai! mai! Non sei, tu, che un signorino, un ricco! – E aveva nella voce il disprezzo di chi accusa una brutta azione. – Già! perchè avete dei soldi, molti soldi, voi signori, voi ricconi, vi credete lecito tutto: ogni indelicatezza, ogni sopruso, ogni usurpazione di affetti, di cose care! Ma ci sono delle cose che non si vendono, che non si comprano! Tientelo a mente, giovinotto mio!

Diego Tarelli aveva lui pure sangue romagnolo nelle vene; nondimeno si contenne. Riflettè che aveva a fare non solo con un mezzo matto o un matto intero, ma con lo zio di Elena. E borbottava delle scuse.

– Non credevo d'offenderla… Mi scusi… Mi perdoni…

– Che scusare e perdonare! Vattene e buon giorno!

– Sì! Buon giorno!

Il giovinotto se ne andò chiudendo di colpo la porta.

E il signor Prospero si accasciò su la seggiola.

– È lui! – mormorava – . È lui l'innamorato di Elena!

Bella lezione, però, gli aveva data!

Tale lezione, infatti, tale innamorato che appena fu fuori Diego Tarelli temè il crollo della sua felicità in causa di quel matto zio e di quel benedetto e maledetto cane; e corse alla Congregazione dal signor Adelmo Marzioli a chiedergli la mano della figlia.




V


Confermandosi nell'ipotesi per cui si era arrabbiato, il signor Prospero ebbe un rigurgito di amarezza in gola; poi si sentì pieno di male il cuore. E si sfogò a inveire, entro di sè, contro la nipote. Stupida! Infatuarsi d'un Tarelli! Credere avesse buone intenzioni e si proponesse davvero di sposar lei! Non dubitare che egli amoreggiasse per divertimento! Stupida! – Poi inveì di nuovo contro quel gaglioffo che lusingava, per divertimento, una ragazza onesta, la nipote di Prospero Marzioli! canaglia! briccone!

Se non che, a pensarci, comprendeva ora come la richiesta di comprar Top fosse stata un pretesto e come la visita, con i salamelecchi e le adulazioni, dovesse avere avuto uno scopo anche più ignobile: stringere amicizia con lo zio; ingraziarselo, servirsi di lui meglio che del cane. – Ragazzaccio! Tu sei furbo, ma…

Più furbo lui, lo zio!, quantunque non arrivasse a immaginar tutta la verità. Questa: mancato il sussidio del collare, giudicando troppo rischioso il gettito dei biglietti e delle letterine dal muro del cortile, oh che restava all'Elena se non suggerire a Diego il mezzo suggerito dallo zio a lei: il buco della serratura?

Nè lo sfogo sollevò il signor Prospero; egli non ebbe riposo nel cuore e nella testa. Adesso voleva e non voleva parlar alla nipote, esortarla a metter giudizio o, no, tacere. Finchè l'ira di nuovo prevalse.

No; l'Elena non meritava i suoi consigli! Non aveva avuto fiducia in lui; non ne aveva: corresse dunque al castigo; alla delusione! E, dopo tutto, per lei sarebbe meglio. Non s'innamorerebbe più così facilmente; forse non si mariterebbe mai; vivrebbe nel bene dei suoi e dello zio. Questo, questo egli, ora, sperava!

«Egoista!» gli gridò la coscienza; e mentre si ascoltava sorpreso, «egoista» gli sembrò ripetessero dalle gabbie, piangendo e cantando, le creature schiave della sua vita inutile; «egoista!» sembrò affermar anche Top, che era stanco di dormire e desiderava andar fuori, in campagna, a caccia.

Onde Prospero Marzioli, più afflitto che mai, si alzò, prese lo schioppo, passò il braccio nella cinghia; si diresse alla porta da cui il bracco l'aveva preceduto. Ma sulla soglia ristette.

E tornò indietro; e venne all'uscio a figger lo sguardo nel buco della serratura. Non vide nessuno. Elena! Elena! Chiamarla? Non ne ebbe la forza.

Oh! fuggire di là, in campagna, a caccia, con Top, a guarire del male che aveva nel cuore!




VI


Rimase alla Valletta una settimana: tempo sufficiente perchè il vecchio contadino, il quale dianzi l'aiutava a tender le reti, a invischiare, o a batter le macchie, si convincesse che il padrone era ammattito del tutto. Aveva mandato a prendere i richiami, la civetta e gli arnesi; ma non si recarono nemmeno una volta al paretaio o nelle larghe a tirar alle allodole. Camminavano su e giù per i campi aspettando che il cane scovasse la lepre, e non sparavano un colpo; e sedevano stanchi alle prode dei fossi. Ivi il padrone o contemplava, vattelapesca chi e che cosa, oppure discorreva in modo che non l'avrebbe capito l'arciprete.

– La verginità volontaria avvicina l'umanità a Dio. Lo credi?

– Sissignore – il vecchio rispondeva, fedele al principio che conviene dar sempre ragione ai matti.

– Da che mondo è mondo la vita fu considerata come una prova dell'uomo e della donna per elevarsi, perfezionarsi l'anima; e l'amore, come s'intende dai più, fu considerato un abbassamento, un prolungamento di quella prova superata soltanto dalla verginità. Lo credi?

– Dice bene lei!

E un'altra volta, quel poveretto, tenne al contadino questo bel discorso:

– Tu negli alberi non vedi che frasche da sfogliare, legna da tagliare e da bruciare; nei fiori non vedi che un ghiribizzo della madre terra; negli uccelli non vedi che materia da umido o da arrosto. Sfòrzati invece a pensare che tutte queste creature sono animate dello spirito che ci dà vita a noi, e starai meglio con loro che con gli uomini e con le donne. Lo credi?

Il vecchio rispose:

– Credo sia già suonato mezzogiorno. Andiamo a mangiare, signor padrone?

Rincasando non si accorgevano, l'uno per la filosofia e l'altro per l'appetito, che Top era scomparso.

Top, con mirabile puntualità, all'ora di desinare giungeva ogni giorno a casa Marzioli, dove l'Elena gli preparava la zuppa. Mangiava; dormiva; quindi tornava in campagna desideroso di novità.

Ma ne era più desideroso, di novità, il signor Prospero. E l'ottavo giorno, per interrompere in qualche modo la pena protratta, riprese la via del paese e del camerone.


***

Il trambusto di lui, là dentro, trasse l'Elena all'uscio, come egli aveva immaginato.

– Ehi, zio! sono qui: ascolti una parola!

– Elena!

Mai chiamandola lo zio aveva avuto una voce così tenera; la voce di chi ha pianto. Aggiunse:

– Che vuoi?

– Ho una cosa da dirle; accosti l'orecchio.

– Son qui.

Un lungo attimo di silenzio. E l'Elena sussurrò:

– Non mi attento.

– Ah – egli fece, pentito a un tratto d'essersi abbassato alla serratura – : ti attentavi però ad attaccar i bigliettini al collare del cane!

– Bene, zio! – mormorò pronta la ragazza – : lei adesso può star tranquillo; può rimettere il collare a Top.

Se dal buco della serratura Prospero Marzioli avesse scorto l'universo quale possessione sua, tutta sua, non avrebbe provata tanta gioia!

Rimettere il collare a Top, star tranquillo, non significava forse che l'amoreggiamento era finito? Senza dubbio il Tarelli, dopo la lezione ricevuta dallo zio, aveva rinunciato all'Elena. Quant'era bello adesso il mondo, sebbene dal buco della serratura non si scorgesse più nessuno e non si udisse più nulla!

E ora Prospero Marzioli poteva incontrare Adelmo Marzioli senza timori e senza rimorsi.

