Книга - Una Bolla Fuori Dal Tempo

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Una Bolla Fuori Dal Tempo
Andrea Calo'


”Quando mi vedrai morto d’amore per te, mia donna, e le mie labbra saranno schiuse, e svuotato dell’anima sarà il corpo… allora, vinta dal dolore e dal rimorso, verrai al mio capezzale e con voce tenera e sommessa dirai: Io sono colei che ti ha ucciso e pentita sono ritornata…”.



Due corpi, una sola anima. Un ritorno alla vita un secolo e mezzo dopo la prima volta che annienta i confini imposti dal tempo. Una nuova vita o solo un riscatto. Ma certamente un nuovo amore che sboccia nella rivisitazione aggiornata di un passato ormai estinto.



”UNA BOLLA FUORI DAL TEMPO” è un Romanzo ricco di emozioni, di immagini e di colpi di scena che tiene il lettore incollato fino all'ultima pagina.

E se fosse vero che tutti noi viviamo più di una vita? E se crescessimo con la certezza di ricordarne una precedente?



Katherine, da tutti chiamata Kate, è una giovane donna italoamericana che vive a New York. Molti sono convinti che abbia problemi mentali, la sua famiglia d’origine compresa. Ma non è così: la sua particola¬rità è che sembra ricordare con assoluta nitidezza i dettagli di una sua vita precedente, vita vissuta in un luogo lontano dalla sua città natale. Ormai trentacinquenne, decide di tornare a Joseph, nella contea di Wallowa, Oregon, dove è cer¬ta di aver vissuto. Cerca il suo passato, ciò che fu la sua anima rinchiusa nel corpo di una donna d’altri tempi. Costretta a fermarsi a Portland per una tempesta, incontra John, con cui percepisce una strana affinità. Lui si offrirà di aiutarla a cercare le tracce di questo passato che non smette di ossessionarla. Un quadro, un bacio, una casa ed un diario scritto da lei stessa nella seconda metà dell’ottocento, tutto converge verso una rivelazione mozzafiato serbata per un finale capace di rendere questo romanzo indimenticabile.





Andrea Calò

UNA BOLLA FUORI DAL TEMPO




Romanzo



Prima Edizione – Gennaio 2013





Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.




© Copyright 2013 – Andrea Calò

ISBN: 9788873042877

@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it (mailto:andrea.calo_ac@libero.it)



Edizioni TEKTIME


A tutti coloro i quali sanno di avere almeno un angelo in Paradiso.







RINGRAZIAMENTI


Scrivere un libro è come partire per un viaggio. Si fanno le valige, si parte da un punto preciso e si procede cercando di raggiungere il punto d’arrivo, la meta desiderata. Ma come a volte accade durante un viaggio, le insidie, gli errori, le paure e gli imprevisti sono lì pronti a sorprenderci, a frenarci, a volte al punto di farci desistere dal proseguire. Con l’aiuto delle persone che ci stanno accanto o di quelle incontrate lungo la strada, si riesce tuttavia a venirne fuori, a volte con facilità, altre con estrema pena; ma non ci si siede mai sull’errore, per non perdere l’investimento fatto. Durante questo viaggio ho avuto diverse persone al mio fianco, tutte mi hanno spronato e incoraggiato a continuare il cammino, a realizzare quel sogno che da tanti anni tenevo chiuso in un cassetto, permettendomi di aprirmi completamente ad esso, al mio progetto.

Grazie a mia moglie Sonia che più di tutti ha creduto in me, da sempre, per la paziente lettura delle bozze avvenuta sin dalle prime fasi di preparazione di questo testo e per le fertili discussioni che hanno portato alla creazione della trama di questo romanzo.

Grazie ai miei genitori, che mi hanno donato la vita, mi hanno cresciuto e istruito, permettendo che tutto questo si trasformasse in realtà.

E infine, ma non da ultimo, grazie a te Elena, per aver istruito il mio cuore e guidato la mia mente durante tutto questo percorso: qui dentro c’è davvero una grossa parte di te.




CAPITOLO 1


Penso che una storia come la mia non sia stata mai raccontata. Forse per paura del giudizio degli altri, o forse per quel sottile velo di pazzia che la accompagna.

Mi chiamo Katherine o più brevemente Kate, mi dicono che sono nata trentasei anni fa a New York, dove tuttora vivo, da padre italiano e madre inglese. Il mio non è quindi sangue americano. La mia data di nascita è impressa sul passaporto, accanto alla mia immagine, e incisa con inchiostro di china sulle fotografie ingiallite dal tempo che mia madre mi fece quando ero bambina. Io sono però convinta di aver vissuto di più, molto di più. Forse il doppio dei miei anni, se considero anche quelli che io ritengo vissuti dalla donna che fui nella mia vita passata. Conservo chiari i ricordi, lucidamente ordinati nella mia mente come se si trattasse della mia vita attuale, li rivisito quando ne ho voglia o ne sento il bisogno. Penserete che io sia una povera pazza in preda ad una crisi d’identità e forse avete ragione. Lo pensava anche mia madre, quando da piccola le raccontavo le storie dei miei amici grandi con i quali parlavo e condividevo esperienze e sensazioni che possono essere parte solo della vita di una donna, non di una bambina. Parlavo di persone che lei sosteneva esistessero solo nella mia mente di bambina. Nei primi anni della mia vita lei assecondava il mio stato d’essere, la mia doppia identità, associandola alla mia immaturità e al mio innato attaccamento al gioco. Credeva, infatti, che io stessi giocando, che cercassi di interpretare i ruoli di un personaggio creato dalla mia fantasia e che prendeva vita e forma attraverso le mie parole e i miei comportamenti. Ne andava anche sì fiera di tutto questo perché ai suoi occhi di madre orgogliosa apparivo in tutta la mia unicità. Era certa, però, che con il tempo questo gioco sarebbe finito da solo proprio così com’era iniziato, permettendomi di cedere lentamente il passo al mio divenire donna. Ma non fu così perché quello per me non era affatto un gioco. Io conoscevo molto bene le persone con cui parlavo e che descrivevo a mia madre nei minimi dettagli, le sognavo frequentemente anche durante le notti. Un gioco non lascia emozioni tanto forti o ferite laceranti nell’animo, come invece accadeva nel mio caso. Mia madre mi portò da illustri medici della mente, profumatamente pagati per confermarle alla fine dei pensieri che lei stessa già aveva. Si sentiva confortata dalle loro conferme ma soprattutto dalle rassicurazioni su una mia prossima guarigione. ‘E’ solo una questione di tempo’, le diceva il luminare di turno. E lei ci credeva puntualmente, senza mai privarsi di quelle lacrime di sfogo che venivano a riempirle gli occhi, ogni volta. Per tutti io vivevo una doppia identità. ‘Solo in questa vita’, pensavo io di volta in volta. Mi fu sempre proibito di fare qualunque cosa potesse permettermi di ripercorrere il mio passato, quello più lontano, quello ormai estinto da tanto tempo. Forse più per paura di mia madre di scoprire un bel giorno che la sua pazza bambina aveva sempre avuto ragione e non per un reale atto di protezione nei miei confronti. Mentre la osservavo immobile sul suo letto di morte, serena in volto per il riposo eterno che l’aveva appena accolta, compresi che anch’io dovevo essere già passata attraverso quella fase, anche se mi sentivo totalmente incapace di raffigurarla, di descriverla e quindi di raccontarla agli altri, oltre che a me stesa. Non potevo però più farle del male con l’esternazione dei miei pensieri, con il mio desiderio di scoprire l’altra me stessa ormai estinta da molto tempo.

Sono intrappolata da un tempo eterno, prigioniera di una bolla trasparente. Migliaia di altre sfere di celluloide levitano nell’aria, avvolgendo altrettanti individui che, come me, si muovono goffamente all’interno. Tutt’intorno, come un branco confuso di animali, una massa di persone si presenta davanti alle grandi bolle: cercano un appiglio per aggrapparsi e, con occhi supplichevoli, muovono le labbra e dicono parole che non riesco a comprendere. Vaghi ma lucidi sono i ricordi, come i sogni dimenticati appena sveglia, ma nitidi fino a un attimo prima. Sfiorano la mia mente turbandola: anch’io, per parecchi anni, devo essere stata là fuori, ma non riesco a congiungere il tempo con le immagini e tutto rimane al fluttuante livello d’impressione.

La mia memoria è un vuoto che ogni tanto si popola d’immagini in bianco e nero. E non c’è spazio neanche per un ricordo in un vuoto quando è ricercato dalla mia volontà. Cerco di avvertire la gente delle sensazioni che provo per farli allontanare, ma non sembrano sentirmi o vedermi. Sono completamente isolata. Quelli di fuori, pur senza vedermi, indicano verso di me in strani modi. Alcuni accarezzano le sfere, degli altri vi appoggiano il capo contro, cercando di captare ogni minimo movimento, mentre altri ancora sorridono senza un motivo apparente. Dentro di me si fa largo il sospetto di assistere a uno spettacolo messo in scena da creature immaginarie: trasposizioni della mente nella mia passata, presente e futura coscienza, guizzi da un passato dimenticato ma non sconosciuto e rivolti verso un futuro incerto. Non so cosa significhino le parole che penso, forse sono solo conoscenze ataviche, rimaste per secoli a livello inconscio, ma sembrano le più adatte per esprimere ciò che sento.

Anche se non sono sicura che fuori sia meglio, la voglia di uscire cresce dentro di me, facendosi spazio con prepotenza: sono stanca del tiepido calore e della triste sicurezza della bolla. Comincio a cercare una crepa all’interno della cella, ma ancor fatico a trovarla. Il ritorno a visioni antiche, quasi ataviche, ma proprio per questo sicure, mi ha impedito di vedere il mio ultimo sussulto. L’ultimo anelito di vita arso dal fuoco della mia scomparsa si è innalzato sopra di tutto e tutti, formando una nuova bolla in cui si è ricomposto il corpo. Nessuno fu in grado, però, di vederla. Ecco, hanno perso tutti una buona occasione per capire, io inclusa. Probabilmente non capiremo mai: la novità porta l’ignoto e la paura, mentre il ricordo conforta con certezza e sicurezza.

Qualcosa di nuovo sembra formarsi nella mia mente- Sono quelle immagini confuse e sovrapposte alimentate da un corpo che mi porta avanti e indietro, che poi, alla fine di tutto, mi abbandonano sempre qui. Il tempo e le immagini da sole non si congiungono e tutto svanisce ancora prima di cominciare. Voglio uscire! Batto i pugni, urlo e piango. Non serve a nulla, nessuno mi ascolta, se non la mia coscienza.

Probabilmente la bolla è trasparente solo dalla mia parte e quelli che stanno fuori sembrano ora avvertire solamente i miei movimenti. Si avvicinano curiosi, per capire proprio come faceva mia madre. Fissano con aria trasognata la sfera che sembra portarli indietro nel tempo con me. Ricominciano a parlare, parole che non riesco ancora a capire, ma dalla loro espressione sembra quasi che m’invidino. Mi metto di nuovo alla ricerca di una via d’uscita. E’ stato inutile fino ad ora cercare, perché il tempo doveva fare il suo corso e la conoscenza aveva necessità di completarsi. Solo adesso sento l’approssimarsi del momento della mia nuova nascita, non posso mancare a quest’appuntamento per me così importante. Della luce esterna filtra da una piccola fessura che tende ad allargarsi, ed è da lì che uscirò, per capire.

