Книга - Lo Senti Il Mio Cuore?

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Lo Senti Il Mio Cuore?
Andrea Calo'


Riuscirai a superare persino quei giorni in cui ti sentirai morire, quelli in cui ti ritroverai dannatamente sola e fragile. Perché sai, è questo che si fa. Si va avanti, nonostante tutto.

E non importa alla fine chi sei stata o chi sarai. Ciò che importa è andare avanti, assaporando il gusto dolce e amaro delle emozioni, quelle che ogni giorno ci regala lo splendido viaggio che gli esseri umani chiamano ”vita”.



Fin dalla tenera età la vita di Melanie è segnata dalla violenza. La sua esistenza è il totale annullamento dell'essere donna e di ogni traccia della propria personalità. Ma come in una bella favola, ormai certa di aver toccato il fondo, arriva per lei l'amicizia sincera di Cindy accompagnata da un amore vero per un uomo, un vecchio amico. E allora tutto cambia, come d'incanto. Tutto rinasce e può sbocciare la vita nella sua primavera, quella mai vissuta.





Andrea Calò

LO SENTI IL MIO CUORE?




ROMANZO



Prima Edizione – Maggio 2014





Questo libro è un’opera verosimile basata su una storia vera. I nomi dei personaggi, i luoghi e alcune situazioni sono stati modificati dall’autore a garanzia della privacy delle persone. Qualsiasi altra analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.




© Copyright 2014 – Andrea Calò

ISBN: 9788873042891

@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it

In copertina: Nicoleta Nuca (su gentile concessione)



Edizioni TEKTIME


A mia moglie Sonia, l’amore della mia vita.

Per sempre.







1


Quando anche l’ultimo degli amici lasciò la nostra casa dopo avermi salutata, chiusi la porta a chiave. Ero rimasta sola, e non era solo una solitudine fisica. Sentivo freddo e anche dopo essermi coperta con un maglione di lana la situazione non migliorava. Il mio cuore batteva lento nel petto. Un profondo battito sordo e poi un lungo silenzio che preannunciava la morte, disillusa dal tardivo battito successivo. Ero viva. Sentivo freddo, quindi ero viva. Il sole di maggio aveva spazzato via le gelide giornate invernali già da parecchi giorni, perché su di me non stava funzionando? Guardai fuori dalla finestra. I ciliegi erano già imbiancati da fiori che presto sarebbero divenuti frutti rossi e dolci. Alcuni avevano già ceduto il loro posto, staccandosi dai rami per posarsi a terra o sulle spalle dei passanti, come neve di cotone. Erano fiori senza un futuro o frutti senza un passato, proprio come me. Ma questi fiori colti dalla morte portata da un soffio di vento uccidevano il grigiore del cemento e dell’asfalto, donandogli vita. Io invece mi sarei lasciata solamente marcire sotto terra un giorno, immobilizzata per l’eternità e costretta a guardare le margherite crescere dalla parte delle radici. Oppure mi sarei fatta bruciare e poi riporre in un’urna fredda simile a quella di mio marito, per vedere se esiste davvero l’Inferno e per scoprire l’effetto che fa bruciarci dentro. Seppellita o bruciata, dovevo ancora decidere il mio modo per essere dimenticata. Dimenticata dai miei figli, dal mondo intero e da me stessa. Certa che nulla si sarebbe fermato dopo la mia partenza verso l’eternità. Mi voltai per guardare l’urna, non l’avevo ancora fatto dopo la fine della funzione. Era di colore grigio, un grigio scuro come quel “fumo di Londra” che lui tanto amava e che sceglieva ogni volta che andavamo a comprare un vestito. Pressato dalla mia insistenza, mi compiaceva provando vestiti di altri colori, un po’ più vivaci. Ma alla fine del gioco la merce scelta e deposta sul banco della cassa era sempre la stessa. “Dovrò sentirmici bene dentro, finché lo indosserò”, mi diceva ogni volta. E poi rivolgendosi alla cassiera e provocandole non poco imbarazzo le chiedeva “Signorina, lei cosa ne pensa?”. Ed ecco qui la mia scelta, ancora una volta dettata dalla sua ingombrante seppur impercettibile presenza. Io come la cassiera ho confermato che quell’abito grigio sarebbe stato adatto a lui. Ho pagato in prima persona e sono scappata via con la merce pesante stretta tra le mie mani stanche. Un’urna di colore grigio “fumo di Londra”, il suo ultimo abito, quello che lui non si sarebbe mai più tolto per l’eternità. Mi avvicinai e la accarezzai. La sollevai e sulle mie braccia riuscivo a pesare la sua vita. Sentivo il freddo pungente del metallo guadagnarsi spazio sotto il tocco della mia mano stanca. Mi faceva percepire un senso di calore etereo nel braccio, un calore che scalava il mio corpo avvolgendolo tutto, mi accelerava il cuore. Non capivo se fosse più un fastidio o puro benessere. Vivevo di più, vivevo meglio. Comunque vivevo! Staccata la mano, ecco comparire nuovamente il vuoto che bussava alla mia porta, la mano tornava a scaldarsi, il braccio a raffreddarsi, il cuore a rallentare. Riprendevo lentamente la mia corsa verso la morte. Ma io sapevo che non si sarebbe fermato subito, la sofferenza dettata da quell’abbandono non mi sarebbe stata scontata perché la vita non offre mai “saldi di fine stagione”. Il cerchio si richiudeva su sé stesso e il ciclo ricominciava da capo. Versai dell’acqua nel bollitore e lo accesi. Rimasi per qualche minuto immobile, con gli occhi fissi sulla spia luminosa rossa in attesa che si spegnesse da sola. Anche lei moriva a modo suo, come tutto, come tutti, come sempre. Ma lei poteva ritornare a vivere, poteva rinascere se spinta dall’esterno con una scossa di vita. Proprio com’era successo a me quasi cinquanta anni prima. Con quegli stessi occhi avevo guardato il mio compagno durante gli ultimi istanti della sua vita, i miei occhi immobili che fissavano i suoi, spalancati e altrettanto immobili ma ancora capaci di brillare di luce propria, come la spia del bollitore, con il silenzio fastidioso che solo la vita che lascia il corpo sa creare. Un trambusto creato da disordinati pensieri, immagini di felicità che si ergevano da un mare di lacrime. E sotto il piatto che conteneva la mia felicità c’era lui, l’uomo che usciva dall’acqua come un dio greco, imponente nella sua semplicità, terrificante nella sua dolcezza. Ed io, seduta su quel piatto banchettavo con la mia felicità fino a sentirmi sazia, più mangiavo e più mi sentivo leggera, abile nello spiccare un volo con un semplice balzo.

Versai qualche foglia di tè verde in un bicchiere e lo arricchii con qualche foglia di menta che avevo congelato, perché si conservasse fresca e profumata. Il suo fresco profumo m’invase, portandomi via per un istante dal puzzo di una vita che sarebbe marcita totalmente in poco tempo. La mia decomposizione era già in corso da ore, giorni, settimane. Da quando lui si ammalò. Non so da quanto tempo e per quanto tempo ancora sarei stata me stessa o colei che gli altri volevano che io fossi. Poi mi voltai di scatto cercando anche l’altro bicchiere, quello che avrebbe usato lui, quello color panna con il suo nome inciso sopra in eleganti caratteri corsivi di colore rosso. Amava il tè alla menta, ne abusava. Era la sua droga quotidiana, non poteva farne a meno. Ricordo che una volta ci dimenticammo di fare la scorta. Era un freddo pomeriggio, nonostante la primavera fosse già arrivata da molto tempo. Pioveva. Arrivate le cinque del pomeriggio e non trovato il tè in casa si arrabbiò parecchio. Non con me, mi disse subito che io non avevo colpe per la sua stupidità. Prese il cappotto, s’infilò le scarpe e scomparve dietro la porta come un fuggiasco inseguito dalla polizia. Io sorrisi, amandolo nella sua goffaggine, per il suo attaccamento alle cose futili. Rientrò dopo un’ora buona, imprecando contro i gestori del supermercato perché avevano finito le confezioni di tè sfuso in foglie della marca che piaceva a lui e non le avrebbero più ordinate. Diceva sempre che nemmeno i negozi erano più quelli di una volta, che sarebbe stato meglio fornire bene gli scaffali dei supermercati piuttosto che spendere soldi per viaggiare nello spazio. Avrebbe dovuto cercare un’altra soluzione, quel giorno si dovette accontentare di tè già pronto in filtri e di marca scadente. Poi mi guardò, si avvicinò a me con il suo sorriso e prendendomi le mani mi consegnò una rosa rossa. “Questa non l’ho presa al supermercato, non avrei mai portato una rosa confezionata alla donna che amo. E’ la prima rosa spuntata nel roseto del giardino nel quale ci siamo incontrati, ricordi? Erano giorni che la curavo e che immaginavo il momento in cui te l’avrei data. Il tè era soltanto un pretesto, posso anche farne a meno. Ma del tuo amore no, a quello non posso davvero rinunciare!”. Lo baciai e lui rimase immobile come spesso faceva, diceva che gli piaceva sentire il sapore delle mie labbra e se anche lui mi avesse baciato avrebbe rovinato il gusto. E allora io lo baciavo ancora, ancora e ancora mentre lui, in silenzio, mi amava sempre di più. Quella sera facemmo l’amore. Fu diverso dal solito, fu ancora più intenso, più profondo e piccante. La rosa rossa ci scrutava dal vaso nel quale l’avevo riposta, ci proteggeva come una guardia della Regina, immobile e composta, più viva che mai seppur immobile. Provai un brivido diverso quando lui si liberò dentro di me, sapevo che qualcosa di grande, di potente e incomprensibile per l’uomo aveva preso vita nel mio corpo in quell’istante. Non era paura, non era dolore. Era il frutto dell’amore che lasciava un corpo e si congiungeva con un altro, catturato da un’anima vagante a noi assegnata e da essa guidato fino al completo compimento del suo tragitto impervio. Il primo viaggio. Il miracolo della vita era avvenuto dentro di me, per la prima volta. Lui mi guardò con i suoi occhi infuocati d’amore e di passione, cercando i miei occhi dai quali aveva cominciato a sgorgare una lacrima. In quella lacrima e nei miei occhi lui vide riflesso il vaso con la rosa. Si fermò, mi baciò, mi sorrise. Posò il suo dito indice sul mio naso, strappandomi un sorriso come sempre e mi disse “Si chiamerà Rose. Ti piace il nome Rose per una bambina?”. Rose arrivò nove mesi dopo, come un regalo caduto dal cielo. Era così gracile, indifesa e semplice. Mi sorrideva sempre, mi sorrideva con gli stessi occhi di suo padre.

Mia figlia Rose con suo marito Mike e i miei due nipotini Claire e Tommy sarebbero venuti a casa mia per cena. “Casa mia”. Mi meravigliavo di quanto fosse semplice adattarsi alle cose. Tuttavia pur girando in tondo come un clown colpito da uno schiaffo in pieno viso, non riuscivo a scorgere nessun altro pronto a parlarmi, a chiamarmi, a ricordarmi ancora una volta quanto io fossi bella per lui. Rose mi aveva lasciata per qualche ora subito dopo la cerimonia, doveva sbrigare alcune faccende e saldare il conto per il funerale. Io avrei dovuto dare retta ai restanti parenti e amici, ognuno dei quali voleva ricordarmi con le sue parole quanto mio marito fosse stato importante per me e quanto io lo fossi per lui. Parlavano, intervallando parole a freddi abbracci di convenienza che non sapevano di nulla, non esprimevano calore, non emanavano odore se non quello pungente della naftalina che aveva protetto i loro abiti fino a quel giorno e tirati fuori ancora una volta per l’occasione. Molto spesso le persone si rincontrano solo in occasione di matrimoni e funerali, per molti di loro fu davvero così. Quella sera stessa sarebbero stati riposti nelle loro custodie plastificate, cosparsi nuovamente di puzzolenti palline di naftalina insieme ai fazzoletti ancora ripiegati e sui quali nessuno aveva versato una lacrima sincera. L’esercito del commiato a turno mi scuoteva, mi percuoteva l’anima con parole studiate e acuminate come gli aghi sul guscio di un riccio di castagno, attendendo di vedere una lacrima sgorgare dai miei occhi, come estrema esternazione del mio dolore, della mia vulnerabilità. Solo allora si sentivano appagati, potevo percepire il loro ego esclamare “Era ora! Finalmente ce l’ho fatta a strapparle una lacrima!”. E io li accontentavo, nella speranza di far placare anche il mio dolore, la mia sofferenza, l’amaro sapore della solitudine che mi aspettava. Fotografavano quella lacrima, rubandola dai miei occhi per portarsela via come ricordo, come un trofeo vinto nella più estenuante delle battaglie. Per la loro vittoria avevano ricevuto in premio la mia sconfitta e mi toglievano la vita ogni volta che, dopo tutto questo, mi dicevano “Su dai, ora non piangere. La vita continua”.