L'incontrò poco dopo, che veniva dalla Congregazione. Ma – miracolo! – questa volta parlava prima lui, Adelmo; al solito, però, pacato e conciso.

– Il figlio di Tarelli ha dimandato l'Elena. A San Martino si sposano.

Elena – sposa!

Lo zio Prospero impallidì; diventò rosso; tacque finchè fu certo di poter dissimulare la passione con lo sdegno. Un lungo attimo; e aggrottate le ciglia, esclamò:

– Non aspettatevi regali, non aspettatemi alle nozze. Sono uno da star a pari dei Tarelli, io?

Bene. Non si commosse Adelmo; chiese soltanto:

– C'è altro?

– Nient'altro – rispose Prospero allontanandosi e premendosi con la mano il cuore.




VII


E rimise il collare a Top. Ma chiuse per sempre il camerone delle memorie e delle glorie sue e familiari.

Alla Valletta – ove dimorava in una piccola stanza simile a una cella – consumava molta parte del giorno leggendo o tentando di leggere. Aveva dato la libertà ai richiami e alla civetta; e a caccia non andava più che con Top, senza sparare un colpo. Nel dissidio che era in lui fra l'energia della razza e l'affievolimento dell'amore – l'amore per tanti anni respinto – l'amore troppo tardi conosciuto – ora si meraviglierà di aver potuto incrudelir con le creature innocenti e liete eppur godere, nel tempo stesso, della comunione di sè con la vita naturale; ed ora si rammaricava d'esser così mutato, d'esser così fiaccato nel suo soffrire.

Elena! Avrebbe voluto udir parlare sempre di lei, solo di lei.

Spesso gliene discorreva il vecchio; ogni volta che tornava dal paese. Quante chiacchiere intorno al matrimonio Marzioli Tarelli! Che cotta s'era buscata quel giovine! Che fortuna, quella ragazza! Ma la meritava. La più bella ragazza del paese! Una bella romagnola!

Già si sapeva che, il dì di San Martino, le nozze sarebbero celebrate con gran pompa; e dopo, gli sposi partirebbero per Roma.

– Col diretto delle undici – notò, per dire qualche cosa, per nascondere sè a sè stesso quasi con una prova d'indifferenza, il signor Prospero. Poi dimandò aggrottando le ciglia:

– E di me cosa si pensa?

– Qualcuno pensa che lei ha giudizio.

– Perchè?

– Perchè lei non approva questo matrimonio. I Tarelli han troppi soldi, e i troppi soldi non han mai fatto contento nessuno.




VIII


Alla proda del fosso, davanti all'acaciaia, Prospero Marzioli sedeva tenendo lo schioppo appoggiato al ginocchio sinistro e poggiando sul destro il gomito si reggeva col braccio e con la mano il capo. Aspettava passasse il treno che portava gli sposi al viaggio di nozze. Finalmente – ecco – sobbalzò. Laggiù tra gli alberi, sotto il fumo che livido stentava a sollevarsi e a diffondersi nell'aria umida, egli osservava scorrere il convoglio, rotear via rombando.

Elena! Elena! Senza voce la chiamò con tutta l'anima; invisibile agli occhi, la vide; la perdè: con tale angoscia che non si morse più le labbra per trattenere i singhiozzi. Nè allora ebbe vergogna di sè stesso. Gli parve allora che la derisione, lo scherno di tutti gli uomini non l'avrebbe offeso. E mentre le lagrime gli colavano per le guance e volgeva lo sguardo, a scorgersi, a sentirsi solo in quella campagna deserta e squallida capì che di contro il dolore umano c'è qualche cosa di peggio che l'umana cattiveria, l'irrisione, lo scherno: c'è l'indifferenza di tutta la vita estranea alla nostra vita, c'è la separazione da noi delle infinite esistenze inconsapevoli di noi.

A lui che cosa restava? chi gli restava? Un cane! L'ira lo scosse; gli diè l'impeto di chi cerca divincolarsi. E gridò, fremente:

– Top!

Top impazzava a levar passeri dal seminato, a inseguirli abbaiando; e non attese alla voce del padrone.

Ma questa volta il padrone non ripetè l'ordine prima di punir la disubbidienza.

Sparò.

Un guaito; e il bracco cadde.

Prospero Marzioli corse a lui; e vide gli occhi spaventosamente affettuosi, ebbe da quegli occhi che si spegnevano una tremenda invocazione di pietà. E quasi per trovar ristoro al male atroce o fine all'agonia, la povera bestia piegò il collo.

Dal collare usciva, arrotolato e tenuto da un filo, un bigliettino.

E lo zio, premendosi con la sinistra il cuore, lo prese. Lesse:

Diglielo tu, Top, allo zio che gli vorrò sempre bene; tanto, tanto bene!

Ma Top era morto.




LE PENNE DEL PAVONE


Andar a bruscolare anche allora significava in pratica, più che la parola non dica, raccogliere, per bruciaglia, stipa grossa e bacchetti lunghi, e se nel luogo della ricerca si trovavan begli alberi frondosi la coscienza non escludeva qualche strappo o taglio di materia non secca. La massima antica che «la roba dei campi è di Dio e dei Santi» pareva dar diritto, allora, a portar via qualche cosa appartenente ad altri; e poichè oggi il diritto nuovo pare conceda di portarla via tutta, o quasi tutta, evidentemente la roba dei campi sarà oggi passata in padronanza superiore a quella dei Santi e di Domineddio: il mondo non cammina per nulla.

– Non date danno – raccomandava la donna del casellante ferroviario ai suoi ragazzi; e aggiungeva come argomento positivo alla moralità ideale: – Potreste buscarvi delle bòtte – . Quando però i figliuoli rincasavano carichi di legna o, magari, stringendo al seno un mellone o un cocomero, e dicevano: – Ce l'han donato – , lei fingeva di crederlo: li vedeva incolumi, e «la roba dei campi…».

Ma la buona donna raccomandava con maggior premura: – State lontani dai borroni!

Perchè a bruscolare andavan di solito lungo il Rio Rosso dove scorre più fondo tra più folto e più pioppi, verso monte; e non vi mancavano le tentazioni e i pericoli.

Il divertimento alla chiusa!: togliere i travi che servivan da paratoia per veder la piena precipitare riscintillante, e mandar con essa – a rischio di tenergli dietro – il primo trave per sollevare dal baratro una fragorosa colonna di spume e di faville! E i pesci? Non si godeva a sorprenderli e quasi afferrarli mentre galleggiavano nell'acqua limpida e tremula?


***

Quel giorno, dunque, i figliuoli del casellante, Mario e Aldo Sartori… Bei ragazzi tutt'e due, ma più il piccolo – Aldo – , che esprimeva dagli occhi la letizia del sangue sano e la bontà dell'indole… Quel giorno, a fin di luglio, appena furono discesi dal ponte s'avviarono di corsa alla chiusa. Ahimè, non aveva raccolta. E il caldo era così grande che i pesci non comparivano, e fin i ranocchi, all'approssimar dei passi, tardavano a balzar giù con un tonfo e a penetrar nella melma dimenando le gambe e intorbidando, come d'un fumo, il breve specchio. Soltanto le idrometre mostravano d'esser contente a sfiorar l'acqua coi fili delle loro zampine, insensibili a tutto fuorchè al correre miracolosamente così su l'acqua, nel sole; emanazione di vita indifferente a tutto fuorchè al molle contatto e al moto alacre e incessante.

– Raduna tu i bacchetti – comandò Mario al fratello, e si adagiò a un'ombra. – Io farò il fascio.

