Книга - Il Terrore Privato Il Terrore Politico

a
A

Il Terrore Privato Il Terrore Politico
Guido Pagliarino


Nell'anno 2000 il vecchio questore emerito D’Aiazzo, affiancatosi al commissario Sordi suo ex dipendente, investiga in funzione di consulente della Questura torinese su una serie di omicidi che si presentano sì come l'opera nichilista d'un sadico assassino seriale o quali sacrifici al diavolo d'una delle sette sulfuree della Torino macabro-stregata, ma potrebbero avere, anche o soltanto, cause legate a quel terrorismo che aveva imperversato in Italia fino a una ventina d'anni prima e si trascina ancora a fine millennio. Il mostro sopprime orrendamente le sue vittime conficcando loro l'arma del delitto in un orecchio fin ad arrivare al cervello con esito letale. L'indagine si snoda fra inquietanti sospetti, crisi di identità, annotazioni psicologiche, e raggiunge il suo acme risolutivo nello spiazzante svelamento finale, che ha come appendice la morte del medesimo questore, come conseguenza stessa della scoperta del colpevole.

Nell'anno 2000 il vecchio questore emerito Vittorio D’Aiazzo, affiancatosi al commissario Sordi suo ex dipendente, investiga in funzione di consulente della Questura torinese su una serie di omicidi che si presentano sì come l'opera nichilista d'un sadico assassino seriale o quali sacrifici al diavolo d'una delle sette sulfuree della Torino macabro-stregata, ma potrebbero avere, anche o soltanto, cause legate a quel terrorismo che aveva imperversato in Italia fino a una ventina d'anni prima e si trascina ancora a fine millennio. Il mostro sopprime orrendamente le sue vittime conficcando loro l'arma del delitto in un orecchio fin ad arrivare al cervello con esito letale. L'indagine tocca sia temi privati, procedendo entro una varia umanità non tutta moralmente limpida, sia temi politici, economici e sociali già tipici degli anni’70 dello scorso secolo, dei cosiddetti anni di piombo, in cui la violenza politica e quella privata finivano normalmente col confondersi nella scomparsa, o quasi, del concetto di persona e nel prevalere dei ruoli sociali; e l’inchiesta  di Vittorio D’Aiazzo si snoda tra i frutti maligni di quei semi perversi, fra inquietanti sospetti, crisi di identità, annotazioni psicologiche, e raggiunge il suo acme risolutivo nello spiazzante svelamento finale, che ha come appendice la morte del medesimo questore, come conseguenza stessa della scoperta del colpevole.







Guido Pagliarino



Il Terrore Privato

Il Terrore Politico



Romanzo


Copyright © 2017 Guido Pagliarino

All rights reserved



Published by Tektime


Guido Pagliarino

Il Terrore Privato, Il Terrore Politico

Romanzo

TerzaEdizione Riveduta e Variata

Distribuita da Tektime come libro e come e-book

Copyright © 2017 Guido Pagliarino



Stesura del dattiloscritto tra il 2006 e il 2009

1a Edizione, in formato cartaceo e in diversi formati elettronici, Copyright © 2012-2013 Edizioni GDS

2a Edizione,in formato cartaceo stampato da Create Space e in e-book di vari formati, Copyright © 2016 Guido Pagliarino



Le copertine di tutte le edizioni sono state realizzate da Guido Pagliarino, Copyright © dell'autore



A parte le persone note alla cronaca e alla Storia, i personaggi, le vicende, i nomi e cognomi di persona, le denominazioni di enti e ditte e le loro sedi che appaiono nel romanzo sono immaginari. Eventuali riferimenti a persone reali fisiche o giuridiche e, in generale, alla realtà passata e presente sono involontari.


Indice



Guido Pagliarino Il Terrore Privato Il Terrore Politico Romanzo (#ulink_2f4756da-2b62-511a-bc7f-3cacfc5b2b55)

Capitolo 1 (#ulink_12f15fa5-9b79-504f-ac70-af0a4bd248a8)

Capitolo 2 (#ulink_a0b6350e-eef8-51a1-aeba-3ffe37eb2270)

Capitolo 3 (#ulink_f669803c-469a-5554-9e25-68b7a6bc8133)

Capitolo 4 (#ulink_72d61110-117f-5944-a2c3-730952125ac0)

Capitolo 5 (#ulink_560549fe-9c62-5628-96b6-26ba57e9704a)

Capitolo 6 (#ulink_356cf092-1a3a-5529-88e9-bad5aa152714)

Capitolo 7 (#ulink_351951a1-0d89-5461-82d9-76f9852b8996)

Capitolo 8 (#ulink_dfe78b08-4765-58e8-b33e-d1acb4881857)

Capitolo 9 (#ulink_e8590fd2-81c2-5e4f-9896-7cd96c650b77)

Capitolo 10 (#ulink_3adc8004-fbcd-5b78-a346-05b19878d17e)

Capitolo 1 1

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 1 5

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Capitolo 21

Capitolo 22

Capitolo 2 3

Capitolo 2 4

Capitolo 25

Capitolo 26

Capitolo 27

Capitolo 28


Guido Pagliarino (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)



Il Terrore Privato (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)

Il Terrore Politico (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)

Romanzo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)


Capitolo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)1 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)



Il Mostro dell’Orecchio, come i media l'avrebbero presto soprannominato un po' grottescamente, aveva assassinato per la prima volta in una mattina di fine settembre del 2000, vittima una signora benestante, Maria Capuò coniugata Tron, casalinga cinquantaduenne moglie d’un medico ospedaliero, ammazzata nella loro villetta collinare torinese, in strada Mongreno, mentre il marito Amilcare era di turno e la collaboratrice familiare era uscita per commissioni. La coppia non aveva figli. Il cadavere era stato ritrovato al rientro dalla governante, una filippina regolarmente immigrata, riverso sul pavimento della camera da letto. Come l’autopsia avrebbe accertato, la vittima non era stata violentata né seviziata in alcun modo, ma uccisa sveltamente, anche se in modo atroce, con un colpo secco di punteruolo affondato in un orecchio, perforandole il cerebro. Nessun disordine nella casa.

La Polizia era stata chiamata dal vedovo che, avvertito telefonicamente in ospedale dalla domestica, s’era precipitato a casa da cui aveva composto il 113.

Secondo i primi accertamenti l’omicida, dopo aver scavalcato il muretto che circondava il villino, poteva essersi introdotto nell’abitazione attraverso una delle finestre al piano terra, lasciate aperte in quel fine settembre che godeva ancora d'un clima estivo.

L’assassino, e sarebbe stata l’unica volta, s’era appropriato di gioielli custoditi in un cofanetto entro un comò nella stanza del delitto, per un valore, stimato dall’assicurazione, di trecento milioni di lire, vale a dire d’oltre centocinquantamila euro odierni.

I primi sospetti, considerando il furto, s’erano indirizzati verso la domestica, quanto meno quale possibile basista. La donna, su autorizzazione del dottor Marcello Trentinotti, sostituto procuratore della Repubblica deputato ad armonizzare le indagini sul caso, era stata fermata la mattina dopo, condotta in Questura e interrogata dal sostituto commissario Evaristo Sordi, incaricato delle indagini sul delitto dal competente direttore della Sezione Omicidi della Squadra Mobile, vice questore Giandomenico Pumpo. Il Sordi, come avrebbe relazionato al giudice, aveva rilasciato la donna verso sera per totale mancanza d’indizi.

Giorni dopo un nuovo delitto l’aveva discolpata del tutto, prospettando la diversa pista dell’assassino seriale.



Benché pensionato fin dal 1984, il mio caro e unico amico Vittorio D'Aiazzo, questore emerito, s’era voluto occupare del caso, di concerto con la Polizia in veste d'informale consulente, così come già aveva fatto, dopo il proprio pensionamento, per alcuni casi particolarmente interessanti. Il 30 aprile del 2001 Vittorio avrebbe compiuto ottantadue anni, ma l'età non gli aveva fatto perdere la verve. Non si trattava soltanto, per lui, d’un intrigante passatempo onde sentirsi ancor attivo, ma d’un “servizio di bene agli altri” come mi aveva detto una volta, “servizio che voglio continuare a svolgere per contribuire a rendere un po’ meno ingiusta quest’amorale società e, magari, un po’ meno infelice il mio prossimo”: era una delle sue maniere per obbedire a quel precetto d’amore che aveva cercato d’attuare, immagino, in tutta la sua vita e, di sicuro, da quando l’avevo conosciuto negli ormai lontani anni ’50 del sanguinario e insanguinato XX secolo che stava ormai per chiudersi senza promettere alcun miglioramento per il millennio veniente.

