Книга - Ndura. Figlio Della Giungla

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Ndura. Figlio Della Giungla
Javier Salazar Calle


Miglior romanzo per ragazzi del 2014 in Spagna! Una persona senza speciali conoscenze si trova sola, in mezzo alla giungla, dopo che il suo aereo si è schiantato e deve imparare velocemente per poter sopravvivere a tutte le sfide che gli si presenteranno. Una storia che ti insegna cosa si può fare quando ti spingono al limite.

Miglior romanzo per ragazzi del 2014 in Spagna! Quando una persona comune, chiunque di noi, si trova improvvisamente in una situazione di vita o di morte nel mezzo della giungla, SAPREBBE SOPRAVVIVERE? Questo è il semplice dilemma offerto al protagonista della nostra storia, che, tornando da una tranquilla vacanza in Namibia, un tipico safari fotografico, si vede coinvolto in un’inaspettata situazione di sopravvivenza estrema nella giungla di Ituri, nella Repubblica del Congo, in Africa, quando l'aereo su cui viaggia viene abbattuto dai ribelli. Un luogo dove la natura non è l'unico nemico e dove sopravvivere non è l'unico problema. Un'avventura con l'aroma di quelle classiche, di sempre, che rendono questo libro il piatto perfetto per sfuggire alla realtà e provare l'angoscia e la disperazione del protagonista di fronte alla sfida che gli si presenta. In questo libro si mescolano in modo naturale l'emozione e la tensione della sfida di sopravvivenza, il degrado psicologico del protagonista nel corso della storia e lo studio approfondito dell'autore sull'ambiente, i suoi animali, le piante e le persone. Ci insegna anche che la percezione dei nostri limiti spesso è sbagliata, a volte nel bene e a volte nel male. Una lettura senza dubbio consigliata.







Ndura.

Figlio della giungla.



Di

Javier Salazar Calle


Titolo originale: Ndura. Hijo de la selva.

Copyright © Javier Salazar Calle, 2020



1ª Edizione



Traduzione di

Caterina Pittalomo



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Dedicato a tutti coloro che, come me, vivono avventure e viaggiano senza muoversi, perché fanno si che il potere dell'immaginazione sopravviva in questo mondo.



Dedicato specialmente al mio migliore amico, che è morto molti anni fa e a mio figlio Alex, che ha ereditato il suo nome e per il quale ho grandi sogni.


INDICE



GIORNO 0 (#ulink_7b657306-545a-5df5-8aae-f5689116f3dc)

GIORNO 1 (#ulink_c8e173f0-aedf-5044-b452-ae0a849be145)

GIORNO 2 (#ulink_4bc67986-867d-5e54-9445-9229faebb3ac)

GIORNO 3 (#ulink_f91d9405-04d7-5365-a887-860d641289cb)

GIORNO 4 (#ulink_1244ca86-3ea7-5c53-8a17-5979a345f31c)

GIORNO 5 (#ulink_d47df431-60ea-5aa6-9465-614eb6cdc1a9)

GIORNO 6 (#ulink_477ec9d8-16b5-5a7c-8d7d-3e5b4e6d5eca)

GIORNO 7 (#ulink_5b70d0d6-be70-5924-9481-7a3033af75e3)

GIORNO 8 (#ulink_cda89eef-8beb-5e50-b7b4-412b9255bbbe)

GIORNO 9 (#ulink_f389d411-0b70-5fe3-a860-07c071330e49)

GIORNO 10 (#ulink_f0e75990-2888-5b11-9647-dab00ee65632)

GIORNO 11 E 12 (#ulink_0220f50f-953f-5d1e-a343-1d0ad9b7f6ee)

GIORNO 13 (#ulink_17350ac2-c280-5154-979c-0e569ddb5ea0)

GIORNO 14 (#ulink_2027453a-cc94-5004-af65-c659316eb709)

GIORNO 15 (#ulink_c3be6e79-e302-5124-bf7f-9975315be5ba)

GIORNO 16 (#ulink_33b6b017-35b2-5a9c-a966-b73cc04015ba)

GIORNO 17 (#ulink_18152152-246c-50ee-945a-50e1d5c1d406)

GIORNO 18 (#ulink_e225e93e-7390-5338-9b22-c969e55f77ad)

GIORNO 19 (#ulink_b14f074e-ed89-56d7-88b6-af94611c2014)