Sapeva già compor le fascine a modo degli uomini. Con un vinco. Ne attorcigliava la vetta a cappio, sottoponeva il legame alla stipa, la calcava col piede, e introducendo nel cappio l'altra estremità del vinco la tirava e torceva in groppo sì che tenesse la presa. Poi si addossava il fastelletto e portandolo a dorso curvato si credeva che chi lo guardava lo stimasse un uomo. Perciò comandava al fratello e gli lasciava il vanto della fatica più umile.

– Cogli tu! Presto!

No e no. Aldo ne aveva meno voglia di lui. E liticarono. E si acciuffarono. Dei due, Mario, che percuoteva più sodo, era più facile a lamentarsi. Aldo resisteva finchè poteva, indi scappava con rivincita di boccacce e sberleffi che ne rideva lui stesso. E ridendo tornavano in pace.


***

Da quanti secoli si ripete nei fanciulli la smaniosa gioia che dovevan provare gli uomini primitivi allorchè riuscivano a impossessarsi di qualcuna delle più liete creature del mondo? Era una vittoria su la natura, la quale ai volatili volle dar mezzo di sfuggire alla cupidigia umana, ed è tuttavia la soddisfazione di un'istintiva, atavica invidia per quelle creature così liete a credersi inafferrabili: tanta soddisfazione, tal gioia da rendere ingenua e inconsapevole la crudeltà.

– Con un archetto – diceva Mario – si prendon le buferle.

Ora i fratelli sedevano all'ombra insieme, pacificati e invogliati di caccia da un branco di cardellini che calando dalle fronde di sopra a loro eran venuti a bere e a bagnarsi.

– Sono men furbe dei cardellini le buferle – diceva Aldo.

– E se ci restan, nella corda, non scappan più. Vedrai!

Ma costruire un archetto non era agevole come legare un fascio di stipa.

Mario piegò ad arco un ramoscello e lo tese per bene con uno spago doppio a scorsoio. Se non che non sapeva ancora la giusta distanza dei nodi, nè trattener l'uno col piòlo, che, quando la vittima capiterebbe su la corda, cadrebbe, e l'arco scatterebbe serrando e stringendo le povere gambe fra l'altro nodo e la cocca. Uno spasimo atroce.

– Fa presto! – Aldo sollecitava, ansioso del giuoco. – Dove ce n'è, delle buferle, adesso?

– Nell'acaciaia del Palazzaccio.

E prova e riprova, finalmente la macchina sembrò in ordine.

Mentre avanzavano per il sentiero tra le macchie il piccolo si accorse che il giorno mutava luce.

– Vien tempo da piovere.

– Lascia! In caso che piova andiamo a ricovero nella capanna del vignarolo, lassù. Io non ho paura di niente.


***

Ecco. Sfogliata la cima a un'acacia, posato l'archetto fra una rama e l'altra, non c'era più che da attendere con pazienza, zitti e queti. Passeri ne giungevano, d'intorno, ma parevano avvisarsi a vicenda dell'insidia: buferle, nessuna. E Aldo non poteva star fermo e tacere. Deluso, cominciò a insistere per tornar a casa.

– Non senti che tuona?

Il temporale rombava da lungi e già ne pesava, nell'afa bassa, la minaccia. Quando uno strano grido, come d'una voce troppo alta emessa da una gola troppo stretta, come d'un richiamo doloroso e selvaggio, sorse lì, da loro.

– Un pavone!

– Un pavone di quelli del Palazzaccio. Cercherà la pavona e i pavoncini, per ammazzarli – disse Mario.

E lo videro. Nonostante l'impedimento della coda oltrepassava svelto fra tronchi e sterpi. Addosso! Forandosi le mani e le guance nell'inseguirlo, lo spinsero contro un cespuglio.

– Càvagli le penne! – incitava il piccolo. – Ne voglio una!

Infatti come la bestia ebbe nascosto il capo nel cespuglio e pensandosi non più vista non si mosse più, Mario potè strapparle una, due, tre penne delle più belle.

E nel cielo ottenebrato proruppero i lampi.

Allora i ragazzi fuggirono a ricoverarsi nella capanna.


***

Il capannotto del vignarolo era a sommo della riva, appoggiato a una quercia e contesto di frasche.

Vi entrarono felici. Essere al coperto, al sicuro, là sotto, come fossero sol lor due al mondo, mentre la bufera si scatenava! Il tuono ora scuoteva cielo e terra.

– È il diavolo che va in carrozza con sua moglie. – Mario rideva; non aveva paura.

Ma Aldo non rideva più. In fondo, dove il riparo era più saldo, sedè accosto al pedale della quercia e si coperse il viso con le braccia. E a un tratto, dal cielo squarciato piombò la grandine col fracasso della ghiaia scaricata dalle birocce; con un guizzo di luce abbacinante una folgore cadde da presso. I chicchi grossi quanto le nocciole fendevano il fogliame e il frascame dell'albero; alcuni penetravano di colpo nel rifugio.

– Mamma! – invocò il piccolo.

– Non aver paura! – ammonì il fratello. – Ci son io; e ti copro con la paglia. Tieni tu le penne.

Gli porse, gli mise nella mano le penne del pavone, e tornò verso l'entrata dov'era un po' di paglia, in mucchio. E si chinava per raccoglierla, per difendere con essa, dalla tempesta, il fratellino che chiamava la madre e piangeva; e in quell'istante si sentì investir tutto, rapire da una fiammata. E non capì più nulla.


***

Quando rinvenne, Mario vide che il sole splendeva. Ma aveva l'impressione di non poter più muoversi. Con un terrore folle si sforzò ad alzarsi in piedi, e alzatosi gli parve di sentir il sangue rifluire per ogni vena e d'essere leggero leggero.

– Andiamo via! corriamo a casa! – gridò volto ad Aldo.

Aldo non si mosse. Teneva il capo a terra, contro il braccio sinistro; tendeva l'altro braccio stringendo in mano le penne del pavone.

E Mario gli si avvicinò, lo chiamò più forte.

Non rispose.

Tendeva il braccio destro, irrigidito, quasi volesse rendere al fratello le penne del pavone che il fulmine gli aveva lasciate intatte nella mano.




LA FIUMANA


Che gli asini camminando più o meno piano per la strada maestra si provino a prendere ogni viottola che scorgono di qua e di là, si capisce. La strada larga e bianca, precorrente senza limite visibile, suscita in loro l'idea e il panico dell'infinito; e poichè sanno per esperienza come da colui che trasportano e che li guida e bastona ci sia da aspettarsele tutte – e non sarebbe da meravigliare neppur il proposito, in lui, d'andare all'infinito – essi dalle viottole laterali han l'illusione o la conoscenza o la speranza di un termine prossimo, e tentano rivolgersi a quello.

Più difficile è spiegare perchè anche l'asino bennato oppugni a voltar indietro pur nella più larga e più piana strada. Ecco. Il prudente auriga tira dalla parte destra fin quasi al limite del fosso, indi tira a sinistra con tanta energia che la bestia è costretta a piegar contro la stanga il collo, la testa, la bocca aperta dallo spostamento del morso, e, per esprimer meglio il suo volere, il padrone rialza e riabbassa in fretta il randello, sì che la battuta groppa si addossa, rintronando e dolorando all'altra stanga – e, nossignori, non cede; piuttosto che cedere l'asino va inesorabilmente nel fosso di sinistra col biroccino e chi c'è sopra. Perchè? Forse per amor proprio? punto di onore? dignità personale? In tal caso bisognerebbe supporre a questa ostinazione, a cocciutaggine così pericolosa, un ragionamento degno d'un uomo di carattere quale ce n'è pochi, specie al giorno d'oggi. – Ah tu che mi sfrutti mi hai dunque attaccato al biroccino non per bisogno, ma – poichè vuoi tornar indietro – solo con l'intenzione di farmi faticare e di bussarmi? Ebbene, no! neanche se io debba tornare alla dolce stalla, io non volto! Preferisco pungermi alla siepe, rompermi una gamba, fiaccarmi l'osso del collo nel baratro. Non volto: no, no e no!