Ammiravo la fede esistenziale del mio amico, che ben poco aveva a che fare con la religione, se con tale parola s’intenda convenzionalmente la sudditanza e il servizio, colmo d’obblighi liturgici, a un Dio potentissimo e pretenzioso, immune dalle sofferenze umane: era una fede che s’esprimeva concretamente nel fare il bene agli altri, sull’esempio del martoriato suo Maestro evangelico che, secondo Vittorio, aveva espresso nel mondo l’amoroso sentire dello stesso Dio. “Ovviamente”, m’aveva detto una volta, “quando una persona percorre, per quanto può, la via dell’amore verso il prossimo, è impossibile che questa non continui anche dopo la morte, nell’Eterno Amore”. Purtroppo, diversamente dall’amico io non ero e non sono credente; dico purtroppo perché, non essendo più giovane, penso spesso, più che nel passato, alla morte con la sua putrefazione e, se solo il niente c’è dopo l’ultimo respiro, all’inutilità tragica della vita. Tuttavia era stato proprio tal pessimistico sentire a condurmi, sin da giovanetto, a quello stesso desiderio di giustizia che animava il mio amico, anche se per me si trattava d’una giustizia che poteva essere solo terrena; e convinto com’ero che nella tragedia cosmica in cui avevo parte, fosse almeno indispensabile la piena solidarietà fra gli umani secondo l’etica, per me intramontabile, che ha in onore ogni persona, provavo sdegno altissimo verso coloro che accorciavano coscienti il bene della vita altrui, di già tanto breve, e verso i violenti in genere che tormentavano i pochi anni concessi sulla terra agli umani; e mi trovavo del tutto d’accordo con Vittorio quando mi diceva che, sin dagli anni ’60 del XX secolo, il vivere civile s’era vie più abbrutito nell’affievolimento e infine nella perdita, in molti, dei tradizionali ideali filosofico-sociali o religiosi, onde la vita di quelle stesse persone s’era resa puro esercizio del proprio egoismo, secondo quella che il mio amico chiamava la regola del faccio quanto mi pare se mi sembra conveniente.

Vittorio aveva fatto rapida carriera fin ai primi anni '70, promosso vice questore in età ancor giovane, poi più nulla, ingiustamente; solo nel giorno del collocamento a riposo era asceso automaticamente, come previsto dai regolamenti, al superiore livello, e alla pensione, di questore.

Il mio amico non aveva né famiglia né prossimi parenti: vedovo lui da gran tempo, senza figli, e scapolo io, parimenti solitario, ci sentivamo come fratelli.

Io sono Ranieri Velli detto Ran, giornalista e scrittore e, negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, collaboratore, col grado di vice brigadiere, dell’allora commissario Vittorio D’Aiazzo nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.

Ero il più giovane dei due, veleggiavo soltanto, si fa per dire, verso i sessantotto, compleanno il successivo 1° d’agosto 2001. Come Vittorio già godevo di pensione, pur non avendo smesso l’attività d’opinionista sulla stampa quotidiana: nel più lontano passato, quando ancora non c’erano le facoltà di Scienze delle Comunicazioni e pure un non laureato, dopo il debito praticantato, poteva accedere alla carriera di giornalista, avevo lavorato alla gloriosa Gazzetta del Popolo, quotidiano torinese che, fra sospensioni e riprese nel suo ultimo decennio di vita, aveva cessato del tutto le pubblicazioni il 31 dicembre 1983; quindi ero passato ad altro foglio, La Gazzetta Libera, fondato l’anno successivo, niente a che fare con l’antecedente quotidiano omofono, anche se creato anch’esso come contraltare torinese dell’immarcescibile La Stampa che, in sostanza, significava FIAT: grazie alle sovvenzioni d’un gruppo economico che ne aveva interesse, la novella Gazzetta, sebbene non fosse mai arrivata alla buona tiratura della precedente, era giunta viva al XXI secolo.

Se Vittorio era il mio unico amico, egli godeva invece di più di un'amicizia, pur se tutte meno profonde. Anche Evaristo Sordi poteva dirsi amico di Vittorio pur non avendolo frequentato nella vita privata. Anni prima era stato suo aiutante nella Sezione Omicidi della Squadra Mobile dopo che io, suo predecessore, e scrittore part time, avevo presentato le dimissioni per dedicarmi interamente alla scrittura. Evaristo era giunto al massimo della carriera per un non laureato, alla funzione d'ispettore superiore sUPS vale a dire di sostituto Ufficiale di Pubblica Sicurezza, detto comunemente “sostituto commissario” ricoprendone le funzioni. Di non molto più giovane di me, non era lontano dalla pensione. L'uomo portava importanti baffi da tempo grigi e aveva ancora, nonostante gli anni, una gran quantità di capelli, parimenti sale e pepe. Era figura prospera, tanto quanto lo era quella del mio amico Vittorio il quale tuttavia, a differenza d’Evaristo, non era uomo d’elevata statura. Ero io il più alto dei tre e di molto, quasi un metro e novanta, e inoltre magrissimo da sempre anche se, disgraziatamente, negli ultimi anni m’ero un poco ingobbito, a causa della mia pessima abitudine, comune alle persone torreggianti, di chinarmi verso i molti interlocutori di statura minore, cominciando dallo stesso Vittorio.



Vittorio aveva saputo del primo crimine da un telegiornale della sera e, la mattina seguente, ne aveva letto con calma sul nostro quotidiano, in un articolo della capo redattrice di nera Carla Garibaldi, mia collega nubile sulla quarantina, una donna sul metro e settantacinque che, a causa d’eccessivo body building, “svolto quotidianamente” come m’aveva detto, aveva braccia e polpacci, e probabilmente cosce, un po’ troppo muscolosi per i miei gusti d’uomo della vecchia guardia. Era inoltre obiettivamente imbruttita da prognatismo mandibolare e da un naso troppo piccolo per la conformazione del suo viso notevolmente largo. Era peraltro persona di grande cultura e dal carattere franco e schivo, con la quale mi trovavo bene, a differenza che con certi spocchiosi del nostro giornale.

C’era stato mio tramite, come già per casi passati, uno scambio di notizie fra Vittorio e Carla e viceversa, con vantaggio di lei, tutto sommato, perché l’amico godeva, di solito, d’informazioni di prima mano in quanto sovente visitava in Questura il Sordi. Questi aveva già avuto, in casi precedenti, suggerimenti decisivi dal pensionato questore, per cui non era solo per deferente simpatia che soleva accoglierlo nel suo ufficio e, a volte, sui luoghi stessi dei delitti e ascoltarne i pareri. Anche nel caso del Mostro dell'Orecchio, ben volentieri, s’era tenuto Vittorio vicino.

L'amico, a volte, passava pure a trovare un altro suo ex dipendente, il vice questore Giandomenico Pumpo il quale, dopo un periodo da commissario capo alla direzione d’uno speciale reparto che s’occupava di gruppi magici, esoterici, pseudo-religiosi e satanici, la SAS, Squadra Anti Sette, sedeva allo stesso posto ch’era stato del D’Aiazzo. Pur se meno suo amico del Sordi, anche il Pumpo si lasciava strappare talora dal vecchio poliziotto qualche notizia utile alle proprie parallele indagini.


Capitolo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)2 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)



Il secondo delitto era occorso cinque giorni dopo l’uccisione della Capuò Tron, ormai ottobre: vittima Giovanna Peritti vedova Verdani, pensionata sessantenne che viveva sola in un alloggio in corso Agnelli ereditato dal marito. Aveva una figlia, ma sposata e residente ad Asti. Proprio questa ne aveva scoperto il cadavere, poco dopo le 22 dello stesso giorno dell’omicidio: ella usava telefonare ogni sera alla mamma, e quella volta non aveva avuto risposta, sebbene il telefono avesse trillato molte e molte volte dalle 19 e 30 in poi; e poco dopo le 21, la figlia, preoccupata assai ben sapendo che la madre mai usciva di casa col buio, era saltata in macchina ed era venuta a Torino. Giunta circa un’ora dopo dinanzi al palazzo della mamma e avendo sonato inutilmente al citofono, grazie alle chiavi di riserva che aveva con sé era entrata, era salita e aveva aperto l’appartamento materno, chiuso col solo mezzo giro come avrebbe poi detto alla Polizia, e accesa la luce, aveva fatto la raccapricciante scoperta della genitrice a terra cadavere nell’ingresso, con la bocca spalancata in una smorfia di dolore, gli occhi sbarrati, sangue e materia cerebrale fuoriusciti da un orecchio e un largo ematoma sulla testa.