Da un po’ troppo tempo ho cominciato a comprendere le parole che dicono quelli di fuori, grazie anche all’aiuto e alla presenza costante di mia madre nella mia vita. “Dobbiamo entrare per uscire con te”, ripetono all’infinito, con i visi supplicanti e tirati per la vana attesa. Barlumi di vite passate e future sconvolgono le mie espressioni, sensazioni passate, presenti e future sono le cappe pesanti della mie e delle loro esistenze. Leggo nelle loro menti paure infantili, ingigantite dagli anni e dall’esperienza. Occupano la maggior parte delle loro memorie, angoli bui e solai decrepiti aleggiano nei loro cervelli, cinte di cuoio sibilanti e guidate da mani callose, visi sformati dalla rabbia e dalla delusione albergano in modo indelebile nelle pupille, urla e minacce riecheggiano nei timpani. “Dobbiamo entrare per uscire con te!”. La materializzazione delle ossessioni ricorrenti e delle consuetudini più assurde, inculcatemi con la forza nel cervello da genitori non scelti da me. Dicono che vogliono entrare per uscire con me, per eliminare l’assillo di paure passate e di conseguenza senza neanche quelle presenti o future; ma devono fare attenzione perché laddove il tempo perde ogni valore è facile che il passato si confonda con il futuro e ne occupi il posto.

La fessura si allarga sempre di più, provo a uscire, spingo, faccio forza con le piccole spalle, cado sul pavimento nudo e freddo. Poi mi ricompongo e scopro di essere tornata quella di prima. Nulla è cambiato e nulla cambierà. Improvvisamente, uno scatto repentino e disperato, centinaia di persone si muovono verso la bolla: forse, attraverso la fessura che si è già richiusa, qualcuno è riuscito a entrare. A me la sfera appare trasparente anche dall’esterno, e solo le persone assiepate intorno ad essa m’impediscono di vedere dentro. Ma se uno di loro fosse riuscito a entrare, arriverà fino in fondo, completerà il ciclo soltanto se trasformerà la sua memoria in un vuoto. Non c’è spazio da riempire in un vuoto. Mi guardo intorno e so, anche senza ricordare, di essere già stata qui in questo mondo. Meglio così: senza i ricordi il mio passato non potrà mai più essere anche il mio futuro. Semplicemente perché non lo rammento. So solo che il momento della mia morte è coinciso con il formarsi della bolla. L’inizio della mia rinascita. Vita e morte si confondono, passato e futuro si sovrappongono e il tempo non esiste più. Chi ha perso la speranza e non ha compreso che la fine sarebbe nient’altro che l’inizio, non potrebbe mai capire chi ha addirittura oltrepassato i limiti del tempo e dei ricordi come ho fatto io. Resteranno per sempre prigionieri dei propri ricordi, delle proprie ossessioni e delle proprie angosce.

Il tempo ha perduto ogni suo significato, lui sarà nostro padre. Mi volto un attimo indietro, gli altri non ci seguono più. Anche mia madre, sono tutti ritornati verso le loro sfere. Non ci vedranno più. Forse non ci hanno nemmeno mai visto per quello che in realtà siamo.

Raccolsi le tracce di coraggio che ancora mi erano rimaste, scrollai dal mio corpo e dalla mia mente tutti i divieti che mi erano stati imposti negli anni e presi atto che era ormai giunto per me il momento di ripercorrere i miei passi, uno dopo l’altro, in sequenza. Avrei dovuto superare la barriera di quell’indefinibile periodo buio intercorso tra le mie due vite e del quale non avevo, e tuttora non ho, nessun ricordo, nessuna immagine lucida. Quando rivedo il mio passato, perdo il contatto con la realtà del mio presente. Me ne stacco, e la mia mente inizia a viaggiare, accompagnata dal mio corpo…



Vivo a Joseph, nell’Oregon, in una casa di legno che si affaccia sulla riva del lago Wallowa, uno splendido specchio d’acqua scavato tra le omonime montagne che lo circondano. La casa è posata su un piccolo promontorio, dal quale essa domina il lago in tutta la sua estensione, così come le poche altre case che si trovano in questa zona, per lo più abitate da pastori e contadini. Il monte Sacajawea è ben visibile dal giardino e dalle camere, con tutta la sua imponenza e il candore delle nevi che lo ricoprono per buona parte della stagione fredda. La casa è piuttosto grande, forse troppo perché ospiti una persona sola, probabilmente. Gli spazi dalle dimensioni maestose, quasi dispersive, si plasmano a tutte le cose che si possono trovare da queste parti. La facciata esterna è dipinta di un colore rosso intenso, interrotto dalle bianche finestre e contrastato dal tetto in elegante ardesia, leggermente sbiadito dal sole e macchiato dalle colonie di muschio verde che lo popolano sul versante più freddo e umido. E’ ben visibile anche da lontano, soprattutto quando la tintura è fresca e lucida al punto da riflettere bene i raggi del sole. All’interno invece regna il nudo legno con il suo colore naturale, non ho mai desiderato modificarlo per mia scelta, nonostante i consigli della gente. Io vivo isolata, come un’eremita lontana dal mondo, dalla comunità. Ho sempre desiderato la pace e odiato il confronto. Nessun rumore diverso dai suoni prodotti dalla natura disturba il mio tempo, le mie notti così come i miei giorni. Nelle notti di luna piena, la luce penetra con prepotenza nelle stanze e mi si dispiega accanto, accompagnandomi nei miei pensieri, prendendosi gioco delle tende che ricoprono le finestre, rischiarandole completamente. Non servono le candele, ma io le accendo lo stesso perché adoro il profumo della cera disciolta dall’incontrastabile forza del fuoco. Con loro, accendo anche il fuoco del camino nelle fredde notti invernali. Amo il fuoco e il calore che esso sprigiona con la sua energia, i profumati ceppi di legno di pino, ancora intrisi della loro stessa resina, che bruciano lentamente, il crepitio prodotto dalle fiamme che li attraversano. Scrivo i miei pensieri in un diario, perché alla mia morte io non possa svanire del tutto. Verserò il contenuto delle mie giornate e tutte le mie emozioni sulle sue pagine, traducendole in tratti d’inchiostro nero che qualcuno un giorno potrà forse leggere, se avrà voglia o curiosità di scoprire qualche cosa di me o se vorrà forse ritrovarmi. Mi aiuta l’immagine imponente del mio adorato lago, sul quale sono nata quarantacinque anni fa e che vedo dalla finestra della mia stanza da letto, ogni giorno. Non v’è al mondo un quadro migliore dipinto da pittore alcuno. Ho voluto sistemare lo scrittoio proprio nel punto da dove si può godere il panorama migliore, perché mi possa accogliere e accompagnare al meglio durante le mie confessioni quotidiane. Mi sia concessa la capacità e la grazia di non annoiare oppure offendere alcuno e, se così non fosse, vi chiedo perdono e vi prego di non maledire la mia persona ma semplicemente di riporre queste pagine nel luogo dove le avete trovate o renderle a coloro i quali ve ne hanno fatto dono. E tu mio amato, se mai leggerai questi pensieri, legali sempre all’amore che sento per te. E se puoi, perdonami.



Sistemai le cose più importanti in una valigia sufficientemente grande ma senza porvi troppa attenzione, prevedevo una durata piuttosto lunga per il mio viaggio. Quantomeno questo era quanto mi ero prefissata prima di partire. La mia valigia conteneva vestiti pesanti e caldi, essendo la stagione ormai prossima a un inverno, si diceva, piuttosto rigido. Le calde giornate estive erano ormai un lontano ricordo, tuttavia il freddo non mi è mai dispiaciuto. Mi aiutava a pensare, mentre me ne stavo beatamente seduta sul divano del mio caldo salotto, con una tazza di tè al gelsomino fumante tenuta ben stretta tra le mani. Rinnovato il passaporto, prenotai il volo American Airlines in partenza dall’aeroporto J.F.K. alle cinque del pomeriggio del giorno seguente e diretto a Portland. In settimana si poteva trovare sempre un posto con una certa facilità, anche all’ultimo minuto e a costi non eccessivi. Tuttavia l’aspetto economico non m’interessava per nulla in quel momento, le mie priorità erano ben altre. L’arrivo a Portland era previsto intorno alle otto di sera. Non trovai voli diretti per Joseph, quindi avrei percorso il tratto da Portland al Wallowa con i mezzi pubblici. Non sarebbe stata una passeggiata, la distanza di 343 miglia da coprire avrebbe richiesto ben sette ore di viaggio. Avrei chiesto informazioni direttamente in aeroporto, al mio arrivo. Speravo di trovare un mezzo in partenza la sera stessa, per coprire la tratta durante la notte. Lasciai quindi la città senza annunciare a nessuno la mia partenza. Registrai solo un messaggio con la mia voce sul nastro della segreteria telefonica. Volevo evitare di sentirmi data per dispersa o vedere la mia faccia sbattuta in primo piano in televisione nella rubrica dedicata alla gente scomparsa o sulle pagine dei giornali di cronaca. Sarebbe stato d’intralcio per me, mi sarei sentita pedinata ovunque mi fossi diretta, negli Stati Uniti o nel mondo intero. Tuttavia non volevo nemmeno dare troppi dettagli a riguardo, quindi mi limitai a notificare la mia assenza temporanea con la promessa di un contatto futuro. Il messaggio diceva:

Scusatemi ma non sono in casa. Sono partita per un viaggio, ci sentiremo al mio ritorno.

Seguito dal tono che annunciava l’inizio delle registrazioni.

Erano ormai passati tanti anni dal giorno della mia ultima attesa in coda al check-in nell’aeroporto J.F.K. L’ultima volta che avvenne, fu per un viaggio organizzato da mia madre, per farmi riesaminare la testa da uno psicologo che operava in una località che non ricordo, al confine con il Messico, da lei considerato molto bravo e sicuramente in grado di porre fine al mio “problema”. Ovviamente non fu così perché io non ho mai vissuto la mia situazione come un problema. Il tempo scorreva lento. I miei occhi erano distratti dalle lancette dell’orologio che parevano incollate, immobilizzate sempre nella stessa posizione, piuttosto che dalla gente che mi precedeva o mi seguiva in coda. Osservavo tuttavia le persone camminare velocemente, quasi correndo, mentre si trascinavano dietro le grosse e pesanti valige a rotelle. Questa gente era avvezza a tali ritmi di vita, s’intuiva facilmente, tant’era ormai divenuta un’abitudine per loro. Le persone davano all’aeroporto la parvenza di un centro cittadino: entravano a mani vuote nei negozi e ne uscivano caricate con sacchetti colorati, mangiavano e bevevano rumorosamente nei bar e ristoranti, leggevano giornali, libri o riviste sulle panchine d’acciaio, sotto le luci artificiali delle lampade al neon, di un bianco accecante, qua e là disseminate nel terminal. Io li seguivo con il mio sguardo assente, adeguandomi a loro ma restando immersa nei miei pensieri. Mi sentivo quasi inconsapevole delle immagini che popolavano la mia mente, totalmente incapace di distinguere se descrivevano parte del mio tempo presente o del mio passato. Se non fosse stato per l’aiuto di qualche elemento tipico di un’epoca ormai remota, che fissava in me qualche punto di riferimento, non ne sarei facilmente venuta a capo. Forse proprio in questo era racchiusa la mia pazzia, quella che mia madre teneva tanto a dimostrare: la mia incapacità di distinguere immagini reali da quelle che erano solo frutto di una mia fantasia. Nutrivo la palpabile paura di scoprire di essere realmente pazza e di dover dare definitivamente ragione a mia madre e accettare le sue parole e i suoi pensieri. Tuttavia, ora che era morta, non avrei più nemmeno avuto la possibilità di parlargliene e di chiarire con lei. Temevo di aver realmente bisogno di un medico, per impedirmi di commettere sciocchezze in un futuro, quando sarei stata abbandonata definitivamente da quel sottile filo di ragione che ancora mi restava, facendomi isolare in una realtà abitata da tanti altri pazzi. Pazzi come me. Cominciavo a prendere coscienza della mia diversità, proprio ora che mi sentivo sola al mondo, abbandonata da tutto e da tutti. Forse se fossi tornata a casa, avrei evitato tutto questo. Avrei potuto riporre le mie paure in fondo alla cesta delle cose da dimenticare. Avrei continuato a parlare con i miei amici immaginari e, forse, avrei raccolto i miei pensieri in un libro nel tentativo di svuotarmi per sempre, allontanarli da me portandoli fuori dal mio corpo e dalla mia mente, per potermene liberare definitivamente.