E che tale o simile ragionamento non fosse da escludere lo dimostrerebbe un fatto: che laggiù, quando sia rimasto in piedi o risorga, l'asino si mette subito a brucar l'erba della sponda. L'ostinazione cieca non gli permetterebbe di vederla, l'erba: la stizza invece, che nelle persone intelligenti non toglie il lume degli occhi e passa presto – appena hanno avuto sodisfazione – , gli lascia dire tra sè: – Adesso che l'ho vinta io, sono contento. Mangiamo!

Ma quand'anche questa presunzione intellettiva nei ciuchi fosse esagerata, l'ostinazione loro sarebbe sempre più agevole da intendere, psicologicamente, che l'ostinazione dei cavalli.


***

Qualche anno fa venne di moda il negar l'intelligenza al cavallo, o – nella reazione ad ogni ammirazione del passato – per contrasto al Buffon e all'Alfieri, o per consenso al grande – allora – e nuovo Mirbeau, o per incredulità delle esperienze di Elberfeld, ove dicevano che un certo cavallino eseguiva esercizi d'aritmetica coi piedi, i quali oggi nemmeno usan più i poeti agli esercizi della prosodia. E si chiamava stupido il «più nobile compagno dell'uomo» perchè è ombroso e perchè ha lo sguardo velato: come se l'adombrare non potesse indicar il prevalere della facoltà fantastica su la fredda ragione, che è indizio di genialità, e come se non ci fossero stati grandi uomini, scienziati o poeti, non solo con velato sguardo, ma con occhi morti del tutto.

Un fenomeno però della razza equina varrebbe meglio a giustificarne i detrattori: il restio. Quale maggiore stolidezza, se volontaria? Fermarsi a un tratto senza perchè manifesto; resistere a ogni stimolo, a ogni esortazione più carezzevole, a ogni più duro castigo: lì, immoto con la testa china, proprio a mo' degli asini malnati, e talvolta con il di dietro alzato a springar calci in ricambio delle frustate, dei pugni su la testa e dei calci nella pancia che l'uomo, per diritto di ragione e di padronanza, elargisce all'animale, indarno.

Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio alle prese con essa, a udirne, tra le bestemmie e gli oh! e gli uh! e i va là! gli epiteti che tempestando e infuriando rivolge all'animale suo (carogna! – vigliacco! o vigliacca! – ignorante! etc), non sarebbe da giudicare appunto che uno stolido capriccio. Ma la scienza, dopo parecchi secoli da che si han cavalli restii, scoperse che il fenomeno non andava e non va chiarito moralmente, e ne accertò la causa fisiologica e patologica.

Si tratta di un disturbo funzionale, nervoso, psicopatico; di un morboso potere inibitorio che improvvisamente impedisce l'atto volitivo del correre. E se è così, nè vi ha dubbio che non sia così, quale passione, mio Dio!, quale martirio! Altro che pungersi alla siepe per l'ostinazione d'andar nel fosso! Pensateci. Pur ammettendo che gli manchi affatto l'intelligenza, non negherete che il cavallo ebbe dalla natura l'esser generoso. Quanto può, dà. Ora, l'accesso del male a che drammatico doloroso intimo conflitto lo condanna! Pensate! pensate!.. L'istinto lo porterebbe alla corsa senza freno, al galoppo fin che gli basti il respiro, e il misero non può più muoversi!; la natura l'ha creato sensibile ai richiami della voce, al tocco delle redini, al dolore delle frustate, e deve star lì immoto, inchiodato, a udir il padrone gridar come una bestia terribile, a ricever le percosse, a tremar a nervo a nervo, a bagnarsi di sudor freddo, senza voce, senza maniera di svelar il suo martirio, di chiedere pietà – non posso più correre! non posso più andare! – ; veder davanti a sè aperta, libera, la strada in cui gli è pur così grato superar i fratelli o seguirli, e aver addosso, intanto, l'apprensione orrenda di non poter più dar un balzo e avviarsi: mai più! Un cavallo! Non sarebbe – dite – una pena atroce quand'anche gli mancasse affatto l'intelligenza? E gli mancasse davvero! Soffrirebbe meno.

Invece…


***

Cenzo Dimondi è ancor vivo e sano, e narra volentieri la storia del suo Baio.

Se capitate alla bottega – tre chilometri oltre Pedriolo, su la destra del Sillaro – ove con Sali tabacchi maiale e altri generi egli vende, fra gli altri generi, vin buono, bevete un bicchiere con lui e fatevi ripetere il racconto: non mi accuserete dopo d'averci introdotto aggiunte sentimentali per renderlo più vero.

– Un cavallo, che i miei ragazzi chiamavan Baio, era la mia delizia – narra Cenzo Dimondi. – Sano, fido e di tanto sentimento che non sopportava nemmeno lo schiocco della frusta. In due mesi da che l'avevo comprato, non mi aveva recato un torto, mai. Quando, un giorno di settembre, venivo da Bologna. Vicino a casa vidi che doveva esser piovuto da poco e che in montagna il cielo s'abbuiava. Tornare indietro, al ponte, e allungare il viaggio per non attraversare il fiume a guado, al solito? No: il fiume non dava segno di cresciuta, nè io potevo immaginarmi che in montagna alta ci fosse stata intemperie. Senza sospetto di quel che stava per succedere calai dunque dalla riva, per la carraia che lei vede là dirimpetto. E il cavallo, tranquillissimo, taglia il primo raggio d'acqua; passa la secca; rimette le gambe nella corrente più larga; tranquillo tranquillo avanza fino a metà e… si ferma.

Lei dice: – un capogiro. Ma col capogiro i cavalli, nel fiume, mi si eran sempre mostrati diversi. Dubitano un poco e basta eccitarli un poco. E lui. Baio, eccitato con la voce, non si mosse.

Non giovando nè le parole nè lo scuotergli addosso le redini, lo tentai con la frusta. Niente. Nessun dubbio più: era restio! Io sapevo anche allora che il restio è quasi una paralisi che dura dieci minuti, un quarto, fin mezzora. Bisognava pazientare, attendere. Ma la mia donna di qui, dalla bottega, mi vide col biroccino fermo in mezzo all'acqua e cominciò a gridare: – Presto, Cenzo, che non arrivi la fiumana! – E i ragazzi: – La fiumana, babbo! – Mi diedi a frustare, prima senz'ira, poi senza misericordia: sopra, sotto, nelle gambe, nel collo, nella testa; la pelle s'enfiava a cordoni. E niente, come se battessi lei, che non c'era. E gli urli della donna e dei ragazzi diventarono più acuti. – Si sente la romba! Scappa, Cenzo, per amor di Dio! – La fiumana, babbo! la fiumana!

Già, avrei dovuto scendere; abbandonar cavallo e biroccino; perderli, chè la piena qui, sboccando dal letto stretto e fondo, rovescierebbe e si porterebbe via un paio di buoi con il carro. Ma mi ero impuntato anch'io. Se il restio è un male – pensavo – , un male più grande lo scaccerà. E mi misi a picchiare il cavallo col manico della frusta tenendolo a due mani. Botte da accopparlo. E niente; come niente!