Si sarebbe stabilito che l’ecchimosi era stata causata da un pesante vaso domestico calato sulla testa, sul quale l’anatomopatologo avrebbe trovato tracce del cuoio capelluto della vittima. Il medico avrebbe stabilito inoltre che, sicuramente, la morte era stata dovuta a un punteruolo passato per l’orecchio fin a bucare l’encefalo.

La figlia della morta, che a stento aveva fatto in tempo a lasciarsi cadere sopra una sedia, vi era venuta meno. Ripresa conoscenza, verso le 22 e 10 com’ella aveva appurato all’orologio da polso, benché ancora sotto shock era riuscita a telefonare al 113.



Verso le 23 avevo avvertito per cellulare Vittorio del nuovo omicidio, esaudendo la sua richiesta d'informarlo di possibili sviluppi dei quali fosse giunta notizia al giornale. Del nuovo delitto m’aveva detto Carla Garibaldi poco prima, dalla sua postazione-computer, quando le ero passato accanto diretto alla mia scrivania. Ne aveva appena avuto notizia telefonica da un collaboratore che, di regola, alla sera e nelle prime ore della notte stazionava nell’atrio della Questura assieme a colleghi dell’altro quotidiano cittadino e delle televisioni, per ricevere notizie di nera. Di seguito il vice di Carla era accorso cogli altri sul luogo del delitto, per riferire novità alla sua principale.

Vittorio aveva il numero del cellulare di Evaristo Sordi, da lui aveva saputo che il funzionario si trovava sul luogo del delitto e che la salma non era stata ancora rimossa, in attesa dell’imminente arrivo e dell’autorizzazione del pubblico ministero Trentinotti al trasferimento in obitorio per la necroscopia. L’amico aveva ottenuto dal Sordi d’essere ammesso nell’alloggio della morta confondendosi coi giornalisti.

Non aveva mai avuto patente e viaggiava per la città in tram, parsimoniosamente; ma data l’ora e l’urgenza, quella volta aveva preso un taxi. Era stata tuttavia una perdita di tempo e denaro, infatti era giunto sul pianerottolo innanzi all’alloggio della defunta quand’ormai s’erano mossi tanto i giornalisti, compreso il vice di Carla, che il medico legale, il giudice e il commissario; questi aveva preso con sé, sull’auto di servizio, la figlia della morta, per raccoglierne ufficialmente e verbalizzare in Questura la testimonianza. Il cadavere era di già in viaggio verso l’obitorio. Rimanevano solo due agenti che stavano mettendo i sigilli alla porta e la vice sovrintendente che li comandava e che, conoscendo il D’Aiazzo, l’aveva salutato con cordialità; forse non l’avrebbe potuto, ma gli aveva anche offerto un passaggio sulla propria pantera fin alla Questura, ch’egli s’era ben guardato dal rifiutare, considerando la prossimità della stessa alla sua abitazione e l’ora ormai tarda.

Il giorno dopo Vittorio, durante la sua solita passeggiata sotto i portici di via Cernaia, corso Vinzaglio, corso Vittorio Emanuele e viceversa, sul ritorno aveva avuto idea di fare una sosta in Questura. Aveva chiesto del commissario Sordi, sperando che fosse in sede.

C’era e l’aveva ricevuto.

Senza preamboli, Evaristo gli aveva detto: “Ieri sera avevo dovuto andar via prima del tuo arrivo… eri venuto, no?”

“Sissignore”.

“Mi spiace, Vittorio, ma prima che tu giungessi il giudice ci aveva dato l’ordine di sgombrare e sigillare. Non avevo potuto aspettarti, dovendo andar via cogli altri e portarmi al seguito la testimone del ritrovamento, la figlia della morta, per mettere subito nero su bianco la sua deposizione”.

“Nessun problema. Se vuoi, dimmi qualcosa di ’sta figlia”.

“Nessun sospetto su di lei, anzi pare proprio, dalle testimonianze di vicini di casa della madre e, inoltre, di vicini della figlia interrogati poco fa dai nostri di Asti, dov’ella vive con marito e due bambini, che le due andassero d’amore e d’accordo; anzi, figlia e genero invitavano sovente la mamma a casa loro, venendo lei o lui a prenderla in auto qui a Torino, per non farla andare su e giù in treno, e poi riportandola a fine giornata”.

“Capito. Deve aver sofferto molto quella povera signora”.

“Sì, era affranta. A parte questo, se ieri notte non ti ho potuto attendere, in paga ti dico adesso tutto quanto so. Anzitutto che, diversamente dal caso Capuò Tron, l’omicida è entrato dalla porta e non da una finestra, dato che, come sai, l’alloggio è al terzo piano. Inoltre, che stavolta non è stato sottratto nulla, almeno secondo la figlia della morta: forse l’assassino è stato disturbato da qualcosa prima di frugare e rubare e si è eclissato in fretta tirandosi la porta dietro, che è rimasta chiusa col solo scatto; ma la notizia forse più importante riguarda il profilo della vittima: ho controllato nei nostri archivi se la Peritti Verdani fosse incasellata e ho trovato registrazioni su di lei… nell’ufficio DIGOS”.

“Ah, però! Hm… mentre la prima vittima…?”

“No, niente, la Capuò Tron era un angioletto, povera donna, mai avuto a che fare con noi a nessun titolo. Invece la Peritti era di ben diversa pasta, almeno per il passato, ché poi doveva essersi data una calmata. Nei primi anni ’70, non ancora coniugata Verdani, era stata operaia alla FIAT che l’aveva minacciata di licenziamento più volte a causa di gravi intemperanze sindacali verso colleghi non comunisti e contro il caporeparto, anzi, più che di intemperanze, parliamo pure di eccessi filo rivoluzionari: quella Peritti era conosciuta nell’ambiente marx-leninista col soprannome di Pasionaria, come la vecchia Dolores Ibarruri della guerra civile spagnola, precisamente la Pasionaria di Mirafiori. Gli avvertimenti da parte della proprietà erano stati propedeutici al licenziamento che però, per il cosiddetto Statuto dei Lavoratori


, doveva avere giusta causa, com’era definita, cioè in caso di contestazione da parte del licenziato doveva esserci un motivo di licenziamento riconosciuto valido da un giudice del lavoro”.

“Per tempi ordinari sarebbe stata, tutto sommato, una buona legge, ma non per quegli anni rivoluzionari”.

“Sì, Vittorio, infatti in quel tempo, come sai, solo per casi veramente estremi i giudici del lavoro riconoscevano la giusta causa, e la Peritti era pressoché intoccabile. Solo alla metà degli anni ’70 la proprietà era riuscita finalmente a sbatterla fuori, dopo una sentenza favorevole, in grazia d’un fatto più grave dei precedenti: durante una delle tante violente proteste davanti ai cancelli dello stabilimento, lei aveva colpito fisicamente il proprio caporeparto, ch’ella stessa e altri facinorosi avevano obbligato con la forza a partecipare: tutt’altro che nuova a prodezze del genere, la Pasionaria gli aveva mollato due colpi con l’asta della bandiera rossa che stringeva in pugno, uno sulla spalla e l’altro, assai più grave, sulla testa, e l’aveva mandato all’ospedale svenuto e col cuoio capelluto lacerato; purtroppo per lei, quella volta aveva compiuto la bella impresa davanti a un nostro plotone in servizio d’ordine, che l’aveva fermata, non senza difficoltà peraltro, come risulta dal verbale in archivio, e l’aveva portata qui in Questura dove s’erano prese le sue generalità ed era stata denunciata per resistenza. Era stata poi querelata dal caporeparto e, fra una cosa e l’altra, s’era presa una condanna, sia pure con la condizionale, e inoltre la sua liquidazione, su istanza del legale del ferito, era stata posta sotto sequestro ed era servita a risarcire la vittima; ma soprattutto, con gran soddisfazione, la proprietà aveva potuto sbattere fuori quella novella Ibarruri. I nostri della DIGOS avevano continuato a tenerla d’occhio ovviamente, erano gli anni del terrorismo e la Peritti aveva proprio il profilo giusto per essere sospettata di simpatizzare per Brigate Rosse e compagnia. Risulta pure dall’archivio che, dopo un breve periodo di disoccupazione, era stata assunta come magazziniera in un’azienda artigianale produttrice di porte per docce e che, qualche anno dopo, s’era sposata con un commerciante ambulante di frutta e verdura, benestante, ed era andata ad aiutare il marito in piazza: da quel momento, sorridi! da comunista ch’era stata, era divenuta, notoriamente, democratica cristiana”.