GIORNO 20 (#ulink_0394c790-2ce2-596c-b1e9-ce11110c82d5)

GIORNO 21 (#ulink_2b39b1fe-6bdf-55be-a6d7-3b0525d80c67)

GIORNO 22 (#ulink_baa01846-cca6-5a12-8df8-270905a172f6)

GIORNO 23 (#ulink_69cdd725-4535-5050-a7ac-1f13215cdc82)

GIORNO 24 (#ulink_ba4c9669-8af3-5eac-8da2-c3a12d5bfc2d)

GIORNO 25 E 26 (#ulink_43a626e1-08ac-5242-8c39-aef29ed1dbf1)

GIORNO 27 (#ulink_b0bd939d-b673-5922-9289-767ca95c4cb1)

EPILOGO

ALLEGATO I: glossario e piante (#ulink_00415809-001f-5041-a5ba-4f65b836707d)

ALLEGATO II: glossario di parole in pigmeo (#ulink_28d6c96a-b026-5018-9060-7bd5abc6b597)

ALLEGATO III: sopravvivenza reale nella giungla (#ulink_9e83db5f-fe9a-551e-bb0e-358683009c4d)

BIBLIOGRAFIA (#ulink_511994a0-b07c-5b8d-9975-b277fcde9973)

Altri libri dell’autore

Sull’autore (#ulink_73b464dc-ab95-54c1-b18f-6fc8bad204ef)


Comincia l’avventura…











GIORNO 0


Sono nel mezzo dell'Africa profonda. Seduto, appoggiato al tronco di un albero. Mi è salita la febbre; il mio corpo ha convulsioni e brividi sempre più frequenti; un dolore non localizzato è l'unica cosa che percepisco del mio organismo. Non riesco a smettere di tremare. Sono in cima a una collina. Dietro di me la giungla; una giungla lussureggiante, selvaggia e spietata. Davanti a me scompare come per magia; solo ceppi sparsi, resti di un disboscamento intensivo, danno un'idea di quello che c'era una volta. Sullo sfondo si distinguono le prime case di una città incipiente. Fango, foglie e mattoni mescolati. Civiltà.



Sono a migliaia di chilometri da casa mia, dalla mia gente, dalla mia famiglia, dalla mia ragazza, dai miei amici... Mi manca persino il mio lavoro. La vita comoda, il poter bere con il semplice gesto di aprire un rubinetto e mangiare semplicemente ordinando in qualsiasi bar... e dormire in un letto, caldo, asciutto e sicuro, soprattutto sicuro. Come mi manca quella tranquillità! Quando l'unica incertezza era sapere come avrei passato il mio tempo libero nel pomeriggio quando sarei uscito dal lavoro. Quanto mi sembrano assurde, adesso, le preoccupazioni di prima: il mutuo, lo stipendio, la discussione con l'amico, il cibo che non mi piace, la partita di calcio! In particolare per il cibo...



È chiaro che il bisogno di sopravvivenza cambia il punto di vista delle persone. Almeno a me è successo questo. Che cosa sto facendo così lontano da casa mia, morente, ai margini della giungla equatoriale dell'Africa centrale? Come sono finito in questa situazione dantesca e apparentemente irrimediabile? Qual è la genesi di questa storia?



Ripasso mentalmente le terribili circostanze che mi hanno portato sull'orlo della morte, all'ingresso dell'autostrada di transito verso l'aldilà, alla più che probabile estinzione della mia storia nel libro della vita...








GIORNO 1


COME INIZIA QUESTA STORIA INCREDIBILE



Guardai l'orologio. Il nostro aereo di ritorno in Spagna sarebbe partito dopo due ore. Alex, Juan e io eravamo già nella zona commerciale dell'aeroporto di Windhoek, finendo gli ultimi resti della moneta locale e, per inciso, acquistando quel regalo che sempre si lascia per la fine. Avevamo già mangiato e rimanevano solo i negozi. Comprai per mio padre un coltello con un manico di legno e con scolpito il nome del paese, la Namibia, e tutti i tipi di figure di animali finemente scolpiti in legno per le altre persone. In particolare per Elena, la mia ragazza, comprai una bellissima giraffa scolpita a mano in un tipico villaggio della savana africana. Alex si comprò una cerbottana e molte frecce, secondo lui per giocare con il bersaglio delle freccette e variare un po’ il gioco, per dargli, diciamo, un incentivo più tribale. Per un'ora vagammo qua e là, zaino sulle spalle, godendoci gli ultimi momenti in quel paese che era così esotico per noi. Fino a quando non ci chiamarono a bordo. Dato che avevamo già registrato il bagaglio, andammo direttamente alla porta indicata e presto eravamo nei nostri posti sull'aereo, un vecchio modello a quattro motori ad elica, dopo aver scattato un paio di foto. Il nostro safari fuoristrada di quindici giorni nell'aspra savana africana volgeva al termine e, sebbene ci sarebbero mancate quelle terre, eravamo già in vena di una doccia calda e un pasto in perfetto stile spagnolo. Comunque, era un peccato andarsene in quel momento perché ci era stato detto che dopo qualche giorno ci sarebbe stata una delle eclissi di sole più impressionanti degli ultimi decenni e che la zona dell'Africa dove eravamo stati era la migliore per vederla chiaramente.