Disperati, mia moglie e i miei figliuoli, che mi vedevan me là in mezzo e vedevan la piena che arrivava arrivava, ora chiamavano aiuto. – Aiuto! aiuto! – Aiutarmi chi? Non c'eravam che noi, in questa parte, a quel tempo. Aiutarmi in che modo?

Mentre bastonavo e bastonavo, da matto, voltai l'occhio… Mi si drizzan i capelli in testa anche adesso a ricordarmene; mi si gela il sangue nelle vene. L'acqua torba raggiungeva la chiara, dilagava furibonda; le onde…

Stavo per diventar matto davvero; per saltar giù dal biroccino. Se salto giù, mi annego. Le onde tra pochi momenti erano alle ruote, le dico!

Gridai: – I miei figliuoli! – E… Dio! Dio! Il cavallo si slancia; in due, tre balzi trascina il biroccino fuori dell'acqua, si avventa attraverso la secca e su, di galoppo, per la riva: su! su! siamo nella strada. Ah!.. Salvo! Come dentro a un sogno vedo le facce bianche della mia donna e dei miei figliuoli che mi guardavano senza più voce; E qui, davanti alla bottega il cavallo, Baio, mi stramazza. Morto.

A questo punto Cenzo Dimondi non si vergogna a raccogliere due lacrimoni nel fazzoletto. Indi seguita:

– Baio, un cavallo di tanto sentimento, attaccato dal male non sentiva più nè parole, nè frustate, nè bastonate. Ma aveva capito il pericolo: non dico il pericolo di me o di lui: un pericolo spaventoso, quasi di tutti, di tutto il mondo!, e l'aveva capito dalle grida dei miei, dalla romba lontana, dallo squasso vicino, dall'urlo mio. E volle vincere il male che l'inchiodava, a ogni costo. Lo vinse. Ma gli crepò il cuore.

Dopo un'altra pausa Cenzo Dimondi conclude con una dimanda:

– È così o non è così?




A SANT'ELPIDIO


– Ed Elena Baschi, così intelligente, così bella?

– Sempre lassù, tra i monti, a Sant'Elpidio, dove andò maestra la prima volta.

– Maritata?

– Nemmeno.


***

La prima volta che Elena Baschi andò a Sant'Elpidio fu in un nuvoloso pomeriggio, al finire di settembre.

Lungo, interminabile il viaggio. La strada procedeva a salite e discese tra siepi alte, al di là delle quali non si scorgevano, a quando a quando, che i soliti campi alberati e arati, deserti; e per le frequenti svolte anche la vista, dinanzi, veniva spesso impedita.

Gravavano tedio e silenzio. E se la siepe diradava o cessavano i filari degli olmi, appariva, a sinistra, la costa montana, che nebbiosa, senza cime, escludeva l'orizzonte con limite uguale e dava pur essa il senso di una solitudine lunga.

Finchè, dopo una calata, la strada svoltò ancora, improvvisamente… Oh! Meraviglioso! Allo sguardo si aperse, libero e vasto, un meraviglioso scenario. Il passaggio dalla uniforme e scarsa veduta a quell'inatteso spettacolo fu così repentino che ad Elena sfuggì un'esclamazione di gioia.

La strada rasentava la riva del fiume, che precipitava a picco, profonda; e il fiume, svelato di un tratto, spaziava bianco nel greto, brillava a raggi intermittenti nell'acqua: la sponda opposta declinava verde, folta, sparsa di case; e laggiù, dove le rive si distendevano a valle era, da una parte, la chiesa, bianca, grande, col rosso campanile e una fila di pioppi; e dall'altra parte, una tenera frescura di erba, e tra gli alberi festonati di viti, in gruppi, le case del villaggio. Congiungeva le rive un nuovo ponte a begli archi; sorgevano nello sfondo le montagne, prima azzurre, quasi a respirare nel cielo sereno; poi svanivano in una luce cinerea.

– Sant'Elpidio – disse il vetturale.

E in quella dilatata ampiezza, dall'una all'altra di quelle chiare e ariose rive, correva, come per affrettarsi avanti il morir del giorno, una vita possente di suoni e di voci.

Contadini che incitavano i buoi; donne e ragazzi che si chiamavano e rispondevano; muggiti di vitelli; canti di galli; densi cinguettii di passeri. Quindi il tinnire di un'incudine. Quindi, anima che raccoglieva mille anime e interrompeva mille echi, più forte e vibrante si diffuse il suono delle campane.

Elena Baschi, commossa, pensava.

Con l'orgoglio di bastare finalmente a sè stessa, con la superiorità che le prometteva la cultura della Scuola Normale, con la fiducia di aver a compiere una nobile missione non l'attendevano forse lieti giorni in così mirabile luogo? Non potrebbe sperare anche là d'esser degnamente amata? Gli otto mesi da trascorrere a Sant'Elpidio non sarebbero almeno, per lei, come la vigilia di una festa avvenire, la prova meritoria della felicità avvenire?


***

Prese a dozzina la nuova maestra una vedova, vecchia di forse sessant'anni, piccola e grassa; col viso grinzoso, cotto dal sole. Gli occhi vivi; non brutta, e ridente. Ma doveva essere avara, perchè il vitto, abbondante e buono ai primi giorni, andò scemando in quantità e qualità; e nei modi la vecchia dava a vedere una rozzezza inasprita dai pregiudizi e dalle costumanze incivili. Così, faceva che l'ospite desinasse e cenasse sempre sola, sebbene la tavola fosse apparecchiata per due; per l'ospite e per il figlio Agostino, il tiranno.

Questi mercanteggiava in bestiame; ai paesi e alle fiere del monte e della pianura. Era bell'uomo e villanzone. Incontrandosi con Elena, ai primi giorni, si toccava appena la falda del cappello, senza dir nulla; di poi, disse, senz'altro complimento:

– La saluto, maestrina.

D'una volgarità stupida nei brevi discorsi, i suoi motti tendevano sempre ad allusioni sensuali. E avvolgeva Elena d'occhiate lunghe e fredde, da mercante speculatore e da buongustaio mutevole.

Non li temeva essa, quegli occhi; l'assicurava la superiorità dell'intelletto e dell'animo.

La turbavano, al contrario, le occhiate della madre. Quella vecchia espansiva e gioconda con tutti gli altri, aveva mutato aspetto con lei; non dissimulava nello sguardo come una preoccupazione continua, una segreta diffidenza, un'antipatia a stento repressa. Perchè? Elena sdegnava interrogarla.

Il disgusto però le crebbe quando s'avvide che quella osservazione ostile la seguiva anche fuori di casa, da altri; fuori, divenne anzi sgarberia manifesta, dispettosa insolenza. La ragazza della bottegaia l'aspettava su la soglia della bottega per voltarle, vicina, le spalle; la moglie del medico condotto o fingeva di non vederla o rispondeva al saluto chinando appena il capo e fuggendo; la sorella del sarto sorrideva con ironia maldestra; l'ostessa… Che avevano, insomma, coloro? Che aveva fatto, lei, a quelle donne?

Quando potè saperlo, rise. Ingenuamente la madre di una scolaretta le disse un giorno:

– Per quassù lei è una maestra troppo giovine e troppo bella!

Ah ah! Ecco che cosa avevano! Gelosia; invidia; timori d'oscuri pericoli.

Via! Stessero pur tranquille, tutte! Non mirava, no, a rapire l'amante a nessuna, il marito a nessuna, il figliuolo a nessuna! Nè si curò più della guerra esterna.

Ma in casa, per queto vivere, volle subito sollevar la vecchia dello strano sospetto ch'ella cercasse d'innamorarle il figlio. Appena di lui udiva i passi o la voce, scappava nella sua camera.