“Non c’è molto da sorridere, Evaristo, si sa come funzionano gl’ideali in molte persone; ma dimmi una cosa: tu escluderesti una vendetta politica di qualcuno? Forse di qualche ex compagno, visto che lei aveva saltato il fosso?”

“Una vendetta dilazionata? Mah, non la si può escludere del tutto, però una punizione politica rimandata per così tanti anni non mi pare molto probabile e, oltretutto, l’omicidio s’è svolto come quello della Capuò Tron ch’era invece una pacifica borghese: dà proprio l’impressione d’essere opera dello stesso maniaco perfora-cervelli”.

“Non si può però escludere del tutto che il secondo assassino sia un altro e abbia fatto apposta ad ammazzare nella stessa maniera per deviare i sospetti”.

“Lo so, abbiamo pensato anche a questo, ma siamo dell’idea di seguire anzitutto l’ipotesi d’un unico maniaco, e se ci saranno altri casi simili, ne avremo la conferma”.

“Purtroppo, bisognerebbe aggiungere”.


Capitolo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)3 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)



Un terzo assassinio, due giorni dopo il colloquio fra Evaristo e Vittorio, aveva confermato la traccia del maniaco omicida, ormai definito dai media, e quindi dal pubblico, il Mostro dell’Orecchio.

La vittima, Margherita Piccozza Ferini di cinquantacinque anni, casalinga, era moglie d’un funzionario di banca di grado elevato. Anche questa coppia, come quella del primo delitto, era senza figli. I coniugi vivevano in un appartamento di loro proprietà in un palazzo in Lungo Dora Voghera. Era stato il marito dell’uccisa, rientrato a casa dal lavoro verso le 18, a fare la raccapricciante scoperta e ad avvertire il 113. Il cadavere presentava un evidente ematoma alla testa, come nel secondo caso; questa volta, però, non s’era trovato l’oggetto contundente, l’assassino doveva esserselo portato via: il medico legale avrebbe stabilito trattarsi d’un martello.

Vittorio, poco dopo le 19, dopo una rapida cena, era uscito per andare a un cinema e non aveva visto il suo solito notiziario televisivo; neppure, al ritorno, aveva guardato un telegiornale della notte, perché s’era messo subito a letto a leggere un libro, fin a quando era stato preso dal sonno. Aveva avuto dunque notizia del delitto solo la mattina seguente, da un articolo di Carla Garibaldi che ne riportava le modalità.

L’amico aveva telefonato a Evaristo che, anche stavolta, l’aveva volentieri ricevuto nel suo ufficio.

Il commissario gli aveva detto: “Purtroppo per la vittima, un cane pastore tedesco che la coppia teneva a guardia dell’alloggio e per difesa personale, è morto proprio ieri mattina, non molte ore prima della morte della signora Ferini avvenuta, secondo i primi riscontri del medico legale, fra le 15 e le 17. Come ci ha detto il vedovo, il corpo dell’animale, per ragioni igieniche, era stato incenerito a cura del veterinario di famiglia, cui la padrona l’aveva portato in mattinata a quel preciso scopo. Dato che io credo assai poco alle coincidenze, ho il sospetto che l’assassino avesse gettato al cane uno o più bocconi avvelenati mentre la bestia, quella mattina sul presto, si trovava nel giardino pubblico sotto casa, lasciata come al solito libera dal padrone, com’egli ci ha detto fra un singhiozzo e l’altro per sua moglie, pover’uomo: il loro Lampo ha cominciato a sentirsi male salendo sull’ascensore e in casa s’è prostrato a terra senza più forze; i coniugi l’hanno allora riportato di sotto, lui tenendolo in braccio, e l’hanno caricato sull’utilitaria della moglie perché lei lo portasse dal veterinario, ma il cane a quel punto è morto; dunque, mentre lui, per non giungere in ritardo, è andato senz’altro in banca con la propria auto, la moglie, con la propria, ha condotto la bestia allo studio, com’era in programma, ma solo più per farla incenerire”.

“Dunque, Evaristo, l’assassino non sarebbe preda d’improvvisi raptus, ma preparerebbe con cura i suoi delitti”.

“Se è vera la mia idea dell’avvelenamento del cane, direi di sì”.

“Sfortunaccia vuole che non ci sia più il corpo dell’animale per un’autopsia”.

“Appunto”.



Il quarto omicidio era avvenuto il posdomani, fra le 0 e le 2 di notte a parere del medico legale. Era stato eseguito col solito metodo del punteruolo affondato in un orecchio, ma aveva avuto per vittima un uomo, un certo Alessandro Cipolla, sessantasei anni, pensionato, ed era stato perpetrato sulla via.

La mia collega Carla aveva saputo dal proprio vice, per un comunicato ai media da questi raccolto in Questura, che il morto era stato un etilista senza casa che aveva vissuto negli ultimi anni da vagabondo, dormendo sotto cartoni d’imballaggio in qualche angolo di gallerie pubbliche o portici, e ch’egli era già conosciuto alla Polizia a causa d’una chiamata via telefonino al 113, un paio di mesi prima, da parte d’una signora, molto anziana ma sempre lucida, già insegnante di lettere, da lui molestata sotto i portici di via Roma con una brusca richiesta di denaro e, nulla ottenendone, da lui bersagliata di sputi: non appena era giunta una volante, l’austera professoressa aveva chiesto agli agenti di prendere i dati del molestatore, che intanto aveva seguitato a girarle attorno facendole pernacchie e, alternativamente, ruttandole contro effluvi vinacei, e aveva fatto seguire una denuncia in Questura lo stesso giorno. L’aveva però ritirata il dì seguente, per sopraggiunta compassione, “dopo una notte di rimorsi alla innominato del Manzoni”, pare avesse detto con assoluta serietà al perplesso assistente capo di turno. Il senza dimora Cipolla mangiava alle mense dei poveri e si beveva nei bar e nelle vinerie non solo tutta la pensione, ma pure quanto riusciva a raggranellare chiedendo l’elemosina, sempre con un fare aggressivo, essendo ubriaco fin dal mattino. Era un avanzo d’uomo che nessuna persona d’assennato sentire avrebbe avuto la spietatezza di colpire fisicamente in qualche modo, e meno che mai d’uccidere e in maniera talmente atroce.



Considerando lo stato asociale dell’ultimo ucciso, era scoccata nel vice questore Giandomenico Pumpo, non dimentico d’essere stato il capo della Squadra Anti Sette, l’idea che si fosse trattato d’un omicidio rituale di fanatici del cosiddetto satanismo giovanile acido, non nuovo ad attacchi a inermi barboni dormienti, quali di loro gravemente feriti, quali uccisi, sebbene le azioni si fossero svolte, fino ad allora, cospargendo le vittime di liquido infiammabile e dando loro fuoco. Il dottor Pumpo aveva indirizzato Evaristo Sordi anche su tale strada.

La nostra Carla Garibaldi era stata informata della nuova pista da Vittorio, con la mia mediazione, ed era uscito in conseguenza su La Gazzetta Libera un suo articolo-inchiesta sulle sette diaboliche, che faceva riferimento ai delitti del Mostro dell’Orecchio. Il mio amico vi figurava, anonimamente, come ‘ fonte vicina alla Questura’.



Capitolo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)4 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)

[Da “La Gazzetta Libera”]



Il Mostro dell’Orecchio sarebbe

in realtà un gruppo diabolico?

---------------------------------------------------------------

Il vice questore Giandomenico Pumpo ha indirizzato

le indagini anche verso possibili delitti rituali satanici




Carla Garibaldi


Secondo una fonte vicina alla Questura, dopo l’ultimo delitto del Mostro dell’Orecchio di cui, come avevamo scritto in precedenza, è stato vittima un senzatetto di nome Alessandro Cipolla, pare che il dirigente della Sezione Omicidi della Squadra Mobile dottor Giandomenico Pumpo abbia rivolto le indagini nella direzione dei gruppuscoli satanici e para satanici giovanili, essendo non inusuale che queste cricche infieriscano su vittime sole e indifese e in particolare su vagabondi, facilmente aggredibili di notte mentre dormono per strada.

Il fenomeno del satanismo è piuttosto diffuso in Italia e soprattutto nella nostra città, anche se finora non pareva salito oltre i limiti di guardia: Torino è, con Praga, Lione, Londra e San Francisco uno dei principali centri mondiali del culto di Satana.