Il tramonto stava arrivando. Lui passava sempre qualche minuto in giardino, seguendo il sole nell’ultimo tratto del suo viaggio verso la notte. In quei momenti io raramente uscivo fuori con lui, preferivo starmene quieta in casa ad osservarlo dalla finestra con la tenda lievemente scostata, quanto bastava per vederlo ma senza correre il rischio di essere scoperta. Se m’avesse visto mi avrebbe sicuramente invitato ad uscire con lui ma io preferivo osservare a pieni occhi la mia cartolina monocromatica, perché con lui dentro mi sembrava molto più bella. Scorgevo la sua sagoma nera che si confondeva con il paesaggio, il nuovo tronco entrato a far parte della mia vita per poi diventare prima albero, poi legno stagionato, infine polvere chiusa in un freddo vaso di metallo grigio. Ma io allora vedevo solo il mio albero e la prospettiva che mi regalava la fortunata posizione di quella finestra me lo rendeva più alto e possente di tutto il resto. Se ne restava lì fermo, immobile, lo sguardo perso dentro il rosso infuocato del cielo che non voleva ancora arrendersi alla notte che incessantemente bussava alla sua porta, chiedendogli di farsi da parte. “Che bella è la vita!”, vibravano le parole che cavalcavano la mia anima, tracciando una invisibile linea di brividi lungo la schiena che non riuscivo a seguire senza far scuotere il mio corpo. “Il tramonto come atto finale del giorno non è altro che l’inizio di una nuova alba. Quella che verrà, sempre se ce la saremo meritata”. Avevamo anche assistito all’alba lui ed io. Capitava spesso nelle notti d’estate, quelle calde e soffocanti fatte di silenzi interrotti dai fastidiosi ronzii delle zanzare assetate di sangue, assetate di vita. Non ci pungevano ma non ci permettevano nemmeno di dormire bene. Quando ci trovavamo lì nel letto, entrambi svegli con gli occhi spalancati e le gambe tenute aperte per non sudare, il più delle volte occupavamo il tempo facendo l’amore. Ma un mattino mi sorprese. Tornato dalla toilette si avvicinò a me sussurrando al mio orecchio “Melanie, vuoi assistere alla nascita di una nuova vita oggi? Sarà un’esperienza nuova, ti piacerà!”. Io non capivo cosa intendesse dire. Avevo dato alla luce Rose un bel po’ di anni prima e avevo lavorato per anni come infermiera e assistente al parto in ospedale prima di fuggire via dalla città della mia infanzia. Perché mi chiedeva se volevo assistere ad un parto? Declinai l’invito, rispondendo che alla fine tutte le nascite sono uguali e quell’esperienza l’avevo già vissuta troppe volte, fino alla nausea. “Ma il sole nasce ogni giorno in modo diverso. Le nuvole nel cielo, quando ci sono, regalano sfumature rosa diverse e irripetibili. Sei certa di volerti perdere tutto questo? Potrebbe non tornare mai più, sai?”. Con le sue parole scomparve anche l’ultimo residuo di sonno e un istante dopo ci trovammo seduti sulla nostra panca in giardino, quella più bella, quella che regalava la migliore vista sul lago. Restammo così appoggiati l’una all’altro, avvolti dal silenzio mentre la magia della vita partoriva un nuovo giorno. Le zanzare erano rimaste tutte in casa, dee della notte che temevano l’arrivo della luce del nuovo giorno, così come Satana teme la luce di Dio. E il primo vagito del nuovo nato fu un debole raggio di luce che ebbe però la forza di arrivare fino a noi, rischiarando i nostri volti, riscaldando al meglio che poteva le nostre mani. Lo baciai, lui fermo per assaporare il gusto delle mie labbra ancora una volta. Non osai chiedergli che gusto avessero, lo capii da sola. Capii che erano speciali per lui, come lui lo era sempre stato per me. Speciale come il modo in cui lui mi aveva fatto accogliere quel nuovo giorno, il primo vagito della vita. Unico come il modo in cui era tornato ad abitare nella mia stessa esistenza, riempiendo la mia vita con la sua presenza.

Rose entrò in casa usando il suo mazzo di chiavi. Andava fiera di quel mazzetto di ferraglia che desiderava possedere fin da quando era piccola, quando mi diceva sempre che tutte le sue amichette ne avevano uno, che i loro genitori avevano deciso di darglieli perché si fidavano di loro. Non capiva quindi perché io fossi di parere totalmente contrario, non condivideva il motivo delle mie paure. Suo padre era invece accomodante come sempre, la maggior parte dei vizi che Rose aveva avuto portavano la sua inconfondibile firma. Nei momenti dell’esasperazione affermavo spesso con fastidio che se Rose un giorno si fosse persa, anche un turista di passaggio avrebbe capito subito di chi fosse figlia e ce l’avrebbe riportata. Rose era la sua copia al femminile. Aveva i suoi stessi occhi, il suo naso, la sua fronte allungata e candida, così come candidamente bianca, quasi pallida, era la sua pelle. Riuscivano a capirsi per mezzo di discorsi fatti di interminabili silenzi. Io spesso mi sentivo tagliata fuori e cominciavo a parlare con me stessa, per farmi compagnia. Al compimento del sedicesimo anno d’età decidemmo di accontentare Rose. Preparammo un mazzetto di chiavi e lo impacchettammo come se fosse stato un regalo. Lui prese un foglio di quella carta che lui stesso preparava e con il pennino ad inchiostro che usava per le occasioni speciali vi scrisse sopra “Per la mia piccolina che diventa donna”. Me lo porse perché io potessi leggerlo, forse attendeva il mio consenso ma so per certo che se anche gli avessi detto che per me non andava bene, lui non avrebbe cambiato nemmeno una delle parole che aveva scritto su quel biglietto. Toccai più volte quella carta durante un periodo della mia vita, vidi spesso le sue parole impresse su di essa con quella stessa calligrafia, l’inchiostro nero leggermente velato che a stento copriva le imperfezioni di quel supporto fatto in casa. Quando Rose aprì i suoi regali e trovò le chiavi pianse. Pianse al punto tale che cominciai a temere di aver fatto la cosa sbagliata. Avevamo confermato la nostra fiducia in lei e questo per Rose era una cosa davvero importante.


* * *

«Ciao mamma, siamo arrivati!».

«Ciao Rose, venite! Ciao Mike! Ciao angioletti miei!».

Mike e i miei nipoti mi abbracciarono, Rose mi baciò stringendomi forte a lei. Claire era triste e come Rose non riusciva a nascondere i suoi sentimenti. Tommy saltava come un canguro per la casa, per smaltire le energie in eccesso che aveva accumulato. Era un vero trambusto e in sua presenza ogni luogo prendeva vita.

«Claire, tesoro! Non devi essere triste. Dove hai nascosto il tuo bel sorriso?».

«Claire ha ricevuto una brutta notizia oggi», disse mia figlia Rose mentre le accarezzava teneramente la testa, «Oltre al funerale del nonno ha dovuto ingoiare anche il rospo di sentirsi lasciata da Morgan, il suo fidanzato».

«Morgan ti ha lasciata oggi?», le chiesi io fingendo una esagerata espressione di stupore.

«Si, quello stupido idiota! Mi ha lasciata con un messaggio sul telefono. Non ha avuto nemmeno il coraggio di parlarmi, di guardarmi in faccia quel codardo!».

«Oh, capisco! E che cosa dice quel messaggio?».

«Dice che mi lascia. Che cosa vuoi che dica?».

«Le parole sono molto importanti tesoro mio! Da quelle parole puoi capire se lui ha paura, se ha solo bisogno di un po’ di tempo, se c’è ancora speranza oppure se è davvero finita per sempre», replicai con la fierezza di una donna che aveva maturato una certa esperienza a riguardo.

Scocciata, Claire infilò una mano in tasca e recuperò il telefono. Schiacciò un po’ di tasti con una velocità impressionante, movimenti che a me sembravano del tutto casuali ma che per lei avevano un senso preciso. Poi, ritrovato il messaggio, me lo lesse.

«Allora, dice così: Ti prego di perdonarmi ma non penso che tra noi possa funzionare. Ti ho voluto tanto bene e tu hai voluto bene a me, questo lo so bene. Ma ora questo tempo è finito. Io ho fatto una scelta diversa, so che mi capirai e che mi accetterai anche per questo, per la mia debolezza e per la mia codardia. Non cercarmi più, io non ti cercherò. Buona vita Claire, addio. Questo è tutto!».

Richiuse il telefono e lo infilò nuovamente in tasca mentre con un dito asciugava una timida lacrima che si affacciava sui suoi splendidi occhi blu.

«E’ un ragazzo maturo, Claire. Le sue sono parole sincere e quindi dolorose da sentire, soprattutto quando il cuore non le vorrebbe mai sentir pronunciare dalla persona che si ama».

«Maturo o non maturo non è una cosa che mi riguarda più. Ha la mia età nonna e a quindici anni è concesso conservare un briciolo di immaturità!», sbottò. Io la lasciai sfogare, era la cosa migliore da fare in quel momento.

«Se si è immaturi non si possono portare in tasca le chiavi di casa», dissi accennando un leggero sorriso mentre voltavo lo sguardo verso Rose, «Dico bene bambina mia?».

«Ma… mamma!».

«Io ho già le chiavi di casa in tasca da molto tempo nonna», replicò Claire, mostrandomele con orgoglio e una leggera smorfia. Le sorrisi, Claire ricambiò, Rose abbassò lo sguardo verso il pavimento, ammutolita e a disagio.

«Anch’io voglio le chiavi di casa, anch’io le voglio! Mamma, papà, quando me le date? Ci voglio giocare!», strillò il piccolo Tommy che nel frattempo ci aveva raggiunti, divertito dalla scenetta recitata proprio davanti ai suoi piccoli occhi da improvvisati attori rimasti da soli a riempire il palcoscenico della vita.

Chissà come ci vedeva quel bambino da laggiù, con lo sguardo perennemente rivolto verso l’alto. Questi adulti “strani” che parlavano di cose “strane” invece di starsene belli tranquilli a giocare con i loro pupazzi. Forse si chiedeva dove li avevamo messi tutti i nostri pupazzi, i nostri giocattoli. Forse avrebbe voluto vederli, toccarli, prenderli per giocare con noi. E lui li avrebbe animati con la sua fantasia, gli avrebbe dato vita, forme e colori come solo un bambino sa fare. Per lui tutto è un gioco, la vita stessa è un gioco. E ogni volta il gioco è diverso anche se i pupazzi sono sempre gli stessi, perché nessuno meglio di un bambino è in grado di valutare tutte le possibili alternative, per renderle reali e dargli forma nella sua mente. Quindi perché mai non giocare, perché gettarsi tra le braccia di una esistenza fatta di paure, preoccupazioni e problemi? Lui chiedendo le chiavi voleva entrare a far parte del nostro mondo, ma noi avevamo già superato la fase della spensieratezza, avevamo affrontato con successo quella della conquista, della fatica. Ed io, a differenza degli altri, avevo già provato anche il gusto acre di quella dell’abbandono, per ben due volte. Gli altri, i più giovani, erano ancora fermi alle stazioni precedenti e da lì si godevano il paesaggio, bello o brutto che fosse, in attesa che il treno della vita li conducesse altrove, senza sapere dove. Potevano guardare in avanti alla ricerca di una meta. Ma anche indietro, verso il punto di partenza dove tutto il loro mondo ebbe inizio, nel fumo dei ricordi raddolciti dallo scorrere del tempo. Nel loro viaggio erano accompagnati da altri passeggeri, alcuni tristi altri felici, sani o malati. Proprio come loro. Cloni di una civiltà che vuole rendere tutti uguali, un formicaio osservato da un essere superiore dove i “diversi” sono considerati come anomalie, come formiche che camminano nella direzione opposta e non troveranno mai le briciole. Io invece potevo sforzare lo sguardo se lo rivolgevo verso l’inizio, verso il mio passato, attraverso la fitta nebbia dove tutti i miei ricordi si mescolano. Sono i miei, solo miei, disordinati e sparsi come soldati morti su un campo di battaglia che non avevano deciso dove cadere, uccisi mentre cercavano di portare a compimento il loro progetto e lì abbandonati per sempre, dimenticati da tutto e da tutti. Se guardo in avanti so che l’ultima stazione del mio viaggio non è poi così lontana. La posso quasi vedere, toccare con mano, la sento. Raggiungere la mia stazione d’arrivo è il mio ultimo progetto, quello che porterò a compimento prima o poi. E ora che anche l’ultimo mio compagno di viaggio entrato nel mio vagone a metà del tragitto, l’uomo che mi aveva tenuto compagnia facendomi sentire più viva che mai, era sceso dal treno senza nemmeno salutarmi, mi sentivo più prossima alla meta seppur in preda alla paura e al totale smarrimento. Lui era arrivato alla sua stazione, dove si concludeva la sua vita, il suo viaggio. Il prezzo che aveva pagato all’inizio per il suo biglietto gli permetteva di arrivare fino a lì, non gli era concesso andare oltre. A volte fantastico sui tramonti che vedrà da quel luogo, seduto da solo su una panchina in una stazione deserta. Mi chiedo anche se i raggi del sole che vedrà spuntare al mattino assomiglieranno a quelli che avevamo visto insieme durante le nostre mattine, seduti sul treno che procedeva nel viaggio senza che noi ce ne rendessimo conto. Attenderò quindi il mio tramonto con serenità ma senza fretta, accompagnata dal fumo dei miei ricordi e in attesa di fondermi con loro, per trasformarmi in un nuovo soldato caduto sul campo di battaglia e lì dimenticato. Da oggi sarò solo una spettatrice e osserverò le immagini della mia vita dispiegarsi al di là del finestrino del treno in corsa e ad ogni suo sobbalzo sulla rotaia ricorderò che sono ancora qui. Osserverò i passanti e aiuterò quelli che, smarriti nelle loro esistenze, mi chiederanno informazioni per raggiungere la loro meta. Ma non pretenderò mai di essere ascoltata e accetterò le critiche che mi saranno avanzate sul modo in cui io, semplice donna di periferia, ho affrontato il mio viaggio. E all’arrivo dell’alba ci sarà lui ai piedi del mio letto, lui come un’ombra nera e dai dettagli indefiniti mi risveglierà e mi chiederà di seguirlo per assistere ancora una volta ad una nuova nascita, la mia.