L’altoparlante al gate annunciava l’inizio dell’imbarco sul mio volo, mancava giusto mezz’ora alle cinque: priorità ai disabili e alle gestanti. I pazzi sono considerati disabili, pensai, perché non approfittarne quindi? Notai che le persone accanto a me indugiavano nell’alzarsi dalle loro poltrone, erano ben coscienti della loro normalità a tutti gli effetti. Continuavano indisturbate a giocare con i loro telefoni. In quel momento notai che avevo scordato a casa il mio. Poco importava, pensai. Se nella mia vita passata ero riuscita a vivere senza telefono, potevo farlo anche ora, in questa vita, durante questo viaggio. Inoltre non sarei stata rintracciata da parenti e amici che avrebbero distolto la mia attenzione dalla ricerca chiedendomi informazioni, spiegazioni o cose simili che non avrei avuto tempo ne voglia di dare loro. Mi sistemai al posto assegnatomi sull’aereo, e dopo aver controllato le stampe degli indirizzi, delle mappe stradali e degli uffici del turismo di Joseph che avevo collezionato nei giorni precedenti la mia partenza, riposi la mia ventiquattrore nello scomparto aperto, sopra la mia poltrona. Sentivo freddo e il mio corpo era attraversato in continuazione da brividi che non riuscivo a controllare. Tuttora non so dire se erano causati dal condizionamento dell’aria o, piuttosto, dal mio condizionamento mentale.

‘Che cosa ci faccio io qui? Fatemi scendere, per favore, io non dovrei essere qui ora!’, pensavo mentre l’aereo cominciava a rollare sulla pista di decollo, per poi sollevarsi in punta e staccarsi dal suolo.

Osservavo ancora le persone intorno a me, era diventato il mio passatempo per quella giornata. Navigavo nel mare aperto dei pensieri che potevano impregnare le loro menti in quei momenti, mi perdevo nei sorrisi intensi e nel chiacchiericcio esasperato e amalgamato dal rumore dei motori dell’aereo, mentre le hostess passavano lungo il corridoio offrendoci dei drink. La mia non sarebbe stata una vacanza, pensai. Voltai lo sguardo verso il finestrino e notai che la tendina oscurante era rimasta aperta, vedevo le case e le strade ormai lontane farsi via via sempre più piccole. Erano parte di una fitta trama di costruzioni in cemento che racchiudevano persone impercettibili ai miei occhi. Era vero quello che mia madre mi diceva quando ero piccola:

Quando pretendi di voler vedere tutto, perdi la tua sensibilità verso il dettaglio e tutto appare fermo ai tuoi occhi. Non pretendere di voler conoscere o controllare tutto e tutti perché comunque non ti servirà e alla fine ti accorgerai di non aver visto proprio nulla. Concentrati piuttosto sul dettaglio, perché è su questo che puoi agire, quel dettaglio che tu stessa sei nel mondo e che è capace di farlo muovere ed evolvere.

Il cielo, di un azzurro intenso, era macchiato da rare e timide nuvole. Chiusi gli occhi per rilassarmi un po’, mi attendevano tre ore di volo. Sentivo le voci degli altri passeggeri allontanarsi sempre più da me, le loro parole divenivano sempre più confuse, indistinguibili. Mi addormentai profondamente e al mio risveglio avevamo già iniziato la fase di discesa verso la pista di atterraggio nell’aeroporto di Portland.




CAPITOLO 2


La città di Portland era ricoperta dalla neve, caduta in abbondanza nella notte precedente. Avevo sentito la notizia in televisione ma avevo sottovalutato il problema, ritenendola di scarso interesse per me. Attraverso le vetrate dell’aeroporto si vedevano montagne di neve ghiacciata disseminate lungo i bordi delle piste, era la neve che era stata rimossa dagli spalaneve per consentire il normale funzionamento dell’aeroporto, uno dei pochi inseriti nella lista di quelli che garantiscono un’ottima efficienza in tutti gli Stati Uniti d’America. Mi chiedevo se le strade sarebbero state altrettanto pulite o se il rischio della presenza del ghiaccio sui collegamenti principali avrebbe potuto compromettere seriamente la circolazione dei mezzi. Non appena vidi arrivare la mia valigia trasportata dal nastro dei bagagli appena scaricati dalla stiva dell’aereo, guardai l’orologio: erano già le nove di sera, eravamo in ritardo. Accelerai il passo, diretta al banco informazioni, dove trovai tante persone che come me dovevano dirigersi da qualche parte. L’impiegata, una grassa e scontrosa donna sulla cinquantina, diceva ad alta voce che le linee di autobus esterne erano ferme per via del maltempo e tutte le corse a lunga percorrenza erano state cancellate e rinviate al mattino seguente, mentre con veloci gesta della mano mimava la caduta della neve e la presenza di lastre di ghiaccio sulle strade. La gente era irritata e molti uomini dimostravano la loro forza picchiando i pugni sul bancone, accusando la povera donna d’incompetenza. Anche se non eccelleva per simpatia, quella donna non aveva nessuna colpa. Non appena la folla fu diradata, mi avvicinai al banco.

«Mi dica!», esclamò la donna ormai esausta.

«Buonasera, non sto qui a chiederle le stesse cose che hanno chiesto tutti quanti, ho già sentito la risposta. Ho capito che stasera non si parte. Volevo chiederle se mi saprebbe indicare un posto dove poter trascorrere la notte, qui in aeroporto o in città».

La donna si rilassò.

«Mi dispiace signora ma purtroppo i pochi posti disponibili sono già stati occupati tutti. Come lei può immaginare, in queste situazioni vanno a ruba. Potrebbe raggiungere il centro città, dove troverà sicuramente delle camere in hotel. Dov’è diretta?»

«Nel Wallowa», risposi.

«Bene. L’autobus per il Wallowa parte dalla quinta banchina, che trova proprio qui fuori, domani mattina alle otto. La tratta è piuttosto lunga, ci vorranno circa otto ore».

«Sette ore replicai», mostrandole il calcolo fatto dal computer durante la simulazione del viaggio.

«Otto ore quindi», insistette la donna, «anche se sarà possibile viaggiare non si aspetti che l’autobus possa procedere con la stessa velocità o senza impedimenti. Il ghiaccio non si scioglie tanto facilmente e il sale non fa miracoli in queste situazioni. Di neve ne è caduta davvero tanta. Si faccia trovare qui domani mattina, poco prima delle otto. Se ha bisogno di un taxi, li trova all’uscita del terminal, sulla destra. Buon viaggio, signora», concluse regalandomi uno stentato sorriso.

«Se la signora me lo permette, posso accompagnarla io in città», sentii pronunciare chiaramente da una voce proveniente dalle mie spalle. Mi girai e mi trovai davanti agli occhi un uomo. Era di bell’aspetto, moro con occhi verdi, aveva una fitta capigliatura ben curata e che lasciava intravedere qua e là qualche brizzolatura. Era senza barba ma portava i baffi con orgoglio. Dimostrava una quarantina d’anni e, per com’era vestito, doveva essere un uomo d’affari, una persona che ricopriva qualche ruolo importante in un’azienda o cose del genere. Portava appeso a un braccio il suo lungo cappotto, mentre con l’altra mano trascinava un trolley piuttosto piccolo. Mi fissava negli occhi a meno di un metro di distanza, mentre attendeva da me una risposta, un cenno di vita.

«Lei è molto gentile. Io però non la conosco, le chiedo scusa, non accetto mai passaggi dagli sconosciuti. E se ora mi permette, vorrei andare», gli risposi mentre di scatto mi giravo nuovamente verso il banco informazioni, facendo finta di cercare qualche cosa all’interno della mia borsa. Sentivo la sua presenza dietro di me, forse avrei dovuto utilizzare dei modi un po’ più gentili ma davvero non ci riuscivo. Mi sentivo fortemente a disagio. Mi girai nuovamente e lo guardai negli occhi.

«Le ripeto, non la conosco. Non è per mancanza di fiducia nei suoi confronti ma davvero non penso sia il caso di lasciare questo terminal con lei, mi perdoni», continuai, pensando così di chiudere definitivamente il dialogo con quell’uomo mai visto prima. Anche se da un lato mi dispiaceva, ricordai a me stessa che non ero in vacanza.

«Se può esserle di qualche aiuto, mi presento. Il mio nome è John. John Beal», disse allungandomi la mano. Mi sentii costretta a replicare, a spargere i fatti miei su un tavolo a viso scoperto. Una cosa che mai avrei voluto in una città o verso persone a me totalmente estranee.

«Katherine Fortuna», risposi senza guardarlo negli occhi, mentre sistemavo il portafogli nella tasca interna della mia borsa.

«Fortuna? E’ un cognome italiano, se non sbaglio», disse sorpreso e con un’espressione da ebete in volto.

«Si, Fortuna è un cognome italiano», replicai, visibilmente scocciata dalla sua insistenza nel voler portare avanti a tutti i costi un dialogo che io ritenevo già concluso a priori.

«Posso insistere nell’offrirle un passaggio quindi, Katherine?». Insisteva. Cominciavo a non sopportarlo più. Tuttavia un passaggio mi avrebbe fatto davvero comodo in quella gelida serata invernale.

«Quanto dista da qui?», chiesi sempre più scortese.

«Una mezz’ora, direi, viste le condizioni delle strade. La mia macchina è parcheggiata qui fuori, venga con me, mi segua. Intanto si copra bene, fuori fa molto freddo», rispose mentre indossava il suo lungo cappotto sopra l’elegante giacca grigia che, realizzai, nascondeva anche una bella cravatta rossa ben annodata sotto il colletto di una camicia bianca. Si offrì di prendere la mia valigia e la trascinò dietro di sé. Seguii il suo consiglio e m’infilai la giacca a vento che avevo legato intorno alla vita, prima di scendere dall’aereo. Ai suoi occhi di padrone di casa dovevo essere parsa una povera e sprovveduta provinciale. Procedeva con passo deciso, la sua falcata era così lunga che faticavo a stargli dietro. Cominciai a sentire l’affanno nel mio respiro e il cuore battermi forte, quindi mi fermai di colpo.

«Senta John “coso” o come diavolo si chiama. Ha intenzione di fare una maratona? Una corsa? Se è così me lo dica, così almeno mi cambio le scarpe e mi preparo!». Lui si girò con un’elegante e precisa torsione del collo e mi sorrise.

«Ha ragione Katherine, mi scusi. E’ la mia imperdonabile abitudine. Io sono sempre di corsa. Prego, riprenda fiato. Si prenda tutto il tempo che le serve, poi proseguiamo più lentamente».

Era un uomo elegante, non c’era ombra di dubbio. Non volevo passare da povera bambina capricciosa quindi risposi semplicemente che potevamo andare avanti. In quel momento fui io ad accelerare il passo e a lasciarlo dietro di me.

«Lei vista da dietro è altrettanto graziosa, lo sa? Chissà da quanti uomini lo avrà già sentito dire!».

Mi s’infiammarono le guance, sentii un caldo impossibile esplodermi nelle orecchie, m’irritai.

«Ma come si permette! Ma senti questo! Mi ha visto appena cinque minuti fa per la prima volta e ora già si permette di esprimere le sue personali considerazioni sulla mia persona. Chi le ha concesso tutta questa confidenza? Non si permetta mai più certe libertà, John Beal!». Ero furiosa come un toro di fronte ad un lenzuolo color rosso sangue, ma in cuor mio mi sentivo anche lusingata di essere stata notata per qualcosa di fisico. Anche se non glie lo avrei mai confidato, mi piaceva la sfacciataggine mostrata da quell’uomo.