Com’è stato reso noto da tempo dal CASOC, Centro Anti Sette Occulte Cattolico, sono tre le grandi tipologie del settarismo diabolico, il satanismo acido giovanile, di cui un gruppo non identificato è sospettato del delitto Cipolla, il satanismo storico-tradizionale, che raccoglie adulti, e le psicosette. Il CASOC è guidato ormai da tre decenni dal canonico Vincenzo Scofiani Biancon, ch’esercita pure la mansione d’esorcista presso la Curia, ma era stato fondato, nel 1965, e diretto per circa un lustro da don Giulio Colamonti che, alla fine del 1970, era stato allontanato dall’incarico, divenendo poi parroco di San Taddeo, parrocchia che guida tuttora. Il sacerdote era stato rimosso dopo un’aggressione subita nel febbraio di quello stesso anno da tre giovani satanisti tossicodipendenti – nelle sette giovanili acide vien fatto normalmente uso di allucinogeni – per la quale era stato ricoverato gravemente ferito e in stato di shock, rimanendo poi per molti mesi psicologicamente prostrato e assoggettato a terapie neurologiche.

Il culto diabolico giovanile, a differenza di quello adulto e tradizionale, è uso farsi propaganda. La sua promozione è corrente in primo luogo nei testi delle canzoni di famosi complessi rock, canzoni in libero commercio dove alcune parole, se ascoltate al contrario, inneggiano al Diavolo con un effetto subliminale sugli ascoltatori. Peggio, segretamente circola musica che celebra espressamente cose atroci, come lo stupro o addirittura lo sbudellamento di bambini e l’uccisione di ebrei, nomadi, immigrati e vagabondi col gas o col fuoco: il cosiddetto nazisatanismo. Nel web, ormai da qualche tempo, sono presenti alcuni


siti che sguazzano nel macabro e nel pruriginoso sulfureo, e sono in aumento. Coloro che simile propaganda suggestiona mettono in pratica, in modo naïf e dunque più colmo di pericoli per il pubblico, gl’insegnamenti ricevuti. Su quei siti internet, recensioni a opere horror letterarie e cinematografiche e a musica satanica si mischiano con l’esaltazione della pratica di nefandezze varie, prospettando come normali vari reati contro la persona e il patrimonio. Ne sono suggestionati in primo luogo i giovani ma non mancano gli adulti. Tutti sono attratti dall'idea d’esercitare una libertà assoluta trasgredendo la morale ordinaria: in realtà si propaganda e si mette in pratica la mera licenza, mentre la libertà presuppone sempre, come contraltare, l’esercizio del dovere verso gli altri, condizione indispensabile per una convivenza sociale duratura, secondo l’insegnamento etico classico che, in Occidente, ha matrice biblica. Il passo dall’apprendimento teorico alla messa in pratica non è molto lungo, con la conseguenza di non pochi satanisti, singoli o, più sovente, riuniti in piccoli gruppi; ed è proprio questa gente, a detta di Polizia e Arma dei Carabinieri nonché del CASOC, la più pericolosa per l’incolumità fisica dei cittadini. Il satanismo fai da te è composto da molte più persone di quello ufficiale, nel nostro Paese almeno da qualche migliaio d’elementi. Aveva comunicato tempo fa alla stampa la SAS, Squadra Anti Sette della Questura, che la prassi dei satanisti giovani segue normalmente un preciso iter. Essi all’inizio s’abbandonano soltanto, si fa per dire, a profanazioni di tombe e ad altri macabri riti in zone isolate, dove s’avvalgono di resti umani e di simulacri sessuali in lattice e spargono sangue di pollame o, talvolta, umano prelevato sul momento via endovena, oppure derivante da sacche ematiche rubate a banche del sangue. Un luogo abituale di simili nefandezze era stato, fin a un paio d’anni dopo l’aggressione a don Colamonti, avvenuta proprio in quella zona, il piccolo cimitero sconsacrato del Santissimo Crocifisso, al numero 28 di via San Pietro in Vincoli, quartiere Aurora Rossini. Poi il Comune, anche per contrastare simili cose, lo aveva adibito ad arena d’eventi culturali, durante le notti d’estate, e i cultori del Diavolo avevano scelto altri luoghi, nei boschi del torinese. I satanisti acidi passano in breve tempo a pratiche più criminali, come le violenze carnali, attuate anche su minori, fino alla possibilità non remota d’omicidi rituali. I riti satanici possono raggiungere livelli orripilanti.

Per quanto riguarda, invece, il satanismo classico di adulti, esso è assai meno visibile di quello giovanile acido ed è molto ben organizzato, sia sul piano ideologico sia, in particolare, su quello teologico, anzi antiteologico visto che è oggetto di disprezzo il Dio giudeocristiano e viene adorato come dio il Diavolo, considerato un martire della libertà, confusa con l’arbitrio. Questo satanismo pianificato e tradizionale è d’origine antichissima, addirittura precristiana. Esso fu braccato, soprattutto dal Rinascimento in poi, tanto dall’Inquisizione quanto dai tribunali protestanti, purtroppo sfociando tale caccia anche in persecuzioni di molti innocenti che nulla avevano a che fare col culto del Diavolo. Il demonismo classico, anche se non si presenta clamorosamente e non giunge più a uccisioni rituali di neonati e vergini come in passato, è tuttavia il responsabile ideologico, coi suoi pessimi maestri, dei moderni delitti dei satanisti acidi e, in generale, è la forma demonista più nemica del bene sociale, perché combatte diffusamente, con forza psicologica e ampi mezzi economici, qualsiasi morale e ogni valore civile tradizionali: i suoi membri sono socialmente in alto, in ambienti non sospetti, e costituiscono vere e proprie lobby di potere economico, politico e artistico-culturale; tra di loro si trovano molti degli intellettuali fortemente critici, quando non addirittura caustici, verso il Cristianesimo e, soprattutto, contro la Chiesa cattolica, che si fingono atei ma in realtà, nella loro demoniaca maniera capovolta, credono fermamente nel soprannaturale. Tale demonismo adulto è d’élite pure quanto al numero dei membri, in Italia si compone infatti, secondo il CASOC, di appena dieci gruppi con poche decine d’aderenti ciascuno: alcune centinaia di persone in tutto. È sicuro che esiste nella nostra città una di tali conventicole, fra le più antiche, sempre a detta del CASOC.

Per quanto riguarda infine la terza tipologia dei gruppi satanici, quella delle psicosette, tanto per la Questura che per il CASOC esse comprendono il maggior numero d’aderenti, qualche centinaio di migliaia nel nostro Paese, e rappresentano un satanismo di fatto che s’esercita nella soggezione psicologica ed economica dei membri ai propri capi, fino alla schiavitù, cominciando dalla sistematica donazione obbligatoria del patrimonio personale al gruppo, cioè in sostanza ai suoi dirigenti. Le psicosette però non presentano forme esterne d’adorazione demoniaca, per cui, al pari dei satanisti adulti, nemmeno queste persone possono essere verosimilmente sospettate dei delitti del Mostro dell’Orecchio: sempre, ovviamente, che si tratti davvero d’omicidi rituali come sospetta il vice questore.

Peraltro, se da una parte confidiamo che la nuova pista indicata dal dottor Pumpo conduca a un rapido epilogo della scellerata vicenda, non va trascurato il fatto che le precedenti vittime erano state assalite in casa propria.



carlgari@gazzetta.it (mailto:carlgari@gazzetta.it)



Capitolo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)5 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)



La salma della quinta vittima, nuovamente di sesso femminile, era stata trovata dalla Polizia alcuni giorni dopo il decesso, grazie alla denuncia di un’amica e collega, insospettita dal fatto che la donna non si fosse presentata al lavoro e non avesse risposto alle sue chiamate telefoniche. Le forze dell'ordine, ottenuta l’autorizzazione del giudice ad accedere in casa, avevano potuto entrare sfondando la porta, chiusa col solo mezzo giro come nei primi tre omicidi. La vittima si chiamava Mosca Scrofagnocca, cinquantottenne commessa in un maxi negozio di cucine e articoli per bagno. Nubile senza parenti, abitava da sola, inquilina d’un vecchio bilocale di via Stampatori. Il delitto, secondo il medico legale, doveva essere avvenuto il giorno successivo a quello dell’omicidio Cipolla. Anche questo cadavere mostrava i segni d’un forte colpo in testa preventivo alla perforazione del cerebro con un punteruolo.



