Книга - Il Vento Dell’Amore

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Il Vento Dell'Amore
Guido Pagliarino






Guido Pagliarino



Il Vento dell'Amore



Saggio



Copyright © 2018 Guido Pagliarino

All rights reserved

Book published by Tektime


Guido Pagliarino

Il Vento dell'Amore

Saggio

2a Ediz. in e-book e 1a Ediz. in volume (anche il libro cartaceo con immagini interne a colori)

Distribuzione Editrice Tektime

Copyright © 2018 Guido Pagliarino



Precedenti Edizioni:

1a Edizione in E-book, Smashwords Edition, ISBN 9781311241351, Copyright © 2015 Guido Pagliarino



La copertina di questo e-book è realizzata elettronicamente dall'autore; l'immagine inseritavi è il dipinto “Il Vento” di Vincent Van Gogh


Il Vento dell'Amore

Un approccio storico alla progressiva Rivelazione

di Dio-Amore nel Primo Testamento










La parola ebraica Ruah, o Ruach, Vento, o Spirito




Indice


INTRODUZIONE (#ulink_992e2c16-2f93-575a-912d-0e81c3b832b0)

PREMESSA - SULL'INFLUENZA DELLA STORIA SULLA BIBBIA (#ulink_293de44c-b6c6-5ff8-b24f-f2208a4a7a49)

Capitolo I - DAL 1200 A.C. ALL’ETÀ DEL SECONDO TEMPIO (#ulink_3bd4b800-c7bb-5afd-955b-5d37c9f93dac)

Gl’ideali eroici (#ulink_a58cf52b-632a-57e3-9408-5442cc5cc4b3)

Sulle mentalità enoteista e politeista presso gli Ebrei (#ulink_c5eaa7ad-2083-59b5-8ab0-e857541a0839)

Le deportazioni a Babilonia (#ulink_a0627ddd-c4b8-52ab-b742-3c41daeee8d8)

Un periodo storico fondamentale (#litres_trial_promo)

La religione del secondo tempio e la scuola teologica degli scribi e dei sacerdoti (#litres_trial_promo)

Il sabato e la circoncisione (#litres_trial_promo)

Una precisazione (#litres_trial_promo)

Libri biblici post-esilici - Cenni (#litres_trial_promo)

Tavole_fuori_testo contenenti l'elenco dei Libri dell'Antico testamento e le loro date approssimative di composizione (#litres_trial_promo)

Capitolo II - LE BASILARI TRADIZIONI VETEROTESTAMENTARIE (#litres_trial_promo)

Le quattro fonti e il Pentateuco (#litres_trial_promo)

L'opera storiografica deuteronomistica (#litres_trial_promo)

Capitolo III - INFLUSSO DEL POLITEISMO SULLA BIBBIA (#litres_trial_promo)

Cenno all'influenza del politeismo sulla figura biblica di Jahvè (#litres_trial_promo)

In particolare: sul massacro di Gerico (#litres_trial_promo)

Capitolo IV - PROGRESSIVITÀ DELLA RIVELAZIONE DEL DIO-AMORE UNIVERSALE (#litres_trial_promo)

Progressività della Rivelazione (#litres_trial_promo)

Il primo monoteismo: la religione monoteista egocentrica del faraone Akhenaton (#litres_trial_promo)

La_nascita dell'idea di Dio universale e delle speranze in un messia e nella vita eterna (#litres_trial_promo)

Continuità del Dio d'Israele nel Dio di Gesù (#litres_trial_promo)

Perché Dio è Amore proprio e soltanto perché è Trinità unitaria (#litres_trial_promo)

Alcuni aspetti del (#litres_trial_promo)Padre (#litres_trial_promo)nell'Antico Testamento (#litres_trial_promo)

Allusione al (#litres_trial_promo)Figlio (#litres_trial_promo) nell’Antico Testamento (#litres_trial_promo)

Presenza dello (#litres_trial_promo)Spirito Santo (#litres_trial_promo) nell’Antico Testamento (#litres_trial_promo)

La sofferenza di Dio tra Antico e Nuovo testamento (#litres_trial_promo)

L’unico comandamento di Cristo (#litres_trial_promo): amare (#litres_trial_promo)

Appendice: (#litres_trial_promo)Abbreviazioni, in ordine alfabetico, dei nomi dei libri biblici (#litres_trial_promo)









Il volto terribile tutt'altro che amoroso di Dio secondo Michelangelo (Giudizio Universale, particolare, Cappella Sistina, Musei Vaticani)


INTRODUZIONE (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)



Quest'opera contempla il Dio-Amore al servizio degli uomini già presente nell'Antico testamento, prima della Rivelazione neotestamentaria. Il taglio è storico e considera che la nota comune fra l'Antico e il Nuovo Testamento è il governo della storia da parte di Dio e che la Parola, secondo il sentire degli scrittori veterotestamentari, si rivela progressivamente nei secoli attraverso fatti storici, i quali inducono alla riflessione teologica. Si consideri che, com'è noto agli storici e ha espresso d'altro canto il concilio ecumenico Vaticano II nella sua costituzione Dei Verbum, il Testamento è sì “ispirato, e coloro che lo generarono furono ispirati nella misura in cui contribuirono alla sua costituzione”, e che non solo il Nuovo Testamento ma pure quello Antico “è parola di Dio e conserva un valore perenne”, ma dev’essere messo in conto che gli scritti del Vecchio Testamento “contengano anche cose imperfette e temporanee” e che “integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro completo significato nel Nuovo Testamento e, a loro volta, lo illuminano e lo spiegano” (“Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina Rivelazione”, nn. 14, 15, 16.); e con questo, ho fiducia che quei lettori che solo occasionalmente frequentano la Bibbia evitino, capitando su certi passi veterotestamentari dove Dio-Jahvè ordina o compie atti sanguinari, di prenderli alla lettera scandalizzandosi, mentre per contro spero, grazie alla citazione della Dei Verbum, che non sarò io, quando presenterò sezioni meramente umane e transeunti della Bibbia, a suscitare scandalo in qualche credente fondamentalista portato a leggere la Bibbia alla lettera: solo la risurrezione di Cristo non deve essere intesa in senso simbolico, pena altrimenti la caduta del Cristianesimo, checché ne pensasse l'ormai tralasciata, dai più, scuola mitica del teologo luterano Rudolf Bultmann e di altri autori quali il Marxen e il Dibelius.



Quella scuola, affermando che il Nuovo testamento è mitico, non si basava sulla scienza esegetica, ma sul pregiudizio razionalista di matrice liberale da cui la scuola mitica proveniva (cfr., tra molto altro, l'articolo di Giuseppe di Rosa S.I, anche reperibile sul web (https://books.google.it/books?id=Sgg5AQAAMAAJ&pg=PA566&lpg=PA566&dq=scuola+mitica+Bultmann&source=bl&ots=YRldT8stMY&sig=YGwD69AbHPpuSbVpIIup8KOMIHs&hl=it&sa=X&ei=9s9eVdqgG8bSU4eEgYgC&ved=0CDsQ6AEwBQ#v=onepage&q=scuola%20mitica%20Bultmann&f=false), ( https://books.google.it/books?id=Sgg5AQAAMAAJ&pg=PA566&lpg=PA566&dq=scuola+mitica+Bultmann&source=bl&ots=YRldT8stMY&sig=YGwD69AbHPpuSbVpIIup8KOMIHs&hl=it&sa=X&ei=9s9eVdqgG8bSU4eEgYgC&ved=0CDsQ6AEwBQ#v=onepage&q=scuola%20mitica%20Bultmann&f=false (https://books.google.it/books?id=Sgg5AQAAMAAJ&pg=PA566&lpg=PA566&dq=scuola+mitica+Bultmann&source=bl&ots=YRldT8stMY&sig=YGwD69AbHPpuSbVpIIup8KOMIHs&hl=it&sa=X&ei=9s9eVdqgG8bSU4eEgYgC&ved=0CDsQ6AEwBQ#v=onepage&q=scuola%20mitica%20Bultmann&f=false) ) in La Civiltà Cattolica, n. 125, Volume II, Quaderno 2971, 6 aprile 1974, “Ricciardetto e la sua vana ricerca di Dio”). Della scuola mitica avevo scritto anch'io nel saggio “Gesù, nato nel 6 “a.C.” crocifisso nel 30 – Un approccio storico, fuori catalogo ma scaricabile gratuitamente ( https://www.kobo.com/it/it/ebook/gesu-nato-nel-6-a-c-crocifisso-nel-30#http://store.kobobooks.com/it-IT/ebook/gesu-nato-nel-6-a-c-crocifisso-nel-30 ) da internet in formato e-book epub.