«Molto bene signorina, vedo che ricorda già bene il mio nome completo! Possiamo andare ora?».

«Si, andiamo. E’ meglio!».

Il freddo era davvero pungente fuori dal terminal. Fortunatamente non c’era molta umidità nell’aria, il che la rendeva la temperatura sopportabile. Allungai il passo per seguire l’uomo e immediatamente scivolai. Non avevo le scarpe adatte e l’asfalto era coperto a chiazze da sottili lastre di ghiaccio.

«Per favore, si fermi qui!». John si girò sbuffando, chiedendosi il perché di quella mia richiesta, ma subito capì.

«Ha problemi con le scarpe, giusto? Prima di partire non si è interessata sulle condizioni meteorologiche? Tutti sapevano della bufera di neve su Portland. Va bene, è inutile parlarne ora. Ha delle scarpe più comode con sé?».

«In valigia, ma dovrei tirare fuori tutti i vestiti qui in mezzo alla strada, impiegherei troppo tempo e non ne ho assolutamente alcuna voglia. Cercherò di fare attenzione», lo rassicurai.

«In alternativa potrei portarla in braccio, se vuole. Che ne dice Katherine?». Era impertinente, ma anche gentile. Tuttavia quella sera il mio stato d’animo non mi permetteva di esprimere sentimenti di bontà alcuna.

«Oppure potrebbe andare a prendere la sua auto mentre io l’aspetto qui, con la mia valigia. Che ne dice signor Beal?», replicai con altrettanta impertinenza.

«Arrivo presto. Nel frattempo abbia cura di non prendere freddo, altrimenti la sua vacanza nel Wallowa la trascorrerà a letto con la febbre». S’incamminò diretto alla sua auto senza girarsi, attraversando le file di macchine e pick-up parcheggiati nell’enorme area. Pensai che forse non stessi facendo la cosa giusta, avevo avuto poche esperienze con gli uomini e tutte finite in malo modo. Mi avevano fatto soffrire, nessuno era mai riuscito ad accettarmi per quella che sono. Seguii John con lo sguardo fino a quando non riuscii più a scorgerlo e in quel momento cominciai a temere che non l’avrei mai più visto. Forse l’immagine di John era solo una proiezione della mia vita passata, quindi irreale. Avevo accettato un passaggio da un fantasma? Rabbrividii all’idea. Vedevo ovunque persone intorno a me che entravano e uscivano dal Terminal mentre parlavano e sorridevano. Alcuni discutevano animatamente tra di loro, ma almeno non erano soli, abbandonati a loro stessi, come invece mi sentivo io. Chiusi bene la giacca e avvolsi intorno al collo una sciarpa che avevo in precedenza inserito nella borsa. Non ero stata del tutto sprovveduta, evidentemente. Poi il deserto. Il lampione che si trovava proprio davanti a me rifletteva la sua luce sulla neve, facendola brillare come fosse polvere di diamante. Ripensai a quanto amavo da bambina le cose che brillavano, dicevo a mia madre che da grande avrei voluto avere tanti gioielli. “Certo che ne avrai tanti”, mi rispondeva sempre, mentre accarezzava i miei lunghi capelli neri.

In fondo alla strada vidi i due fari di un’auto allontanarsi sempre di più tra di loro, mentre il mezzo si avvicinava. Era un pick-up e dentro c’era John a guidarlo. Non immagini quanto io sia contenta di rivederti in questo momento, pensai tra me, mentre John scendeva dall’auto per caricarvi sopra la mia valigia. Solo in quel momento notai che aveva lasciato lì con me anche la sua, prima non lo avevo realizzato, assorta com’ero nei miei pensieri. Si era fidato di me, più di quanto non avessi fatto io nei suoi confronti. Avrei voluto dirgli grazie, ma le mie labbra non riuscirono a dare sfogo al mio istinto, rimanendo incollate tra loro. Salii in macchina mentre John sistemava i nostri bagagli.

«E’ di suo gradimento la temperatura dell’aria, Katherine?».

«Va bene, amo il caldo, non si preoccupi», riuscii a dire, ancora una volta senza ringraziare. Perché mi era così difficile farlo? Cosa non funzionava in me?

«Questo allora non è il posto adatto a lei, se non in certi momenti dell’anno», esclamò sorridendo, «qui fa piuttosto freddo. Andiamo?». Acconsentii con il solo movimento del capo.

Mise in moto l’auto e avanzammo a passo lento verso l’uscita dell’aeroporto, senza parlare. Anche se John si era comportato in quel modo tanto gentile nei miei confronti, mi guardava e sorrideva, io non riuscivo ancora a ricambiare.




CAPITOLO 3


Le note della canzone ‘Strangers in the night’ di Frank Sinatra addolcivano il vuoto silenzio lasciato delle nostre voci. A ogni incrocio con il semaforo rosso, John mi guardava e ogni volta sembrava volermi fare delle domande. Io temevo che mi fosse posta quella che sarebbe stata per me la domanda più difficile alla quale rispondere. Il mio atteggiamento asociale e poco rispettoso nei suoi confronti, che mi aveva in qualche modo difeso fino a quel momento, non durò molto.

«Cosa l’ha portata qui Katherine?», chiese mentre volgeva lo sguardo alla strada. Poiché non dovevo ricambiare il suo sguardo con il mio e visto che la domanda non era poi tanto compromettente, pensai che avrei potuto anche dare una risposta evasiva e lui non vi avrebbe dato molto peso. Mi sbagliavo.

«Volevo cambiare aria, fare un giro da queste parti mai visitate prima in vita mia. Me ne hanno parlato tanto bene i miei amici a New York».

«Non credo sia solo questo, se me lo permette», rispose. Non l’avevo convinto per nulla, era più che evidente. In fin dei conti non avevo mai dimostrato di avere innate doti d’attrice e la menzogna non è davvero mai stata il mio punto di forza. Come sempre, però, non ero disposta a cedere vista la mia cocciutaggine, forse la mia vera e unica caratteristica.

«E lei che cosa ne sa? Una donna non può decidere a un certo punto di chiudere casa e farsi un bel viaggio? Pensa di conoscermi così bene? Non sa proprio nulla di me, in fin dei conti, non crede Beal?».

«Io dico semplicemente che non è solo questo. Lei non è una donna serena in questo momento, mostra paura verso qualche cosa, dà l’idea di essere qui alla ricerca di qualche cosa che teme di non trovare o, al contrario, di rimanere sconvolta nel caso dovesse trovare ciò che cerca. Una donna in fuga da o verso qualcosa. Proprio questo, lei sembra una donna che sta scappando da qualche cosa a gambe levate. Comunque le chiedo scusa, questi non sono affari miei e su questo ha tutte le ragioni del mondo, mi perdoni».

Ripiombammo nel silenzio, un mutismo imbarazzante. M’infastidiva che John avesse tutto quel rispetto per me, per i miei pensieri e per la mia riservatezza. Pensai che provare a conoscerlo un po’ forse non mi avrebbe causato problemi. Forse sarei riuscita a ringraziarlo alla fine del nostro tragitto.

«E lei come mai è qui John? Vive a Portland?». Immediatamente pensai che, con il mio comportamento, lui potesse risentirsi per la mia domanda. Perché mai io potevo fare domande e lui no? «Ovviamente si senta libero di non rispondermi se non lo ritiene opportuno». John mi guardò e ammiccando un sorriso andò a segno.

«Perché mai dovrei comportarmi come lei Katherine?». Scoppiò a ridere mentre mi guardava chinare il capo per proteggermi dal suo sguardo. Mi comportai come una bambina che era appena stata sgridata.

«A Portland vive ancora mia madre. Ci trasferimmo qui poco dopo la morte di mio padre, prima abitavamo a Joseph, proprio dove lei è diretta, nel Wallowa. Conosco bene la zona, per questo motivo poco fa la mettevo in guardia sulle rigide condizioni atmosferiche».

«E, lutto per la morte di suo padre a parte, come mai avete deciso di trasferirvi a Portland?».

«A dire il vero non si trattava di un trasferimento, ma piuttosto di un ritorno. Mia madre è nata e vissuta nella periferia della città. Non avendo più nessun legame con il Wallowa, ha deciso di ritornarsene qui. Io l’ho seguita, nonostante avessi allora un buon lavoro a Joseph. Lasciai tutto, feci i bagagli e venni a stare qui con lei. Ora, ultra settantenne, ha più che mai bisogno di me. E’ una donna ancora autosufficiente nonostante l’età, ma come lei può ben immaginare comincia ad avere serie difficoltà sotto diversi aspetti della vita quotidiana. A volte ha dei momenti di buio nella sua mente, durante i quali non ricorda più nemmeno il suo nome o il mio viso. Fortunatamente sono momenti ancora rari e brevi, ma la costringono a rimanere chiusa in casa. Lei è sempre stata una donna molto dinamica e questa limitazione è per lei al pari di una condanna alla reclusione. Ha una badante che si prende cura di lei».

«Era all’aeroporto John. Da dove proveniva?», chiesi forse osando troppo.

«Io ero con lei sull’aereo, Katherine, vengo anch’io da New York. Sono andato nella città per attendere a una convention, ero l’oratore».

«Non mi ero accorta di lei John».

«A dire il vero lei non poteva accorgersene, presa com’era dai suoi pensieri. Durante il volo poi, subito dopo il decollo, si è assopita. Io invece l’ho notata subito. Lei è una donna che non passa inosservata, dovrebbe saperlo questo». John parlava con sincerità e senza inibizioni, con il suo sorriso continuamente stampato in viso e un’eleganza che raramente avevo riscontrato prima in un uomo. Lo guardai e forse arrossii un poco. Si, sono sempre stata una bella donna. Mio padre lo sosteneva fin da quando ero bambina, mentre mia madre era preoccupata maggiormente per altri aspetti della mia vita, che le facevano porre l’argomento ‘bellezza’ in secondo piano. Più volte me lo sono sentita dire dagli uomini, al punto da essere giunta a convincermene. Ma lo ero, molto di più, nel mio corpo precedente. Ero una donna elegante, di una bellezza raffinata, quasi rara. Ma questo io non avrei potuto dirlo a John. Almeno non ancora.

«La ringrazio John…», accennai timidamente.

«Anche la roccia si sfalda quando dimostra di avere un cuore! E’ vero quindi!», disse con tono sicuro.

«Che cosa intende dire con queste parole?»

«Lei mi ha appena ringraziato, Katherine. Non se n’è accorta? O forse mi sbaglio?», disse, strizzandomi l’occhio in segno di complicità. Io sorrisi e annuii solo con un cenno del capo, qualunque altra parola sarebbe stata del tutto superflua e fuori luogo in quel momento.

«Le devo chiedere scusa John. Perdoni il mio comportamento scortese nei suoi confronti. Lei è così gentile con me ed io l’ho saputa ricambiare solo trattandola piuttosto male. Sono stata poco carina».

«Potrei accettare le sue scuse, ma a una sola condizione! Mi deve concedere il piacere di fare colazione con lei domani mattina, che ne dice?». Non sapevo cosa rispondere, ero imbarazzata. Poi mi venne in mente che la mattina seguente avrei dovuto prendere l’autobus per il Wallowa.

«Accetterei volentieri John, ma domani mattina dovrei tornare in aeroporto molto presto per prendere l’autobus diretto nel Wallowa. Non farei in tempo altrimenti», risposi.

«Non ne ha bisogno Katherine. La porterò io nel Wallowa se mi vorrà onorare della sua piacevole compagnia».

«No John, l’ho già disturbata anche troppo. Non permetterei mai di farle sprecare tempo prezioso per accompagnarmi fin laggiù, è troppo lontano».