E la signora Filomena, la vecchia, non tardò ad accorgersi del proposito e a dimostrar gratitudine. Talvolta, piano piano, toccando con l'indice la punta del naso per impor silenzio, entrava a porgerle un uovo appena fatto; talvolta la chiamava dolcemente di sotto la finestra perchè scendesse a prendere un po' di sole con lei.

– Venite giù, poverina! Vi farà bene. E tanto insisteva che bisognava accontentarla. Sedevano a solatio, davanti alla casa e di lato al pozzo e alla catapecchia ov'erano il forno, il porcile e il pollaio. Sotto al fico, dal piede bianco di cenere, la Filomena dipanava matasse all'arcolaio e cantarellava a bassa voce; Elena, seduta sulla panca del bucato, tra l'olla e la siepe su cui asciugavano fazzoletti e borracci, o cuciva o guardava le galline che andavano a letto. Montavano per la piccola scala sbalzando a una a una di piolo in piolo e misurandosi ogni volta, con la testa alta, allo slancio. Su! Ma lassù, là dentro, seguiva un rimescolio di voci e di proteste; e alcune malcontente atterravan di volo e tornavano a beccare nel truogolo. Tra i galletti ancora a terra intervenivano le ultime risse; gli ultimi assalti alle galline proterve. Le oche (non mancavano due oche) si spollinavano a vicenda affondando il becco tra le piume e scuotendo la coda; e il gatto si leccava e lisciava, beato.

Ma già il porco domandava a suo modo la cena; e quando il sole calante accendeva d'una luce d'oro la montagna di là dal fiume, stupenda, la vecchia s'alzava per accontentar il porco, povera creatura, e preparare, dopo, la cena dell'ospite.


***

Questi gli svaghi a Sant'Elpidio! Questa la vita che compensava tanti studi, tanti sacrifizi! Eppoi? Muterebbe mai sorte pur mutando luogo? Ed Elena Baschi nella presente mortificazione fu presa dallo sgomento del futuro, e pianse la sua bellezza sfiorita entro una scuola, il suo ingegno consunto in opera meschina.

Ma della tristezza accorata in cui cadde a poco a poco, ma della desolazione profonda a cui a poco a poco si abbandonò, nè le fatiche della scuola, nè il disagio domestico, nè la stessa mancanza di affetti (orfana; sola al mondo) potevano rendere bastevole ragione. Un maggior male le rodeva l'anima: come un più segreto affanno; come un'aspirazione dell'anima spossata, e pur avida d'un bene ignoto e inconoscibile. Oh fuggire! oh rompere ogni catena! oh morire!

Piangeva guardando dalla finestra della sua camera la mirabile prospettiva dei monti e del fiume e della valle verde, che l'autunno circonfondeva di una soavità luminosa e di una luminosa pace. E non comprendeva che il maggior male le veniva appunto di là, dal contrasto fra la vita esterna e la sua intima vita, dal discordo fra la tentazione di quel cielo e di quella terra piena d'anima arcana e la sua piccola anima riflessa nel suo povero pensiero ribelle.

La sosteneva in faccia agli altri l'alterigia. E non comprendeva l'inconsapevole consiglio che a viver bene le dava, nella persona della vecchia, l'umiltà. Al contrario, della consuetudine con la vecchia risentiva un'irritazione, un fastidio sempre più grave e ormai pari all'odio.

Già esente da ogni soggezione, la Filomena, anche quando la maestra era in casa, cantava a squarciagola i canti della sua fanciullezza; e cantava con impetuosa gioia, interrompendosi talora sol per ripetere l'usato grido – Oh… là! – , che i ragazzi le mandavano dalla pendice opposta. A sessant'anni! Ebbra di vita, così!

– Pazza! – mormorava Elena, tormentata.

Pazza? O piuttosto in quella donna sopravviveva qualche cosa dell'anima primitiva, quando l'umanità non si era fatta estranea e insensibile alla natura? Naturalmente – senza riflessione, senza contemplazione, senza ammirazione – la vecchia cedeva alle stesse energie di vita, che, indistinte, traevano liete voci dagli animali, e colori e profumi dalle piante, e risplendevano nel fiume, contro i monti, nel cielo. E cantava, così, priva di pensiero, per un ignaro irresistibile consenso del suo spirito alla vita universa.

Se non che, al cader del giorno anche lei si raccoglieva; pensava anche lei. E allora soffriva.

Era un presentimento, conoscendo lei pure il carattere aspro, violento, pericoloso, del figliuolo? o era un'oscura temenza che aveva nel sangue, ereditaria? o un panico per qualche recente ricordo di sanguinoso assalto?

Ogni giorno, all'imbrunire, la madre usciva in mezzo alla strada e vi restava immobile, attendendo, in ascolto. Se percepiva da lungi il noto trotto, tanto diverso a' suoi orecchi da quello d'ogni altro cavallo, gridava forte: – È qui! è qui! – ; come annunciasse al mondo intero una miracolosa salvezza; e rincasava trafelata a scaldar le vivande, mentre Elena si ritraeva, saliva alla sua camera. Ma se l'arrivo di Agostino tardava o mancava, allora la madre cominciava a dolersi: – Oh poveretta me! oh Madonna santa! – ; e dalle parole mormorate appena acuiva la voce a esclamazioni angosciose:

– Gli assassini! Oh Madonna santa, se me l'hanno ammazzato, il mio figliolo? Dio! Dio! me l'hanno ammazzato!

Elena, le prime volte che l'aveva vista e udita in tale ambascia, aveva cercato di quetarla, aveva richiesto il perchè di così atroce spavento.

Con sdegno la vecchia le aveva risposto:

– Non sapete nulla, voi!

Ed Elena ripetendo – è pazza! – se ne andava a letto, tormentata perchè la vecchia sino a notte tarda pregava ad alta voce o gemeva in sogno. E il mercante di buoi, quando tornava a notte tarda, sbatteva la porta, parlava forte tra sè; bestemmiava salendo la scala. Forse ubbriaco?

Elena si alzava ad accertarsi che il suo uscio era ben chiuso.


***

Passò novembre. Venne l'inverno.

Quand'ecco, nel pesante silenzio di una sera che nevicava, la folgore, lo schianto tragico.

Elena era già in letto, desta; e udì battere più colpi alla porta.

Chi, a quell'ora? Perchè? Non poteva essere che lui! Non chiamava; mandava, lui – sì, era lui – , un lamento fioco, faticoso, quasi a prova d'ultima vitalità.

Orrenda l'attesa; orrende, a un tratto, le strida che proruppero, della madre: – Il mio Agostino! il mio figliolo! Madonna santa! il mio figliolo!

Elena balzò; e intanto che si gettava indosso la veste, distingueva fra quelle strida atroci, incessanti, lo scalpiccio dei passi per le scale, il sussurro delle voci – di coloro che lo portavano su…

E dall'uscio aperto vide, nell'altra camera, al lume rossigno della candela…; vide; comprese.

Ferito, l'avevano adagiato nel letto… Seguitavan le strida; strazio, spasimo delle viscere materne; odio, esecrazione dell'anima materna davanti l'assassinio del figlio.

Nella memoria di Elena, ogni volta che raccapricciando riguardava la tragica notte, questa sola visione della madre era rimasta evidente; ma del resto il ricordo era torbido, confuso come le immagini d'allora, tra l'ombre agitate dal lume rosso della candela.

E la vecchia che non voleva staccarsi di là, e i due uomini che parevano forzarla senza potere…; due uomini!

Poi, il medico… Giungeva, usciva; tornava dicendo: – laparotomia…; tentare.