Aggiungo, sempre con la Dei Verbum (“Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina Rivelazione”, n. 12), che “per ricavare con esattezza il contenuto dei testi sacri, si deve badare al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura.”

Dopo una premessa sull'influenza della storia sulla Bibbia, andrò assai indietro rispetto all’epoca di Gesù, fin al 1200-1000 a.C., secoli in cui sorge in Palestina una prima tradizione orale che si rifletterà nella Bibbia. Passando per i duecento anni successivi, quelli dei primi re, discenderò ai secoli VIII - VI a.C., in cui sono scritti gl’iniziali testi profetici, in certe parti già annunciatori del Dio amoroso, ed è steso, quanto meno stando al testo biblico posteriore 2 Re (2 Re 22, 3-20), un abbozzo del Deuteronomio, perduto e ritrovato nel tempio nel 622 a.C. sotto il re Giosia: nel Deuteronomio Jahvè è Dio della Legge, difensore anzitutto del popolo minuto e in particolare dei poveri, a differenza di quello formalista-legalista, in primo luogo desideroso di culto, del libro Levitico. Discorrerò della deportazione a Babilonia del popolo d’Israele e dell’età della liberazione e del rimpatrio, su autorizzazione del re persiano Ciro II il Grande (590-529 a.C.) vincitore di Babilonia, e del secondo tempio, eretto tra il 536 e il 515 a.C. sulle rovine di quello di Salomone, ch'era stato costruito per suo ordine nel X secolo prima di Cristo ed era stato distrutto nel 586 a.C. dall'esercito del re babilonese Nabucodonosor. Parlerò poi di quel lungo periodo, detto in senso stretto del Giudaismo, che inizia nel VI secolo a.C. giungendo a oltrepassare d’un quarantennio il tempo di Gesù, periodo in cui si mette per iscritto la maggior parte dell’Antica Scrittura giunta a noi: è questa un’epoca essenziale per la formazione della coscienza politico-religiosa giudaica e per l’abbandono definitivo del politeismo: parlerò in merito della scuola teologica, formata da sacerdoti e scribi che, avendo conservato le tradizioni durante l’esilio e avendole tramandate ai successori, dal VI al IV secolo prima di Cristo in parte redige ex novo e in parte integra i libri del Pentateuco - Genesi, Esodo, Numeri, Levitico e Deuteronomio - nei quali Jahvè è, prima di tutto anche se non esclusivamente, il Dio della Legge che stipula un patto d’alleanza (testamento) giuridica con Israele: un Dio legislatore e giudice, in vari passi castigatore analogamente allo Jahvè già presentato dal profeta dell’VIII secolo Amos. La teologia sacerdotale ha una visione tutto sommato ottimistica, sacerdoti e scribi ritengono d’essere i favoriti di Jahvè e che sia possibile, almeno per loro, vivere da “giusti”, il che significa per essi praticare il culto e stare soggetti alle prescrizioni legali. I profeti sono invece radicalmente pessimisti, convinti che l’egoismo degli esseri umani abbia fondamenta profondissime e che solo Dio possa liberarli dal peccato, che riguarda tutti: è benedetto da Dio chi confida in lui e maledetto è l’uomo che ha fiducia in sé (anzitutto, sono bersagli proprio gli uomini del governo politico-religioso, sedicenti giusti) e s’affida ad altri uomini (in primo luogo, agli appartenenti alla propria cerchia di potere).



“Il Signore dice: ’Io condanno chi si allontana da me, perché ha fiducia nell'uomo e conta soltanto su mezzi umani. Costui sarà come un rovo che cresce nel deserto, in una terra arida, piena di sale, dove è impossibile vivere: non gli accadrà mai nulla di buono. Ma io benedico chi ha fiducia in me e cerca in me la sua sicurezza. Egli sarà come un albero che cresce vicino a un fiume e stende le sue radici fino all'acqua. Non dovrà temere quando viene il caldo, perché le sue foglie resteranno verdi. Neppure un anno di siccità gli farà danno: continuerà a produrre i suoi frutti’” (Ger 17, 5-8).



Le due linee, da una parte quella aristocratica dell’inflessibile giustizia e del primato delle forme del culto e, dall’altra, quella profetica dell’amore per i poveri e per gli stranieri e della pietà per i peccatori, coesistono e arriveranno fino a Gesù il quale, inserendosi in questa seconda via e, secondo i cristiani, concludendola, rivelerà che Dio non solo è Amore che perdona, ma serve l’uomo e vuole divinizzarlo assumendolo a sé dopo la morte, e si scontrerà perciò con le guide d’Israele, in particolare coi sacerdoti sadducei increduli sulla vita eterna, capi popolo propugnatori del giustiziere Jahvè della Legge, non del Dio-Amore.

Nell’uso ebraico i rotoli contenenti i cinque basilari testi storico-legislativi d’Israele sono definiti la Torà (Torah), parola derivante dal verbo jaràh, insegnare, che significa appunto insegnamento, ma sono pure chiamati i Rotoli della Legge o la Legge di Mosè o semplicemente la Legge. La tradizione ebraica indica i libri della Torà con la parola iniziale di ciascuno. Il termine italiano Pentateuco deriva dal greco e fa riferimento ai cinque (penta) contenitori (teuchos = contenitore) di quei rotoli. I titoli di questi libri si devono ai cosiddetti Settanta, numero convenzionale dei molti, in realtà imprecisati, studiosi incaricati da Tolomeo Filadelfo sovrano d’Egitto di tradurre la Bibbia dall’ebraico al greco verso la metà del III secolo a.C., che avrebbero compiuto l’opera in soli settantadue giorni.



Secondo certi critici la traduzione sarebbe da riferire al II secolo prima di Cristo. La datazione alla metà del III secolo a.C. deriva da un apocrifo celebrativo di Israele scritto in ambiente giudaico alessandrino, la Lettera di Aristea, opera in realtà d’ignoto autore, che parla appunto di questa traduzione: è fittiziamente attribuita ad Aristea, alto funzionario del re Tolomeo II Filadelfo tra il 285 e il 247. Anche il numero 70 dei traduttori e il numero 72 dei giorni in cui la tradizione è compiuta traggono da questo apocrifo (cfr. La bibbia apocrifa, Editrice Massimo s.a.s., 1990, p. 171 ss.).



I Settanta intitolarono quei rotoli considerandone il contenuto: Genesi (le origini), Esodo, l’uscita dall’Egitto degli Ebrei, Levitico, libro della legge dettata dai sacerdoti della tribù di Levi, Numeri, dalle varie enumerazioni contenute nei primi capitoli, Deuteronomio, ovvero la seconda legge, sempre dal greco. Per gli scribi del tempio di Gerusalemme e per i sacerdoti sadducei questo Pentateuco, questa Torà, era la sola Parola di Dio. Gli altri libri veterotestamentari, indicati in Israele sotto i nomi collettivi di Profeti e Scritti, erano accolti come ispirati, ma non ancora da tutti gli ebrei ai tempi di Gesù Cristo, solo in ambiente farisaico.

Parlerò dei documenti, o tradizioni, che gli studiosi considerano fonti sia del Pentateuco, sia dei successivi sei libri biblici detti storici anche se non esenti da idealizzazioni, secondo il modo antico, apologetico, di fare storia.

Tornerò quindi ancora indietro nel tempo e discenderò quindi nuovamente verso gli anni di Gesù, trattando del politeismo presso gli Ebrei, del primo monoteismo (non giudaico ma ideato, per ragioni meramente politiche, dal faraone Akhenaton), della miglior comprensione dell’amore di Dio da parte d’Israele, della nascita della speranza in un messia profeta, sacerdote, re e del sorgere dell’idea della vita eterna. La ricerca teologica del popolo giudaico, che secondo i fedeli è ricerca divinamente ispirata, scopre sempre più nel tempo un Dio diverso da quelli pagani prima adorati dagli Ebrei accanto a uno Jahvè che mostrava a sua volta l’inquietante caratteristica di voler essere temuto e servito pena gravi castighi. A un certo momento i redattori biblici cominciano a esprimerlo come il Dio che sì punisce, ma solo allo scopo amorevole di correggere: analogamente a quei genitori che, in passato, picchiavano violentemente i figli nell’illusione di renderli migliori. Finalmente, o parallelamente considerando le anticipazioni d’Osea e di qualche altro profeta, la ricerca religiosa arriva alla consapevolezza d’uno Jahvè fondamentalmente amoroso, di quel Dio cioè che sarà pienamente rivelato da Gesù come il puro Amore e, sia pur ancora imperfettamente, già sarà ben presente, nel corso degli ultimi due secoli prima di Cristo, nei più recenti libri della Prima Scrittura, detti i deuterocanonici nella Chiesa latina e greca; tali libri non sono di fede per la religione ebraica e nemmeno per i cristiani della riforma protestante che li definiscono apocrifi.