Claire mi guardava, forse aspettava una replica da parte mia che alimentasse quella discussione che appariva sterile ai miei occhi anziani. Potevo fare di più per lei, potevo farle un regalo. Quindi la delusi, non replicai alla sfida, ma mi arresi spogliandomi totalmente davanti a lei.

«Claire, vieni con me in giardino. Ti racconterò una storia se ti fa piacere».

«Di cosa si tratta nonna? Non mi parlare di favole o cose del genere, non sono più una bambina e non sono nemmeno dell’umore adatto per ascoltare storielle alle quali non credo più da tanto tempo».

«Si, forse è una favola piccolina mia. Dici bene. E’ per questo motivo che quando ci ripenso e prendo coscienza di quanto sia stata importante per me, sento i brividi attraversarmi il corpo in lungo e in largo. Ti parlerò della mia vita se vorrai stare ad ascoltarmi, perché tu possa confrontarla con la tua e per scoprire che nonostante le nostre generazioni tra loro così distanti non siamo poi così diverse tu ed io».

Claire fissò Rose per un istante. Rose le sorrise invitandola a seguirmi. Era commossa, lei conosceva tutta la mia storia fin nei minimi dettagli, anche quelli più intimi, uno dei quali si era trasformato in lei stessa. Accettò il mio invito con un silente movimento del capo, gli occhi bassi fissavano il pavimento. Era il suo modo per dirmi grazie. Il sole al crepuscolo confondeva i colori del mondo, uniformandoli in un’unica macchia nera e piana, privata della sua profondità. Sedute sulla stessa panca dove noi ci fermammo ad ammirare il tramonto per tante primavere, assaporavamo il gusto di un mondo che ci si mostrava in due dimensioni, dai colori indefiniti e privi di dettagli, scontornati da tutto e per tutti, perché nessuno nutrisse mai alcun dubbio sulla sua bellezza. Seguivamo con lo sguardo fisso l’arcobaleno dei colori dipinto nel cielo, dal rosso intenso a ridosso degli alberi anneriti dal sole che scendeva fino al blu intenso generato dalla profondità dello spazio, così come appare agli occhi se viene guardato da quaggiù. Presto quei colori si sarebbero disciolti come un dipinto ad acquarello dimenticato ancora fresco sotto la pioggia. Il rosso avrebbe preso il sopravvento sulla terra per poi cedere spazio all’oscurità incalzante della notte. Una notte senza luna, una notte con tante stelle.

Claire si sdraiò appoggiando la sua testa sulle mie gambe. Muoveva gli occhi seguendo i tratti del cielo, per contare quelle stelle che già si potevano scorgere nonostante la luce del giorno non fosse stata ancora spenta del tutto. Forse cercava una stella in più nel cielo, quella che non aveva ancora visto e che non era ancora stata avvistata da nessun osservatorio, da nessun telescopio. Si dice che quando si muore si diventa stelle. E’ bello pensare che potrebbe essere davvero così. L’accarezzai e notai che stava piangendo, quindi iniziai il mio racconto.




2


Era il mattino del 13 Settembre 1964 quando salii sul treno che da Charleston, nel West Virginia, mi avrebbe condotta a Cleveland, nell’Ohio. Avevo trentacinque anni, avrei dovuto essere una donna matura a quell’età. Ero cresciuta da un punto di vista biologico, questo si. A tratti mi sentivo persino invecchiata. Fuggivo, da qualcosa o da qualcuno. Scappavo via da una esistenza sbagliata, da un cumulo di eventi e situazioni che non mi appartenevano più. Avevo sentito dire che si capisce davvero che ci si sta allontanando per sempre da un luogo se al momento della partenza non si sente il desiderio di voltarsi per dare un ultimo sguardo all’ultima fotografia scattata sul proprio passato. Per giorni mi allenai, figurando quel momento fondamentale per la mia ripartenza, lo sguardo fisso in avanti con il mio tempo trascorso che veniva cancellato da ogni passo. Se la vita fosse stata un nastro di raso, guardando indietro la mia avrei visto solo un pezzo di stoffa lacerato, sgualcito e privato del suo colore originale. Annodato qua e là per segnare le tappe principali della mia esistenza, perché non potessero più essere dimenticate per errore o per mia volontà. Le tappe della mia vita o quella delle persone che avevano sempre deciso tutto in mia vece, i tutori e garanti della mia esistenza, assistenti di una povera ragazza menomata incapace di intendere e di volere. Si erano appropriati della mia vita e in essa avevano cercato e trovato una possibilità di riscatto delle loro miserevoli esistenze. Non notavo alcuna differenza tra le mie scelte e le imposizioni che mi venivano fatte, nonostante io mi sforzassi continuamente di cercarle per convincermi che era giusto così, che mi avevano insegnato le cose giuste, che io ero davvero la loro figlia e quindi avevano tutto il diritto e il dovere di esercitare su di me il loro possesso. Anche quello estremo. Più volte sentii mia madre piangere di nascosto nella sua camera da letto quando mio padre non c’era. Singhiozzi e lacrime amare soffocate in un lembo di stoffa, quelle stesse lenzuola che l’avvolgevano durante le sue notti insonni, passate a ripensare alla sua esistenza, alla sua vita rubata da un uomo che non la trattava meglio di quanto non trattasse le sue stesse scarpe. Quelle almeno le lucidava, ogni tanto. E quando non lo faceva doveva pensarci mia madre, altrimenti erano botte. Molte sere lo sentii rincasare molto tardi, ubriaco fradicio, un barcollante rifiuto di vita annegata in botti di Gin e Whisky. Gridava, incurante dell’ora e della moglie che forse dormiva o forse era rimasta sveglia in pena per lui, timorosa di come l’avrebbe ritrovato o di cosa le avrebbe fatto quella notte. Mio padre la picchiava spesso. La picchiava se lei fingeva di dormire quando lui entrava in camera al buio come un fantasma, sbattendo la porta contro il muro nell’intento di mantenersi in piedi. La picchiava se lei gli andava incontro per aiutarlo a sorreggersi, a cambiarsi o a coricarsi anche vestito. Tutto andava bene, purché quella notte passasse in fretta. Ma con quella notte se ne andava anche un pezzo della sua vita. Mamma attendeva che l’orco si addormentasse, poi andava in bagno e con un panno inumidito di acqua fresca tamponava i segni delle percosse ricevute. Io la sentivo, sentivo i suoi singhiozzi di dolore per quei colpi ricevuti su un volto che ormai non mostrava più espressione, forma o colore. Poi mia madre veniva da me. Mi trovava spesso sveglia, con gli occhi sbarrati in preda al terrore per ciò che vedevo impresso sul suo viso ogni volta. Tra le braccia soffocavo il mio orsetto di pelouche, immaginando e desiderando che fosse mio padre la mia vittima di quella notte. Quell’orsetto era uno dei pochi regali che avevo ricevuto da lui, per un compleanno di tre anni prima, quando ancora era un uomo occasionalmente sano. Grazie a lui imparai ad odiare il prossimo, quando al contrario una bambina dovrebbe solo imparare ad amare. Mia madre mi rassicurava, mi diceva che tutto presto sarebbe finito e che non avevo nulla da temere perché papà era solo un po’ stanco, aveva avuto una giornata difficile e una vita complicata, aveva dovuto sopportare situazioni dolorose come quella volta in cui un suo compagno di camerata e suo miglior amico morì tra le sue braccia, dilaniato da una delle decine di migliaia di granate fatte esplodere durante la seconda guerra mondiale, durante la quale lui aveva combattuto. Me la raccontava sempre, non se la risparmiava mai. Quasi a voler giustificare il comportamento di quell’uomo che non riconosceva più in nessuno degli aspetti che tanti anni prima l’avevano attratta, facendola innamorare di lui, convincendola che era per lei la persona giusta e che l’avrebbe sposato. Ed io per compiacerla fingevo sempre di sentirla per la prima volta, me ne stavo lì raccolta nel mio lettino in silenzio e quando mia madre finiva il suo racconto di quella sera io mi avvicinavo a lei per abbracciarla e per accarezzare i segni delle percosse, per capire quanto potessero farle male. Lei invece interpretava quel semplice gesto da parte mia come un immenso gesto d’amore che la ripagava di tutto, che la convinceva sul fatto che tutto sommato valeva ancora la pena di continuare a vivere per qualcuno. Per me. Mi chiedeva scusa mentre lentamente lasciava la mia camera, solo più tardi capii che si stava scusando per avermi messa al mondo. Le labbra disegnavano sul suo volto martoriato un debole sorriso, per me rassicurante perché non capivo ancora, non capivo tutto. Ma sapevo! Sapevo che mia madre stava ritornando nella tana dell’orco. Nascondevo la mia testa sotto le coperte, tremante. Vedevo un orco affamato con sembianze umane, quelle di mio padre, che io imbruttivo ulteriormente con il potere della mia fantasia di bambina. L’orco banchettava con i resti della mia mamma, facendone a brandelli le carni con i suoi denti aguzzi. Erano immagini così reali che mi pareva di sentire l’odore del suo sangue versato nel mio letto. L’orco mi chiamava, mi ordinava di entrare nella sua tana e mi porgeva un pezzo del suo corpo, la sua mano. Quella stessa mano che pochi istanti prima mi aveva accarezzato ora era lì inanimata davanti agli occhi potenti della mia mente. Quell’incubo mi accompagnava spesso per tutta la notte e per tutto il giorno seguente, nonostante le ombre e gli spettri che abitavano il buio avessero ceduto il passaggio alla luce del giorno. Era una tortura destinata a perdurare per tutta la mia vita. Ma accadde un fatto che riuscì a spezzare quel malefico incantesimo. Tutto svanì a partire dal giorno in cui, tornando dal college, trovai mia madre morta nel bagno. Era immersa in un lago di sangue, con i polsi lacerati dal freddo profilo di acciaio di una lametta. L’orco era entrato dentro di lei e da dentro l’aveva combattuta, consumandola goccia dopo goccia. Ma il moncone di candela ormai disciolta non aveva ancora scoperto completamente il suo stoppino e la fiamma era ancora accesa, seppur flebile. Lei, piccola e semplice donna privata della sua identità, aveva trovato il modo per sconfiggere il suo orco. Lo aveva fatto a modo suo, proprio quel giorno. E fu la sua vittoria più grande. Quel mattino mia madre mi consegnò per la prima volta il suo mazzo delle chiavi di casa. Io avevo finalmente raggiunto il mio traguardo, la mia maturità, sentivo di aver conquistato la sua fiducia anche se senza alcun merito particolare. Ma a mia insaputa anche lei sentiva di aver raggiunto il suo. Avevo ventidue anni quando iniziai ad accudire l’orco, a soddisfare da sola ogni suo desiderio, anche quello più malato. Le sue mani, i suoi piedi e tutto il suo corpo erano ora dedicati a me, solo a me. Ero rimasta da sola. La mia compagna di sventura mi aveva abbandonata, ormai troppo stanca per proseguire con me in quel gioco. Stanca di tutto, stanca della vita. Tre lunghi anni passarono prima che finalmente riuscissi a liberarmi di lui, anni che mi lasciarono totalmente priva di ogni dignità, denudata come donna e come essere umano. Cercai un lavoro presso l’ospedale come infermiera e stranamente mi accettarono subito. Quella fu la mia prima vera salvezza. Buttai i ricordi della mia dura infanzia nel cassonetto dell’immondizia che stava proprio davanti casa e radunai i miei quattro stracci ancora buoni, quelli che non avevo mai tenuto addosso mentre lui mi violentava, che non puzzavano del suo sperma, del suo vomito intriso di alcol e del mio sangue. Trovai una casa in affitto fuori città, poco dignitosa ma ci si poteva vivere. In fin dei conti che cosa ne sapevo io della dignità? Pagai l’anticipo con i pochi soldi che ero riuscita a racimolare grazie a piccoli lavori che persone di buon cuore nel vicinato avevano voluto assegnarmi. Erano a conoscenza della mia condizione di orfana di madre suicida e della brutta situazione nella quale mi dovevo sicuramente trovare per via di un padre indegno e con il quale avevano già avuto malauguratamente a che fare ben più di una volta. Avevo conservato gelosamente quel denaro in una cassetta di metallo nascosta sotto un’asse del pavimento, in attesa che arrivasse per me il momento giusto per poterlo utilizzare. L’orco non mi aveva mai permesso di andare a lavorare, non avrebbe mai voluto che io guadagnassi dei soldi miei, che diventassi autonoma e magari forte quanto bastasse per trovare il coraggio di andare a denunciarlo alle autorità. Affermava di essere lui stesso l’autorità, io ero una cosa sua e tale sarei dovuta rimanere per tutta la vita o almeno fino a quando lui non avesse deciso di sbattermi fuori da casa sua a calci.