E lei, Elena? Nel ricordo si vedeva quale fosse stata sempre là spettatrice, smarrita, tremante, convulsa, nell'ombra. Invece, no: lei sola aveva fatto cessar quelle strida intollerabili; lei aveva tratta a sè la vecchia, l'aveva spinta nella sua camera, l'aveva minacciata – con che parole non rammentava – perchè tacesse.

E la madre, che aveva urlato così il suo dolore, con uno strazio di maternità selvaggia, era caduta a sedere affranta, in un pianto dirotto e cheto; povera vecchia sublime.


***

Morì. E la maestra udì dire che le due coltellate se le era meritate in un litigio all'osteria. Quasi potesse esser giusto tanto dolore; il dolore della madre, cui nessuno all'infuori di lei, che v'assisteva ogni giorno, pensava commiserando!

La vecchia riprese le abitudini domestiche; ma sembrava impietrita dentro. Taceva sempre, ora; e quel silenzio, in essa di natura così clamorosa, commoveva più che lagrime e lagni. Non solo. O perdeva la coscienza della sventura cadendo per la stessa fissità del pensiero in uno smarrimento mentale, o con volontà ferma, con energia chiusa e voluttuosa la povera donna cercava d'esasperare il suo soffrire nulla omettendo delle antiche abitudini.

E ogni sera apparecchiava la tavola, come un tempo, anche per lui! Sparecchiava, dopo, e sospirava; come soleva le sere che il suo Agostino non tornava a casa.

Nè Elena, per quanto si provasse, riusciva a confortarla. Alle parole che venivan dal cuore e che spontanee e sincere avrebbero fatto tanto bene a una donna educata, la Filomena scuoteva le spalle, sfogava lo sdegno brontolando: – Siete una signorina, voi! – Nella fiera vecchia il dolore pareva a volte condensarsi in astio; i suoi occhi mandavano lampi d'ira: per un orgoglio barbaro. Nessuno doveva tentar di scemare il suo disumano dolore. Nessuno!

Trascorso più d'un mese, mutò; s'intenerì alquanto; schiarì gli occhi e il viso attendendo alle pratiche religiose. Prima d'andare a letto recitava il rosario e il Deprofundis; ma Elena, che a seguirla nelle preci si era sentita costretta come da necessità, doveva non dar segno di compianto. Guai se la vecchia le scorgeva gli occhi rossi! La guatava bieca: non la riteneva degna di soffrire per lei!

E con l'andar del tempo Elena, dianzi piegata dalla compassione, tornò a ribellarsi. Si sottrasse a quei modi d'intolleranza. Che obbligo, alla fine, aveva lei di patir tanto per una persona alla quale non era stata congiunta che dalla sua propria sfortuna? Che compenso aveva avuto del suo soffrire? Che speranza poteva riporre nella convivenza con una donna tale; tanto diversa da lei; a lei contraria del tutto, in tutto? E si confermò nel proposito di partir di lassù. E cambiava discorsi e maniere. Non cercava più affatto le buone parole; non si rammaricava più che non fossero comprese e gradite le attenzioni del suo pensiero gentile e vigile. Divenne ruvida; sin impaziente. Taceva lei, ora. Si meravigliava essa stessa, ma non le dispiaceva, d'aver forza bastevole per non rispondere alle richieste che la vecchia era pur costretta a rivolgerle; e quando bisognava, richiedeva con tono altezzoso; senza guardare.

Alla metà di giugno: via! Se n'andrebbe! La liberazione!

Ebbene, allora, nell'attesa, Elena s'accorse che la Filomena posava su di lei sguardi di nuovo indagatori; quasi a leggerle nell'anima. E quasi indotta in un'apprensione diversa, la vecchia cominciò a starle attorno con nuove premure, con attitudini timide, incerta tra la soggezione e la confidenza. Pareva aver acquistata la coscienza de' suoi torti e aver bisogno di perdono e dimandare con gli occhi la pietà che per l'addietro aveva disdegnata, l'affetto che aveva respinto.

Finchè, un giorno, a voce bassa, con le labbra tremule, uscì a dire:

– Voi, Elena, gli volevate bene: è vero?

E gli occhi materni rifulsero dietro il velo delle lagrime.

Elena perdè d'un tratto la sua energia. Stupita, non ebbe coraggio di negare. Non rispose; sviò lo sguardo. E la vecchia:

– Me n'ero accorta, io! E avevo paura che vi sposasse! Ma sarebbe stato meglio…

Bel complimento! Meno male che il suo Agostino sposasse lei, anzi che morire ammazzato! Ma Elena non rise. Non potè riderne neppur dopo; perchè dopo, la vecchia si rivolse a confortar lei per confortarsi con lei.

– Rassegnatevi, poverina! – le diceva – . Pugni al Cielo non se ne posson dare. Ma il Signore è giusto; e voi sapete se era buono, il mio figliolo! Ah se era buono!

O le diceva:

– Cerchiamo d'esser buone anche noi, e lo rivedremo in Paradiso, il mio Agostino.

Elena non aveva questa speranza, nondimeno taceva; non commetteva la crudeltà di contrariare col minimo atto l'illusione della povera vecchia. – Che ignorante! – pensava. – Stolida! Credere che io ne fossi innamorata!; che desideri, io di rivederlo in Paradiso! Io!

E contava quanti giorni mancavano alla chiusura della scuola, e sospirava l'ora che se n'andrebbe. Ma sentiva che il distacco non sarebbe agevole; sentiva che il dolore vincola più dell'amore e che, no, non invano aveva sofferto per quella povera vecchia ignorante e stolida. Bisognava dirle: – Me ne vado. Vi abbandono, per sempre – . Era un pensiero penoso.

Quando un giorno, uno degli ultimi giorni avanti le vacanze, credè giunto il momento opportuno a dar l'avviso. E rincasando, udì… Oh una cosa insana! incredibile! Al solito luogo d'un tempo, sotto al fico, mentre rigirava l'arcolaio, la Filomena cantava a squarciagola! Appena otto mesi dopo aver perduto il figlio in quel modo, cantava; ripresa dal fervore che nel giugno pieno di vita la natura le effondeva d'intorno, dal cielo caldo e luminoso, dai campi dorati di grano e verdi di messi, dai monti azzurri e solatii, dal fiume bianco e lucente. Cantava! Nè volgendosi sorpresa, arrossì; non si vergognò. Interruppe il canto; attese che Elena le venisse vicino. E sorrideva, in un modo…

Elena s'avvicinò per dirle (tanto, non era pazza quella vecchia?), per dirle: – Alla fine della settimana, parto. – Ma prima che parlasse la vecchia le prese di forza la mano, la costrinse a piegarsi verso di lei, sul suo petto, le accostò al viso le guance grinzose, la baciò su la fronte.

Poi si scostò d'un tratto per guardarla – oh con tutto il cuore negli occhi, con un affetto immenso! – , e mentre i lagrimoni le calavano su le grinze e sorrideva: – Il Signore è buono – mormorò – . Mi ha tolto il figliolo, ma mi ha dato una figliola. Tu, sei tu, non è vero?, la mia figliola!




L'OMBRELLO





I


Si accompagnarono, per caso, un pomeriggio del giugno, ai Giardini pubblici, e godettero a trovarsi coetanei o quasi. Ottantatrè, ne aveva l'uno – Ceccuti – ; ottantaquattro, l'altro – Boldrighi.

Bell'età!, e portata così bene da entrambi, con aspetto così vegeto, che, quantunque fossero molto diversi nella faccia e nella persona, ai loro occhi parvero assomigliarsi come fratelli. Ma risentirono un'impressione anche più forte a ripetersi, a vicenda, il nome.