Il lettore incontrerà nel testo parti non del tutto essenziali che ho rese graficamente in corsivo: ho tenuto conto del lettore frettoloso ed egli,volendo, può saltarle. Per agevolare il frequentatore occasionale del Testamento, ho aggiunto un’appendice con le abbreviazioni dei nomi dei libri biblici.



Guido Pagliarino


PREMESSA (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6) - SULL'INFLUENZA DELLA STORIA SULLA BIBBIA (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)



“Dio è amore”afferma al di là di ogni dubbio il Nuovo testamento nella prima lettera di Giovanni (1 Gv, 4, 8b), un'immagine ben diversa dalla fisionomia di un Dio corrucciato e tremendo che possiamo osservare nel Giudizio Universale di Michelangelo. Non si tratta d'un annuncio solo neotestamentario. Come vedremo, le fattezze del Dio-Amore, presentate in modo netto da Gesù di Nazareth con la parola e con l’esempio, erano andate già tracciandosi prima, nel corso della storia dell’antico Israele, riflettendosi, anche se non ancor appieno, nell'Antico testamento grazie in primo luogo a ispirati profeti. In quei libri, nondimeno, i lineamenti del Dio amoroso non appaiono assoluti, anzi essi differiscono dalla figura dello Jahvè (o del Jahvè se si pronunci Giavè e non Iavè) della Legge che troviamo in altri passi veterotestamentari, un'immagine severa che, come vedremo, origina dalla riflessione teologica non di profeti ma di sacerdoti e scribi del tempio.

Leggendo, si abbia sempre presente che l’argomento del governo della storia da parte della Provvidenza, indirizzato alla Salvezza dell’umanità, riguarda l'intera Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, e inoltre che ogni testo biblico è influenzato dalla situazione storica in cui s’è preparato ed è stato scritto. Ad esempio, la schiavitù dei Giudei in Babilonia e la loro liberazione da parte del re Ciro II, che incontreremo nel prossimo capitolo e si riaffaccerà nel corso del saggio, influenza i versetti della Bibbia che parlano della schiavitù in Egitto e dell’esodo degli Ebrei sotto la guida di Mosè, fatti storici che sono di molti secoli precedenti: per certi commentatori estremisti, il contenuto di tali testi sarebbe, addirittura, solo mitico-allegorico.



Scrive Carlo Buzzetti (in, di Carlo Buzzetti - con Carlo Ghidelli -, Le tappe della lettura della Bibbia. Come leggere una pagina biblica, come leggere una parabola, un discorso, un miracolo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2003.): “Ogni testo scritto sorge in un contesto vitale (o situazione originaria) di cui è espressione. Ma non sempre quella situazione delle origini può essere avvertita agevolmente da chi legge il testo; di solito ciò risulta abbastanza facile per i primi destinatari, per i primi lettori, poiché essi sono vicini; ma tale situazione si fa più oscura o più enigmatica o più ardua da conoscere per i lettori successivi che, invece, risultano piuttosto lontani. […] distinguiamo due fasi del compito teso a rendere esplicito il contesto implicito: prima, si cerca di ricostruire la situazione che il testo riflette; poi, si tende a una ricostruzione della situazione vissuta dall’autore del testo. Entrambe le fasi richiedono un certo impegno di indagine storica che, evidentemente, non può limitarsi al solo approccio diretto con il testo; chi legge deve considerare anche vari indizi forniti da altre voci più o meno contemporanee e in qualche modo parallele o convergenti rispetto a quel testo”



Ecco perché nel trattare il nostro tema di fondo, Dio-Amore nel Primo Testamento, dovremo esaminare, sia pure a grandi linee, le vicende storiche del popolo d’Israele e, quanto meno all'ingrosso e dove possibile, considerare la situazione personale dei redattori biblici; ad esempio vedremo che Esdra, motore principale anche se forse non redattore del Pentateuco, è mosso e aiutato dall’essere un funzionario giudeo del regno di Persia e un custode delle antiche tradizioni ebraiche, sopravvissute alla deportazione in Babilonia.

Inizieremo dall’epoca dei Giudici, verso la fine dell’Età del Bronzo.









Pieter Paul Rubens, Il giudice Sansone sedotto da Dalila, olio su tavola, 1609 circa, London National Gallery


Capitolo I (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)

DAL 1200 A.C. ALL’ETÀ DEL SECONDO TEMPIO (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)



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Bibliografia principale di questo capitolo: AA. VV. (a cura di David e Pat Alexander), Guida alla Bibbia, Edizioni Paoline – Roma, 1980; AA. VV. (Joseph Schreiner e collaboratori), Introduzione letteraria e teologica all’Antico Testamento, Edizioni Paoline s.r.l., quinta edizione 1990; AA. VV. (sotto la direzione di John A. Garraty e Peter Gay), Storia del mondo, Vol. I, Arnoldo Mondatori Editore, 1973; Abraham Cohen, Il Talmud, traduzione di Alfredo Toaff, Gius. Laterza & Figli S.p.A., Roma-Bari, 2003; Giovanni Filoramo, Giudaismo, in, di AA.VV., Manuale di storia delle religioni, Gius. Laterza & Figli, 1998; A cura di P. Bonsirven (scelta dei testi a traduzione dagli originali), Daniel-Rops (introduzione), Enrico Galbiati (presentazione), La Bibbia apocrifa, Editrice Massimo s.a.s., 1990; Edmondo Lupieri, capitoli Il Giudaismo del secondo tempio e le origini del Cristianesimo, pp. 7-19, e Radicalizzazione dell’osservanza e aperture ai non giudei (da Pompeo a Nerone), pp. 20-68, in, di AA. VV. (a cura di Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi), Storia del Cristianesimo, Gius. Laterza & Figli, vol I, 1997; Alviero Niccacci, La casa della sapienza, voci e volti della sapienza biblica, Edizioni San Paolo s.r.l., 1994; Giovanni Odasso, L’esilio come luogo di salvezza, in Leggere la storia come salvezza, numero monografico di Parola, Spirito e Vita - quaderni di lettura biblica, n. 1 gennaio-giugno 2003, Centro editoriale devoniano; Michel Morre, Dizionario Mondadori di Storia Universale, primo volume, Arnoldo Mondatori Editore, 1973; fonte internet: Enzo Cortese, articolo Per una teologia dello spirito nel tardo profetismo, Studium Biblicum Franciscanum, Jerusalem, e-book pdf alla pagina Internet http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/Books/LA47/47009EC.pdf (http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/Books/LA47/47009EC.pdf).


Gl’ideali eroici (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)



L’Età del Bronzo viene chiusa da due serie d’invasioni. Una proviene da nord-est, è attuata dai Popoli del mare, come gli Egizi chiamano gl’invasori, e nel corso di questa sequela d’occupazioni, poco prima del 1200 a.C. le tribù dei Peleshei, detti Filistei dai Greci e nella Bibbia, prendono possesso della terra di Palestina dandole il nome, mentre il rimanente si sparpaglia in diverse zone attorno al Mediterraneo compiendo incursioni fin in Grecia e, forse, bruciandovi i palazzi di Micene e Pilo.



Il declino della civiltà micenea avvenne verso il 1200 a.C. per ragioni non ben chiarite. In seguito al rinvenimento a Pilo di tavolette cotte in un incendio del palazzo reale, è stata prospettata l'invasione dal mare poiché vi si parla di allestimenti militari per difendere le coste da un pericolo incombente d'invasione e in quanto, in quello stesso periodo, era stata posta in grave difficoltà la civiltà egiziana e abbattuta quella ittita dai cosiddetti popoli del mare, onde è parso lecito ipotizzare che gli stessi popoli fossero stati gli invasori. Una più tradizionale spiegazione è invece l'invasione della popolazione indoeuropea dei Dori. D'altro canto, altri studiosi ritengono che il declino della civiltà micenea sia stato causato da meri fattori economici e demografici, e forse climatici, e gl'incendi non siano stati necessariamente dovuti a invasori.