Io ero il più lanciato e avventuriero dei tre e avevo finito per coinvolgerli e farli venire con me, una cosa era avere spirito avventuriero, un’altra era partire senza compagnia.

Inizialmente erano stati riluttanti all’idea di abbandonare i loro piani per una vacanza rilassante nel nord Italia per, in principio, uno scomodo safari fotografico in un luogo con temperature superiori a 40° gradi tutto il giorno e senza ombra per ripararsi. Ma terminata l’esperienza, non se pentivano affatto, al contrario, l’avrebbero ripetuta senza pensarci due volte. L’aereo ci avrebbe portato più di mille chilometri a nord, fino a un altro aeroporto internazionale, dove ci sarebbe stato il collegamento con le comode e moderne compagnie aeree europee per tornare a casa.



Dopo il decollo dell’aereo, ci dedicammo a vedere le fotografie del viaggio nella fotocamera digitale di Alex. C’era una foto divertentissima di Alex e Juan che correvano terrorizzati e dietro di loro uno gnu di pessimo umore, alla carica. Mentre loro, tra risate e ricordi, finivano di vederle, io mi persi nei miei pensieri guardando dal finestrino, vedendo le nuvole che ci passavano intorno. Mi sentivo molto bene tornando a casa con i miei due migliori amici, che conoscevo dalla scuola, da un’avventura meravigliosa in un paese incredibile. Era stato come essere in un reportage del National Geographic, uno di quelli che mi piaceva tanto vedere in televisione mentre mangiavo. Un safari in 4x4 sulle tracce delle grandi migrazioni degli gnu, fotografando le mandrie di elefanti o vedendo i famosi leoni a pochi metri di distanza nel mezzo della savana africana selvaggia. Avevamo visto combattimenti tra ippopotami, coccodrilli in attesa, in cerca di una preda, iene desiderose di carogne, avvoltoi che volteggiavano in circolo sopra alcune carcasse, alcuni strani rettili, tutti i tipi di insetti. Ci eravamo accampati in tende in mezzo al nulla, cenando alla luce del fuoco con un limpido cielo stellato... un'esperienza meravigliosa. Soprattutto la visita al Parco nazionale di Etosha.



Sotto, in contrasto con quanto visto fino a quel momento, tutto era un enorme macchia verde, stavamo attraversando l'area dell'equatore. La giungla ricopriva tutto. Un verde infinito senza fine. Qualcosa del genere sarebbe stato l'obiettivo del nostro viaggio successivo, una risalita in barca del Rio delle Amazzoni, con soste per godersi le ingenti forme di vita del luogo. Avevamo già visto l'immensità della savana disboscata e a quel punto volevamo vedere l'imponenza di un mare di vegetazione e la vita straripare. Essere in grado di avanzare a colpi di macete nella giungla quasi impraticabile, imparare a procurarsi il cibo, incontrare tribù perdute della civiltà, vedere animali e piante esotiche... ma ehi, sarebbe stato l'anno successivo se fossi riuscito a convincere di nuovo i miei amici, e se no, anche il nord Italia non era poi così male.



Un forte rumore, come un'esplosione, seguito da un movimento molto improvviso dell'aereo mi fece uscire dal mio mondo di fantasie. L’aereo iniziò a sballottolarci in aria e presto mi sembrò di essere sulle montagne russe. Mi ritrovai disteso sul pavimento in mezzo al corridoio sopra una signora. Mi alzai come potei e tornai al mio posto, cercando di non cadere di nuovo. Urla di panico echeggiavano ovunque. Lo stupore era totale.