Quando tutto fu pronto attesi con impazienza l’arrivo della sera. Seguii ogni suo passo mentre si preparava per uscire, cercando di non tradire le mie emozioni. Ripensavo alle sere precedenti, a come mi sentivo nel vedere un padre uscire di casa e a ciò che sarebbe avvenuto dopo, quando al suo posto sarebbe stato un orco a rientrare nella tana. Volevo replicare tutto anche in quel momento, come avrebbe fatto un mimo durante uno dei suoi numeri, le espressioni del mio viso incluse. Si avvicinò alla porta, la aprì. Poi si fermò e si voltò verso di me.

«Non vai a letto?».

«Non ancora».

«Perché?».

«Perché non ho sonno. Andrò tra un po’».

«Come vuoi. Non ti stancare però. Lo sai che sto male se ti vedo stanca, mi fa sentire come un cattivo padre».

Il cuore mi si fermò per un istante. Se per me fosse giunta la morte in quel momento, l’avrei accettata a braccia aperte. Non risposi, lo guardai, poi accennai un timido “si” con il capo.

«Sono stato un padre cattivo Melanie?», continuò come se provasse gusto nel perseverare in quel sanguinoso interrogatorio, «Rispondimi cazzo! Sono stato un padre cattivo io?».

«No», risposi piangendo e scuotendo freneticamente il capo per confermare una risposta alla quale io, ovviamente, non credevo. Tremavo. Afferrò il mio orecchio torcendolo con forza, con una violenza tale che cominciai a pensare che quel giorno me lo avrebbe staccato dalla testa.

«Brava, molto bene. Ora va meglio, molto meglio. Sei sempre stata una brava bambina, molto brava. Devi sempre ubbidire al tuo papà. In fin dei conti sono io a mantenerti, così come ho mantenuto quella puttana di tua madre per una vita intera, come un parassita. E vedi di farti trovare a letto quando sarò tornato, o te la vedrai brutta, molto brutta! Siamo intesi?».

Lasciò il mio orecchio e uscì sbattendo la porta. Rimasi seduta per qualche istante per assicurarmi che non rientrasse in casa per prendere qualche cosa che aveva dimenticato, come altre volte era accaduto. Ricordo che una volta rientrò dopo un paio di minuti per prendere una pistola che teneva nascosta in un cassetto, già caricata con i proiettili e pronta all’uso. Fu la prima ed ultima volta che vidi quell’arma, non seppi mai che fine avesse fatto o se l’avesse utilizzata contro qualcuno. Lui si accorse che lo stavo guardando mentre infilava la pistola nella cinta dei pantaloni, ero ancora molto piccola. Mi guardò.

«Allora? Che cos’hai da guardare! Devi essere grata al Padre Eterno se non l’ho ancora usata contro di voi!».

Rimasi immobile, pietrificata, gli occhi sbarrati accompagnati dalla bocca aperta con un’espressione simile a quella di stupore che mostrai quando ricevetti il mio pelouche, ma senza l’ombra del sorriso. Mi meravigliai di come la sua bocca potesse portare su di se il nome di Dio. Avevo visto una pistola solo in alcuni cartelli prima d’allora, non c’era ancora la televisione quindi non sapevo a cosa potesse servire quell’oggetto e perché lui si fosse arrabbiato tanto nel vedersi scoperto in quel momento. Arrivò mia madre in mio soccorso.

«Vieni tesoro, vieni con me. Papà ha tante cose da fare, lui non è arrabbiato con te. Non devi pensarlo, va bene?».

«Va bene mammina».

Le sue mani erano posate aperte sulla mia bocca, tanto strette che a fatica riuscii a risponderle, quasi volesse bloccare una mia frase pronunciata fuori posto. O quasi a volermi soffocare, per risparmiarmi tutti i dolori che, ne era sicura, avrei dovuto patire negli anni. Le sue mani profumavano di sapone. Adoravo quel profumo perché sapeva di fiori, sapeva di mamma.

Non rientrò. In quei minuti d’attesa avevo ingannato il tempo assaporando le mie lacrime, cercando di ricordare in quale momento passato le avessi già sentite con lo stesso sapore. Avevo un ricco campionario di gusti tra i quali scegliere, ma in quel momento nessuno sembrava corrispondere ad uno già noto. Avevo scoperto un gusto nuovo, le mie lacrime si erano leggermente addolcite. Corsi in camera mia, raccolsi i miei soldi e li infilai nella valigia. In punta di piedi scesi le scale, aprii la porta e guardai fuori, timorosa di ritrovarmelo lì davanti agli occhi pronto a dirmi “Ti avevo avvisata, avresti dovuto darmi retta mocciosetta! Ora passerai un guaio!”. Ma la sua ombra non c’era, non ci sarebbe stata mai più. Un passo, due passi, tre passi. Sempre più veloci, quasi di corsa. Imboccai il vialetto sulla destra, vidi il signor Smith sulla porta di casa sua mentre sistemava i fiori nei vasi posti sugli scalini all’ingresso. I suoi figli Martin e Sandy gli giravano attorno come fanno le farfalle con un bel fiore. Lui scherzava con loro e la madre, che li aveva raggiunti sulla soglia di casa, li stava a guardare sorridente. Rallentai per osservare meglio quell’immagine di famigliola felice, quella che io non avevo mai avuto, per portarla via con me facendo finta che fosse anche un po’ la mia.

Nei cinque anni che seguirono mio padre non venne mai a cercarmi. Quantomeno nessuno mi disse mai che l’aveva fatto. Quando tornai svogliatamente a casa il giorno del suo funerale i vicini mi raccontarono che quando rientrò quella notte in cui me ne andai, ubriaco fradicio come sempre, cominciò a gridare mettendo in allarme l’intero vicinato. Nessuno mi aveva vista uscire, nessuno fu in grado di rispondere alle domande che sbiascicò con la sua bocca avvelenata dall’alcol. Mi dissero anche che tramite le sue losche conoscenze era venuto a sapere dove mi trovavo ma che aveva deciso di lasciarmi stare, di non perseguitarmi oltre, perché sapeva di non essere stato un buon padre e mi avrebbe fatto solo del male se fossi stata costretta a tronare da lui. Avevo deciso di andarmene, per lui andava bene così. Qualcuno affermò che aveva deciso di premiare il mio coraggio, la capacità che avevo dimostrato nell’essere riuscita a metterlo alle corde. Non credetti ad una sola delle parole che mi erano state dette in quel momento da gente che nemmeno mi conosceva, ma poi mi rassegnai al fatto che potessero anche essere vere, perché comunque non mi importava più nulla di lui. L’orco era morto, ucciso da un altro orco durante un regolamento di conti, forse.

Erano circa le nove di sera del 15 settembre 1960. Pioveva ormai a dirotto e senza sosta da tre giorni, ne avremmo avuto ancora per un po’. Ero da poco rincasata dal lavoro, spesso facevo dei turni un po’ più lunghi per guadagnare qualche soldo in più. In cinque anni avevo guadagnato abbastanza soldi per decidere di comprarmi finalmente una casa tutta mia, aiutandomi con un piccolo prestito della banca. La mia vita era cambiata, stavo finalmente cominciando a trovare una mia identità. Debole forse, ma pur sempre mia. Il lavoro mi era stato molto d’aiuto in tutto questo, mi aveva permesso di rattoppare le ferite accumulate negli anni che mantenevano però il loro dolore sotto le numerose cicatrici sparse su tutto il mio corpo. Un dolore diffuso, più sopportabile seppur continuo ma che non lasciava spazio al riposo dell’anima. Riscaldai il mio precotto nel forno e mi sedetti al tavolo in attesa che venisse pronto mentre le mani reggevano il peso della mia testa.

La televisione era disponibile da pochi anni ma solo le famiglie più ricche potevano permettersi di comprarne e mantenerne una. Non di certo io. Quelle poche volte che veniva trasmesso qualcosa di interessante mi fermavo fuori dalle vetrine dei negozi di elettrodomestici dove si radunavano altri che come me non potevano averne una. Ma giunto l’orario di chiusura del negozio il solito omino grassoccio con i baffi si avvinava a noi, protetto dalla vetrina, per annunciare allargando le braccia sconsolato che “le trasmissioni per quel giorno erano finite”, o che l’indomani ci sarebbero state “delle ottime offerte in negozio alle quali non avremmo potuto rinunciare per portarci finalmente a casa il nostro primo splendido apparecchio televisivo”. Ce l’aveva scritte sul volto queste parole, non aveva bisogno di pronunciarle. Provai a rifugiarmi anche nei bar, quelli che mettevano un televisore a disposizione dei loro clienti, soprattutto durante i mesi freddi invernali o nelle serate di pioggia. Ma l’odore dei vapori dell’alcol mi arrivava subito alla testa, mi faceva ricordare mio padre e mi costringeva a fuggire via come un detenuto alla ricerca della sua strada verso la libertà.

In casa avevo una vecchia radio che accendevo ogni tanto, quando mi prendeva la voglia di sentire una voce che fosse sufficientemente distante e che non richiedesse una mia risposta, una interazione con me. L’avevo trovata su una bancherella dell’usato, in vendita per pochi dollari. Era guasta ma il venditore mi aveva assicurato che si sarebbe potuta facilmente sistemare. La comprai non completamente convinta di aver fatto un buon affare e un amico si offrì per ripararmela gratis. Si chiamava Ryan. Quel ragazzo fu l’unico uomo capace di regalarmi un po’ di sana e incondizionata amicizia, quella di cui avevo maledettamente bisogno, che non avevo mai avuto la fortuna di assaggiare in tutta la mia vita. Anche nei suoi confronti rimanevo piuttosto chiusa sotto diversi aspetti, ma mentre gli altri a fronte di ciò si sentivano in obbligo di sondare le mie debolezze, lui le rispettava. Ryan non mi chiese mai nulla che riguardasse il mio passato, non giudicò mai il bene o il male del mio operato e le poche scelte che avevo fatto da quando avevo cominciato a vivere come una donna libera. Capiva quando avevo voglia di parlare perché riversavo tutto come un fiume in piena e lui si lasciava travolgere. E accettava la mia fragilità espressa attraverso i silenzi, quando preferivo restare da sola a contemplare una foglia di insalata posata sul tavolo della cucina. Quando vedeva arrivare uno di questi miei frequenti momenti, lui mi faceva il gesto del saluto militare e si allontanava da me a passo di marcia, senza parlare, chiudendo dolcemente la porta dietro di sé. Mi faceva ridere, mi faceva stare bene. Come mai avevo riso ed ero stata bene prima nella mia vita. Provavo qualche cosa per lui, un sentimento strano che non riuscivo a riconoscere, a dargli un nome. Quando un giorno fummo l’uno di fronte all’altra in procinto di baciarci, lo allontanai con forza da me. Avevo avuto paura. Allora non capii di cosa ma sapevo essere pura paura. Tuttavia quel mio gesto immaturo non lo scalfì e continuò a comportarsi sempre allo stesso modo nei miei confronti. Un giorno mi disse che la sua famiglia si stava trasferendo per via del lavoro del padre e di alcune questioni che avrebbe dovuto affrontare. Non mi disse mai dove sarebbe andato a vivere, per una pura questione di sicurezza. Quindi ci saremmo dovuti allontanare per un po’ di tempo e io non avrei potuto raggiungerlo in alcun modo. Ma non dovevo temere perché lui mi avrebbe cercata, saremmo rimasti in contatto e si sarebbe fatto vivo non appena le acque si fossero calmate. “Te lo prometto Melanie. Dammi la tua mano, posala qui e ascolta. Lo senti il mio cuore?” furono le ultime parole che gli sentii pronunciare mentre posava la mia mano sul suo petto, prima del suo ultimo saluto militare, della sua ultima marcia che annunciava la sua partenza. Non risposi a quelle sue parole con altre parole mie che avrei invece voluto dire e che mi si annodarono nella gola soffocata dal pianto negandomi il respiro.

Attraverso quella radio che mi ricordava la sua presenza nella mia vita io subivo passivamente le trasmissioni, i notiziari, i bollettini metereologici, le canzoni dei Beatles, di Hendrix, di Armstrong e dei Rolling Stones. Da qualche anno un giovanotto si era presentato sul palcoscenico musicale. Si chiamava Elvis Presley, un ragazzo belloccio che faceva impazzire tutte le ragazze quando cantava con quei suoi movimenti pelvici regalati durante le sue esibizioni. Le giovani non si preoccupavano di impegnare buona parte dei loro stipendi per acquistare i suoi dischi o assistere ai suoi animati concerti, sognando magari di buttarsi nel vuoto ed essere raccolte in volo dalle sue forti braccia. La febbre per il bel ragazzo di Memphis colpì anche me. In un negozio trovai un suo disco e lo comprai anche se a casa non possedevo un giradischi. Lo lasciai in casa in bella vista per mesi a prender polvere. Lo adoravo in silenzio, mi capitava di fermarmi anche diversi minuti a guardarlo e tutte le volte che mi veniva consegnato lo stipendio mi prendeva la voglia di comprare un giradischi per poterlo finalmente ascoltare. Per le ragazze dell’età di ventotto anni, come la mia, Elvis era l’argomento che monopolizzava i discorsi tra colleghe, le pause pranzo, ogni momento della giornata. Sarebbe stato un buon partito sotto ogni punto di vista. Le mie colleghe, “le altre” come spesso le chiamavo, descrivevano fin troppo in dettaglio i pensieri erotici che avevano rivolto verso quel ragazzo. Alcune di loro confessarono che non avrebbero avuto nessun problema a lasciare marito e figli se il “bel ragazzo” avesse dato loro anche la minima speranza. Io non capivo fino in fondo quei discorsi, non ero in grado di misurare la forza della sorgente di energia che li alimentava. Ma quando si parlava di sesso io provavo una sensazione di crudo disagio, sentivo il ribrezzo nascere e crescere dentro di me, dalle mie viscere, attanagliante come due mani cinte intorno al collo e intente a soffocarmi. Il sesso mi ricordava l’orco, la mia sofferenza, il dolore e tutte le umiliazioni che avevo dovuto subire, il sapore dello sperma di un uomo malato sparso senza controllo sul mio giovane ventre, sulla mia candida pelle che avrebbe dovuto conoscere solo purezza e pudore, del mio sangue e di quello di mia madre versato ogni giorno sulle bianche lenzuola di un letto sempre sfatto. Le mie conoscenti si accorsero che qualcosa non andava in me. Alcune di loro scelsero di non impicciarsi, qualcun’altra invece lo fece, con l’acerbo pretesto di offrirmi un aiuto prezioso.