«Una cosa che non ho fatto ancora in tempo a dirle nel mio racconto è che io lavoro ancora nel Wallowa».

«Come dice? Ha lasciato nuovamente Portland, quindi?», chiesi sorpresa.

«Si. Qui non mi sentivo a casa. Se non fosse stato per mia madre, non ci sarei nemmeno mai ritornato», rispose, «Non ho trovato nemmeno un lavoro che mi gratificasse come quello che avevo a Joseph. Parlai allora con mia madre e le comunicai che sarei ritornato nel Wallowa. Sarei andato a trovarla spesso. Potevo farlo perché in quegli anni non aveva mai mostrato segnali di cedimento, potevo stare tranquillo. Dopo una prima reticenza iniziale, accettò la mia scelta e mi lasciò andare via. Tornai nel Wallowa, a Joseph. Fortunatamente non era stato trovato un rimpiazzo alla mia posizione lavorativa e fui reinserito nell’organico. Vivo in una casa non molto lontana dal mio lavoro, non potrei stare meglio di così».

«E’ sposato John? Ha dei figli?»

«Sono divorziato e non ho figli». Si stava completamente aprendo a me, ogni mia domanda trovava subito una risposta. Avrei potuto chiedergli qualunque cosa e lui mi avrebbe risposto senza problemi. Io non ci sarei mai riuscita. Come si può essere tanto trasparenti verso un completo estraneo? Lui ed io eravamo due persone molto diverse a prima vista.

«Mi scusi John, non vorrei aver rievocato con le mie domande pensieri o sentimenti per lei dolorosi»

«Assolutamente no Katherine. Mia moglie ed io siamo tuttora in buoni rapporti. Si era spento quell’amore che ci aveva in precedenza unito, tutto qui. Non si va avanti in un rapporto se non c’è l’amore, giusto?». Giusto, pensai. Giustissimo. Le mie esperienze passate a riguardo non potevano che confermare quanto da lui detto. Non ero mai stata lasciata da un uomo, ero sempre stata io a fare il primo passo. Non conoscevo lo stato d’animo in cui ci si trova quando è l’altro a dirci che è finita, quella sensazione di rifiuto giustificata con le più disparate ragioni. A volte ci si giustifica assumendosi per scelta tutte le colpe per la decisione presa, consci del fatto che non si tratta della pura verità bensì di un modo per chiudere la questione in fretta e senza seguiti. Provavo a immaginarlo ma riuscivo solamente ad assimilarlo a quello di una morte improvvisa, doveva essere un dolore enorme quello che segue la parola ‘addio’ pronunciata da una persona che si ama veramente. Gli feci capire che ero d’accordo con lui e non continuai oltre sull’argomento, non avevo alcun diritto o alcuna necessità di farlo.

«Ha trovato tutto inalterato al suo ritorno nel Wallowa o ci sono stati dei cambiamenti in sua assenza?»

«Ritrovai tutto così come l’avevo lasciato. Non sono mancato per troppo tempo tuttavia, solo qualche mese. A me però sembrava trascorsa un’eternità».

«Davvero poco tempo quindi. Per questo motivo ha ritrovato anche il suo vecchio posto di lavoro».

«O forse anche perché sono troppo bravo e non sono mai riusciti a trovare un’altra persona che fosse alla mia altezza?», pronunciò altezzosamente.

«Lei è davvero molto modesto John», risposi sorridendogli con piacere per la prima volta.

«La modestia è una mia virtù, così come la sua eleganza Katherine». Lo guardai mentre mi fissava con lo sguardo. La luce dell’insegna al neon dell’hotel dove mi aveva portato illuminava un lato del suo volto, mentre l’altro rimaneva completamente in ombra, buio.

«A che ora la colazione domani mattina John?», chiesi rispondendo al suo sguardo intenso, mentre i suoi occhi fissavano i miei.

«Le può andare bene per le otto? Verrò io qui da lei. Mi raccomando, indossi abiti pesanti e molto caldi. Farà freddo nel Wallowa domani, vedrà. Ovviamente le sue scuse sono accettate, Katherine», concluse.

Ricambiai con un sorriso e con una leggera e composta flessione del capo. Prese la mia valigia dal portabagagli e me la trasportò fino al bancone della Reception dell’hotel, in fondo alla hall sulla destra. Conosceva anche l’impiegato, un ragazzo piuttosto robusto di nome Fred.

«Fred, questa è la signora Katherine. Ho prenotato la sua camera a mio nome, controlla la lista. Penserò a tutto io domattina quando verrò a riprenderla. Mi raccomando desidero per lei un trattamento di riguardo, è una mia cara amica!». Poi si girò verso di me per continuare il suo discorso, «Ho verificato la disponibilità della camera mentre mi recavo a prendere l’auto in aeroporto. Qui si troverà bene Katherine. Conosco questo ragazzo e stia certa che se qualche cosa dovesse andare storto, lui se la vedrà con me domattina. Dico bene Fred?»

«Non ha nulla di che preoccuparsi signor Beal. Signora, ecco la chiave della sua camera. Le chiamo un facchino che le porterà la valigia in camera tra pochi minuti, la lasci pure qui a me». Ringraziai Fred. Non avevo dovuto fare nemmeno il check-in, la camera era stata registrata con il nome di John.

«Grazie ancora John per tutto il suo aiuto e la sua generosa disponibilità, lei è davvero una brava persona, molto più di quanto non lo sia io. E mi scusi ancora per la mia indecenza, in aeroporto come in macchina, poco fa».

«Le ripeto Katherine, le sue scuse sono state già accettate. Non parliamone più, non è importante. Cerchi piuttosto di trascorrere una buona nottata, ci vediamo qui nella hall domani mattina alle otto. Faremo colazione qui nel ristorante dell’hotel, è ottimo. Poi partiremo per il Wallowa». Fece una pausa, poi riprese. «A proposito, dimenticavo che lei non ha ancora cenato!». Negai con una mossa del capo ma lo rassicurai dicendogli che avrei preso una tazza di caffè in camera, non ero solita mangiare molto la sera, soprattutto prima di andare a letto. Ed ero molto stanca, non avrei tardato ad addormentarmi. Mi prese la mano e me la baciò. Il contatto della pelle della mia mano con le sue labbra morbide e calde mi fece tremare. Riuscii a fatica a trattenere dentro di me la mia emozione e lo salutai.

«A domani Katherine».

«A domani John». Mi seguì con lo sguardo, rimanendo immobile per tutto il tempo, fino a quando non si aprì la porta dell’ascensore. Teneva le mani nelle tasche del cappotto, come se stesse nascondendo qualche cosa al loro interno. Entrai nell’ascensore e premetti il tasto per salire al terzo piano. Ebbi giusto il tempo per lanciare un ultimo cenno di saluto con la mano a John, che ricambiò, poi restai immobile a osservare la sua immagine che scompariva dietro le fredde porte d’acciaio della cabina dell’ascensore. Un lungo corridoio, stretto e buio, mi conduceva alla camera 315. Mentre passavo davanti alle porte delle altre stanze, sentivo i rumori delle televisioni accese, dell’acqua delle docce e le voci delle persone provenire dall’interno. L’hotel era quasi pieno. Entrai nella mia stanza, era molto piccola, con un bagno angusto e poco curato. Guardai fuori dalla finestra. Si dispiegava un bel panorama a ridosso della città e, in lontananza, vedevo le luci accese e intense che illuminavano le piste dell’aeroporto. Il bagliore dei riflessi di luce sulle lastre ghiacciate e sui cumuli di neve, donava al paesaggio un che di fiabesco. Presi il bollitore e riscaldai dell’acqua per prepararmi un buon caffè americano. Avevo bisogno di qualcosa di caldo per combattere il gelo che mi aveva attraversato anche le ossa in quella fredda serata. In quella stessa serata, però, avevo incontrato un uomo che era riuscito a scaldarmi il cuore. Un talk show trasmesso in televisione riempiva la stanza di parole, lo guardai con poco interesse mentre sorseggiavo la mia tazza di caffè. La mia mente vagava su quello che avrei visto e vissuto nel Wallowa, m’interrogavo sulla reale esistenza della casa che cercavo. Di certo, se non l’avessi trovata, sarei rimasta molto delusa da me stessa e me ne sarei ritornata a casa a mani vuote, forzandomi a cancellare per sempre quelle immagini che da sempre avevano popolato la mia mente e i miei pensieri. Ricercai nella mia memoria visiva i tasselli per ricostruire l’immagine di John e apprezzai tutto quello che aveva fatto per me. Solo adesso che se n’era andato via, lasciandomi da sola in quella stanza, riuscivo a esprimere tutta la mia gratitudine. Aveva preso una perfetta sconosciuta in aeroporto e le aveva offerto il suo aiuto, i suoi servizi, senza pretendere nulla in cambio. Almeno fino a quel momento. Mi chiedevo ancora se quell’uomo fosse reale oppure un frutto della mia immaginazione. Eppure l’emozione che avevo provato mentre mi baciava la mano era reale, fisica. Decisi di non pensarci più. Se ero giunta nella stanza di quell’hotel di Portland, qualcuno o qualcosa doveva avermici portata. Pazza si, potevo anche accettare di esserlo, ma non potevo esasperare le mie fantasie al punto da generare ipotesi e pensieri assurdi. Mi spogliai ed entrai in bagno, buttandomi sotto la doccia che versava acqua molto calda, quasi fumante. Incrociai la mia immagine riflessa nello specchio di fronte a me, ampiamente offuscato ai bordi dal vapore caldo prodotto dall’acqua della doccia. Si era creata una cornice intorno al mio corpo e potevo ammirare le mie fattezze e i seni turgidi come se stessi ammirando un quadro. Vidi che ero oggettivamente una bella donna. “Si, sei una bella donna Kate”, mi suggerì il mio orgoglio di donna, facendomi disegnare un bel sorriso fiero sulle mie labbra chiuse. La doccia tolse via la stanchezza della giornata dal mio corpo, rilassando i miei muscoli mentre l’acqua calda scorreva lungo i miei fianchi e solcava la mia schiena. Mi sfiorai con la mano mentre la mente andava a John, l’uomo di quella sera, e fui subito pervasa da un brivido caldo che mi fece sussultare dal piacere. Il mio corpo rispondeva bene agli stimoli del sesso, anche se ancora non ero riuscita a provare il vero piacere con un uomo. Io sola conoscevo bene me stessa al punto da prendermi cura del mio corpo proprio come meritava. Subito dopo mi sentii rilassata e distesa, soddisfatta nel corpo e nella mente per ciò che avevo appena fatto. Indossai il mio pigiama e m’infilai sotto le coperte. In televisione il talk show proseguiva con i suoi dialoghi, tra le forti grida dei litigiosi partecipanti e le risate del pubblico, mentre il presentatore tentava invano di riprendere il controllo di una situazione che sembrava ormai essergli sfuggita completamente di mano. Senza rendermene conto, in pochissimo tempo caddi in un sonno profondo.




CAPITOLO 4


Bastardo! Sei un lurido bastardo, si! Io ti ho donato il mio amore e te lo sei preso insieme al mio corpo. Tu ti sei preso tutto di me, anche la mia anima. E ora non hai la forza di accettarmi per quello che sono e che ti ho dato, ti nascondi dietro le scuse più ignobili e lo chiami “frutto del peccato”! Ti ho detto di scegliere, ma devi farlo adesso, non sono più disposta ad accettare più nulla e nessuno! Devi scegliere tra noi due, e che sia la tua scelta per sempre. Mi stai costringendo a odiarti, sei un vigliacco. Non meriti il mio amore e se non prendi una decisione, non lo avrai più! Vattene via, via! Libera i miei occhi e la mia vita dalla tua scomoda presenza, vattene via per sempre. Non ti voglio più vedere, mai più! Ho creduto in te e tu mi hai annientato, mi sono umiliata davanti alla mia famiglia, alla mia gente, per te. E tu in cambio hai calpestato quel poco di onore che ancora mi era rimasto e hai spazzato via le briciole di orgoglio di donna che ancora difendevo a denti stretti, dopo aver scelto di stare con te. Vai da lei allora! Vattene… Vai via subito! Sei morto per me, ora e per sempre! Lurido bastardo!