– Io debbo averlo conosciuto, un Boldrighi.

– E io, un Ceccuti.

Dove? quando? Poichè Ceccuti, partito non ancora trentenne da Bologna, vi era tornato da soli due anni col figlio pensionato delle Ferrovie, e poichè Boldrighi non aveva mai perduto di vista le due torri, il loro incontro, se era avvenuto mai, bisognava rintracciarlo qui, a Bologna, più di mezzo secolo addietro. Vattelapesca!

Riandarono fin i tempi della puerizia, rievocarono maestri e condiscepoli, cercarono relazioni famigliari, investigarono nella storia contemporanea della città, si raffigurarono in mezzo alle maggiori solennità e alle più famose vicende: e niente!, lo sprazzo di luce rivelatrice non veniva.

Eppure conservavano freschissima la memoria delle cose lontane.

Pensa e pensa… A un tratto Ceccuti esclamò:

– Si ricorda, lei, di una certa Rosa detta la…?

– … la Garibaldina! – esclamò Boldrighi, arrossendo nelle gote grassottelle.

Non fu un lampo: fu la folgore a squarciare le tenebre.

Ah! ah! Guarda dove, come si erano conosciuti!

– La Garibaldina! – Ceccuti ripetè con le palpebre socchiuse.

– Sicuro! Eravamo due dei Mille!

E risero forte. Ma tosto si ritrassero da quel ricordo, che potendo avrebbero cancellato volentieri dalla loro biografia.

– Quando si è giovani… – fece l'uno, in tono di chi si scusa.

E l'altro:

– Consoliamoci che, a differenza di tanti, noi siamo ancora qua a raccontarci le nostre pazzie.

– Ah sì! Io sto benone; sano di spirito e di corpo.

– E io? Chi lo crederebbe? Io non ho mai avuta una malattia grave.

Ne aveva avute, invece, Boldrighi; ma gli eran giovate a depurargli il sangue.

Poi: moderarsi in tutto; rinunciare quasi a tutto; questo era da un pezzo la norma di Boldrighi, per mantenersi vegeto.

Ceccuti scosse il capo.

Moderazione in tutto; ma non rinunciare quasi a nulla: questa invece la norma sua.

Così, egli beveva anche adesso vino buono a colazione e a desinare; faceva una deliziosa pipatina dopo colazione e dopo desinare. E si manteneva in gamba!

Di fuori Porta Saragozza, ove abitava, il giorno andava in centro, e la sera veniva ai Giardini e rincasava sempre a piedi.

– Il moto è la vita.

Boldrighi scosse ora lui il capo, disapprovando.

– La macchina quando è vecchia bisogna risparmiarla.

Niente Bacco e niente tabacco! Egli campava di latte e ova; e per andar a casa, in via Mascarella, prendeva il tram a Porta Santo Stefano e il tram di Piazza. Una passeggiatina e boccate d'aria libera bastavano a impedir che la macchina arrugginisse.

Discordavano, insomma, nel regime igienico; ma li allietava a un modo la convinzione di aver trovata la via per campare il più possibile e bene.

– Il mondo non mi è mai parso bello come adesso – affermò Ceccuti.

E Boldrighi canticchiò:

– Sempre allegri e mai passiòn!




II


Quella tarda amicizia fu per i due buoni vecchi una nuova fiducia a vivere. Sin dal principio avevano compreso che la presenza dell'uno testimonierebbe agli occhi dell'altro il suo proprio benessere, e che il rimanente viaggio sembrerebbe loro anche più agevole e grato a compierlo insieme. Perciò vedersi ogni sera divenne, più che consuetudine, necessità.

Giocondamente, seduti al solito luogo ai Giardini, si riferivano le liete memorie, escludendo le tristi o solo accennandole; si meravigliavano di casi consimili; scoprivano conformità di carattere, di azioni, d'idee. E non discorrevano di politica.

– Non vogliamo guastarci il sangue.

– Vogliamo andar d'amore e d'accordo.

– Si sta così bene al mondo in pace e quiete!

– Sempre allegri e mai passiòn!

Forse la decrepitezza comporta il più intenso desiderio di esistere e concede ogni giorno, ogni ora, ogni minuto il piacere di quel desiderio esaudito, come per miracolo, per singolare grazia di Dio, o per giusta predilezione della sorte?

Una quasi sola apparenza vitale nasconde il disfacimento del corpo, e appunto allora l'istinto della conservazione esulta in un placido egoismo; la morte è dietro le spalle, e non si vede; non si vede il limite estremo perchè già un piede v'è sopra: e prevale sensibile di continuo, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, la sodisfazione di chi si scorge superstite in una strage e di chi dall'aspra realtà dell'esistenza attinge una illusione non interrotta di vago sogno.

Ma guai se contrasti e sospetti sottentrino a risvegliare e tener sveglia l'apprensione della fine imminente!

Quei buoni Ceccuti e Boldrighi non avevano presentito l'amaro che in fondo a tanta dolcezza amichevole condenserebbe l'emulazione istintiva, la gara, tra ingenua e insana, a chi dei due campasse di più, fosse anche, il di più, un anno solo. E il dissidio che doveva corrucciarli era appunto nel regime adottato per campar un pezzo. Cominciarono a guardarsi chiedendosi dentro: – Sta meglio lui di me? Sarebbe meglio mi mettessi anch'io a latte e ova? – Oppure: – E se bevessi anch'io qualche bicchiere di vino? se dessi anch'io qualche fumatina per aiutar lo stomaco a digerire?

Nel dubbio, tentavano dissimulare sempre più i disturbi e gli acciacchi, e lo sforzo si manifestava nell'aspetto. Allora riprendevano fede e pensavano guatandosi l'un l'altro: – Mio caro, come siete brutto, oggi! Se non mutate usanza, tocca a me cantarvi una requiem!

Ma la consolazione non durava; tornava presto il dubbio, il sospetto, l'apprensione. E a poco a poco provarono il bisogno di sfogarsi, convinti, come erano, che ogni tentativo dell'uno per condur l'altro al suo metodo riuscirebbe vano.

Presero a contraddirsi, a polemizzare; insistenti, caparbi. Le dispute diventarono presto diatribe; e per non mostrarsi deboli cedendo, quando uno era messo alle strette, insolentiva; e l'altro ribatteva.

– Sissignore!

– Nossignore!

– E io vi dico di sì!

– E io vi dico di no!

– Con voi non si ragiona. Ostinato più d'un mulo!

– E voi? È inutile consumare con voi il ranno e il sapone!

Non tacevano finchè non dicevano a un tempo:

– Basta! – Basta!

E Ceccuti prendeva e leggeva (senza occhiali) il giornale o il libretto delle spese quotidiane, e Boldrighi con la punta del bastone imprimeva su la sabbia la fisionomia di un asino (senza occhiali) e ci faceva sotto un bel C affrettandosi però a cancellare il disegno prima che l'amico se ne avvedesse.

Quando l'orologio alla chiesa di San Giuliano suonava le otto sorgevano in piedi; s'accompagnavano, sempre zitti. E alla barriera si separavano con un freddo «buona notte».

Boldrighi andava adagio alla Porta di Santo Stefano ad attendere il tram, e Ceccuti marciava lungo la circonvallazione, alla volta di Porta Saragozza.

Il dimani passavano ore di pena a rimeditar i dibattiti, le provocazioni, le accuse, le offese, le difese. Borbottavano: – Stasera non ci vado. Già, se ha un po' di amor proprio, non ci andrà nemmen lui, ai Giardini: gli ho dato del mulo – gli ho dato dell'asino! – Bisognava finirla! Rottura!





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