“Fuoco, fuoco, hanno colpito l'ala!” urlò qualcuno dalla parte opposta del corridoio dell'aereo.

“Sulla destra!” sottolineò un altro passeggero.



All'inizio non sapevo cosa potesse significare, ma quando guardai attraverso la finestra da quel lato potei vedere un fumo concentrato che faceva sembrare che fosse notte, una notte tragica. L'aereo faceva movimenti sempre più bruschi. Alcune persone iniziarono a urlare. Dagli altoparlanti risuonò la voce nervosa e poco comprensibile del pilota, dicendoci che i guerriglieri del Congo, che stavamo sorvolando, ci avevano colpito con un missile e che avremmo fatto un atterraggio di emergenza. Una donna ebbe un attacco di isteria e dovettero farla sedere e tenerla ferma tra due assistenti di volo e un uomo che si offrì di aiutare. Tutti e tre ci sedemmo rapidamente, sistemammo le cinture e ci mettemmo nella posizione che la hostess ci aveva indicato quando eravamo saliti sull'aereo, con la testa tra le ginocchia, guardando il poco rassicurante pavimento di metallo. Eravamo terrorizzati. Mentre mi trovavo in quella posizione scomoda, mi ricordai che al telegiornale avevano parlato qualche volta di questi ribelli, che riuscivano a finanziarsi perché controllavano alcune delle miniere di diamanti del paese o del prezioso coltan, un minerale che contiene un metallo indispensabile per la fabbricazione delle carte dei cellulari, microchip o componenti di centrali nucleari. Era qualcosa come una sanguinosa guerra civile, in cui tutti i paesi circostanti avevano interessi economici e militari, che durava da più di vent'anni e che sembrava non avere fine.



Le scosse erano così forti che mi spingevano in avanti ancora e ancora, con così tanto slancio che la cintura di sicurezza mi stringeva lo stomaco togliendomi il respiro e colpivo con la testa il sedile di fronte. Notai come il muso dell'aereo puntava verso il suolo e iniziava una vertiginosa discesa. Il rumore era infernale, come migliaia di motori funzionanti a piena potenza, contemporaneamente. Poco prima di colpire il suolo, il pilota fece un ultimo annuncio attraverso l’altoparlante, avrebbe tentato un atterraggio di emergenza in una radura che aveva individuato. L'ultima cosa che pensai è che saremmo morti tutti nell'incidente. Poi tutto fu confusione, forti suoni, colpi, oscurità...



Quando recuperai conoscenza avevo un fortissimo mal di testa. Mi portai una mano alla fronte e notai che sanguinavo un po’. Avevo anche lividi e graffi su tutto il corpo, soprattutto un grosso graffio con la pelle molto rossa dove aveva stretto la cintura. Ci passai sopra le dita e sentii un forte bruciore che mi fece serrare i denti con forza. Guardai i miei amici. Juan sembrava scioccato, emetteva una specie di grugniti di lamentela e si muoveva un poco; Alex…, Alex non si muoveva affatto, la sua faccia, sempre allegra e vitale prima, era completamente pallida, il gesto rigido, il sangue gocciolava abbondantemente dalla nuca. Lo chiamai disperatamente, ancora e ancora. Gli toccai il viso, era molto rigido, lo presi tra le mie mani e lo scossi dolcemente, chiamandolo, implorandolo. Alex era morto, morto. Quella parola risuonò ripetutamente nella mia testa, come se fosse il suo stesso eco. Morto.



Disperato, sopraffatto per la situazione, cercavo di reagire. Nella mia testa risuonava un bum-bum-bum, probabilmente per il colpo. Un momento! Non era la mia testa, in lontananza sentivo il suono di alcuni tamburi in una melodia ripetitiva. Sembrava che qualcuno stesse comunicando in lontananza.



“Merda!” pensai.



Mi alzai barcollando. Mi venne in mente un pensiero. Se eravamo stati abbattuti, i guerriglieri sarebbero venuti lì e ci avrebbero presi come prigionieri e avrebbero persino potuto ucciderci. Dovevamo andarcene immediatamente. La mia prima reazione fu di avvisare Alex, ma quando girai la testa e lo vidi di nuovo, fui nuovamente consapevole della sua morte. Rimasi fermo per alcuni secondi finché non riuscii a reagire di nuovo. Mi avvicinai a Juan, che era rimasto al suo posto e si era agitato un paio di volte, come qualcuno che dorme e sta avendo un incubo.