«Cosa c’è Mel?».

«Nulla, perché me lo chiedi?».

«Così. Sei molto strana».

«Sono fatta così, che cosa ci vuoi fare», risposi aprendo le braccia in segno di confermata rassegnazione al disegno della mia vita.

«Ti piacciono le donne?».

«Scusa?».

«Ti ho chiesto se ti piacciono le donne, se ami loro».

«Le donne? Ma non dire sciocchezze, dai!».

«In tanti anni non ci hai mai raccontato una tua esperienza sessuale vissuta con un uomo, mentre noi tutte lo abbiamo fatto. Okay, magari tu non l’hai ancora avuta ma forse vorresti averla e potresti confrontarti con noi. E invece tu che fai? Ti rinchiudi nel tuo guscio come una tartaruga!».

Come potevo dirle che la mia “prima volta” fu all’età di cinque anni e per opera di mio padre? Mi era stato detto che si sarebbe trattato di un gioco. Come potevo convincerla del fatto che quel gioco che lui aveva pensato per me e che consisteva nella spudorata esplorazione della mia intimità in realtà non mi era piaciuto affatto perché io a quell’età avrei preferito giocare con le bambole come faceva ogni altra bambina? Come potevo gridarle in faccia che se io non avessi giocato con lui in quel modo lui sarebbe andato a costringere mia madre a sottomettersi alla stessa pratica, allo stesso gioco ma con regole diverse e ben più severe, adatte agli adulti?

«E’ un discorso che non mi sento di affrontare, non c’è una particolare ragione. Forse non sono ancora pronta o forse non lo sarò mai. E’ così, e basta».

«Okay Mel, come vuoi. Stasera noi ragazze ci troviamo per un pigiama party. Ti va di unirti a noi?».

«Ci saranno degli uomini?».

«No».

«Si parlerà anche di sesso?».

«Non lo so, ma temo di si».

«Allora no, grazie. Non avrei nulla da dire e sarei solo un peso per tutti».

Quando rincasai quella sera stessa presi il disco di Elvis e lo gettai nel bidone dell’immondizia.

Sentii suonare il campanello, una volta e poi una seconda prima che io riuscissi a raggiungere la porta.

«Sto arrivando!», esclamai ad alta voce.

Quando aprii la porta mi trovai di fronte un poliziotto. Pioveva a dirotto. Il poliziotto aveva la divisa bagnata, nonostante fosse sceso dalla volante parcheggiata solo a pochi passi dalla porta di casa mia. Un suo collega sedeva ancora al posto di guida e guardava verso di noi, con il corpo proteso in avanti e gli occhi rivolti verso l’alto per inquadrare meglio la scena attraverso la cornice del finestrino.

«Buonasera agente», dissi sorpresa.

«Buonasera. Lei è la signorina Melanie Warren?».

«Si sono io agente, che succede?».

Ero spaventata e distratta dal lampeggiante della loro auto che muto abbagliava la mia vista. Disegnava ombre azzurre nella notte che si dispiegavano a terra e contro la facciata della casa. Erano ombre pulsanti, lente, come il battito del mio cuore.

«Sono l’agente Parker signorina. Potrei entrare per favore?», chiese mentre mi mostrava il distintivo con una sua foto di qualche anno prima. Lo lasciai entrare, avvicinai la porta ma senza chiuderla.

«E il suo collega là fuori?».

«Non si preoccupi, mi attenderà lì. Sono qui per suo padre, il signor Brad Warren».

Rimasi in silenzio, immobile, attendendo che l’uomo continuasse, che vuotasse il sacco. Mi feci mille domande, mi chiesi se l’orco avesse colpito ancora e chi avesse potuto essere la sua vittima. Pensai ad un suo coinvolgimento in qualche rissa. Temetti che fosse venuto a cercarmi, che avesse contattato la polizia e che tramite loro m’avesse trovato, per obbligarmi a ritornare a casa con lui.

«Cosa ha combinato mio padre?», esclamai mentre le mie mani chiuse a pugno stropicciavano nervosamente la stoffa della mia gonna rilasciando sudore freddo.

«E’ stato ucciso signorina Warren, mi dispiace. La dinamica dell’accaduto non ci è ancora chiara, il caso è aperto e tutte le investigazioni del caso sono in corso. E’ stato raggiunto da tre colpi di pistola, dei quali uno diretto alla testa gli è stato fatale. I vicini hanno sentito degli spari, tre colpi ravvicinati sparati da un’auto in corsa. Quando sono usciti hanno visto il corpo di suo padre riverso a terra, immerso in una pozza di sangue. Era privo di sensi ma ancora vivo. E’ morto poco dopo, durante il trasporto in ospedale. Sembrerebbe essere stata una vera esecuzione, un regolamento di conti».

Rimasi in silenzio, stranamente tranquilla, quasi rilassata. Non tradivo alcuna emozione. I miei occhi fissavano le mie gambe, senza vederle, il sudore freddo era scomparso, le mie mani si erano aperte lasciando finalmente libera la stoffa della gonna, il cuore era tornato a battere in modo regolare. Stavo bene, maledettamente bene. Mi pentii per quel sentimento di cruda cattiveria, mi pentii anche del mio stesso pentimento verso quel sentimento naturalmente espresso.

«Signorina, si sente bene?».

Annuii, tutto andava molto bene.

«Era ubriaco?».

«No. Non era ubriaco, il livello di alcol nel sangue era nella norma».

Lo guardai dritto negli occhi, non potevo credere a quella favoletta a lieto fine, dove tutti i cattivi diventano improvvisamente buoni e vivono il resto dei loro giorni felici e contenti. O forse mio padre era davvero cambiato dopo la mia scomparsa?

«Suo padre beveva? Si ubriacava spesso?».

Mentire! Negare il dolore del marchio rovente della menzogna impresso sulla pelle dell’anima! Imperativo!

«E’ capitato, come può capitare a tutti anche nelle migliori famiglie».

«Che rapporto c’era tra lei e suo padre?».

Attimi di palpabile insicurezza, ricerca di parole false e quindi assenti. La ricerca di una verità che non mi apparteneva. Desiderio di mettere per sempre la parola “fine” a tutto. Era l’occasione giusta, quella che stavo aspettando.

«Un rapporto normale quale può essere un qualunque rapporto tra un padre ex militare e una ragazza».

«Era molto rigido suo padre con lei?».

Non risposi, esitai. Lo guardai per un istante, quasi affrontandolo, poi cedetti e allontanai nuovamente lo sguardo da lui.

«Le ha mai fatto del male? L’ha mai picchiata?».

Mentire, ancora una volta! Perseverare nella vergogna per salvare la faccia!

«No…».

«No? Ne è davvero sicura?».

«Si, sono sicura agente…».

«Bene. Da quanto tempo ha lasciato la casa di suo padre?».

«Da cinque anni».

«Dal 1955 quindi», ripeté mentre prendeva nota sul suo taccuino.

«Posso chiederle il motivo?».

«Per farmi una mia vita agente! Avevo già ventisei anni, non avevo una casa, una famiglia tutta mia, un lavoro! Volevo la mia indipendenza, la mia autonomia. Ero stanca di farmi mantenere e di dover implorare la gente per avere qualche cosa per me, per i miei vizi e tutto il resto».

L’agente prendeva nota, impassibile e senza guardarmi, come un giornalista durante una intervista fatta al campione di baseball del momento. M’infastidiva terribilmente quel suo atteggiamento di normalità e sufficienza, quel compito di far domande alla gente che riusciva a portare a termine senza problemi.

«Prima di lasciare la sua vecchia casa, o anche negli anni seguenti, è rimasta in contatto con lui?».

«No», risposi. Ma mi pentii e quindi mi corressi subito, «O meglio si, ma raramente».

«Non sentivate il desiderio di incontrarvi, di parlarvi, di raccontarvi come trascorrevate le vostre giornate?».

«Ma lei è un agente o uno psicologo?», esclamai. Il mio livello di sopportazione era stato abbondantemente superato già da un po’ e un fiume più grosso dei suoi stessi argini non può continuare a contenere l’acqua facendola muovere lungo il suo percorso senza spargerla intorno e seminare morte e distruzione.

«Entrambi, in effetti. La prego Melanie, risponda alle mie domande. Ci saranno d’aiuto per chiudere il caso. Confido nella sua collaborazione anche se mi rendo perfettamente conto del momento difficile che lei sta vivendo».

Non aveva capito proprio nulla. Ma mi rassegnai come sempre e risposi alle sue domande, con distacco, come se davvero non me ne importasse nulla.

«Dal giorno in cui lasciai quella casa non ebbi più nulla da spartire con mio padre. Presi in mano la mia vita, le mie cose e me ne andai. Trovai questo piccolo appartamento dove ora vivo e un lavoro come infermiera in ospedale. Cominciai a diventare autonoma, tutto sembrava andare bene. Mio padre di contro poté riprendere in mano la sua esistenza, senza avere più una figlia tra i piedi da mantenere. Non ci cercavamo prima, quando ancora vivevo con lui, non ci siamo mai confrontati. Per quale motivo avremmo quindi dovuto farlo dopo la mia partenza?».

«Capisco. Prima di lasciare la casa, aveva mai notato qualche cosa che non andava in suo padre o che potesse avere qualche problema per qualcosa con qualcuno?».

«No, non che io sappia agente. No».

«Grazie Melanie. Vorrei chiederle qualche cosa riguardo sua madre ora, se non le dispiace».

In realtà mi dispiaceva eccome! Non volevo disturbare ancora mia madre, era stata disturbata già troppo a lungo durante la sua vita. Temetti le domande che avrebbe potuto farmi ma accettai di sottopormi anche a quell’interrogatorio.

«Sua madre Jane si è tolta la vita nel 1951. Agli atti ci risulta che fu proprio lei a ritrovare il corpo senza vita al suo rientro dal college. Conferma?».

«Si, confermo. Mia madre mi consegnò il mazzo delle chiavi di casa per la prima volta proprio quel mattino».

«Quindi è chiaro che sua madre aveva premeditato il suo gesto, non fu solo l’impulso di un momento».

«Si. Credo di si…».

Risposa sbagliata, Melanie!

«Si. Potrebbe parlarmi del rapporto che c’era tra lei e sua madre e tra sua madre e suo padre per favore?».

Scacco al re. La regina era stata mangiata. Non fiatai, provai a rinchiudermi nel mio guscio cercando la via più breve per entrarci. Ma il guscio era rimasto aperto e l’uomo mi vedeva, mi seguiva, mi brancava e mi tirava fuori. Ogni volta, non avevo scampo. Mentire, meglio continuare a mentire.

«Mia madre era malata. Non era una madre cattiva, al contrario! Ma era debole e la sua testa molto spesso l’abbandonava. La sentivo spesso piangere la notte ma io ero troppo piccola per aiutarla».

«Capisco. Agli atti risulta che si sentiva spesso suo padre gridare e che molto spesso rientrava in casa a tarda notte completamente ubriaco, è così?».

«Si, è capitato».

«E’ capitato, va bene. Questo ha influito secondo lei sul gesto estremo compiuto da sua madre?».

«Non lo so, ero troppo piccola, glie l’ho detto».

«Melanie, quando sua madre è morta lei aveva ventidue anni, non era piccola».

Si sbagliava. L’animo di mia madre era già morto stecchito parecchi anni prima, quello che restava e che io avevo trovato freddo e immobile immerso nel suo stesso sangue era solo l’involucro del suo fantasma.

«Agente, sono molto stanca ora», replicai cercando di imboccare l’unica via di fuga che mi rimaneva.

«Capisco Melanie, capisco. Le chiedo solo di rispondere ad un’ultima domanda per favore. Come sono continuati i rapporti tra lei e suo padre dopo la morte di sua madre, prima che lei lasciasse la casa?».

Nel letto, a suon di botte nel cuore della notte! Ecco com’erano continuati i nostri rapporti. Le bestie che andavano al macello ricevevano più rispetto di quanto non ne avessi ricevuto io, perché le bestie alla fine venivano uccise e mangiate, quindi scomparivano. Io invece restavo viva, ferita dentro e fuori, obbligata a riguardarmi ogni mattino allo specchio per rilevare i nuovi segni delle percosse, quelli che arricchivano la mia singolare collezione. Un’ultima bugia, ancora una, l’ultima. O forse no.

«Mio padre cambiò dopo quel giorno, divenne completamente assente. Si sentiva incapace di seguirmi perché pensava di aver totalmente fallito nel tentativo di salvare sua moglie. Me lo confidò una sera, mentre piangeva».

«Si spieghi meglio».