L’altra serie d’invasioni viene da sud-est e riguarda tribù seminomadi di lingua aramaica che giungono dai confini del deserto arabico, le quali dapprima s’infiltrano e quindi s’impadroniscono con la forza della Siria, della Mesopotamia settentrionale, dell’Assiria, di Babilonia e della Palestina, chiamata Canaan dalla Bibbia. Quanto al popolo che sarà detto israelita, esso è in questa zona all’incirca dal 1200 a.C., un cinquantennio dopo l’epoca dell’esodo ebraico dall’Egitto, e convive, non senza contrasti, con la popolazione indigena. Non tutto il popolo ebraico proviene da un’altra terra, che sia o no quella dei faraoni: molti agricoltori, parlo dell’epoca storica trascurando le precedenti migrazioni, hanno origini locali (sono, per così dire, Cananei) e col tempo si fondono coi pastori nomadi invasori (diciamo con gli Ebrei) formando il popolo d’Israele. È questa l’epoca, fin verso il 1000, che nella Bibbia è detta dei Giudici e di cui si può conoscere solo la storia di fondo, essendo le relative informazioni veterotestamentarie trasfigurate miticamente. Utile è il confronto con altre società del tempo. In Palestina e in altre zone del vicino Oriente, nonché in Grecia e sulle coste e isole mediterranee dell’Asia minore, sono apprezzati in primo luogo gl’ideali eroici e un semplice insulto basta a scatenare una tremenda reazione come, per la Grecia, nel primo canto dell’Iliade dove l’eroe Achille, oltraggiato dal re Agamennone che gli ha sottratto la schiava Briseide, si ritira dalla guerra contro Troia dopo aver avuto l’impulso d’ucciderlo; o come, per la Palestina, nella Bibbia (1 Sam 25, 9-42) dove il re Davide, offeso dagli atteggiamenti superbi del suddito Nabal, vuole ammazzargli tutti i maschi della famiglia, peraltro impietosendosi di fronte alle suppliche di Abigail, moglie dell’offensore; ma penserà poco dopo un tremendo Jahvè a fare giustizia capitale uccidendo il tronfio Nabal, e allora Davide prenderà la vedova tra le sue mogli. È una società dove la posizione dell’individuo dipende dalla sua statura morale, dal coraggio personale e dal contributo che dà alla società, come ad esempio per la figura biblica del giudice Sansone. È un ideale che si riflette tra il 1100 e il 750 a.C. in racconti leggendari in prosa e in versi recitati oralmente e solo successivamente riuniti per iscritto, come per l’argomento dei poemi greci Iliade e Odissea e, dalla terra ebraica, per le primitive narrazioni confluite, principalmente, nella Genesi e in 1 Samuele e in 2 Re verso il V secolo a.C., con molte addizioni e varianti tratte da saghe e leggende, conosciute dagli Ebrei durante la schiavitù babilonese, che attingono all’antica mitologia della Mesopotamia.



Due esempi: l’episodio del diluvio universale nella Genesi s’ispira a un mito nel ciclo sumerico di Gilgamesh (le cui tavolette erano conservate nella biblioteca del re Assurbanipal) in cui uno degli eroi, Uta Napishtim, sopravvive a un analogo diluvio e, a differenza poi di Noè, riceve l’immortalità dagli dèi; la torre di Babele è immaginata in analogia agli zziggurrat, alti edifici torreggianti con cui gli antichi abitanti della Mesopotamia, supposti antenati del caldeo Abramo di Ur, bramavano di toccare, almeno simbolicamente, il cielo degli dèi.



Sono insomma racconti che entrano nell’immaginario ebraico a integrare quelli autoctoni giudaico-cananei che trattano della preistoria, fin dalla creazione dell’uomo, e della più antica storia; e quanto a questi, si tratta di epopee come quella sull’empio re Saul nel primo libro di Samuele, che verrà a simboleggiare diversi cattivi sovrani di molto successivi eredi dei giusti, o meglio dei giustificati da Dio, Davide e Salomone; e si tratta di romanzi come quello su Giuseppe venduto dai fratelli che finirà nel libro della Genesi, mentre altri racconti hanno un certo qual fondo storico e contengono frammenti di codici giuridici comuni a tutto l’antico medio Oriente.

Verso il 1000 a.C. non solo in Canaan-Palestina ma pure in altre zone del medio Oriente, in Grecia e lungo le coste dell’Asia minore, ogni gruppo d’invasori e quindi ogni città da essi fondata, tante volte non più grande d’un paio di campi da calcio moderni e con poche centinaia d’abitanti, ha leggi proprie. In varie zone conquistatori e autoctoni convivono anche se in certe aree, come nel Peloponneso in Grecia, l’intera popolazione dei vinti (iloti) è schiava dei vincitori (spartani), mentre Canaan conosce invece la schiavitù personale. Accade che una città o un gruppo ancora seminomade conquisti le zone dei vicini ma le perda dopo breve tempo. Una terra, dopo essere stata unificata, è di norma, più presto che tardi, di nuovo smembrata da capi militari ostili al sovrano, come succede al regno di Salomone che, alla morte di questo monarca, viene diviso nei due reami d’Israele e di Giuda. Un regno è identificato soprattutto dalla capitale, nel caso da Samaria per Israele e da Gerusalemme per Giuda, mentre le zone non urbane restano più o meno tribali e non si considerano soggette al re locale. In Palestina questo vale per le terre lasciate a pascolo e per i primitivi terreni agricoli tenuti a maggese un anno sì e uno no per la metà della loro estensione, zone che vengono occupate periodicamente da tribù di pastori seminomadi che si considerano indipendenti dal re e superiori a chiunque, a parte il loro capo-clan, e le cui greggi danneggiano le confinanti coltivazioni; questi beduini vengono in contrasto con gli stanziali agricoltori, i quali non desiderano danni alle terre da loro coltivate e a quelle a pascolo che si accingono a mettere a coltura: la leggenda, nella Genesi, di Caino agricoltore che uccide il fratello Abele pastore (Gn 4, 1-16) deriva da tale situazione storica, idealizzata molti secoli dopo in senso religioso presentando la vittima come devota a Jahvè e il suo assassino come uomo che non ha vero rispetto per Dio, al quale offre in sacrificio primizie scadenti: gli Ebrei, pur provenendo da entrambe le categorie, si considerano anzitutto discendenti delle antiche tribù di pastori, simboleggiate da quelle patriarcali di Abramo, Isacco e Giacobbe, e la figura di Abele è dunque quella positiva..



Non sarà più così, socialmente, ai tempi di Cristo: i pastori saranno considerati fra i più impuri degli esseri umani, impossibilitati a redimersi a causa della loro stessa professione. Il vangelo di Luca, nella sua difesa dei poveri, e per abbattere tale preconcetto, li presenterà come i primi accorsi, per volontà divina, a rendere omaggio al Bambino Gesù (Lc 2, 8-20); l'episodio potrebbe peraltro essere storico, pur avendo religiosamente e socialmente in quel vangelo anche una valenza simbolica.



I Patriarchi sono figure simbolo d’Israele che si rifanno agli antichi, anonimi ma concreti, capi tribù seminomadi di Canaan che si spostavano stagionalmente con le greggi in terre esterne, fondatori, secondo la tradizione, dei luoghi sacri della Palestina e che gli Ebrei, dopo aver sconfitto i precedenti abitanti, avevano accolto come i propri illustri antenati. Il fenomeno della mitizzazione degli antichi è generale in quei secoli, non riguarda il solo popolo giudeo: ad esempio, Roma identificherà nel mitico fondatore re Romolo i capi di clan di pastori, poi agricoltori, stabilitisi nella zona costruendovi primitive capanne. I patriarchi e le loro famiglie sono pastorali come, molti secoli dopo, i membri delle tribù protagoniste della liberazione dall’Egitto che divengono idealmente, nel libro dell’Esodo, i diretti discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe, quest’ultimo chiamato a un certo punto da Dio, secondo la Genesi, col nuovo nome Israele, vale a dire fatto simbolo dell’intero popolo giudeo: chiaro è il patriottico fine politico-religioso del redattore che scriverà di queste cose solo nel V secolo a.C., dopo il ritorno dall’esilio babilonese. Il forse leggendario Giacobbe-Israele, stando al capitolo 46 della Genesi che è più o meno contemporaneo dell’Esodo, e stando alla cronologia biblica, era immigrato 470 anni prima della liberazione dall’Egitto nelle terre del faraone con tutta la famiglia, le greggi e le tende per sfuggire a una carestia. È però interessante notare, in funzione della possibile storicità dell'evento, che testi egizi dei primi secoli del II millennio e altri del XIII secolo a.C. affermano che a beduini asiatici provenienti dalla terra di Palestina, che intendevano scampare a carenze di cibo, a titolo di eccezionale favore era stato concesso d’entrare in Egitto con le loro greggi perché potessero mantenersi in vita (cfr. “L’antico vicino Oriente - Egitto”, in Storia del mondo, Vol. I, Arnoldo Mondatori Editore, 1973).