“Juan,” balbettai, “dobbiamo andarcene da qui.”

“E Alex?” borbottò senza aprire gli occhi.

“Alex…, Alex è morto Juan” gli risposi cercando di non crollare. “Dai, Alex è morto e lo saremo anche noi se non ce ne andiamo. È morto.”



Inciampando, cercai il mio zaino nel caos finché non lo trovai. Lo raccolsi e mi diressi verso la parte posteriore dell'aereo. In quella parte un lato stava bruciando e faceva molto caldo. L'intero aereo era pieno di persone sparse nelle posizioni più insolite, alcuni feriti, altri che cercavano di reagire, altri morti. Da tutti i lati si potevano udire grida, lamenti, mormorii. Arrivai alla zona della cucina e misi tutto quello che trovai nel mio zaino: lattine di soda, panini, scatole di cose non identificate, una forchetta. Quando fu pieno, tornai da Juan e presi il suo zaino, che era sopra una donna. Ci misi alcune coperte dall'aereo. Poi mi ricordai dell'armadietto dei medicinali e tornai in cucina, stava lì, sul pavimento, aperto e con tutto sparso. Raccolsi meglio che potei ciò che era nelle vicinanze e andai a cercare Juan.



“Vieni Juan, andiamo via di qui.”

“Non posso,” sussurrò, “mi fa male tutto.”

“Dai, Juan, devi alzarti o ci uccideranno tutti. Vado a lasciare gli zaini fuori e torno a prenderti.”

“Va bene, va bene, ci proverò“ mi rispose, muovendosi un po’ nel sedile.



Afferrai entrambi gli zaini e uscii fuori barcollando ancora un po’ per lo shock del colpo. Dovetti sforzarmi molto per non fermarmi ad aiutare il resto della gente, ma non sapevo di quanto tempo disponevo e volevo solo vivere. Vivere un giorno in più per vedere un’altra alba. Eravamo sul lato di una radura nel bosco. Apparentemente, il pilota aveva provato ad atterrare in quel luogo approfittando dell’assenza degli alberi, però aveva deviato un po’; aveva perso l’ala sinistra colpendo i grandi alberi. Una grande colonna di fumo si alzava dall’aereo fino al cielo, permettendo a chiunque di vederla per molti chilometri intorno. Mi addentrai un po’ nel bosco e lasciai gli zaini ai piedi di un grande albero. Dopo mi girai con l’intenzione di tornare all’aereo, però in quell’istante un gruppo di uomini neri armati irruppe nella radura dalla parte opposta a quella in cui mi trovavo. Mi chinai rapidamente, nascondendomi dietro a un tronco. Sentii una fitta di dolore allo stomaco. I guerriglieri, alcuni vestiti con tute mimetiche e altri con abiti civili, circondarono l’aereo puntando le armi e gridando senza sosta. Non capivo nulla di quello che dicevano, dalla zona in cui ci trovavamo doveva essere swahili o chissà cos’altro.



“Nitoka!” gridavano ancora e ancora. “Enyi! Nitoka! Maarusi!






Presto alcuni passeggeri perplessi e confusi iniziarono a uscire dall’aereo. Senza tante cerimonie li gettarono e terra e li scrutarono attentamente. Stavano arrivando altri ribelli. Uno dei passeggeri, un uomo che era stato seduto di fronte a noi, si innervosì e si alzò tentando di scappare. I guerriglieri gli spararono più raffiche con le loro mitragliatrici, facendolo cadere, morto, quasi all’istante. Durante quel momento di confusione Juan scese dall’aereo e iniziò a correre nella direzione opposta a quella dove tutti avevano posto la loro attenzione.



“Basi!2 Basi!” gridarono alcuni ribelli quando lo scoprirono.

“Nifyetua!3” gridò quello che sembrava il capo quando Juan stava per raggiungere il bordo della radura.



Poi due di loro lo uccisero alle spalle a colpi di mitragliatrice senza ulteriori indugi. Alcuni proiettili mi passarono vicino sibilando. Abbassai la testa e chiusi gli occhi molto forte, nella stupida convinzione che ciò potesse salvarmi dagli spari. Cadde in ginocchio a soli cinque metri da dove stavo osservando e, prima di crollare completamente, riuscì a vedermi accovacciato e mi dedicò il suo ultimo sorriso.