«Ciò che riportano gli atti è corretto. Mio padre tornava spesso tardi la notte e il più delle volte aveva bevuto molto. Gridava con mia madre, sfogava su di lei la rabbia per la sua incapacità di aiutarla, di amarla come avrebbe invece dovuto e voluto fare. Le urla risuonavano nella casa e si sentivano anche da fuori, i vicini mi guardavano sempre in modo strano il mattino seguente, come se mi compatissero, come se provassero pietà per me. Quando mia madre morì, mio padre firmò la sua resa. Forse anche lui morì in un certo senso quel giorno insieme a lei. Si staccò completamente da me, passava le sue giornate a leggere seduto in salotto».

E a pensare a come stuprarmi nuovamente quella stessa sera, pensai. Ma mi guardai bene dal lasciarmelo scappare.

«Quindi lei, sentendosi abbandonata, decise di andarsene via e di crearsi la sua vita».

«Si, è così agente».

Per la prima volta mi ritrovai a galla.

«Grazie Melanie. Mi scuso per tutte le domande inopportune che le ho fatto in un momento del genere ma come lei può ben immaginare erano necessarie. Ora il quadrò è più completo».

Mi guardò con affetto, io ricambiai con il mio. Un affetto, il mio, misto a frustrazione. Nascondevo la mia faccia imbrattata dalla menzogna tra le pieghe della mia codardia, là dove era rimasto ancora un po’ di spazio per immergersi completamente e scomparire dalla vista. Avevo tradito mia madre, ancora una volta. Come quel giorno in cui, protetta dal buio di una notte senza luna né stelle, me ne restavo ferma sulla porta della tana ad osservare come l’orco sbranava la sua preda. Come il giorno in cui uscii di casa fiera con le chiavi in mano per la prima volta, disinteressandomi di tutto il resto, soprattutto del motivo che aveva spinto mia madre a lasciarmele. Come tutti i giorni nei quali avrei voluto dire a mia madre che le volevo bene, ma non lo avevo fatto.

«Dovrebbe venire in centrale per completare il profilo e firmare la deposizione, poi le verrà richiesto di identificare la salma e tutto quanto necessario per la tumulazione».

«Va bene, lo farò domani mattina».

Mi sorrise e se ne andò. Rimasi ferma in piedi sulla porta aperta, l’aria satura di pioggia mi inumidiva il viso, confondendosi con le mie lacrime. Il suo collega accese il motore dell’auto, mi guardò e mi lanciò un cenno di saluto con la mano. Ricambiai. L’agente Parker aprì la portiera e incurante della doccia d’acqua che lo bagnava si fermò a guardarmi, a salutarmi. Mi disse qualche cosa che non capii, un tuono lontano aveva coperto il suono della sua voce. Il suo viso era disteso, quindi doveva avermi detto una cosa bella. Io annuii con il capo, mi girai e rientrai in casa chiudendo la porta dietro di me. La luce azzurra lampeggiante era svanito, la casa era ritornata quella di prima ed io con lei. Tornai in cucina, il piatto che avevo riscaldato era ormai freddo. Non avevo più fame, non avevo più sete, non avevo più nemmeno fiato nei polmoni. La gola era strozzata dal pianto che io avevo soffocato per tutto il tempo. “Perché piangere? E per chi?”. Non trovare una risposta a quella domanda demolì le mie barriere, annientò in un lampo tutte le mie difese. Era la mia resa incondizionata, quella in cuor mio tanto attesa. L’orco era morto e non mi avrebbe più fatto del male. Si, l’orco era finalmente morto, ucciso da un altro orco. Sarebbe andato a bruciare nel fuoco dell’inferno, non avrebbe mai più incontrato mia madre perché lei, ne ero sicura, dimorava nel paradiso degli uomini. Ora ne ero davvero certa. Morto, ucciso nell’unica sera in cui non si era ubriacato, che fatto curioso! Forse perché quella sera l’orco era rimasto solo un uomo, non aveva indossato il suo costume di scena, quello che lo rendeva forte, aggressivo. Aveva commesso un grave errore, una fatale leggerezza. Non avrebbe dovuto abbassare la guardia. Quando si sceglie il male come percorso di vita si deve imparare a guardarsi intorno, perché altro male si riceverà. Forse proprio l’uomo, stanco di recitare e stanco di tutto, aveva bruciato il suo costume. Forse voleva essere lui stesso ad uccidere l’orco per trasformarsi in un eroe, denudandosi tra la folla e ponendosi davanti a sui nemici gridando loro “Non mi vedete? Sono qui! Forza rammolliti, cosa aspettate ad ammazzarmi?”. Forse voleva sentire il dolore che si prova quando la pelle viene lacerata, quando il metallo squarcia le carni e ti penetra nel corpo. Forse voleva capire cosa si provava nel sentire il proprio sangue uscire dalle vene, i sensi venire a mancare mentre i suoni si fanno lontani e tutto diventa buio davanti agli occhi sbarrati che fissano l’asfalto, poco lontano dallo sterco lasciato da un cane randagio passato di lì qualche minuto prima. Si, forse era andata proprio così. Buttai il cibo nell’immondizia e andai a dormire. Feci un bel sogno quella notte, ma non lo ricordo.

Il giorno seguente espletai i miei doveri verso quell’uomo, mio padre, per l’ultima volta. Quando mi chiesero se avessi preferito per lui una sepoltura o la cremazione risposi senza esitazione. Lo feci cremare, gli diedi un assaggio di ciò che avrebbe patito in seguito, per l’eternità. Voletti assistere al macabro spettacolo. Vedere quella cassa di legno entrare nel forno per uscirne poi ridotta in cenere mi portò una certa macabra eccitazione. Non tradii le mie emozioni, non versai una sola lacrima. Forzai i miei sentimenti rinchiudendoli in un blocco di ghiaccio, il mio cuore arredato a cella frigorifera per l’occasione.

Tornai in possesso della casa e del poco denaro che era rimasto, quello non speso da mio padre per pagarsi l’alcol e gli altri suoi vizi. Posai a terra l’urna con le ceneri, in un posto nascosto perché non potesse essere vista. Mi fermai nella casa ad ascoltare i rumori del silenzio, osservando le impronte delle mani lasciate nella polvere non rimossa sopra i mobili. Sentivo le grida e i pianti di mia madre, quelli che io soffocavo nella notte cantandoci sopra una filastrocca abbracciata al mio pelouche. Sentivo i lamenti e i singhiozzi di pianto che seguivano le bufere. Guardando verso la poltrona dove sedeva mio padre potevo vedere un uomo solo, un anziano ormai privato della sua vita. In un angolo notai un bastone, lo immaginai tenuto stretto fra le sue mani mentre a stento camminava per la casa forse alla ricerca di qualcuno da picchiare. Qualcuno che ormai non c’era più. Un uomo costretto a sfogare la sua ira contro se stesso, fino al giorno della resa. Sopra una mensola trovai un portafogli, lo presi e lo aprii. Conteneva pochi spiccioli e una foto di mia madre che mi teneva in braccio. Sorrideva felice, ed io con lei. Girai la foto, riportava una data. Era il giorno del mio compleanno, quello in cui ricevetti il pelouche in regalo. Da quel giorno in avanti qualche cosa cambiò, la fiaba della famiglia felice lasciò il posto all’incubo di una esistenza privata del suo futuro. I miei vaghi e annebbiati ricordi non mi permisero mai di focalizzare quel momento, l’incidente di percorso che cambiò per sempre il corso delle cose e delle nostre esistenze. “Deve passarne di tempo prima che io diventi concime per le piante!”, gridava spesso mio padre nei suoi momenti di ira. Quel tempo era passato per lui come sarebbe passato per tutti. Era giunto il momento che si trasformasse in ciò che lui stesso aveva sempre rifiutato. Presi l’urna e ruppi il sigillo. La aprii e versai tutto il suo contenuto in una bacinella aggiungendo dell’acqua. Mescolai bene con un cucchiaio, disgustata. Uscii in giardino e versai quella poltiglia fangosa sulle radici delle piante, curiosa di vedere che cosa sarebbe accaduto. Ma rimasi delusa perché non accadde proprio nulla.

Restai a dormire nella casa quella notte, poi una seconda e una terza. Ma senza riuscire a chiudere occhio. Non potevo più stare lì dentro, non mi apparteneva più. Misi la casa in vendita e non dovetti attendere molto per liberarmene. Venne acquistata nel giro di poche settimane da una famiglia di tre persone, padre, madre e una bambina. Senza dir nulla augurai loro una vita migliore di quella che avevo avuto io lì dentro. Quando li salutai consegnai alla bambina il mio pelouche.

«Tieni piccola, è tutto per te».

«Oh, come è bello! Mamma, papà, guardate che cosa mi ha regalato la signora!», gridò entusiasta rivolgendosi ai genitori che, felici, mi sorrisero per ringraziarmi.

«Ti auguro tanto di non averne mai bisogno, piccola mia, ma ricorda che qualora succedesse qualche cosa di brutto lui ti proteggerà sempre, si prenderà cura di te!».

«Okay!».

L’accarezzai, li salutai e me ne andai.




3


Il giorno in cui chiusi la porta alle mie spalle mi colse impreparata. Ero una dilettante nella vita, un cumulo animato di carne ed ossa in fuga e alla ricerca di qualche cosa di non ben definito. Mancavo di dignità. Avanzando a passo spedito mi obbligai a non voltarmi per nessuna ragione al mondo, pensando che finalmente tutto sarebbe finito e che da quel momento in poi la mia vita sarebbe cambiata e sarebbe nata una nuova Melanie. Dieci passi, cento passi, poi duecento. Mi voltai, come presa alle spalle a tradimento da una mano invisibile. Riguardai la casa. La lanterna sulla facciata dondolava sospinta dal vento, il suo movimento mi ipnotizzava. Tornai in me e piansi. Mi arresi, mi rivoltai e finalmente me ne andai via. Il pianto aveva cancellato la paura, forse ciò che si diceva non era poi così vero. O forse lo era.

Il mio vagone di seconda classe non era affollato. C’erano solo una ragazza ed un uomo anziano a farmi compagnia. L’uomo leggeva indisturbato la sua copia del “Daily Telegraph” mentre la ragazza alternava il suo sguardo tra il finestrino e la mia faccia cercando di capire quale delle due immagini riuscisse a stupirla di più, quale fosse il panorama migliore da osservare per ingannare il tempo, quello più divertente. Masticava con insistenza una gomma con il viso immerso nel colletto rialzato della sua camicetta bianca a quadri rossi. Portava un paio di jeans piuttosto stretti per quell’epoca. Io li trovai piuttosto scomodi ad un primo sguardo, una delle poche volte che la guardai. Ma notai che su di lei stavano bene, valorizzavano il suo corpo quasi perfetto. Stavo lasciando una vita che non riconoscevo più, miglio dopo miglio stavo cercando di dimenticare il posto da dove venivo. E ci stavo riuscendo con non poca fatica, o almeno così credevo. Non avrei voluto che qualcuno mai visto prima mi facesse ripiombare nel mio passato con quella stupida domanda “Tu da dove vieni?” e la cui risposta di certo non era d’interesse per alcuno. Non la guardai più. Chiusi gli occhi e mi immersi nuovamente nella fitta nebbia dei miei pensieri, persa in un susseguirsi di immagini che disegnavano involontarie espressioni sul mio viso. Questo la incuriosì molto e la convinse a scegliere il mio viso come spettacolo da guardare, perché tutto sommato ciò che scorreva fuori dal finestrino era solo un paesaggio statico che lei aveva già visto più e più volte durante la sua vita. Me lo confidò qualche mese dopo quel nostro primo incontro in quel vagone, quando ormai eravamo diventate buone amiche. Entrò il controllore per chiederci di mostrargli i biglietti e fui costretta ad aprire gli occhi. Io la guardai, lei mi guardò. Iniziammo a parlare ma in modo diverso, senza un saluto, una domanda fuori posto, nulla del genere. Lei faceva delle assunzioni, come se davvero mi conoscesse da sempre. Mentre parlava continuava a masticare la gomma, come se niente fosse. Io non ero mai riuscita a fare due cose insieme senza rischiare di commettere errori, mentre per lei sembrava una cosa del tutto normale.

«Certo che tu sei una ragazza strana».

«Cosa le fa pensare che io sia strana?».

Si fermò un attimo per riflettere, poi riprese il discorso.

«Te ne stai lì tutta sola e zitta a pensare a cosa non si sa. In fine dei conti siamo su un treno».

«E quindi? Per il semplice fatto di trovarci su un treno lei ed io dovremmo metterci a parlare?».

Lei sembrò accusare il colpo e abbandonò per un attimo il gioco, senza però smettere di guardarmi. Non si era arresa, mi stava solo studiando, cercava di assestare la sua prossima mossa d’attacco. Staccai lo sguardo dal suo e finsi di guardare fuori dal finestrino, senza però osservare un punto preciso. Uno qualunque, scelto così a caso, sarebbe stato comunque perfetto, purché non fossero i suoi occhi.

«Che cosa vedi?».

«Mi scusi?».

«Ho chiesto che cosa vedi fuori dal finestrino».

«Sto guardando la campagna».

«Stai guardando la campagna, va bene. Ma che cosa vedi?».

«Se sto guardando la campagna, vedo la campagna!».

«Logico».

«Mi sembra persino stupido chiederlo, non le pare?».

«Ah, io non saprei. Il più delle volte ciò che si vede non è proprio quello che si sta guardando. O almeno per me è così».