In Palestina, per oltre due secoli gli Ebrei combattono coi confinanti, che tentano invasioni, e con tribù non ebree stanziate sullo stesso territorio. Non si tratta di vera e propria guerra ma piuttosto d’incursioni occasionali di piccoli gruppi e di guerriglia in difesa, e sono episodi che entreranno nel libro dei Giudici, basato su figure di capi popolo scelti da Dio, di volta in volta, per condurre Israele in battaglia; e un simile caso tornerà nel primo libro di Samuele con al centro la figura del re leggendario Saul e di suo figlio Gionata, comunque i capi tribù del tempo in realtà si chiamassero, sconfitti e morti combattendo i Filistei dopo averli provvisoriamente battuti: prima il favore di Dio e la vittoria sui nemici, poi il peccato e la sconfitta. I Filistei durante le età dei Giudici e di Saul, tra scaramucce d’alterno segno dominano di fondo la Palestina, fino a quando non restano sconfitti definitivamente dalle bande degli “uomini possenti” del pastore guerrigliero, e poi primo re storico delle terre di Giuda e Israele, Davide.

Suo figlio Salomone riesce a ricavare dal suo popolo, e soprattutto dai piccoli contadini, quanto basta per costruire a Gerusalemme il proprio palazzo e il tempio di Jahvè, riuscendo pure a mantenere una ricca corte e a fortificare città strategiche contro possibili invasioni. Dopo di lui, come sappiamo, il regno si divide: tribù ebraiche della zona settentrionale si ribellano e fondano il separato reame d’Israele con capitale Samaria. Non molto dopo si rivoltano pure alcune delle popolazioni soggette al superstite regno di Giuda e una parte di quest’area meridionale viene ulteriormente frazionata in piccolissimi stati tribali. La ragione di entrambe le ribellioni potrebbe essere di ordine fiscale, dato che a causa del lusso della corte il popolo, e per primi i piccoli contadini, è tartassato. La storia non insegna e la situazione si ripete coi sovrani successivi. Durante i regni di Ozia di Giudea e di Geroboamo d’Israele, il profeta Amos proclama che Jahvè sta per distruggere gli oppressori dei poveri e un altro oracolo di Dio, Osea, ripete l’ammonimento. Comincia adesso a tracciarsi la figura misericordiosa di Jahvè, che s’affina negli scritti dei profeti Isaia e Michea: Dio si manifesta agli Ebrei come colui che, in primo luogo, protegge assolutamente i poveri contro i soprusi: siamo verso la fine dell’VIII secolo a.C.



Quanto a Isaia, almeno tre sono gli autori che scrivono sotto questo nome. Il primo è l'Isaia persona fisica, detto Proto Isaia; egli è nato probabilmente a Gerusalemme e la sua vocazione profetica si manifesta attorno al 740 a.C., anno di morte del re Ozia. Gli altri scrivono in tempi successivi e la tradizione ha poi attribuito i loro scritti a Isaia. Nel complesso, il libro intestato a Isaia è scritto tra il 740 e il 445 a.C.

Scrive il Proto Isaia (Is 1, 13-17), proponendo quel primato della carità sul culto che già lascia intravedere il Dio di Gesù che è totalmente al servizio degli esseri umani:



“Smettete di presentare offerte inutili,

l’incenso è un abominio per me;

noviluni, sabati, assemblee sacre,

non posso sopportare delitto e solennità.

I vostri noviluni e le vostre feste

io li detesto,

sono per me un peso;

sono stanco di sopportarli.

Quando stendete le mani,

io allontano gli occhi da voi.

Anche se moltiplicate le preghiere,

io non ascolto.

Le vostre mani grondano sangue.

Lavatevi, purificatevi,

togliete il male delle vostre azioni

dalla mia vista.

Cessate di fare il male,

imparate a fare il bene,

ricercate la giustizia,

soccorrete l’oppresso,

rendete giustizia all’orfano,

difendete la causa della vedova”.



Scrive il profeta Amos(Am 5, 21-24):



“Io detesto, respingo le vostre feste,

e non gradisco le vostre riunioni;

anche se voi mi offrite olocausti,

io non gradisco i vostri doni.

E le vittime grasse come pacificazione

Io non le guardo.

Lontano da me il frastuono dei tuoi canti,

il suono delle tue arpe non posso sentirlo!

Piuttosto scorra come acqua il diritto

e la giustizia come un torrente perenne”.



Quanto al profeta Michea, egli dalla Giudea assiste a grandi eventi, anzitutto alla guerra tra i regni ebraici di Giuda e Israele e all'invasione della Galilea da parte dell'esercito assiro con la presa di Samaria e la sconfitta del regno d’Israele. Condanna aspramente sacerdoti e falsi profeti e attacca con veemenza i ricchi proprietari di latifondi, i quali opprimono e sfruttano senza compassione i poveri, tra cui anzitutto i braccianti agricoli e i piccoli proprietari. Denuncia la corruzione delle città, in primo luogo di Gerusalemme che rende simbolo della corruzione dei vertici religiosi e politici e dei funzionari governativi. Come contemporaneamente Amos in Israele, Michea prédica la giustizia di Jahvè e richiede a suo nome un comportamento concretamente onesto e non solo di giustizia formale: Dio richiede che, sul suo stesso esempio, si eserciti la pietà (Mi 6, 8).

È interessante notare che Michea presenta una delle profezie più chiare sul Messia, figura che il Nuovo Testamento identificherà con Gesù Cristo (Mi 5, 1-14): afferma ch’egli nascerà a Betlemme, non sarà un angelo ma un essere umano, originerà dal passato più lontano, si circonderà d’un gruppo di uomini retti, si prenderà cura dei miseri e fonderà un universale regno di giustizia, pace e benessere (Mi 4,1-5) di cui sarà sovrano Dio stesso e in cui le lance diverranno falci e le spade aratri perché non ci saranno più guerre; questo simbolicamente; in sostanza, un regno ultraterreno di Pace e cioè la Vita eterna in Dio dei beati.









Profeta Michea, tempera grassa su tavola, àmbito veneto, primo quarto secolo XVI


Sulle mentalità politeista ed enoteista presso gli Ebrei (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)



Prima della schiavitù babilonese gli Ebrei sono attirati dal politeismo: convivendo stirpi e religioni diverse sullo stesso territorio palestinese, non c’è affatto da stupirsene. Molti adorano, a lato di Jahvè, dèi della terra e, in generale, della fertilità; per primi un Padre El che arriva nelle menti di certuni a confondersi con Jahvè, una Madre Asherah, equivalente alla babilonese Ishtar, a sua volta corrispondente alla fenicia Astarte e da taluni ritenuta la moglie di Jahvè stesso, e i loro figli Anath e Baal, nome il secondo dal plurimo significato di Marito, Signore, Padrone; quest’ultima divinità è la più onorata e blandita, da certuni maggiormente di Jahvè. Gli Ebrei erigono loro statue e stele e offrono sacrifici, addirittura nel cortile del tempio costruito da Salomone. S’innalzano inoltre pietre di culto, davanti a una porta di Gerusalemme intitolata a Giosuè, persino ai pelosi, divinità inferiori dei campi simili ai boschivi fauni dei Greci. Vari sovrani sono conniventi o peggio; è idolatra Geroboamo, primo re d’Israele dopo la dissociazione da Giuda delle terre del nord: è scritto in 2 Cronache che “Geroboamo aveva stabilito suoi sacerdoti per le alture, per i demòni e per i vitelli che aveva eretti” (2 Cr 11, 15); nell’originale ebraico era detto precisamente che si trattava di statue di pelosi e di vitelli.