Vittorio aveva saputo da Evaristo, il dì successivo a quello del ritrovamento della salma, che pure la Scrofagnocca era stata sotto l’occhio dell’antiterrorismo negli anni ’70 e ’80: ce n’erano annotazioni presso la DIGOS della Questura, dalle quali risultava che le idee rivoluzionarie della Scrofagnocca erano di famiglia, essendo stati i suoi genitori sfegatati stalinisti nel Partito Comunista di Togliatti anni ’40 e ’50, noti alla Questura come agitatori abituali e occasionali bastonatori di attacchini della Democrazia Cristiana durante le prime campagne elettorali. Il nome completo che i due avevano sciaguratamente appioppato alla figlia era Mosca Stalina, pur s’ella usava da un pezzo, dopo ch’era svenuta negli anni ‘80 la buriana rivoltosa iniziata nel ’68, solo più il nome Mosca, che non richiamava immediatamente l’ormai defunta Unione Sovietica. Era inoltre emerso dall’archivio un particolare intrigante che poteva rivelarsi utile alle indagini sul Mostro: in passato la donna aveva lavorato come magazziniera nella stessa fabbrichetta di porte per docce dove anche la seconda vittima aveva prestato servizio e, suppergiù, negli stessi anni. Ciò poteva indurre a considerare con più attenzione la pista politica, pur senza trascurare quelle del gruppetto demoniaco e del serial killer psicopatico.

Nel caso che l’assassino fosse stato un serial killer, presentava interesse, secondo criminologi e psicologi sociali consiglieri della Questura, il fatto ch’egli non avesse mai contattato né i media né la Polizia, a differenza di quegli assassini seriali che amavano mettersi in mostra con messaggi, sfidando la società, come l’archetipo di tutti i serial killer, il famigerato autore londinese di almeno cinque delitti, attuati dal 31 agosto all’8 novembre 1888, che aveva spedito alla stampa tre lettere, presunte autentiche, nella prima delle quali s’era firmato Jack lo squartatore, come sarebbe stato poi chiamato dai giornali e come sarebbe rimasto negli annali della criminologia, e che in tutte e tre le missive aveva fornito presunti indizi deridendo Scotland Yard. Nel caso del Mostro dell’Orecchio, l’assenza di messaggi, postali, telefonici o per posta elettronica, aveva portato i periti psichiatrici ad abbozzare, sia pure con riserva, alcuni lineamenti del suo carattere: egli, o ella se si trattava d’una donna, verosimilmente soffriva nel profondo d’un complesso d’inferiorità; inoltre, doveva provare un piacere, insieme sadico e autolesionista, rispettivamente nell’incombere occultamente su Torino impaurendola con crudeltà e, nello stesso tempo, negandosi l’intima soddisfazione di svelarsi, almeno un poco, al mondo.

Per il vice questore Pumpo, diversamente, il silenzio del Mostro avvalorava l’idea del gruppuscolo demoniaco assassino per ragioni rituali e che aveva pieno interesse, come tutte le comunità sataniche, a restarsene in ombra.

Per il commissario Sordi, l’ipotesi d’un uccisore collettivo era contemplabile, perché il fatto d’essere più d’uno avrebbe favorito l’esecuzione degli omicidi, ma non doveva trattarsi obbligatoriamente di molte persone e non necessariamente d’un ambiente demoniaco; secondo lui avrebbe potuto trattarsi, diversamente, d’uno dei casi profani che i criminologi chiamavano di magister-alumnus, vale a dire d’una coppia di serial killer composta da una persona ideatrice degli omicidi e delle loro modalità di messa in opera e da un allievo apprendista ed esecutore o coesecutore.

Vittorio al momento considerava importanti tutte le congetture e, non privilegiandone nessuna, se ne restava in attesa di più rilevanti dati.


Capitolo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)6 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)



Due giorni dopo l’omicidio di Mosca Stalina Scrofagnocca, verso le 20 l’amico e io eravamo a cena assieme, come quasi tutte le settimane nel corso della nostra ormai lunga frequentazione. Si mangiava sempre nello stesso locale, un ristorante di corso Palestro non lontano dai nostri appartamenti.

Vittorio, scavalcati gli antipasti “ammazza appetito” com’egli li definiva d’accordo con me e terminato il primo piatto, ch’era quasi un fisso per lui napoletano, spaghetti ai frutti di scoglio, era venuto sul discorso del Mostro dell’Orecchio: “Evaristo mi ha detto che, a quanto sembra, nessuna vittima aveva mai lamentato, con parenti o amici, e men che mai aveva denunciato d’aver avuto minacce, in genere o, pensando alle due morte ficcate in passato nella sinistra estrema, minacce politiche in particolare. Considerando poi che le quattro uccise in casa propria, o almeno così parrebbe, avevano lasciato entrare l’omicida: potrebbe pensarsi ch’esse fossero state in preventivi rapporti con l’assassino o gli assassini”.

“Guarda che, Vittorio, per la prima vittima il Mostro si sarebbe introdotto dal giardino attraverso una finestra”.

“Lo so che c’è codesta ipotesi, ma essa non può farci escludere affatto che l’omicida sia stato invece ammesso in casa dalla vittima. È certo soltanto che nessuna porta d’ingresso è risultata forzata in alcun caso”.

“Il Mostro potrebbe aver avuto le chiavi delle abitazioni?” avevo suggerito.

“Dalle stesse vittime?”

“Mah, no, io penserei a copie false realizzate preventivamente, non so, facendosi un calco in qualche modo”.

“Mica è così facile, sai? Solo nei film riescono a prendere nascostamente impronte della chiave sulla cera e a ricavarne copie perfette. I fabbri non lavorano mica così, partono da un originale o, se la chiave non c’è, lavorano direttamente sul serramento, certe volte limitandosi a sostituire l’intera serratura. Semmai, penserei a un grimaldello, che può aprire facilmente una porta se c’è solo il mezzo giro, a parte che oggigiorno la gente, di norma, chiude a più non posso, anche se in quel momento si trova dentro: a destra, a sinistra, sopra e sotto” – aveva fatto più volte il gesto di girare in un’immaginaria toppa un’altrettanto inesistente chiave – “e penso che il mezzo giro che hanno poi trovato entrando i parenti e, per la Scrofagnocca, la Polizia fosse la ovvia conseguenza del fatto che l’assassino, ogni volta, s’era tirato dietro la porta scappando, non che ci fosse già stato il semplice scatto quand’era arrivato, se non nel primo caso, dato che la domestica aveva dichiarato a Evaristo d’aver lasciato lei, uscendo, il mezzo giro come d’abitudine: immagino che la povera signora Tron si sentisse sicura grazie al muro di cinta della villetta e, d’altra parte, lei o la domestica avevano aperto le finestre al piano terra per far circolare l’aria, poiché quel giorno faceva caldo, e non avrebbe avuto senso serrare a tre mandate l’ingresso. È determinante, d’altronde, il fatto che tutte le uccise erano in casa e quindi, se l’assassino avesse armeggiato alla porta cercando d’entrare, l’avrebbero sentito. Dunque, se nel caso Capuò Tron egli può essersi ficcato in casa scavalcando recinzione e finestra, per gli altri delitti qualcuno deve avergli aperto dall’interno: immagino le vittime stesse”.

“Senti, Vittorio, anche se forse la mia idea è un po’ da telenovela, l’omicida non avrebbe potuto essere l’amante di ciascuna delle quattro donne e, quindi, ognuna di esse averlo ammesso in casa senza sospetti?”

“Amante di tutte? Idea un po’ eccessiva, effettivamente, anche se non da escludere al cento per cento. Però, che dire di quell’anziano barbone pulcioso ed etilista? Anche lui amante del Mostro?”.

“Oh, se è per questo, ci sono tali e tanti gusti sessuali ributtanti, Vittorio! Pensa a chi va addirittura con una bestia, il che mi sembra anche peggio dell’accoppiarsi con un vecchio ubriacone pulcioso”.

“Già; e detta per inciso, non mi sento d’escludere che vengano ammessi malauguratamente in futuro anche matrimoni con un animale o, che so, che siano legalizzate altre depravazioni come il sesso pedofilo: ormai sono tanti i politici privi della morale naturale, gente immersa nel pensiero debole


che si preoccupa solo di seguire il mutevole sentire dei propri potenziali elettori; ma tralasciando le preoccupazioni moralistiche, torniamo al caso del Mostro: se l’assassino è sempre lo stesso per tutti e cinque gli ammazzati, possiamo supporre che tanto il clochard che le quattro donne l’avessero conosciuto dapprima: senza però bisogno d’esserne stati gli amanti! Nondimeno, il Cipolla potrebbe essere stato ucciso non dal Mostro da quel serial killer, ma da un ammiratore-imitatore del medesimo, oppure da un nemico personale che voleva depistare le indagini usando il metodo del Mostro”.

“D’accordo, Vittorio”.