“Nitoka, maarusi!” continuavano a gridare verso l’aereo.



Non dovetti fare molti sforzi per non gridare, visto che ero rimasto completamente muto e paralizzato. Non so quanto tempo rimasi così, ma quando riuscii a reagire, seppi con certezza che mi rimaneva solo una via di uscita: fuggire per salvarmi la vita. Raccolsi i due zaini e mi allontanai entrando nella giungla lussureggiante con la massima discrezione possibile, che non era molta, dato che continuavo ad inciampare e, con tutto il corpo dolorante, ero incapace di controllarlo completamente. Non sapevo dove andare, ma mi era chiaro che, quanta più distanza avessi messo tra me e quei selvaggi, più possibilità di vivere avrei avuto.



Camminai per quasi due ore, spronato dal terrore, dalla paura di morire, fino a quando le mie gambe non resistettero più e caddi sul terreno, consumato. Gli zaini mi sembravano carichi di pietre. Il ginocchio sinistro mi faceva molto male; da quando mi ero infortunato giocando a calcio, non era mai completamente guarito e ancora mi dava problemi di tanto in tanto quando lo sforzavo. Aprii il mio zaino e tirai fuori una lattina di soda. Era ancora abbastanza fresca e la bevvi avidamente. Sudavo copiosamente, perline di sudore mi cadevano torrenzialmente lungo il mento, come se fosse appena piovuto o fossi appena uscito da una piscina. Ero senza fiato e aprivo la bocca cercando di aspirare grandi boccate. Mi strozzai con un sorso troppo veloce, iniziai a tossire pesantemente e pensai di soffocare. Quando riuscii a calmarmi un po', ansimando ancora, mi resi conto che c'era meno luce, si stava facendo buio. Alex era morto nell'incidente, Juan crivellato; i miei due migliori amici persi in un istante per la stupidità di una guerra civile che non capivo e di cui non mi importava. Perché non si uccidevano a vicenda? Perché noi? Perché i miei amici, Alex, Juan? Bastardi! Se fosse dipeso da me sarebbero potuti esplodere tutti insieme. Per colpa loro adesso ero solo, in questa merda di posto, bagnato, opprimente, soffocante, senza i miei amici. Perché io, perché loro? La morte di Juan, mitragliato da quei selvaggi, mi passava in testa ripetutamente, come se si trattasse di un film. La luce nei suoi occhi che si affievoliva in quell'ultimo sguardo che mi aveva dedicato... Cercai di non pensarci, di nasconderlo in qualche piega recondita della mia mente, ma non c'era modo. Alcune ore prima eravamo insieme, ridevamo ricordando gli aneddoti del viaggio mentre in quel momento...



Piansi per molto tempo, non so quanto, ma mi fece bene. Quando riuscii a smettere, stavo molto meglio, almeno ero più calmo. Era evidente che si stava facendo buio, l'oscura giungla stava entrando nel mondo delle tenebre. Dovevo cercare un posto dove dormire. Avevo paura di dormire per terra, soprattutto nel caso in cui i ribelli mi avessero trovato, ma nemmeno dormire su un albero mi rassicurava, con i serpenti, quelle scimmie urlanti o chissà quale bestia selvaggia e affamata. Dovevo decidere: serpenti o uomini armati e infuriati? I serpenti mi sembrarono l'opzione migliore, almeno ancora non mi avevano fatto nulla. Cercai un albero su cui mi sembrasse facile arrampicarsi, difficile per i serpenti e con un posto dove sistemarsi per dormire.



Fu in quel momento che mi resi conto dell'incredibile numero di tipi di alberi e piante che c'erano. Dalle piante più piccole, quasi minuscole, agli alberi di oltre cinquanta metri, il cui tronco spiccava sopra gli altri senza vederne la fine, un intero amalgama di diversi tipi di flora spruzzati ovunque, tra cui altissime palme con dipinte foglie sfilacciate e lunghe diversi metri con gruppi di fiori densi e compatti


.