Nella notte spalancai gli occhi, ero madida di sudore. Sentivo il caldo avvolgermi completamente, in tutto il corpo. Guardai la sveglia, erano passate le tre di notte solo da pochi minuti. La televisione era rimasta accesa, stava trasmettendo un concerto rock degli anni ottanta. Nella stanza dominavano i bagliori di luce intermittente delle lampade psichedeliche, inquadrate dalle telecamere e rivolte al palco sul quale quei cantanti impazziti si stavano esibendo. La musica era interrotta ogni tanto da qualche sordo clacson delle auto che ancora passavano sulla strada, sotto l’hotel. Mi alzai e mi affacciai alla finestra per guardare fuori, oltre le tende. Non mi aspettavo un simile caos a quell’ora della notte, lo trovai molto strano, atipico per un giorno di mezza settimana in una via piuttosto periferica rispetto al centro città.

«Che assurda frenesia!», sussurrai a me stessa mentre chiudevo a fatica le tende oscuranti della finestra, che opponevano una certa resistenza allo scorrimento dei ganci sul binario. Ritornai nel mio letto per cercare di recuperare il sonno interrotto. Mi giravo continuamente su me stessa, come si gira la salsiccia di un hot dog sulla piastra incandescente per evitare che si bruci, da una parte all’altra, ma proprio non riuscivo a riaddormentarmi. Ero agitata, ma che cosa fosse a tenermi in quello stato proprio non riuscivo a capirlo.

«Cerca di dormire Kate, dannazione! Domani sarà una lunga e dura giornata!», mi rimproveravo ad alta voce, convinta che le parole avessero maggiore forza rispetto ai pensieri. E più lo facevo, più sentivo l’eccitazione per qualche cosa d’impalpabile crescere e farsi prepotentemente spazio nel mio corpo e nella mia mente, prendendosi gioco di me. Che cosa stava facendo John in quel momento? “Dormire” sarebbe stata la risposta più ovvia, ma anche la meno interessante. Forse stava pensando a me? O forse aveva una donna con lui nel suo letto in quel momento? Non mi aveva parlato di una sua famiglia, sapevo solo che si era separato. Oppure era un donnaiolo, un uomo alla ricerca di una donna nuova per ogni notte. Io forse figuravo come una sua possibile preda per quella sera, ma gli era andata male! Accennai un timido sorriso compiaciuto, ma subito capii che avevo torto.

«Domani vedremo come andranno le cose, ora dormi», mi rassicurai invitandomi a rilassarmi. Pian piano la morsa di calore soffocante aveva liberato il mio corpo, permettendo alla mia pelle di rinfrescarsi e al sudore di asciugarsi, fino a scomparire completamente. Mi sentivo più tranquilla, più rilassata. Pensare a quell’uomo, nel bene o nel male che fosse, mi portava serenità. E con questo pensiero ancorato nella mia mente e la sua immagine vividamente accesa davanti ai miei occhi, il mio corpo permise al sonno di venire a riprendermi, per poi rilasciarmi quando la luce naturale del giorno cominciò a filtrare attraverso le tende, rimaste solo semichiuse nella notte. Un raggio di sole, simile a una spada fatta di sola luce, ricopriva il pavimento della stanza, attraversandola completamente da un lato all’altro. Erano passate le sette del mattino da un bel po’ e dovevo ancora sistemarmi prima di scendere nella hall per la colazione, dove avrei rivisto John. Entrai in bagno e mi guardai allo specchio, ora libero dalle tracce di vapore formatesi la sera prima. I miei occhi erano gonfi, non avrei offerto una bella immagine della mia persona in quelle condizioni, me ne resi subito conto. Cercai di coprire quella deformità con il trucco ma il risultato alla fine fu solo parziale, davvero scarso. Non potevo farci nulla, come già accadutomi altre volte, il gonfiore sarebbe andato via da solo durante la giornata. Avevo una certa esperienza a riguardo. Ma perché proprio quel giorno, accidenti? John avrebbe riso di me, si sarebbe meravigliato dei miracoli che le luci ombrose della sera possono compiere sull’immagine di una donna imperfetta. Eppure la sera prima i miei occhi mi vedevano così bella! Trovai la soluzione, avrei proposto una generosa scollatura. Avrei usato le mie armi migliori per distogliere il suo sguardo dai miei occhi, per valorizzare qualcosa che fosse più attraente e immediato per lui! In fin dei conti era un uomo, doveva apprezzare le fattezze di una donna. Strinsi quindi i miei seni tra le mani per unirli. Davvero niente male Kate! Infilai una maglia di cotone elasticizzato, senza reggiseno, molto aderente e con una scollatura davvero generosa. Era l’unica che avevo, era di colore rosa. Mi precipitai in bagno per osservarmi e apportare gli eventuali opportuni ritocchi. “Sei perfetta Kate, sei davvero una bomba!” pensai, fiera di me e di possedere un corpo come quello. Io stessa non guardai più i miei occhi, passati ormai in secondo piano. Finii di vestirmi in fretta e dopo un ultimo attento esame davanti allo specchio mi sentivo pronta. Presa la chiave della stanza, mi catapultai in corridoio, diretta verso gli ascensori. La serratura di sicurezza sulla porta della stanza s’inserì automaticamente subito dopo la chiusura della porta alle mie spalle. L’ascensore impiegò qualche secondo prima di giungere al mio piano e quando si aprirono le porte, vi trovai dentro un uomo piuttosto brutto, maleodorante ed esageratamente grasso, quasi obeso. Esibiva un buffo riporto di capelli sulla testa quasi calva che, evidentemente, voleva ricoprire ad ogni costo. Se fossi stata al posto suo, avrei pensato a una parrucca. Aveva mantenuto lo sguardo maniaco ben fisso sul mio seno per tutto il tempo necessario a giungere nella hall. Funzionava, pensai, e dimenticai subito il senso di fastidio che quello sguardo insistente mi avrebbe provocato in una situazione diversa. Anzi, gli fui quasi grata di avermi fornito la prova che cercavo in merito all’efficacia di quel piccolo espediente che avevo architettato per apparire attraente agli occhi di John.

John era seduto nella hall, mi aspettava mentre sfogliava una delle riviste messe a disposizione di clienti e visitatori. Era elegante, come il giorno prima. Indossava una camicia azzurra con cravatta stretta, a strisce oro e nero. Sopra la camicia portava la giacca del giorno prima. I pantaloni formavano un completo con la giacca, mostravano una leggera gessatura che non avevo notato la sera precedente. Mi avvicinai a passo veloce mentre lui mi notava, seguendo con lo sguardo la mia camminata.

«Buongiorno John. Mi scuso per il ritardo, è tanto che aspetta?», chiesi imbarazzata. Mi era tornata improvvisamente paura che potesse notare il gonfiore sotto i miei occhi.

«Buongiorno Katherine. Attendo solo da pochi minuti. Ha trascorso una buona nottata? Qualche problema?».

«Tutto molto bene, grazie. Mi sono addormentata quasi subito ieri sera. Ero talmente stanca che non mi sono neppure ricordata di spegnere il televisore, si figuri. Ho dormito come una bambina per tutta la notte e stamattina mi sentivo completamente riposata», mentii, senza pudore.

«Molto bene. Strano però, i suoi occhi vorrebbero suggerirmi l’esatto contrario. Pensavo che avesse pianto. Mi fa piacere sapere che mi sbagliavo e che invece ha riposato bene».

“Dannazione!”, pensai. Il mio seno non aveva sortito alcun effetto su quell’uomo, possibile? Aveva subito notato gli occhi, gonfi come palle da tennis. Dovevo dire qualche cosa per tranquillizzarlo.

«I miei occhi? Oh John, non ci faccia caso. Sono sempre così il mattino appena alzata. Poi si sistemano da soli. Perché mai avrei dovuto piangere? Non ne ho motivo, non crede?», fu l’unica cosa che riuscii a inventarmi sul momento.

«Io questo non potevo saperlo. Sono davvero tanto felice che lei stia bene». Mi accorsi che stavo peggiorando le cose, sarebbe stato meglio spostare i nostri discorsi su altri argomenti.

«Andiamo a fare colazione? Io avrei un po’ di fame, e lei?»

«Si, andiamo. La prego», rispose, invitandomi con un braccio ad anticiparlo nel tragitto verso la sala della ristorazione. Pareva essere veramente un uomo galante. Era un uomo che io percepivo come “raro” attraverso i miei occhi e i miei sensi. Al ristorante era servita una colazione internazionale. C’erano tante di quelle cose da mangiare da poter sfamare un esercito intero quel giorno. John prese un caffè americano che macchiò leggermente con del latte freddo. Io mi gettai su qualche cosa di più sostanzioso: confetture varie con pane e burro, frutta fresca, bacon, salsicce e formaggi. Tutto ciò era accompagnato da abbondante succo d’arancia concentrato. John mi guardava sorpreso.

«Che cos’ha da guardarmi in quel modo?», chiesi mentre il calore divampava sul mio collo. Immaginavo il rossore che stava ricoprendo il mio viso in quel preciso momento. Esprimevo sempre inconsciamente le mie emozioni attraverso i riflessi incontrollabili del mio corpo. Non avevo nascosto molto della mia vita alle persone. Solo il mio segreto più grande non era mai andato oltre le mura di casa nostra, se non fosse stato per le diverse decine di strizzacervelli che avevano avuto modo di esercitare la loro scienza su di me, per pura scelta e desiderio di mia madre.

«Noto con grazia il suo apprezzamento per i piaceri e le delizie della tavola. E’ tipico per un italiano, lo sa?», mi rispose sorridendo. Si stava prendendo gioco di me, era evidente.

«Che cosa intende dire con questo? Ieri sera sono rimasta a digiuno, ho bevuto solo del caffè e poi sono andata a dormire. E’ logico, umano e fisico avere fame! E cosa c’entrano gli italiani in tutto questo?». Voleva la guerra? Ero pronta a combattere ad armi pari! La mia forchetta con un pezzo di salsiccia infilzato rimase per un bel po’ sospesa a mezz’aria, sorretta dalla mia mano che non sapeva più decidere se riportarla nel piatto o verso la bocca.

«Ieri sera, quando le chiesi se aveva già cenato, mi ha risposto che non era solita mangiare tanto prima di andare a letto. Ho preso atto delle sue parole e non mi sono permesso di insistere oltremodo per offrirle uno spuntino. Le chiedo scusa, forse avrei dovuto seguire di più il mio istinto. Riguardo agli italiani, ha presente quelle comitive che partono dalle grandi città per una vacanza fuori dalle loro mura domestiche, acquistando i pacchetti completi di vitto e di alloggio? Non lasciano cadere nemmeno una briciola di pane dalla loro tavola. Con la scusa di aver già pagato tutto, si abbuffano come porci e ingrassano al punto da non riconoscersi più al loro ritorno a casa».

Non potevo trattenere le risate mentre, nel frattempo, avevo ripreso a mangiare con gusto. Quell’uomo mi divertiva, mi sentivo bene con lui. Cominciai a pensare che forse avrei dovuto condividere con lui la mia situazione e l’obiettivo primario della mia visita. Tuttavia non avrei di certo preteso aiuto da parte sua. Così come, di certo, non l’avrei rifiutato qualora me l’avesse offerto di sua spontanea volontà.