Questa volta era andata lei a segno, aveva assestato un colpo che mi aveva fatto maledettamente male. La guardai, sconfitta e senza alcuna voglia di ribattere. Forse la mia fuga non sarebbe servita a nulla, capii che anche scappando a gambe levate dal mio passato sarei ricaduta in un presente ed un futuro fatti a sua immagine e somiglianza. Abbassai gli occhi e giunsi le mani posandole sulle mie gambe, aggiungendo un tono di rassegnazione alla mia sconfitta e rimanendo in attesa che il mio avversario mi infliggesse il colpo di grazia, per finirmi come avrebbe fatto un gladiatore nell’arena dopo aver ottenuto il permesso di uccidere da parte del suo imperatore, per placare la sua sete di sangue. Ma questa volta l’imperatore mi graziò, il pollice era rimasto rivolto verso l’alto, la folla non gridava perché non aveva visto il sangue uscire dalle mie membra lacerate dal ferro freddo della spada, per fermarmi il cuore e cancellarmi definitivamente dal mondo dei viventi. Il gladiatore, il mio avversario, mi aveva allungato invece la sua mano per aiutarmi a rialzarmi. Ed io, fortunata vittima di un crudo spettacolo per adulti, l’afferrai e mi lasciai sollevare da lei, respirando e ammirando nuovamente quanto fosse bella la luce del sole che risplende in un cielo azzurro e sgombero dalle nuvole. Non ci sarebbe stata pioggia quel giorno, meglio così.

«Io mi chiamo Cindy».

«Melanie».

«Melanie, è un bel nome. Posso chiamarti Mel?».

«Può. Mi chiami pure come meglio crede».

«Sei sicura che non ti dia fastidio?».

«No, non mi da fastidio, altrimenti glie lo direi».

«Io ho venticinque anni Mel!».

Non risposi. Non volevo ricordare quanti anni avessi in quel momento.

«Lo sai che cosa significa questo?».

«Non ne ho idea. Forse significa che lei è nata venticinque anni fa?».

«Acuta osservazione Mel! Ma quella è solo aritmetica, non ha nulla a che vedere con ciò che intendevo dire. Intendevo dire che sono giovane».

«Sono felice per lei Cindy, io invece sono più vecchia, ho trentacinque anni». Sobbalzai quando realizzai che inavvertitamente avevo esternato un particolare della mia vita che non avrei avuto alcuna intenzione di condividere con altri. Le avevo detto la mia età, consegnando nelle sue mani la scatola che conteneva la mia esistenza, anche la parte che avevo con tanta fatica cercato di dimenticare.

«Bene, siamo quasi coetanee allora».

«Beh, non direi. Abbiamo ben dieci anni di differenza».

«E che sarà mai! Facciamo parte della stessa generazione. Quella dei Beatles, Elvis, Jeans e camicette sbottonate, brillantina nei capelli e Cadillac! Hai sentito “A hard day’s night”, la nuova canzone dei Beatles?».

«Si, certo che l’ho sentita! Adoro i Beatles», confidai nuovamente sorpresa.

«Anche io li adoro! E poi loro sono ragazzi troppo belli. Mio Dio come me li farei!», affermò prima di mettersi a canticchiare il motivo con una buona intonazione.

«Mel, dammi del tu dai! Non ti mangio, stai tranquilla».

Rimasi ferma a pensare per troppo tempo, come se la scelta sul da farsi, se accettare o meno la sua proposta, fosse una questione di vita o di morte. Eppure sarebbe stata una cosa banale per una persona “normale”, una scelta da farsi d’istinto. L’istinto che guida gli animali e che io non avevo mai coltivato. Cindy mi guardò, in attesa di una mia risposta. Il mio silenzio e la mia reticenza l’avevano un po’ spiazzata.

«Va bene». Le sorrisi, quasi a volerla premiare per la sua attesa, in risposta alle mille domande che potevano averle affollato la mente in quegli istanti. Forse aspettavo proprio che mi chiedesse lei di farlo, scardinando la cassaforte nella quale mi ero rinchiusa da sola, ridonandomi l’ossigeno e, forse, qualche residuo sussulto di vita. Forse Cindy mi considerava al pari di una pazza, una persona con urgente bisogno di aiuto. E avrebbe avuto ragione.

«Dove vai?».

Domanda inopportuna e dalla difficile risposta per me. Tuttavia ormai ero già compromessa. Una confessione in più da parte mia non avrebbe di certo distorto la mia immagine più di quanto non lo fosse già. Non avrebbe di certo modificato il percorso del mio destino. Tuttavia mantenni un certo riserbo mentre le rispondevo.

«Vado a Cleveland».

«A Cleveland! Ma è fichissimo! Io sono di Cleveland, sto tornando a casa mia!».

Mi sentii come investita da uno schiacciasassi, da una di quelle macchine infernali usate per pressare l’asfalto sulle strade e che rendono il catrame liscio e sottile come una lastra di vetro. Ma questa volta il catrame nero sparso a terra e poi compresso ero io.

«Ah!». Fu l’unico suono che riuscii a produrre con le mie corde vocali impietrite.

«E dove alloggerai?».

Ecco, un nuovo squarcio si apriva nella voragine già sanguinante. Che cosa le avrei risposto? Che non avevo una meta precisa? Che in realtà non avevo una casa in cui stare ma me ne sarei andata a spasso per le strade come una barbona alla ricerca di un posto a basso costo per dormire? Ecco l’idea! Avrei potuto dirle che sarei rimasta a Cleveland solo per un breve periodo, che ero solo di passaggio! Così avrei avuto anche la scusa per cavarmi d’impiccio e scappar via da lei in qualunque momento, per riguadagnare la mia vita! La mia vita! Si, ma quale vita? Ne avevo davvero una?

«Starò in un hotel. Sono solo di passaggio, ci starò solo per qualche giorno», risposi, fiera di aver imboccato per la prima volta la strada giusta, di aver deciso da sola sul da farsi. Era una sensazione nuova per me, dannatamente potente, prodigiosa, una valanga di energia.

«Oh, capisco. Per pochi giorni. Bene, allora puoi venire a stare da me, a casa mia!».

«No, ci mancherebbe altro! Non voglio essere d’impiccio per nessuno io. Ringrazio per l’offerta ma mi dispiace, davvero non la posso accettare».

«Ma quale impiccio, Mel! Noi dell’Ohio siamo fatti così! Guai a rifiutare la nostra ospitalità».

«Noi del West Virginia invece siamo un po’ diversi».

«Dal West Virginia! Vieni da lì? Da quale città?».

La mia vita ormai era diventata di dominio pubblico. Persino l’anziano uomo aveva abbassato il suo giornale per vedere la faccia di quella fuggiasca che stava riempiendo l’aria di quello spazio angusto con le sue parole. Senza difese vomitai anche quello.

«Fico!».

«Ma cosa significa “fico”?».

«Significa “bello”, “forte”! Ma dove vivi scusa? Non hai mai sentito questa parola?».

Le mentii dicendole che l’avevo sentita ma che non l’avevo mai fatta rientrare nel mio dizionario, quindi mi ero disinteressata del suo vero significato. In realtà conoscevo benissimo il significato di quella parola usata per lo più dagli adolescenti, ciò che non capivo era che cosa ci trovasse lei di così “fico” nelle cose che le dicevo. Perché quella ragazza riusciva a trovare del bene o del bello in cose, paesi o situazioni che io avevo odiato da sempre? Cominciai a pensare che forse restare un po’ di tempo con lei mi avrebbe fatto bene. Forse avrei potuto imparare a vivere un po’, rubando lezioni di vita gratuite da una ragazza più giovane di me, come una parassita sociale. Forse lei davvero sapeva come si dovesse vivere nel mondo, in questo mondo del quale facevamo entrambe parte con le nostre innumerevoli diversità.

«E tu dove vivi?», le chiesi.

«Sulle sponde del lago Erie. E’ un posto molto bello, soprattutto la sera quando i rumori della città si attenuano e senti solo quelli provenienti dal lago. La mia casa guarda proprio sul lago e dal giardino si può godere di splendidi e coloratissimi tramonti. Ti piacerà, vedrai. E poi io vivo da sola, non ci sarà nessuno a disturbarci!», concluse con un sorriso malizioso che avevo visto fare a qualche quindicenne vittima dei suoi primi sussulti ormonali.

Le sorrisi e in quel modo le confermai che accettavo il suo invito. Mi sarei sdebitata in qualche modo, avrei diviso con lei le spese per il vitto e per l’alloggio, avrei lavorato e così via. In quel momento pensai che si sarebbe trattato solo di una breve permanenza presso di lei, nel frattempo avrei cercato un alloggio tutto mio e all’occorrenza avrei potuto incontrare la mia amica ogni volta che fosse stato necessario. La mia amica! Sembrava una cosa tanto strana da dire e quasi surreale da sentire. Ma mi sbagliavo, visto che in quella casa sul lago Erie ci passai buona parte della mia intera vita. In un solo giorno ero entrata in possesso di due cose tutte mie, un’amica e una vita. E tutto questo per merito o per colpa di Cindy, di quella sua sfacciata presenza che era riuscita ad abbattere tutte le mie barriere, ogni mio minimo residuo desiderio d’isolamento. Di una presenza ingombrante che ora mi dava sicurezza, come l’amore di una madre o l’abbraccio di una sorella che non avevo mai avuto. Del suo modo violento di entrare nella mia esistenza con le sue parole, con il suo sguardo, con tutta la sua energia e con la sua gomma da masticare. Le chiesi se aveva una gomma anche per me, lei me la offrì. Fu la prima volta che masticai una gomma nella mia vita, era al gusto di fragola.




4


Quando lasciai il mio lavoro di infermiera dopo otto anni di attività, i miei colleghi mi organizzarono una festa a sorpresa. Parteciparono anche i medici, a turno per non lasciare scoperto il servizio di assistenza ai malati ricoverati in ospedale. Durò all’incirca un’ora, sessanta minuti di frastuono e allegria che altri vivevano al posto mio. Mi avevano risvegliata da un letargo, mettendomi per la prima volta al centro di un cerchio, rendendo ancora più complicata la mia partenza. Negli anni avevo capito che quando gli altri ti organizzano una festa è perché tutto sommato provano un certo affetto per te. Loro la chiamano amicizia. Avevo quindi capito che l’amicizia è quel sentimento primitivo che si prova verso un’altra persona con la quale si condivide qualche cosa, una sorta di rapporto umano. Quindi forse avevo avuto qualche amicizia nella mia gioventù ma io ero troppo cruda per rendermene conto. O forse no, si trattava solo di un rapporto di convivenza, di reciproca accettazione e sopportazione che non andava oltre il semplice saluto o la condivisione di un’oretta di gioco. Se l’amico è colui che ti ascolta e che si prende cura di te, che condivide con te le gioie e le paure, allora questo mio amico era il mio pelouche, regalatomi dall’orco e che da quello stesso orco mi aveva difeso finché poté farlo. Mio padre, l’orco, mi aveva regalato la mia unica arma di difesa, perché io potessi difendermi da lui. Mi aveva donato un’amicizia fatta di stoffa e pelo sintetico, perché lui non sarebbe mai stato all’altezza di darmi qualcosa di più. E mio amico fu anche Ryan, il ragazzo dolce che era riuscito a farmi provare un brivido, anche se dal significato totalmente sconosciuto.

Tagliarono una torta decorata che riportava il mio nome e un augurio per il mio futuro scritto sopra con una filatura di cioccolato nero. Ma quale futuro? E soprattutto, il futuro di chi? Versarono bevande analcoliche in bicchieri di plastica, rumoreggiavano come pazzi ubriachi e scatenati alla sagra del pesce del paese. Per qualche istante la mia mente tornò alle notti del pianto, quando mio padre rientrava a casa e sfogava la sua ira sul corpo di mia madre, rassegnato e già pronto nel suo letto ad accettare ancora per una volta, non l’ultima, il suo destino. “Beato chi soffre, perché vedrà il regno dei cieli” sentiva dire nel sermone recitato in chiesa. E lei sorrideva nel sentire quelle parole, accettava la sua vita così come le era stata donata, rassicurata dal fatto che ogni pugno, schiaffo o calcio, ogni violenza ricevuta l’avrebbe avvicinata sempre di più alla porta di quel paradiso tanto bello descritto dagli uomini per loro stessi. In quel paradiso gli orchi non sarebbero mai entrati. Qualcuno si accorse di me, in quel frastuono notarono una lacrima furtiva scivolare via dalle mie palpebre incontinenti per scendere seguendo il profilo del mio volto. Mi dissero “E’ bello vederti commossa per la festa, sei sempre stata così dolce, ci mancherai tanto lo sai?”. Ancora una volta non ero stata capita, non mi conoscevano affatto, non condividevamo nulla. Quindi non potevamo considerarci “amici”. Quel sentimento così importante non aveva per noi alcuna valenza. L’ospedale era stato trasformato in un bordello, schiamazzi e grida mi fecero pensare che forse quella gente fosse piuttosto contenta per la mia partenza, della mia scelta di togliermi dai piedi di mia spontanea volontà. Ero un essere scomodo per tutti loro, troppo diverso e quindi anormale. C’era gente che formava il trenino intonando motivi per me privi di senso e di musicalità, ognuno con le braccia tese e le mani posate sulle spalle dell’altro che lo precedeva, il “capotreno” con un cono capovolto piazzato sopra la testa. Sembrava un gelato caduto a terra. Sorrisi senza un apparente motivo. Sul cono una mano sapiente aveva scritto in bella calligrafia le parole “Non ti dimenticheremo mai Melanie!”, io per un attimo vi credetti. Alla fine della festa, quando i pazzi tornarono a rinchiudersi nelle loro celle per scontare la convalescenza delle loro malattie, notai quel cono di cartone accartocciato e gettato nel cesto dell’immondizia. Riuscii a vedere solo il mio nome tra le pieghe, imbrattato da una macchia lasciata dal burro di arachidi. Sorrisi, piansi, non ricordo bene. Vi gettai sopra gli altri scarti della festa fino a coprire completamente anche il mio nome, eliminandone ogni traccia. Ammirai l’opera, sospirai soddisfatta, accartocciai il foglio con i nomi e i numeri di telefono che alcuni mi avevano lasciato dicendomi “mi raccomando, restiamo in contatto!”. Nella mia testa tutto ciò risuonava più come una minaccia che come un amichevole invito dettato da un reale interesse nei miei confronti. Lo gettai insieme al resto della carta straccia perché quello era il suo posto, con quello si completava. Richiuso il cesto, cominciai a dimenticare. Dimenticare, come tutti loro avrebbero fatto con me di lì a qualche ora. Ci saremmo rincontrati in paradiso se fosse realmente esistito, ammesso che l’inferno non mi avesse risucchiato prima del tempo. Così, giusto per il gusto di divertirsi ancora un po’ con me. Non incontrai mai più nessuno di loro in tutta la mia vita, non seppi mai chi fosse sopravvissuto a quella giornata, a quella fugace ora di euforia da catalogo. A parte una persona, Melanie. Anche l’inferno mi aveva rifiutata, nemmeno il diavolo si divertiva più a prendersi gioco di me.