C'era uno strato superiore di alberi di circa trenta metri con alcuni che si ergevano ben al di sopra, quindi un secondo strato, di circa dieci o venti metri di altezza, con una forma allungata come i cipressi dei nostri cimiteri e un terzo strato, alto da cinque a otto metri, dove arrivava molta meno luce. C'erano anche cespugli, giovani esemplari di diversi tipi di alberi, anche se pochi, e uno strato di muschio che copriva quasi tutto in alcune parti, così come una moltitudine di liane che si arrampicavano su tutti i tronchi, pendenti da tutti i rami. Fiori e frutti da tutti i lati, soprattutto negli strati più alti, irraggiungibili per me. Si percepivano anche tutti i tipi di animali, non era facile vederli, ma potevo sentire innumerevoli tipi di cinguettii di uccelli, grida di scimmie, rami che si agitavano sopra di me mentre qualcuno di loro passava, insetti che ronzavano intorno ai fiori e da tutti i lati. Persino un animale terrestre di cui si sentivano i passi come un rumore lontano. Farfalle e altri insetti svolazzavano da tutte le parti. Se non fosse stato per la situazione in cui mi trovavo, mi sarei goduto un posto così bello, ma in quel momento tutto rappresentava un potenziale ostacolo alla mia sopravvivenza. E tutto mi faceva paura.



Dopo una breve ricerca trovai un albero che mi sembrava appropriato e mi arrampicai con entrambi gli zaini sulle spalle. Mi sembrava che pesassero uno sproposito e che il ginocchio supplicasse riposo. Quando mi trovai abbastanza in alto da sentirmi al sicuro, ma non da uccidermi o ferirmi seriamente se fossi caduto di notte, mi sistemai il meglio che potei tra due rami spessi che andavano insieme quasi paralleli e mi coprii un po' con una delle piccole coperte dell’aereo che avevo portato e l’altra la usai come cuscino. Nel cielo riuscii ad intravedere un numero incredibile di grandi pipistrelli marrone scuro che svolazzavano in quel modo caratteristico che hanno di volteggiare apparentemente irregolare e muovendosi d'impulso


. Non sapevo come contarli ma dovevano essercene migliaia; si fermavano soprattutto nelle palme, mangiando i loro frutti, pensavo, o cacciando gli insetti che mangiavano i frutti.



Dormii probabilmente due ore a piccoli intervalli di quindici o venti minuti. I rumori mi tormentavano da tutte le direzioni, non facevo altro che sentire passi, voci, urla, grida, strilli acuti, ronzii, sussurri, un mormorio costante che saliva e scendeva incessantemente. Mi sembrò persino di sentire il pianto morente di un bambino diverse volte e gli elefanti barrire. Non sapevo se poteva essere quello che sembrava o se semplicemente lo sembrava. Occasionalmente si sentiva qualche ruggito piuttosto inquietante, che mi faceva immaginare qualche bestia selvaggia che mi divorava mentre dormivo.

A volte l'angoscia mi impediva di respirare, afferrandomi il cuore quasi fino a provocarmi dolore. Ogni suono, ogni movimento, tutto ciò che accadeva intorno a me era un tormento, una sensazione di soffocamento pressante. Non appena riuscivo ad addormentarmi, c'era qualcosa, qualsiasi cosa, che mi obbligava a svegliarmi spaventato. A volte vedevo degli occhi brillare nella notte cupa e, per cercare di tirarmi su di morale, pensavo che fosse un semplice gufo o il parente più stretto che teneva da quelle parti, ma quei tentativi di rimanere positivo duravano poco e finivo sempre per vedere felini senza scrupoli o qualche serpente pericoloso a caccia. Altre volte mi sembrava di sentire spari ravvicinati, scoppi intermittenti, ma se ascoltavo con attenzione non riuscivo a udire nulla.



“Javier” sentii che mi chiamava Alex.

“Si, dove sei?” dissi, mentre mi svegliai di soprassalto.

“Javier” sentii di nuovo.



Guardai in tutte le direzioni, angosciato, in attesa, ansioso di vedere il mio amico. Fino a quando mi resi conto che Alex era morto e che io ero solo e senza aiuto in mezzo alla giungla. Questo mi spaventava; non potevo contare su nessuno che potesse aiutarmi, con cui condividere il mio dolore in quel momento, la mia disperazione. Non dovevo lasciarmi prendere dal panico, dovevo scacciare i pensieri negativi dalla mia testa per sopravvivere, ma non ne ero in grado. Una soffocante sensazione di solitudine mi costringeva ad approfondire le mie paure.



“Javier, Javier.”



Per tutta la notte la sua chiamata fu costante, indagatrice, invitante. Sarei andato con lui se avessi saputo dove andare.