“Non è comunque improbabile che il serial killer conoscesse almeno tre delle uccise e che le stesse gli avessero aperto la porta, e inoltre c’è un’altra cosa: ho il sospetto che i morti si fossero tutti conosciuti l’un l’altro, in passato, e anzi in due casi, secondo una confidenza di Evaristo, è quasi sicuramente così: domattina verificherò, di persona qualcosa al riguardo e, se andrò a segno, ti riferirò, anche per il tuo giornale, mentre se sarà un fiasco, nossignore”.

Qui aveva affrontato il secondo piatto, portato già da un paio di minuti da una gentil signora, funghi autunnali e fiori di zucchine impanati e fritti, non proprio il massimo al fine d’una buona digestione, soprattutto per uno stomaco ultra ottantenne come il suo.



La mattina dopo, in ottima salute, Vittorio era andato all’Anagrafe, chiedendo d’un dirigente che conosceva perché, come lui stesso, era parrocchiano di Santa Barbara.

Sapendolo questore emerito, trascurando la legge sulla privacy il conoscente gli aveva messo a disposizione un archivista e, col suo aiuto, l’amico aveva saputo quali fossero state le professioni delle cinque vittime, secondo le loro vecchie carte d’identità. Aveva scoperto, via, via, che anche la Capuò Tron, la Piccozza Ferini e il Cipolla, per molto tempo, avevano svolto il lavoro di magazziniere. Restava da vedere dove: anch’essi nella stessa fabbrichetta di porte per docce?

Nel pomeriggio Vittorio aveva avvisato telefonicamente il commissario Sordi della coincidenza, suggerendogli d’indagare negli archivi dell’Ufficio di Collocamento torinese per scoprire in quali ditte quei tre fossero stati magazzinieri: “Mi chiedo, Evaristo, se fossero stati occupati nella stessa azienda dove avevano lavorato la Peritti e la Scrofagnocca”.

Aveva informato anche me, come s’era d’accordo nel caso di sviluppi. perché riferissi a Carla e questa ne ricavasse un articolo.

Era stato pubblicato la mattina seguente, in prima pagina. Su richiesta di Vittorio, l’autrice s’era attribuito il merito della scoperta presso l’Anagrafe, ché il mio amico non aveva voluto figurare sui media; m’aveva detto al telefono: “Non è tanto per modestia che non voglio essere nominato, ma per buona prudenza, perché mica voglio trovarmi in casa il mostro a bucarmi il cranio col punteruolo, alla mia veneranda età”. Dal tono l’avevo indovinato sorridente.



Capitolo 7 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)

[Da “La Gazzetta Libera”]



Tutti gli uccisi dal Mostro dell’Orecchio

erano stati magazzinieri. Coincidenza?

-----------------------------------------------

Le vittime si conoscevano? Potrebbero

essere a rischio anche loro ex colleghi?




Carla Garibaldi


È tristemente noto che sono arrivate ormai a cinque le vittime del Mostro dell’Orecchio, tutte ammazzate con un acuminato punteruolo piantato nell’encefalo attraverso l’apparato uditivo.

Ricordiamo che si chiamavano Maria Capuò Tron, Giovanna Peritti vedova Verdani, Margherita Piccozza Ferini, Alessandro Cipolla e Mosca Scrofagnocca.

Mentre l’identità e lo stesso profilo psicologico dell’assassino restano purtroppo celati, un particolare nuovo è emerso ieri, da una nostra ricerca negli archivi dell’Anagrafe torinese. Tutti gli uccisi e non solo, com’era già noto alla Questura, la Peritti e la Scrofagnocca avevano esercitato per anni il lavoro di magazziniere. La Capuò Tron aveva smesso di lavorare dopo il matrimonio, com’è risultato dai confronti con le sue successive carte d’identità, dalle quali ella risulta casalinga. La Piccozza Ferini, sempre secondo i documenti, aveva abbandonato il lavoro solo alcuni anni dopo le nozze, forse perché il marito, poi dirigente bancario, era ancora all’inizio della carriera e uno stipendio non sarebbe stato sufficiente. Il Cipolla aveva smesso il lavoro di magazziniere solo quand’era andato in pensione. Quanto alle altre due assassinate, la Scrofagnocca era ancora attiva al momento della morte, presso un magazzino di sanitari, mentre la vedova Verdani, pensionata da circa un anno al momento della morte, aveva tuttavia abbandonato il lavoro di magazziniera molto prima, quando s’era sposata con un commerciante cui aveva poi dato il proprio aiuto.

Anche se può essere solamente un nostro sospetto, ci permettiamo di sottoporre agl’inquirenti alcune domande:

Stabilito che tutti gli assassinati erano stati magazzinieri, in qualche periodo della loro vita avevano forse lavorato nella medesima azienda?

Questa ditta era forse, per tutti e cinque, la fabbrica di porte per docce, chiusa ormai da diverso tempo, dove sicuramente, com’è già noto alla Questura, la vedova Verdani e la Scrofagnocca avevano prestato la loro opera?

Qualora fosse questo il filo rosso che l’assassino ha seguito, altri antichi colleghi delle vittime potrebbero essere in pericolo? Ci sembra questa una domanda vitale.

In merito poi alla matrice satanica dei delitti ipotizzata dal vice questore Pumpo, potrebbero le stesse vittime, in passato, aver avuto a che fare, a qualsivoglia titolo, con quell’ambiente? Se sì, esso sarebbe stato in qualche modo collegato all’azienda in cui lavoravano? E in questo caso, i proprietari avrebbero potuto non esserne al corrente?



carlgari@gazzetta.it


Capitolo (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)8 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)



“Ho letto il pezzo della tua collega”, m’aveva detto Vittorio, “e sono rimasto un po’ perplesso”.

“Perché s’è attribuito il merito della scoperta all’Anagrafe?”

“No, no, lo sai che te l’avevo detto io stesso, di chiederglielo. Intendevo che, in chiusura dell’articolo, ha azzardato un po’ troppo: anche se non s’esprime con chiarezza, sembra quasi ch’ella insinui che i proprietari della ditta fossero demonisti: potrebbe venirgliene una richiesta di risarcimento per danni morali, sai?”

“Non la teme, è assicurata come lo sono un po’ tutti i giornalisti, me compreso: col nostro mestiere, beccarsi querele non è mica difficile, sai?”

“Già, ma andarsele proprio a cercare…”



Il sostituto procuratore della Repubblica Marcello Trentinotti, forse spinto proprio dall’articolo di Carla, aveva esortato il vice questore Pumpo, e questi il Sordi, a procurargli al più presto i risultati dei controlli avviati presso l’Ufficio di Collocamento. Nel frattempo, aveva dato incarico a un cancelliere di raccogliere, presso gli archivi della Camera di Commercio, tutti i dati relativi alla fabbrica per docce Società Coniugi Corona & Figlio.

Era risultato che non solo due ma tutti e cinque gli assassinati erano stati dipendenti di quell’azienda e, per diverso tempo, avevano lavorato insieme.

La società era stata un’impresa familiare che aveva cessato la propria attività alla metà degli anni ’80. Ne erano stati proprietari madre e figlio, Luigia e Attilio Corona, dopo che il rispettivo marito e padre era deceduto per un ictus verso la fine dei ’70.

Mentre la donna era risultata morta da tempo, il figlio, un uomo di cinquantun anni pensionato per invalidità, dottore in architettura, era stato rintracciato e convocato dal pubblico ministero Trentinotti nel suo ufficio, per essere udito quale persona informata sui fatti. L’appuntamento era stato fissato per il 18 ottobre alle ore 10.



Quella mattina Attilio Corona s’era presentato puntualmente.

Ne era seguita una lunga conversazione col dottor Trentinotti, verbalizzata da un cancelliere.

Grazie alle proprie aderenze in Tribunale, Carla era riuscita a ottenere notizie sul colloquio e, il giorno seguente, era uscito un suo articolo.


Capitolo 9 (#ulink_9ffd29f5-4855-56d8-9085-4c942952a4e4)

[Da “La Gazzetta Libera”]



Il Mostro dell’Orecchio

conosceva le sue vittime?

---------------------------------------------------

Avevano lavorato tutte nella stessa società



Carla Garibaldi



Gl’inquirenti hanno verificato e accolto l’ipotesi che in passato il Mostro dell’Orecchio fosse stato in rapporti, sullo stesso luogo di lavoro, con le future vittime. Risulta dagli archivi dell’Ufficio di Collocamento che gli assassinati avevano operato come magazzinieri nella ditta Coniugi Corona & Figlio s.n.c., una piccola società familiare produttrice e distributrice di porte per box doccia, che aveva cessato l’attività nel 1985, causa malattia dei proprietari, madre e figlio.