Tornai a casa stanca quella sera. Avrei voluto fare i bagagli e partire quella notte stessa per un posto nuovo, così senza decidere, senza una meta precisa. Lo facevano tanti giovani, ormai era una cosa alla moda, quasi un obbligo per chi era riuscito a mettere qualche soldo da parte. Quindi avrei potuto farlo anche io. Ma rimandai la preparazione dei bagagli, rimandai quella partenza a momenti migliori. Posai il regalo che gli altri mi avevano dato prima di salutarci e augurarci “buona fortuna per il futuro”, frase che sapeva un po’ di rassegnazione e portava nascosta in sé una nota amara che diceva “tu da oggi non sei più affare nostro”. Mi regalarono un orologio. Regalarono un orologio anche a quelli che erano andati via prima di me, a quelli che si erano sposati, a quelli che avevano avuto dei figli. Perché si regala sempre un orologio? E’ davvero così importante ricordare ad una persona che il suo tempo è destinato a passare e alla fine lei scadrà come un cartoccio di latte abbandonato da tutti sul fondo di uno scaffale in un piccolo supermercato di provincia? Solo ai funerali non si regala un orologio al defunto, forse perché per lui il tempo non esiste più. Il tempo non è nulla paragonato all’eternità stessa che lo contiene. Aprii il pacchetto, guardai l’orologio, segnava già l’ora giusta. Qualcuno si era preoccupato di sistemarla perché fosse già pronto all’uso e io non fossi costretta a perdere tempo, appunto. Perdere del tempo per sistemare il tempo, che curioso paradosso! Posai la scatola richiusa sulla mensola del camino, da dove lo avrei ripreso prima di partire. Forse.




5


Cleveland era ormai vicina. Cindy si era appisolata durante l’ultimo tratto del viaggio. Eravamo rimaste noi due sole nel vagone, la osservavo con attenzione perché lei non poteva vedermi. La invidiavo perché la vedevo felice, sicura di sé, della sua esistenza. Una ragazza più giovane di me che aveva vissuto più di quanto non avessi saputo fare io, che aveva fatto delle scelte conscia di avere la sua vita stretta in pugno. La “sua” vita. Mi chiedevo per quale ragione avessi parlato con lei, rispondendo alle sue domande e ponendomene a mia volta delle altre su di lei. Non trovavo una risposta a questa domanda. Non mi conoscevo abbastanza, evidentemente. Sudavo, nonostante i turbini di aria fresca che riempiva il nostro vagone e che penetrava fino in fondo alle ossa. Lei se ne stava lì tranquilla, beatamente cullata dai suoi sogni. Poi il treno cominciò a rallentare, accompagnato dallo stridio fastidioso prodotto dalle ruote e dai freni, quello che anticipa l’arrivo nella stazione. Cindy si svegliò e stirò le braccia come facevo anche io ogni mattino da bambina nei primi secondi che seguivano il risveglio, quando ancora le paure della notte non erano ricomparse nella mia testa per ricordarmi quale fosse la mia realtà. Mi sorrise.

«Sono crollata come una pera, scusami!».

Ricambiai il suo sorriso con il mio. Ero sincera e meravigliata di esserlo al tempo stesso.

«Ti sei riposata un po’», confermai. Lei annuì.

«Tu che cosa hai fatto?».

«Ho guardato fuori dal finestrino».

«Per tutto il tempo? Quanto ho dormito?».

Guardai l’orologio.

«Quasi due ore».

«Però! Niente male!».

Non capivo a cosa si riferisse. Cosa non era “male”? Il fatto di aver dormito per quasi due ore sopra un ammasso di ferraglia in movimento in mezzo alla campagna dell’Ohio? La guardai aggrottando la fronte.

«Il tuo orologio! Niente male!».

«Ah, grazie. E’ un regalo».

«Del tuo uomo?».

Abbassai lo sguardo. Quella ragazza stava lentamente dissotterrando tutti i cadaveri che io con pazienza e dedizione avevo a fatica ricoperto di terra e dimenticato. Risposi, a metà.

«Non ho un uomo, sono sola. E’ un regalo dei miei ex colleghi dell’ospedale, me lo hanno dato il giorno in cui ho lasciato il lavoro, durante la festa di addio».



Lei mi guardò, squadrandomi dalla testa ai piedi. Mi stava osservando, mi sentivo studiata nei dettagli, come una cavia da laboratorio alla quale fosse stato iniettato un virus letale e si fosse voluto misurare il tempo necessario per vederla morire. Improvvisamente mi parve disinteressata al mio orologio, ora era concentrata su di me, sul mio aspetto, sulla mia infelicità così come lei la percepiva in quel momento. Forse stava pensando di “sacrificarsi” per me, di prendere in mano le redini della mia vita per condurla da qualche parte. La “mia” vita, ancora una volta. Alzai le mie barriere o quel poco che ne restava, non volevo tornare a soffrire. Ero ormai esperta e riconoscevo i sintomi che anticipano l’arrivo della sofferenza con assoluta sicurezza. In quanto a sofferenza ero davvero infallibile, una sulla quale si poteva davvero contare. Decisi che il nostro sarebbe stato solo un incontro per un viaggio. Non sarei andata da lei, a casa sua. O forse anche si, per poche ore, pochi giorni, pochi anni o forse per sempre.

Il treno si fermò e una voce registrata diffusa nelle carrozze annunciò che eravamo arrivati. Cindy si alzò, si aggiustò per bene la camicia nei pantaloni. Era stranamente in ordine nonostante le tante ore che aveva passato seduta sulla sua poltrona. Sentii il suo profumo. Era fresco, come appena messo. In quel momento notai le due grandi valige che aveva portato con sé in quel viaggio, mi meravigliai di come avesse potuto trasportarle da sola, senza l’aiuto di nessuno. Mi alzai e sentii che il mio corpo rilasciava invece un cattivo odore di sudore. Mi vergognai al punto che decisi di sedermi nuovamente. Avrei aspettato che lei fosse uscita dal vagone per rialzarmi senza timore di battezzare l’aria con la mia fragranza di fogna. Ma lei non badò affatto a me. Forse aveva capito il mio problema, o forse no. Non lo seppi mai.

«Io vado avanti, ci vediamo qua fuori», mi disse con un sorriso.

«Va bene, prendo la mia valigia e ti raggiungo subito».

Lei mi guardò mentre allungavo le braccia verso lo scomparto posto in alto, sopra la mia testa. Non si mosse.

«Tutto qui? Questo è tutto il tuo bagaglio?».

«Si. Ho portato poche cose. Il resto l’ho lasciato a casa, non mi servirà molto qui». Lei mostrò il lato perplesso della sua espressione.

«Se lo dici tu Mel! Dai forza, andiamo prima che il cavallo decida di ripartire con gli asini sopra!».

«Scusa?».

«Nulla, è un modo di dire locale! Noi saremmo gli asini, tutto qui!».

Scoppiò a ridere, era evidentemente felice di essere ritornata a casa, la sua casa, per ricondurre la vita, la sua vita. E per trascinarsi dietro anche i resti sgualciti della mia esistenza. Camminava davanti a me e io la seguivo, come un cane legato ad un invisibile guinzaglio segue il suo padrone. Ammiravo quanto fosse bello il suo corpo di giovane venticinquenne, ne invidiavo il fisico che sembrava essere stato creato dalle mani sapienti di uno scultore. Il suo seno era generoso, il sedere sodo, le belle gambe lunghe e dritte accomodavano perfettamente i suoi jeans stretti. Toccai per un attimo i miei fianchi e la mia fantasia subito svanì. Rimase solo l’invidia a tenermi per mano, ancora una volta, e non l’ultima.



Durante gli anni trascorsi al college riuscii nonostante tutto a prendermi delle piccole soddisfazioni personali. Ero una studentessa modello, una di quelle ragazze sempre in ordine, con il colletto della divisa pulito e ben stirato, preparata, sempre al passo con le lezioni e i compiti ben fatti. Oltre a tutto ciò io non comunicavo. Per mia scelta, ma anche per necessità, non entrai mai a far parte di uno dei tanti branchi che popolavano il campus. E per questo motivo, credo, venni invidiata e additata come una ruffiana dalla maggior parte delle mie compagne, una di quelle che dietro una faccia d’angelo nasconde tanti interessi personali e secondi fine. Alcune di queste voci si fecero sempre più insistenti nel tempo e una di queste, forse la più infamante per una donna di quell’epoca, arrivò all’orecchio del rettore. Lui conosceva bene il mio percorso di studi, i miei successi scolastici e il mio comportamento, sia in istituto che fuori. Ma soprattutto conosceva bene mio padre e il suo carattere. Avevano combattuto insieme, anche lui ricordava la scena straziante di mio padre che teneva l’amico e compagno di battaglia morente tra le sue braccia, cercando di trattenere le lacrime, la disperazione e la paura. Ma quell’uomo una volta ritornato a casa dai suoi cari era riuscito a dimenticare tutto, aveva intrapreso una brillante carriera accademica per poi diventare il rettore di quello stesso istituto. Forse proprio per questo motivo si preoccupò di tenermi sotto la sua ala protettrice, difendendomi da tutto e da tutti. Ma per la carica che copriva nell’istituto non poteva darlo a vedere pubblicamente. Un giorno mi chiamò nel suo ufficio con la banale scusa di chiedermi quali intenzioni avessi per il mio futuro e per propormi un’attività di ricerca da svolgere in istituto al completamento dei miei studi. Mi parlò delle brutte voci che aveva sentito sul mio conto e che le erano state riferite da una inserviente, a detta sua.

«Melanie, girano strane voci qui dentro che tendono a metterti in cattiva luce. Volevo chiederti se ne sei al corrente e cosa ne pensi. Io ti conosco piuttosto bene e so chi sei e come ti comporti. Queste voci però devono essere messe a tacere e in fretta, prima che sia troppo tardi».

Ero perfettamente a conoscenza di quelle voci, una delle tante capobranco me le aveva praticamente sbattute in faccia una volta, dandomi della “puttana” in seguito ad un piccolo battibecco che avevamo avuto. Ma decisi di non ammettere nulla perché volevo rimanere al di fuori di tutto. Credevo di essere molto abile nel nascondere la verità, sicura del fatto che nessuno mai avrebbe scoperto le mie menzogne. O meglio, le mie “non verità”. Non avrei accettavo l’aiuto di nessuno, soprattutto se offertomi da un amico di mio padre o da chiunque altro avesse condiviso anche la minima cosa con lui. Scossi il capo ammettendo la mia ignoranza.

«Si dice in giro che sei stata vista mentre praticavi prestazioni poco convenienti per una ragazza nubile della tua età ad uno dei ragazzi del nostro servizio di sicurezza».

«Pura fantasia di qualche sgualdrina da quatto soldi».

«Bene. Ne ero sicuro ma preferivo avere una conferma direttamente da te. Ti pregherei però di mantenere un tono e delle espressioni più adeguate in questa sede».





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Riuscirai a superare persino quei giorni in cui ti sentirai morire, quelli in cui ti ritroverai dannatamente sola e fragile. Perché sai, è questo che si fa. Si va avanti, nonostante tutto.

E non importa alla fine chi sei stata o chi sarai. Ciò che importa è andare avanti, assaporando il gusto dolce e amaro delle emozioni, quelle che ogni giorno ci regala lo splendido viaggio che gli esseri umani chiamano ”vita”.

Fin dalla tenera età la vita di Melanie è segnata dalla violenza. La sua esistenza è il totale annullamento dell'essere donna e di ogni traccia della propria personalità. Ma come in una bella favola, ormai certa di aver toccato il fondo, arriva per lei l'amicizia sincera di Cindy accompagnata da un amore vero per un uomo, un vecchio amico. E allora tutto cambia, come d'incanto. Tutto rinasce e può sbocciare la vita nella sua primavera, quella mai vissuta.

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