Nel corso del tempo cadono mali sul popolo ebraico, ed ecco sorgere nell’ambiente profetico l’idea, che si rifletterà sulla Bibbia, che Jahvè punisca quegl’idolatri dei suoi sudditi: sudditi perché il solo re d’Israele è Dio mentre Davide e i successivi sovrani sono suoi delegati, vice re. Il profeta di turno leva quindi la voce perché si cessi d’adorare divinità estranee, ma sempre invano, e i castighi divini arrivano di nuovo puntuali, tante volte nella forma d’una sconfitta in guerra. Adorare gli dèi di altri popoli è una prassi talmente viva in Israele che ci vorrà infine la punizione enorme, come verrà intesa, della deportazione in terra babilonese perché l’intero Israele giunga all’idea di Dio unico e solo.

Si forma nel IX secolo a.C. un movimento, diretto dai profeti Elia ed Eliseo, particolarmente duro contro il politeismo e che giunge all’omicidio di sacerdoti e di profeti delle divinità straniere. Questo partito ispira, a fini religiosi, una rivoluzione nel regno d’Israele verso l’840 a.C., tuttavia il movimento non riesce ad affermarsi, restando assai minoritario. Da parte sua già il re Asa (circa 913-873 a.C.), nipote di Salomone, aveva combattuto, vanamente, la mentalità politeista. Poi interviene un fatto nuovo e critico, la dominazione assira.



Nell’VIII secolo prima di Cristo l’Assiria, sotto Tiglatpileser III re dal 744, da regno s’è fatta impero conquistando molti stati e instaurandovi suoi governatori e la pratica di deportare parte delle popolazioni vinte sostituendole con altre: gli Assiri si sono rivolti a nord verso Urartu, a sud hanno conquistato Babilonia, che già era stata loro in passato, ad est hanno vinto la Media, a nord si sono espansi verso le zone mediterranee; finalmente sconfiggono il regno d’Israele e, subito dopo, l’Egitto.



Nel 721 a.C. il re assiro Sargon II ha conquistato la capitale d’Israele Samaria. Deporta dunque“gli Israeliti in Assiria destinandoli a Chelach, alla zona intorno a Cabor, fiume del Gozan, e alle città della Media” (2 Re 17, 5 s). Sulle terre di Samaria trasferisce altri popoli da regioni distanti dell’impero, che unendosi col residuo non deportato della nazione israelita costituisce la popolazione che sarà detta samaritana, malvista dagli Ebrei ancora al tempo di Gesù perché considerata bastarda:: con tale termine gli Ebrei definivano i supposti discendenti di padri ebrei e madri non ebree; la cittadinanza giudaica e lo stato di ebreo si acquisiva da parte di madre, e ancor oggi nello Stato d'Israele è ebreo chi ha madre ebrea. Le dieci tribù del nord sono dunque assorbite da altri popoli mentre alcuni dei componenti scendono nel sud e s’aggregano a Giuda.



La dodicesima tribù, discendente dal figlio di Giacobbe di nome Levi, era quella sacerdotale (cui erano appartenuti Aronne e Mosè) e, a differenza delle altre undici, non aveva avuto in assegnazione un particolare territorio dopo la conquista della Terra Promessa.

Al tempo di Gesù i leviti saranno gli aiutanti dei sacerdoti, costoro ormai della ristretta classe dei sadducei e sedicenti eredi dell’antico sommo sacerdote Sadòq (o Sadùq) di epoca davidica.



Ecco che in tutte le zone sottomesse dagli Assiri, e dunque anche nei territori ebraici, si rinforza il culto per il dio nazionale, mentre in particolare nel sopravvissuto regno di Giuda si fortifica il partito politico-religioso del culto esclusivo a Jahvè, il quale è però ancora considerato il primo tra gli dèi (enoteismo), non il solo e unico Dio. Inoltre, poiché Jahvè è ormai inteso da quel movimento come la Divinità che in modo particolare gradisce e protegge i poveri, s’alza la richiesta d’una riforma legislativa a loro favore. Un giurista di Gerusalemme, Saban lo scriba, propone un nuovo codice, che comprende tanto la proibizione d’adorare altri dèi quanto miglioramenti a favore del popolo indigente. Lo chiama Legge di Jahvè. Non è certo s’egli lo presenti espressamente come il Documento dell’alleanza mosaica, comunque Saban afferma che il rotolo di questa Legge è stato ritrovato dal gran sacerdote Elcia nel 621 a.C., nei labirinti sotterranei d’un santuario posto nel tempio gerosolomitano, luogo sacro già dedicato a Jahvè ma dov’era stato in seguito eretto un altare pagano; in tal modo il giurista presenta la Legge al re Giosia, sovrano salito al trono in giovanissima età e che regna in un periodo (640-609 a.C.) nel quale il nuovo impero babilonese sta ormai per sostituire quello assiro. È possibile che Saban abbia messo per iscritto una tradizione orale e poi, d’accordo con Elcia, l’abbia presentata come antico documento ritrovato nel tempio. In ogni caso il sovrano accetta come autentico questo libro, dopo ch’è stato convalidato da una profetessa: è un materiale che confluirà durante e/o nel dopo esilio nel libro del Deuteronomio, soprattutto nei capitoli da 12 a 26 e nel 28: in detto libro, influenzato dal profetismo pre-esilico, risuonerà la primitiva legislazione di Giuda col basilare appello morale di tutelare i rapporti di fratellanza e uguaglianza tra i membri della società.



All’opposto estremo, in un altro testo del Pentateuco che è espressione del gruppo elitario sacerdotale, il Levitico, (v. di questo saggio il capitolo II - LE BASILARI TRADIZIONI VETEROTESTAMENTARIE (#litres_trial_promo)), sarà in primo piano l’esigenza della purezza, identificandosi l’etica con la purità rituale e legale; e sarà il codice levitico più che l’idea di giustizia deuteronomica a rimanere prioritario in Israele, ancora al tempo di Cristo.



In conseguenza del ritrovamento, Giosia tenta una riforma monoteista, o più verosimilmente enoteista, ramazzando via dal suo regno negromanti e indovini e abbattendo idoli. Si tratta d’una gran riforma religiosa, culturale e politica che però non entra nel cuore d’Israele: quando il sovrano viene sconfitto e muore in una guerra contro re Neco II di Siria, un fatto considerato di malaugurio, il regno di Giuda torna al politeismo, fatto che i profeti Geremia ed Ezechiele bolleranno come causa della sua rovina, anche se non sarà in loro assente la speranza e annunceranno tempi nuovi e migliori.



Così Geremia, essendo caduta Gerusalemme per opera dell’esercito babilonese, profetizza: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l'alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31, 31-34); ed Ezechiele durante l’esilio a Babilonia scriverà quale voce di Dio: “Poi verserò sopra di voi acqua pura e diventerete puri. Io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri atti di idolatria, e vi darò un cuore nuovo metterò in voi uno spirito nuovo, toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, metterò in voi il mio Spirito” (Ez 36, 25-27).



Mentre questi profeti annunciano la liberazione politica degli Ebrei dalla servitù in Babilonia, il Cristianesimo, andando oltre le loro umane intenzioni, vedrà nei loro testi ispirati gli annunci di Cristo Salvatore, portatore della nuova e definitiva alleanza; nel vangelo Gesù si riferisce a Geremia dopo aver benedetto il pane eucaristico: “[...] allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è sparso per voi” (Lc 22, 20).









Gebhard Fugel, Sulle acque di Babilonia, Museo Diocesano, Freising


Le deportazioni a Babilonia (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)



Il regno di Giuda cade sotto l’influsso di Babilonia e, in conseguenza del rifiuto nel 598 a.C. del re Jojaqim, figlio di Giosia, di rimanere sotto quest’influenza, l’anno successivo la capitale Gerusalemme è assediata dal re Nabucodonosor. Dopo pochi mesi, essendo morto Jojaqim, forse assassinato da alcuni dei suoi nella vana speranza che il sovrano invasore togliesse l’assedio, suo figlio Jojaqin (o Jeconia) s’arrende (2 Re 24,12) e, come riferisce il libro del profeta Ezechiele (Ez 17), viene deportato a Babilonia nel 597 (o 596) a.C. con la famiglia, i maggiori membri dell’aristocrazia, i guerrieri, gli eunuchi di corte nonché i fabbri e gli altri operai specializzati; il secondo libro dei Re (2 Re 24, 14-16) precisa che gli esiliati sono collocati in varie località, soprattutto a Tel Arsa, Tel Abib, Addam, Kerub, Kasifya e Immer, lungo le sponde del fiume Kebar, nei pressi dell’antica città, ormai in semi rovina, di Nippur..