«E lei cosa ne sa di come si comportano gli italiani? Non sono poi tutti uguali. Secondo me, caro John, lei ha in mente lo stereotipo dell’italiano zoticone e rumoroso, gran mangiatore di pizza e spaghetti, che suona il mandolino e che è pronto a fregare il prossimo alla prima svista. Dico bene?», lo stuzzicai per poi affondare il colpo di grazia, «Gli italiani poi sono grandi amatori, lo sa questo vero?». Scoppiai a ridere, mentre lui posava la sua tazza ormai vuota, mostrava uno sguardo severo.

«Che ne dice se procediamo al check-out e ci avviamo? La strada è lunga. Vedo che non ha con sé la sua valigia», rispose, piuttosto imbarazzato dalla mia ultima frecciata che, indubbiamente, doveva aver colto nel segno.

«Si John, gli italiani fanno l’amore davvero bene! Se lo ricordi questo, sempre. Vado a prendere la mia valigia, ci vediamo qui tra pochi minuti, se non incontrerò un italiano in ascensore», replicai strizzando l’occhio come farebbe una ragazzina impertinente contenta di fare un dispetto a un contendente.

«Katherine!», mi chiamò, «Dovrebbe indossare qualche cosa di più caldo, confortevole e appropriato prima di uscire. Nel Wallowa fa molto freddo, soprattutto in questi giorni, non vorrei che si ammalasse». Aveva vinto lui ancora una volta. Con la sua compostezza, con la sua serietà e gentilezza, era riuscito letteralmente a trainarmi lungo la sua strada. Ora ero io a seguirlo e lo facevo con piacere e con estrema gratitudine. Aveva pensato a me, perché io non mi ammalassi, a disprezzo delle battutacce da ragazza sboccata che avevo appena pronunciato e che, in un certo senso, dovevano averlo toccato profondamente. Dovevo riparare al mio errore. “Ma io ho fatto tutto questo per lei, John!”, fui in procinto di dire, ma mi trattenni giusto in tempo per evitarmi un’altra figuraccia, ne avevo già commesse abbastanza in una sola ora della giornata. Inoltre sapevo benissimo che l’avevo fatto principalmente per me, per nascondere un mio difetto, non c’era nessuna traccia di altruismo nel mio gesto. Con un cenno del capo confermai di aver accolto il suo suggerimento ed entrai in ascensore. John si era avvicinato e prima che le porte si richiudessero mi sorrise, mentre mi guardava con espressione rilassata e giocosa.

«Non vedo italiani nell’ascensore Katherine. Bene, allora può salire». Scoppiai a ridere e non riuscii a fermarmi se non prima di essere rientrata nella mia stanza.

Indossai il mio maglione di lana a collo alto, presi il bagaglio e tornai nella hall. John mi attendeva vicino alla porta dell’ascensore. Mi fermai lasciando la valigia per infilarmi il cappotto che portavo appeso al mio braccio, come sempre. John, senza dire nulla, prese la mia valigia e cominciò ad avviarsi, anticipandomi verso l’uscita dell’hotel.

«Aspetti, devo saldare in conto della camera».

«Già fatto, non si preoccupi. Possiamo andare, mi segua».

«Ma ne è sicuro John?».

«Mi chiede se son sicuro di aver pagato? Certo, la mia carta di credito è ancora calda», rispose sorridendomi.

«No. Intendo dire se è sicuro di quello che sta facendo. Sono una perfetta sconosciuta per lei, non pensa?».

«Non è vero! Ci siamo conosciuti ieri sera in aeroporto, abbiamo viaggiato insieme in macchina, abbiamo fatto colazione insieme questa mattina e poco ci mancava che non mi mostrasse completamente il suo seno con quella scollatura di poco fa. Ritiene ancora che lei ed io siamo dei perfetti sconosciuti?». Era disarmante nella sua semplicità espressiva, nella sua capacità di farmi sentire importante! Mi sentii talmente circuita che non riuscii a rispondere, se non in macchina, dopo essermi sistemata all’interno dell’abitacolo ancora freddo.

«Si, siamo sconosciuti. Non vede che ci rivolgiamo l’uno all’altra con un freddo “lei”?», gli dissi, sperando di spalancare le porte a una maggiore confidenza tra di noi. La mia speranza fu subito ripagata.

«Ben appunto, lo pensavo anch’io poco fa, mentre attendevo all’ascensore. Che ne direbbe di abbattere il muro e darci del “tu”?».

«Va bene, con piacere», risposi mentre provavo davvero piacere nel dirlo, nel liberarmi da una costrizione che tendeva a frenarmi anche troppo.

John mi guardava sempre dritto negli occhi quando mi parlava seriamente, come avevo potuto pensare di distrarlo con altri mezzi? Avevo l’impressione sempre più forte di conoscere davvero quell’uomo da molto tempo.

«L’auto è ancora fredda, ma tra poco si starà meglio. Ti dispiace se accendo il condizionatore d’aria per farla riscaldare prima?».

«Assolutamente no, vedi tu ciò che è meglio fare».

«Bene, noto che il gonfiore agli occhi sta effettivamente scomparendo. Ora sono tornati belli, come ieri sera».

Gli sorrisi in silenzio e rimasi a osservare i morbidi lineamenti del suo profilo mentre, attento, conduceva l’auto sulla strada principale. Restammo in silenzio per un po’, mentre la radio trasmetteva musica classica in continuazione. Attraversammo il centro della città, Portland era già viva a quell’ora del mattino, le sue strade e i marciapiedi erano riempiti di gente che camminava a passo veloce, diretta chissà dove, chissà perché. Attraversammo il ponte sul fiume Willamette, era così bello con la neve, assumeva un fascino particolare. Osservavo fuori dal finestrino e catturavo tutte le immagini di quel paesaggio, cercando di capire se nella mia vita passata fossi già stata in quella zona. No, per me erano completamente nuove e per questo, forse, le apprezzavo ancora di più.

«Allora, ti piace Portland?».

«E’ una bella città e con la neve sembra davvero magica. E’ molto più tranquilla di New York ma sembra non farsi mancare proprio nulla. Penso non abbia assolutamente nulla da invidiargli».

«E’ una città completa e misteriosa. E’ una bella città. Ma quando ci vivi da un po’ di tempo, tende a soffocarti, come accade con la maggior parte delle grandi metropoli. Il Wallowa invece è immerso nella natura. Vedrai che differenza, Kate! Ha il suo bel lago, chiuso tra le montagne, i colori dei fiori in primavera, le piante e il verde tutt’intorno. Splendido posto Kate!», mi rispose, «E’ un peccato che tu la possa vedere solo con la neve».

«Con la neve avrà comunque il suo fascino, non credi?», continuai. “E poi io l’ho già vista”, avrei voluto gridare. Ma riuscii a trattenermi.

Persi tra quelle parole giungemmo ai confini estremi della città, oltre i quali si apriva la sconfinata campagna. La temperatura nell’abitacolo dell’auto era divenuta davvero gradevole, decisi quindi di togliermi il cappotto che posai sui sedili posteriori. Mi sentivo più libera nei movimenti, più a mio agio, nonostante il collo alto del maglione che non ero abituata a portare e che, in parte, m’infastidiva. Mentre mi sporgevo per sistemare il cappotto, John si voltò per guardarmi. I nostri occhi s’incrociarono e in quel momento catturai tutta la bellezza e la profondità dei suoi, di quel colore verde che avevo già notato in aeroporto ma che solo in quel momento riuscivo ad apprezzare in tutta la sua intensità. Forse per via della mia pazzia, in quell’istante provai un forte desiderio di baciarlo. Ma si, perché non farlo? Siamo esseri umani in fondo, siamo fatti di carne e di ossa. Perché non concedersi ai piaceri della vita, giacché è così breve? Io amavo un uomo nella mia vita passata, lo so con certezza assoluta grazie a tutte le immagini preziose che conservo dentro di me. Perché in questa vita non ero ancora riuscita a incontrare la persona giusta, fino a quel momento? John non mi era indifferente e, forse, nemmeno io lo ero per lui. Stavo sbagliando tutto, forse? Stavo correndo troppo? Sarei caduta in un profondo baratro, come già successomi altre volte in passato? Mi stavo ponendo troppe domande alle quali non riuscivo a dare alcuna risposta. Risposi al suo sguardo con un cenno di sorriso. John ricambiò compiaciuto. C’era intesa tra noi e questo mi rendeva serena e, al momento, mi bastava.




CAPITOLO 5


Lungo i suoi bordi, la strada cedeva lo spazio a un’interminabile distesa di neve bianca, solo qua e là interrotta dalle impronte di passi dei bambini che giocavano nei campi ricoperti e pieni zeppi di pupazzi e di piccoli igloo. John era silenzioso e attento alla guida. Mi fece notare che c’erano diverse lastre di ghiaccio sulla carreggiata e per quel motivo, oltre alle evidenti condizioni di traffico lento, avremmo impiegato molto più tempo del previsto per giungere a destinazione. Probabilmente l’impiegata in aeroporto, che conosceva la zona, aveva ragione nell’indicarmi che ci sarebbero volute anche otto ore per completare il viaggio. Chiesi a John se non ci fossero altre strade che ci avrebbero permesso di anticipare anche solo di poco il nostro arrivo nel Wallowa.

«Kate, conosco questa strada a memoria ormai, tanto che potrei guidare anche a occhi chiusi. Purtroppo non abbiamo altra scelta. Potremmo uscire dall’autostrada e percorrere le strade di città e di campagna, ma ci allontaneremmo dalla strada principale per poi doverci ritornare necessariamente sopra. Inoltre non mi aspetto di trovare strade sgombre dalla neve e scorrevoli là fuori e il rischio di trovare ghiaccio aumenterebbe facendoci rallentare ulteriormente. Impiegheremmo ancora più tempo, quindi è meglio procedere così. Hai molta fretta di arrivare?».

«No, non ho fretta. Ho solo un bel po’ di cose da fare da quelle parti e vorrei iniziare quanto prima, senza perdere troppo tempo», risposi. Avrei dovuto parlargli di me nel dettaglio.

«Sono questioni davvero così importanti? Questioni di vita o di morte?», chiese sorridendo e voltandosi per guardarmi negli occhi e rilevare ogni mia eventuale bugia. Era la prima volta che lo faceva da quando eravamo in viaggio.

«Direi piuttosto “questioni di vita e di morte”, entrambe. E non è solamente un gioco di parole, credimi». Ero decisa ormai, avrei vuotato il sacco alla prossima domanda. Dopo la morte di mia madre promisi a me stessa di non rivelare più ad altri i miei pensieri, ma evidentemente non ero in grado di mantenere le promesse o i buoni propositi fatti. Accettai questo mio limite e decisi di aprirmi del tutto, un passo alla volta.

«Spiegati un po’ meglio, non riesco a seguirti nel tuo discorso», chiese, incuriosito dalla mia risposta. Sul suo volto notavo un’espressione diversa, cominciava a mostrare i primi segni di una crescente preoccupazione.

«Io lascerei correre il discorso», e girandomi verso di lui per guardarlo negli occhi, «mi considereresti una povera pazza altrimenti, se te lo raccontassi». Queste parole, però, non facevano altro che accrescere la sua già evidente curiosità.

«Stai fuggendo da qualcosa o da qualcuno?»

«No, al contrario. Sto andando a trovare qualcuno».

«Si tratta di un uomo? Scusami Kate, io non volevo intromettermi nelle tue questioni private».

«Nessun uomo, semmai una donna». Mi guardava divertito ma con insistenza. Capii che forse aveva inteso la cosa come riguardante la mia sfera sessuale più intima.

«Non credo tu abbia realmente capito quello che intendevo dire, John», lo avvisai, «Non è una questione fisica o di sesso».

«Che cosa avrei dovuto capire quindi? Spiegati meglio se puoi».

«Non sono omosessuale».

«Io non ho mai dubitato sai?»

«Ne sei sicuro? Hai fatto una faccia strana pochi istanti fa».