Mentre la donna è risultata da tempo deceduta, il figlio Attilio Corona, dottore in architettura ma non iscritto all’albo degli architetti, è stato convocato dal giudice dottor Marcello Trentinotti per essere ascoltato come persona informata sui fatti, ed è stato udito ieri mattina.

Il dottor Corona è persona di media statura e di fisico asciutto. S’è presentato in un elegante doppiopetto marrone e cravatta di seta unita d’eguale colore su camicia crema, resti d’una passata agiatezza, avendo egli affermato di vivere assai modestamente, con l’unico reddito d’una pensione d’invalidità concessagli in seguito a un ictus sofferto all’inizio del 1985, non molto prima di ritirarsi dagli affari, non ancora quarantenne. Dimostra tuttavia d’aver superato bene quell’insulto cerebrale.

Egli ha riferito al magistrato che, in seguito all’ictus, la ditta era stata liquidata dalla madre, ormai anziana e con qualche problema di memoria, dunque nell’impossibilità di continuare a gestire da sola l’azienda. L’architetto ha precisato che la cessazione della Coniugi Corona e Figlio era stata purtroppo svolta maldestramente dalla propria mamma e che, per questo, loro due erano rimasti, quasi, in stato di povertà, lei con la pensione artigiana e lui con quella modesta da invalido e la sola proprietà del monolocale in cui tuttora vive. Ha aggiunto che non molto dopo la chiusura, nella donna s’era rivelato in tutta la sua gravità il devastante morbo d’Alzheimer, che già doveva aver fatto capolino al tempo della liquidazione dell’azienda. Fortunatamente, intanto il Corona s’era rimesso abbastanza in salute e aveva potuto assistere la madre fin alla morte di lei, avvenuta nel 1987, per una polmonite che il male cerebrale cronico della donna aveva reso letale nonostante un pronto ricovero. Il dottor Corona, che s’è mostrato ben lucido nel corso di tutta la conversazione col magistrato, su richiesta del medesimo ha poi ricordato e descritto le figure delle cinque vittime del Mostro dell’Orecchio, tutte sue ex dipendenti addette al magazzino materie prime o a quello vendite. Ha affermato in sostanza che nessuna di esse brillava per diligenza. A precisa domanda del dottor Trentinotti, ha risposto che non gli risultava che avessero avuto nemici in ditta, aggiungendo di sua iniziativa che potevano però averne avuti al di fuori, nell’ambiente dell’estrema destra, essendo stati militanti comunisti, com’egli aveva inteso a suo tempo orecchiando loro conciliaboli. Alla richiesta del giudice se non gli fossero sorte perplessità, ultimamente, nel sapere che qualcuno stava ammazzando suoi ex dipendenti, ha risposto che non ne era al corrente non leggendo giornali, per ragioni economiche, e non possedendo un apparecchio televisivo, in quanto non amava la televisione e desiderava, comunque, non sborsare il canone. Ha spiegato, senza remore, che, da quand’era mancata la mamma e, con lei, la materna pensione, egli era rimasto veramente molto povero, per cui risparmiava anche la lira.

Purtroppo, secondo voci dal Tribunale, non pare che la deposizione di Attilio Corona potrà essere utile alle indagini sul Mostro.

carlgari@gazzetta.it





Конец ознакомительного фрагмента. Получить полную версию книги.


Текст предоставлен ООО «ЛитРес».

Прочитайте эту книгу целиком, купив полную легальную версию (https://www.litres.ru/guido-pagliarino/il-terrore-privato-il-terrore-politico/) на ЛитРес.

Безопасно оплатить книгу можно банковской картой Visa, MasterCard, Maestro, со счета мобильного телефона, с платежного терминала, в салоне МТС или Связной, через PayPal, WebMoney, Яндекс.Деньги, QIWI Кошелек, бонусными картами или другим удобным Вам способом.



Nell'anno 2000 il vecchio questore emerito D’Aiazzo, affiancatosi al commissario Sordi suo ex dipendente, investiga in funzione di consulente della Questura torinese su una serie di omicidi che si presentano sì come l'opera nichilista d'un sadico assassino seriale o quali sacrifici al diavolo d'una delle sette sulfuree della Torino macabro-stregata, ma potrebbero avere, anche o soltanto, cause legate a quel terrorismo che aveva imperversato in Italia fino a una ventina d'anni prima e si trascina ancora a fine millennio. Il mostro sopprime orrendamente le sue vittime conficcando loro l'arma del delitto in un orecchio fin ad arrivare al cervello con esito letale. L'indagine si snoda fra inquietanti sospetti, crisi di identità, annotazioni psicologiche, e raggiunge il suo acme risolutivo nello spiazzante svelamento finale, che ha come appendice la morte del medesimo questore, come conseguenza stessa della scoperta del colpevole.

Nell'anno 2000 il vecchio questore emerito Vittorio D’Aiazzo, affiancatosi al commissario Sordi suo ex dipendente, investiga in funzione di consulente della Questura torinese su una serie di omicidi che si presentano sì come l'opera nichilista d'un sadico assassino seriale o quali sacrifici al diavolo d'una delle sette sulfuree della Torino macabro-stregata, ma potrebbero avere, anche o soltanto, cause legate a quel terrorismo che aveva imperversato in Italia fino a una ventina d'anni prima e si trascina ancora a fine millennio. Il mostro sopprime orrendamente le sue vittime conficcando loro l'arma del delitto in un orecchio fin ad arrivare al cervello con esito letale. L'indagine tocca sia temi privati, procedendo entro una varia umanità non tutta moralmente limpida, sia temi politici, economici e sociali già tipici degli anni’70 dello scorso secolo, dei cosiddetti anni di piombo, in cui la violenza politica e quella privata finivano normalmente col confondersi nella scomparsa, o quasi, del concetto di persona e nel prevalere dei ruoli sociali; e l’inchiesta di Vittorio D’Aiazzo si snoda tra i frutti maligni di quei semi perversi, fra inquietanti sospetti, crisi di identità, annotazioni psicologiche, e raggiunge il suo acme risolutivo nello spiazzante svelamento finale, che ha come appendice la morte del medesimo questore, come conseguenza stessa della scoperta del colpevole.

Как скачать книгу - "Il Terrore Privato Il Terrore Politico" в fb2, ePub, txt и других форматах?

  1. Нажмите на кнопку "полная версия" справа от обложки книги на версии сайта для ПК или под обложкой на мобюильной версии сайта
    Полная версия книги
  2. Купите книгу на литресе по кнопке со скриншота
    Пример кнопки для покупки книги
    Если книга "Il Terrore Privato Il Terrore Politico" доступна в бесплатно то будет вот такая кнопка
    Пример кнопки, если книга бесплатная
  3. Выполните вход в личный кабинет на сайте ЛитРес с вашим логином и паролем.
  4. В правом верхнем углу сайта нажмите «Мои книги» и перейдите в подраздел «Мои».
  5. Нажмите на обложку книги -"Il Terrore Privato Il Terrore Politico", чтобы скачать книгу для телефона или на ПК.
    Аудиокнига - «Il Terrore Privato Il Terrore Politico»
  6. В разделе «Скачать в виде файла» нажмите на нужный вам формат файла:

    Для чтения на телефоне подойдут следующие форматы (при клике на формат вы можете сразу скачать бесплатно фрагмент книги "Il Terrore Privato Il Terrore Politico" для ознакомления):

    • FB2 - Для телефонов, планшетов на Android, электронных книг (кроме Kindle) и других программ
    • EPUB - подходит для устройств на ios (iPhone, iPad, Mac) и большинства приложений для чтения

    Для чтения на компьютере подходят форматы:

    • TXT - можно открыть на любом компьютере в текстовом редакторе
    • RTF - также можно открыть на любом ПК
    • A4 PDF - открывается в программе Adobe Reader

    Другие форматы:

    • MOBI - подходит для электронных книг Kindle и Android-приложений
    • IOS.EPUB - идеально подойдет для iPhone и iPad
    • A6 PDF - оптимизирован и подойдет для смартфонов
    • FB3 - более развитый формат FB2

  7. Сохраните файл на свой компьютер или телефоне.

Книги автора

Рекомендуем

Последние отзывы
Оставьте отзыв к любой книге и его увидят десятки тысяч людей!
  • константин александрович обрезанов:
    3★
    21.08.2023
  • константин александрович обрезанов:
    3.1★
    11.08.2023
  • Добавить комментарий

    Ваш e-mail не будет опубликован. Обязательные поля помечены *