Nippur era stata eretta dai Sumeri nel sud della Mesopotamia e aveva avuto la massima espansione nel III millennio prima di Cristo grazie all'importanza del tempio in onore del dio Enlil. Era stata semiabbandonata verso l’anno 1000 e avrebbe avuto nuova fortuna solo secoli dopo l’esilio ebraico, nel III secolo a.C., sotto i Parti.



Si tratta di quei luoghi della Mesopotamia meridionale su cui sorgeva la città di Ur dei Caldei dalla quale, secondo la tradizione e come sarebbe stato riportato per iscritto, nel V secolo, nel libro della Genesi, aveva preso le mosse il capostipite degli Ebrei Abramo, in conseguenza della chiamata di Dio (Gen 17, 1-14).

Ezechiele (circa 628 – 570 a.C.), figlio di sacerdote e destinato a divenire tale, viene deportato nel corso di quest’ondata assieme al re Jojaqin. Poiché la carica sacerdotale si può esercitare solo dai trent’anni ed egli compirà quest’età essendo già in esilio, a differenza del padre non sarà mai sacerdote; diviene però profeta. Cerca d’infondere nei compagni la fede nella redenzione d’Israele, che storicamente sarebbe avvenuta una sessantina d’anni dopo, per decisione del re Ciro II di Persia. Il lungo libro d’Ezechiele è in tre parti. Nella prima sono denunciati i peccati d’Israele che portano al castigo di Dio con la caduta di Gerusalemme (capitoli 1-24). La seconda comprende l'annuncio della disgrazia in cui incorrono le nazioni idolatre (25-32). Infine, nell’ultima parte (33-48), Dio incarica Ezechiele di esortare gli Ebrei alla conversione dai peccati e di annunciare una nuova Gerusalemme. Intanto il regno di Giuda è lasciato formalmente in vita sotto il re fantoccio Mattania, zio di Jojaqin, cui Nabucodonosor cambia il nome in Sedecia come segno di sottomissione (2 Re 24,17). Il sovrano babilonese mantiene parte del suo esercito a presidiare Giuda. Il debole re, influenzato da una corte antibabilonese e avendo difficoltà a pagare il pesante tributo a Babilonia, si ribella approfittando del fatto che il faraone egiziano Hofra ha inviato una spedizione contro Nabucodonosor per conquistare terre confinanti e questi ha di necessità allontanato truppe. L’Egitto è sconfitto , Nabucodonosor muove contro Gerusalemme e la città viene vinta, saccheggiata e data alle fiamme; le mura e il tempio vengono distrutti (2 Re 24-25; Ger 39; 2 Cr 36). Una notevole parte della popolazione, come riferisce la Bibbia in 2 Re e in Geremia (2 Re 25, 8-21 e Ger 52) è portata con la forza in Babilonia in un’ulteriore deportazione che riguarda la nuova classe aristocratica e chiunque si sia schierato col re Sedecia; questi è accecato, deportato a sua volta e imprigionato, dopo aver visto uccidere tutti i suoi figli, ammazzati perché non abbia più discendenza.

In Giudea e in quanto resta della sua capitale rimangono gli ebrei poveri, alla cui guida è posto il re fantoccio Godolia, già primo ministro e traditore filo babilonese. Non molto tempo dopo questo sovrano viene assassinato e il regno di Giuda, da questo momento, non è più tale, il territorio diviene, anche formalmente, soggetto a Babilonia. Secondo il profeta Geremia si assiste inoltre, negli anni 582/581 a.C., a un’altra deportazione che riguarda certi palestinesi che avevano tentato un’estrema resistenza in connivenza con moabiti e ammoniti (Ger 52,30).

Insomma, una larga parte del popolo ebraico, a causa delle successive deportazioni, vive ormai in esilio, comunemente detto la servitù babilonese.

L’esilio crea una netta separazione nella storia religioso-politica d’Israele.

In Giudea coloro che restano continuano il culto dov’era sorto il tempio, mantenendo diretti legami col passato, e non è del tutto esclusa la composizione biblica: forse tra i rimasti in patria e non fra gli esiliati nasce il libro delle Lamentazioni, opera d’ignoto autore erroneamente attribuita in passato a Geremia, cinque componimenti poetici scritti secondo lo stile e il ritmo degli antichi canti funebri giudaici, in cui si riflette il tormento per la perdita dei cari esiliati o uccisi, per la scomparsa della nazione e la devastazione della capitale e del tempio, per il venir meno del sacerdozio e dei sacrifici rituali.



Si tratta d'un particolare ritmo funebre, detto kinah, in cui manca un elemento: si tratta d’un artificio stilistico per evidenziare la mancanza della persona scomparsa, in questo caso la città di Gerusalemme personificata.



Quanto ai deportati, all’inizio quegli stessi pensieri e la personale sofferenza dell’esilio li mettono in grave crisi; tuttavia la forza della tradizione giudea, sia orale sia espressa per iscritto nei testi dei profeti antichi e in una prima stesura dell’opera del Deuteronomista, fonte biblica di cui parlerò nel prossimo capitolo, testi portati seco da sacerdoti e scribi, rende il luogo e l’epoca, nella riflessione teologica dei deportati espressa in primo luogo da Ezechiele e, verso la fine dell’esilio, dal Deutero Isaia autore dei capitoli da 40 a 55 del libro d’Isaia, estremamente favorevoli a una maturazione della fede d’Israele. La servitù babilonese è a un certo punto concepita dai più colti come costruttiva ira del Signore, rivolta non tanto a punire le colpe, vale a dire la noncuranza per il Dio d’Israele d’una parte degli Ebrei e addirittura l’idolatria di altri, ma a causare il positivo pentimento e il ritorno al pieno culto per Jahvè.



Gli esuli sono normalmente seguaci della fonte biblica Deuteronomista, influenzata dai profeti pre-esilici egualitari e filo-popolari, ma tra essi non si trova il profeta Ezechiele che non solo ha un vocabolario e uno stile differenti, ma pure idee legali dissimili, le quali passano a un gruppo di seguaci, i cui studi confluiranno, dopo il ritorno a Gerusalemme, nella scuola teologica sacerdotale, composta da raccoglitori e studiosi di tradizioni in funzione del futuro, ai quali dobbiamo scritti come il libro del Levitico e la storia della Creazione nel primo capitolo della Genesi. L’idea di Jahvè il Creatore ha grande importanza anche nel Deutero Isaia, che concepisce inoltre la scena di Jahvè, assiso sul trono nei cerchi celesti, che dichiara solennemente d’essere il primo e l’ultimo e che al di fuori di lui non c’è altro iddio, perché gli dèi d’altri popoli sono solo idoli di pietra o di legno che non possono danneggiare né aiutare nessuno: un chiaro passaggio dall’enoteismo al monoteismo.



Nel formarsi d’un rigoroso monoteismo, viene creandosi la tradizione spirituale del popolo eletto da Jahvè che si riflette per iscritto nei nuovi profeti e si rispecchierà nel Pentateuco, nei sei libri storici a seguire e in salmi.

Dunque Babilonia diviene il luogo della salvezza: entra nella coscienza collettiva l'idea che Dio ha punito Israele per il suoi peccati d’idolatria e indifferenza verso di lui solamente perché meditasse. Nasce, in altre parole, una più raffinata concezione di Dio, ci si rende conto che non s’è trattato di vera ira divina, bensì d’affezione per quel suo popolo eletto che Jahvè ha voluto si crogiolasse nel dolore solo perché tornasse a lui. In questi anni s’acquista una nuova conoscenza di Dio scoprendo che la storia del popolo ebraico è interamente storia salvifica guidata da lui. Sorge la convinzione che Jahvè ha voluto gli Ebrei nella stessa terra che, secondo le tradizioni orali, era stata di Abramo, perché dopo l’espiazione Israele seguisse le orme del patriarca: i profeti Ezechiele e Deutero Isaia ragionano sul passato e intendono non solo che la servitù babilonese, come tutti i mali precedenti, ha una causa precisa, il peccato d’idolatria di Israele, ma pure un fine provvidenziale, la sua purificazione per il ritorno a Dio, per una nuova creazione, un nuovo esodo verso Canaan, una novella alleanza dopo quella sul Sinai e un nuovo regno di Gerusalemme. Il dolore serve a redimere, come viene espresso dal Deutero Isaia nei carmi del Servo di Jahvè, un concetto che avrà il suo culmine in Gesù Cristo. Dopo aver compreso che l’amore divino per Israele non è venuto meno, i profeti in esilio cominciano inoltre a capire che bisogna essere i testimoni di Dio, anzitutto, con un comportamento esemplare anche al fine di convertire gli altri popoli alla fede in lui: Jahvè non solo vuole rinnovamento e vita per Israele, ma desidera che siano estesi a tutto il mondo, ciò che si compirà secoli dopo con Gesù e la sua Chiesa evangelizzatrice.