«Con la scollatura che mi mostravi questa mattina e con le tue storielle sulle prestazioni sessuali degli italiani mi stavi forse comunicando di essere omosessuale? Non sembrava per nulla! O forse io non sono stato in grado di capire», rispose con orgoglio. Mi divertiva quel dialogo, volevo stuzzicarlo ancora un po’ prima di parlargli della mia vita precedente.

«Non fare anche tu come quelli che si comportano da stupidi per non andare a fare la guerra, caro John!», esclamai. Mi rispose con un punto interrogativo stampato in viso, senza esprimere una parola, «Davvero tu non hai mai sentito parlare di quanto sono bravi gli italiani a letto? Non vorrei mai ferire il tuo orgoglio maschile ma credo che qualche interrogativo forse tu potresti anche portelo, o mi sbaglio?». Il volto di John ritornò assai serio, proprio come avvenne quel mattino stesso e forse anche di più. Ottenni la conferma che quello doveva essere per lui un argomento davvero delicato. Immediatamente capii, ascoltando la sua confessione.

«Mia moglie mi ha lasciato per un italiano. Tutto quanto accaduto tra di loro era cominciato come una pura storia di sesso, tanti anni prima che ci lasciassimo, poi trasformatasi in amore e concretatisi in una gravidanza. Si chiamava Antonio, era un ragazzo proveniente da Avellino, una città nel sud dell’Italia che avrai probabilmente sentito nominare». Annuii con la testa, intenta ad accompagnarlo durante la sua apertura verso di me. Anche lui, evidentemente, voleva espellere quel malessere che portava da tanto tempo nel suo cuore.

«Lui era più giovane di mia moglie, una decina di anni in meno».

«Ora tutto mi è più chiaro John. Come mai parli di lui al passato?», chiesi, ma con estrema delicatezza.

«Il loro rapporto era diventato burrascoso. Lui voleva tornare in Italia e portarla via con sé, mia moglie però non voleva. L’ha lasciata dopo aver saputo che aspettava un figlio da lui, solo pochi mesi dopo il concepimento».

«E tu come sai queste cose? Sei rimasto in contatto con tua moglie mentre loro si frequentavano?».

«Ovviamente no. Ma avevo gente che m’informava».

«Ma ti facevi del male nel voler investigare su di lei e su quell’uomo, John».

«Si, ma io l’amavo e non riuscivo a rassegnarmi all’idea di averla persa». Capii il suo stato d’animo, quello di un uomo davvero innamorato e provato da una forte delusione. Che sua moglie l’avesse tradito per poi lasciarlo o che fosse definitivamente morta non faceva alcuna differenza per lui. Si sarebbe trattato della stessa tipologia di dolore e della medesima intensità.

«Siete comunque rimasti in buoni rapporti, giusto?».

«Giusto. Lei è tornata da me, chiedendomi di ricominciare insieme, di riprendere la nostra vita di coppia. Io le ho chiuso diverse volte la porta in faccia, soprattutto le prime volte non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi. La vedevo come una donna sporca, dentro e fuori del suo corpo. Non tanto per la sua infedeltà nei miei confronti ma piuttosto per la faccia tosta che mostrava mentre implorava il mio perdono, tra le lacrime. Poi una sera la lasciai entrare in casa per farla parlare e lei mi raccontò tutto, nei dettagli, senza difese. Mi raccontò per filo e per segno come andarono le cose tra di loro. Lei rimase incinta per errore. Per fortuna sua, pensai in quel momento, visto il tipo d’uomo che si era presa». Fece una pausa, durante la quale regnò il silenzio più assoluto. Nessuno di noi due riusciva a proferire parola.

«Non sei riuscito ad accettare suo figlio come tuo, vero?».

«E’ così. Forse sono una persona limitata, con estreme e pericolose chiusure mentali. Ma davvero non sono riuscito ad accettare l’idea che quella donna, mia moglie, stesse aspettando un figlio da un altro».

«Ora il bambino sta con lei?».

«Quel bambino non è mai nato. Sarah ha abortito in segreto dopo essere stata lasciata da Antonio, e prima di comunicarmi la sua decisione».

«Quindi ha fatto di tutto per recuperarti John. Fino ad arrivare all’aborto. Per una donna non deve essere una decisione banale da prendere. Se ancora provavi qualche cosa per lei, perché non le hai permesso di rientrare a fare parte della tua vita?». Ci fu un’altra pausa, molto più lunga, prima che John accennasse un no con un movimento del capo e terminasse il suo discorso.

«Ora capisci perché io non sia un simpatizzante per gli abitanti del “Bel Paese”».

«Ma non puoi generalizzare. Le persone non sono tutte uguali, indipendentemente dalla loro nazionalità, cultura o fede religiosa». Non mi rispose ma intuii subito che non condivideva il mio pensiero.

«Scusami per quello che ti ho detto questa mattina».

«E’ stata una proiezione del tuo pensiero, che rispetto ma non condivido, nulla di più Kate», mi rispose, regalandomi un sorriso.

Il suo volto era tornato sereno e luminoso. Forse quello sfogo gli aveva fatto bene e ci aveva ulteriormente avvicinati, rendendoci quasi complici. Era giunto il mio turno per parlare quindi, per confidarmi apertamente con quell’uomo del quale cominciavo a fidarmi e che sentivo di conoscere un po’ meglio, attimo dopo attimo, in un crescendo continuo.

Io ti parlo e spero che tu mi stia ascoltando, ovunque tu sia. Il tuo segreto è anche il mio. Ti stringo fra le mie braccia quando ci sei, ti trattengo nei miei pensieri quando sei lontano. Scegli di trascorrere una vita con me amore mio, raccoglimi nelle tue giornate e rendimi sempre partecipe delle tue gioie così come ti rendo anch’io parte integrante delle mie. Oggi, passeggiando sul lungolago, ho rivisto quei fiori che tu mi portasti in quel dì di pioggia, ridonandomi il sorriso e strappandomi via dal cuore quella tristezza che da qualche tempo lo attanagliava. Ora lo so, dove sono nati e cresciuti. E so anche che tu eri lì ad aspettare che crescessero forti e belli, per poi farmene dono. Io sono solo una povera peccatrice, pecco per un amore che non posso esprimere o condividere con il resto del mondo, quindi lo sono per nulla. Una vera beffa non è così? Pago per una colpa agli occhi di altri non commessa e mai espressa, consumo la mia vita e le mie emozioni un giorno dopo l’altro, sperando sempre in un tuo ritorno da me. La sera mi affaccio alla finestra della mia stanza e abbraccio la luna mentre ad alta voce pronuncio il tuo nome perché anche le mie orecchie oltre al mio cuore lo possano sentire. La sua tenue luce entra dolcemente nella mia stanza così come fai tu quando entri in me, riscaldandomi il cuore e il corpo con la tua presenza. Mi giro nel letto, ma è vuoto e percepisco la tua mancanza. Quando tu vieni da me a farmi visita, mi spoglio di tutto e ritorno a sentirmi una donna vera. Sento tanta fame dentro di me, l’ingordigia di quell’amore che merito ma che tu devi dare a un’altra donna per via di una promessa fatta davanti a nostro Signore. Dimmi, com’è fare l’amore con lei? A cosa pensi quando doni a lei il tuo corpo, pur sapendo che lei vive già nell’abbondanza e non realizza la fortuna che ha nell’averti vicino, mentre io patisco la fame che porta alla lenta morte del mio spirito? Torna amore, sono qui, io ti aspetto e sempre lo farò.




CAPITOLO 6


Il viaggio proseguì tra i discorsi che spaziavano su diversi argomenti, spesso interrotti da lunghe pause silenziose e dalle soste alle stazioni di servizio. Ognuno di noi rifletteva in questi momenti, cercando forse di raccogliere i propri pensieri prima che l’altro facesse la sua mossa. Mancava poco al nostro arrivo a Joseph e ancora non gli avevo detto nulla di veramente importante su di me, nulla che fosse realmente degno di nota e che lo aiutasse realmente a capirmi meglio. Dovevo farlo, non potevo attendere ulteriormente. Altrimenti sarebbe stato poi del tutto inutile parlarne, visto che un discorso simile non poteva essere lasciato a metà. Mi buttai nel vuoto, sperando di essere raccolta per tempo dalle sue braccia, prima di cadere a terra.

«John, ricordi quando ti dicevo che sono venuta fino a qui per incontrare una donna?», gli chiesi con evidente imbarazzo.

«Si, certo che me lo ricordo. E abbiamo anche convenuto che non sei omosessuale. Quindi la tua visita deve essere legata davvero a qualche cosa di realmente importante. Mi vuoi dire di chi si tratta? Chi è questa donna tanto importante nella tua vita?». Mi guardava, si aspettava la mia risposta. Finalmente ora avrei potuto svuotare tutto quello che avevo gelosamente conservato dentro di me per tanto tempo. Stavo proprio aspettando quel momento.

«Se ti dicessi che quella donna sono sempre io, mi crederesti?».

«Ti crederei. Mi staresti dicendo che sei alla ricerca di te stessa, della tua vita, delle tue aspirazioni, del…».

«No John», lo interruppi prima che potesse completare la sua frase, «Non si tratta di questo. Sto cercando proprio la “me stessa” che ha vissuto qui tanto tempo fa. La “me stessa” della mia vita precedente, John». Lo guardai mentre mi fissava negli occhi, distraendosi pericolosamente dalla guida. Con il dito gli indicai di non distrarsi troppo, ma si vedeva che la mia affermazione doveva averlo scosso non poco.

«Permettimi di trovare un’area di sosta, per parlare meglio e con più calma. Voglio capire meglio ciò che mi stai dicendo, perdonami». Guidò per qualche chilometro, senza parlare. Forse cominciava a pensare di aver caricato sulla sua auto una pazza. Trovammo un’area di sosta ampia a sufficienza per fermarci in sicurezza. Accostò, per poi spegnere il motore e abbassare il volume della radio. Si respirava un’atmosfera glaciale, ma non era dovuta al freddo.





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”Quando mi vedrai morto d’amore per te, mia donna, e le mie labbra saranno schiuse, e svuotato dell’anima sarà il corpo… allora, vinta dal dolore e dal rimorso, verrai al mio capezzale e con voce tenera e sommessa dirai: Io sono colei che ti ha ucciso e pentita sono ritornata…”.

Due corpi, una sola anima. Un ritorno alla vita un secolo e mezzo dopo la prima volta che annienta i confini imposti dal tempo. Una nuova vita o solo un riscatto. Ma certamente un nuovo amore che sboccia nella rivisitazione aggiornata di un passato ormai estinto.

”UNA BOLLA FUORI DAL TEMPO” è un Romanzo ricco di emozioni, di immagini e di colpi di scena che tiene il lettore incollato fino all'ultima pagina.

E se fosse vero che tutti noi viviamo più di una vita? E se crescessimo con la certezza di ricordarne una precedente?

Katherine, da tutti chiamata Kate, è una giovane donna italoamericana che vive a New York. Molti sono convinti che abbia problemi mentali, la sua famiglia d’origine compresa. Ma non è così: la sua particola¬rità è che sembra ricordare con assoluta nitidezza i dettagli di una sua vita precedente, vita vissuta in un luogo lontano dalla sua città natale. Ormai trentacinquenne, decide di tornare a Joseph, nella contea di Wallowa, Oregon, dove è cer¬ta di aver vissuto. Cerca il suo passato, ciò che fu la sua anima rinchiusa nel corpo di una donna d’altri tempi. Costretta a fermarsi a Portland per una tempesta, incontra John, con cui percepisce una strana affinità. Lui si offrirà di aiutarla a cercare le tracce di questo passato che non smette di ossessionarla. Un quadro, un bacio, una casa ed un diario scritto da lei stessa nella seconda metà dell’ottocento, tutto converge verso una rivelazione mozzafiato serbata per un finale capace di rendere questo romanzo indimenticabile.

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