Cristo, con un richiamo ai carmi del Deutero Isaia, verrà presentato nel vangelo come l’innocente servo di Dio che soffre per la salvezza di tutto il genere umano: così come il popolo ebraico, analogamente al Servo di Jahvè, ha penato per la schiavitù babilonese in funzione della liberazione e del ritorno a Gerusalemme, così soffrirà il Servo di Jahvè-Gesù per liberare gli uomini dalla schiavitù al peccato e indirizzarli alla Nuova Gerusalemme, il Regno di Dio: “Ed egli – il Risorto – disse loro – ai due discepoli che, non credendo più, stavano fuggendo verso Emmaus dopo la sua crocifissione e morte –: 'Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella gloria?'”(Lc 24, 25 s).

La liberazione dall’esilio babilonese è recepita religiosamente come il segno divino del perdono (Ez capitoli da 41 a 48. V. anche Esdra, 1, 1-9); essa è attribuita teologicamente all’intervento di Jahvè nel cuore di Ciro l’affrancatore che il Deutero Isaia chiama amico di Dio, suo eletto e suo pastore: il regno di Nabucodonosor non era stato longevo, verso il 539 a.C. Ciro II di Persia aveva conquistato Babilonia e, quindi, la Palestina era divenuta tributaria del suo grande impero. Il sovrano, persona dalla mente piuttosto aperta a differenza del re babilonese che aveva cercato d’eliminare l’identità ebraica, essendo conscio che la tolleranza può favorire l’ordine rispetta le culture dei popoli soggetti (2 Cr 36, 23): “Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, a compimento della parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia, che fece proclamare per tutto il regno, a voce e per iscritto: Dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è di Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!” Come si vede, l’autore immagina un Ciro semplice strumento di Dio.



nche altrove nella Bibbia dei sovrani pagani sono presentati come inviati di Jahvè, ma per punire popoli avversari d’Israele, che essi sconfiggono. Ad esempio in Ezechiele tale incarico, contro gli Egiziani, è dato da Dio a Nabucodonosor (cfr. Ez 29, 17-20).



Già nel 538 a.C. l'illuminato Ciro concede agli israeliti deportati che lo desiderino di rientrare nella loro terra, in ogni caso a lui soggetta. Non tutti scelgono di tornare, essendo passati tanti anni e trattandosi della seconda e terza generazione, ormai radicate in Babilonia, in parte i deportati scelgono di restarvi come liberi sudditi di Ciro. Il ritorno di chi sceglie il rimpatrio è a tappe, riguarda vari gruppi e si svolge in un periodo di oltre un secolo. Intanto il re, per ingraziarsi maggiormente il popolo ebraico e meglio assicurare l’ordine sociale, comanda addirittura la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e la ripresa del culto, restituendo gli arredi sacri rubati a suo tempo da Nabucodonosor. Al giudeo Sesbassar, discendente della casa di Davide, l’imperatore dà autorità e lo incarica di ricostruire il tempio. Egli accetta con entusiasmo, ma l’opera si rivela assai difficile e non procede. Inoltre ostacoli sorgono dagli altri abitanti del luogo: Gerusalemme si trova compresa nella Prefettura di Samaria, governata per conto dei Persiani da certi ebrei considerati impuri dai rimpatriati perché ritenuti discendenti da donne non giudee, in senso etnico-religioso considerati bastardi, persone che non solo sono restie a collaborare ma si mostrano, per reazione, nemiche. Dopo vent’anni, invece del nuovo tempio c’è ancora un cumulo di macerie: evidentemente l’entusiasmo per la ritrovata, sia pur entro certi limiti, libertà non è durato a lungo presso il popolo. Per qualche tempo, scomparso dalla scena Sesbassar, la Persia nomina re-vassallo Zorobabele, anch'egli discendente di Davide, che ritorna a Gerusalemme al comando d’un secondo gruppo di rimpatriati. I profeti Zaccaria e Aggeo confidano in lui (Zc 6, 9 ss; Ag 2, 20 ss), sperano che ricostruisca finalmente il tempio, ma invano. Dopo Zorobabele anche il potere politico passa, di fatto, ai sacerdoti, il primo dei quali ha nome Giosuè (come l’antico delfino di Mosè, ma non necessariamente così chiamato dai genitori in sua memoria, perché Joshua - o Jeshua -, in italiano Giosuè o Gesù, era nome assai comune presso gli Ebrei.





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Saggio di taglio storico. Nota comune fra Antico e Nuovo Testamento è il governo della storia da parte di Dio: secondo il sentire degli scrittori veterotestamentari, la Parola si rivela progressivamente nei secoli attraverso fatti storici i quali inducono alla riflessione teologica.

Il taglio dell'opera è storico. L’autore considera che la nota comune fra l'Antico e il Nuovo Testamento è il governo della storia da parte di Dio e che la Parola, secondo il sentire degli scrittori veterotestamentari, si rivela progressivamente nei secoli attraverso fatti storici, i quali inducono alla riflessione teologica. Il saggio tratta di Dio-Amore, già presente nell'Antico Testamento anche se non ancora nettamente come nel Nuovo. Dopo una premessa sull'influenza della storia sulla Bibbia, l'autore retrocede, rispetto all’epoca di Gesù, fin al 1200-1000 a.C., secoli in cui sorge in Palestina una prima tradizione orale che si rifletterà nella Bibbia. Passando per i duecento anni successivi, quelli dei primi re, egli discende ai secoli VIII – VI a.C., in cui sono scritti gl’iniziali testi profetici, in certe parti già annunciatori del Dio amoroso, ed è steso un abbozzo del Deuteronomio, anticamente perduto e ritrovato nel tempio nel 622 a.C. sotto il re Giosia: nel Deuteronomio Jahvè è Dio della Legge, difensore anzitutto del popolo minuto e in particolare dei poveri, a differenza di quello formalista-legalista, in primo luogo desideroso di culto, del libro Levitico. L'autore parla quindi della deportazione a Babilonia del popolo d’Israele, dell’età della liberazione e del rimpatrio e della successiva costruzione del secondo tempio. Tratta poi di quel lungo periodo, detto in senso stretto del Giudaismo, che inizia nel VI secolo a.C. giungendo a oltrepassare d’un quarantennio il tempo di Gesù, periodo in cui si mette per iscritto la maggior parte dell’Antica Scrittura giunta a noi: è questa un’epoca essenziale per la formazione della coscienza politico-religiosa giudaica e per l’abbandono definitivo del politeismo. L'autore parla poi delle tradizioni che gli studiosi considerano fonti sia del Pentateuco, sia dei successivi sei libri biblici detti storici anche se non esenti da idealizzazioni, secondo il modo antico, apologetico, di fare storia. Torna quindi ancora indietro nel tempo per discendere quindi nuovamente verso gli anni di Gesù di Nazareth, trattando del politeismo presso gli Ebrei, del primo monoteismo (non giudaico ma ideato, per ragioni meramente politiche, dal faraone Akhenaton), della miglior comprensione dell’amore di Dio da parte d’Israele, della nascita della speranza in un messia profeta, sacerdote, re e del sorgere dell’idea della vita eterna. La ricerca teologica del popolo ebraico, che secondo i fedeli è ricerca divinamente ispirata, scopre sempre più nel tempo un Dio diverso da quelli pagani prima adorati dagli Ebrei accanto a uno Jahvè che mostrava a sua volta l’inquietante caratteristica di voler essere temuto e servito pena gravi castighi. Finalmente, o parallelamente considerando le anticipazioni d’Osea e di qualche altro profeta, la ricerca religiosa arriva alla consapevolezza d’uno Jahvè fondamentalmente amoroso, di quel Dio cioè che sarà pienamente rivelato da Gesù come il puro Amore.

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