GIORNO 2


COME SCOPRO LE MERAVIGLIE DELLA GIUNGLA



"No, non uccidetelo!" Urlai, agitandomi convulsamente e così facendo caddi dall'albero con un tonfo.



Mi scossi da un lato all'altro, scappando dai miei stessi fantasmi, ignorando il dolore della caduta. Guardai dappertutto completamente disorientato e mi fermai per un momento, rannicchiato, gemendo come un animale gravemente ferito. Mentre mi massaggiavo la schiena ferita, mi resi conto che era stato un incubo, un incubo molto reale, dal momento che avevo sognato di rivivere la morte di Juan, lo schianto dell'aereo, di nuovo il corpo inerte di Alex nelle mie mani. Il sudore mi colava sulla fronte, le mani mi tremavano. Feci un respiro profondo e decisi di muovermi, desideravo solo allontanarmi il più possibile dall'aereo in cui avevo perso parte della mia vita. Il mio passato era terribile, il mio futuro desolante.



La schiena mi faceva molto male per la postura che avevo tenuto, per la caduta o per entrambi i motivi, ed ero un po’ arrabbiato. Lamentosamente mi alzai per raccogliere gli zaini e mi resi conto che mancava lo zaino col cibo. Il salto che feci per lo stupore quasi mi fece cadere di nuovo dall'albero. Senza quello zaino non potevo fare niente. Cercai spaventato tra i rami e, quando ormai credevo che non lo avrei più ritrovato, vidi che era steso a terra con tutto il suo contenuto sparso. Probabilmente l'avevo lanciato io, trascinandolo nella mia caduta o muovendomi di notte. Scesi con cura con l'altro zaino sulle spalle e raccolsi tutto quello che trovai: tre lattine di soda, un panino con la salsiccia, alcuni biscotti rosicchiati e pieni di formiche, una scatola con sacchetti di sale da usare nelle insalate e le due scatole, che risultarono essere di mele cotogne. Il resto era scomparso, doveva essere stato portato via dagli animali. Ciò mi fece concludere che era caduto di notte.



Decisi di fare un inventario di tutto ciò portavo, per vedere cosa poteva essermi utile e buttare via ciò che non lo era. Non aveva senso portare peso inutile e avevo bisogno di sapere di che strumenti potevo disporre. Nel mio zaino, a parte il cibo, portavo il coltello che avevo comprato a mio padre, tutte le figure di legno, un diario di viaggio sull'Africa centrale, un pacchetto di fazzolettini, un binocolo 8x30, un cappello di tela color kaki e una maglietta con scritto "I love Namibia". Del kit di pronto soccorso mi rimanevano una scatola di aspirina a metà, un'intera scatola di antidiarroici, una benda, tre cerotti e alcune pillole per il mal di mare. A parte, ovviamente, i documenti. Anche nello zaino di Juan c'erano i suoi documenti e, inoltre, le tre coperte e un cuscino da aereo, un piccolo libro con frasi Swahili, i suoi occhiali da sole, un berretto, alcune barrette di cioccolato, una bottiglia d’acqua di plastica da un litro quasi vuota, una forchetta, una grande figura di legno di un elefante e molte altre più piccole, un pacchetto quasi pieno di sigarette e un accendino.



Non potevo portare due zaini, quindi tenni tutto nel mio, che era in condizioni migliori, tranne una delle coperte, il cuscino che occupava molto spazio e tutte le figure di legno, inutili in questo ambiente, che seppellii e coprii con resti di foglie. Mentre scartavo alcune cose, ricordavo le persone per le quali erano; Elena, la mia famiglia, i miei amici, Alex, Juan... e non passò molto tempo prima che ricominciassi a piangere. Non li avrei rivisti mai più, nessuno di loro. Beh, avrei rivisto presto Alex e Juan, in paradiso o dovunque si vada una volta morti.



In quel momento mangiai le barrette di cioccolato disfatte dal calore, pulendo l'involucro con la lingua fino a quando non ne rimase traccia. Erano buonissime. Bevvi anche quella poca acqua rimasta nella bottiglia. Fu allora che mi resi conto che dovevo fermarmi un attimo per riflettere sui miei passi successivi. Mi vennero in mente alcune domande: i ribelli sapevano che ero vivo? Dove sarei andato adesso?



Rispetto alla prima domanda, non avevo risposta. Forse erano riusciti a convincere qualche passeggero a confessare che mi aveva visto, forse avevano cercato nei dintorni e avevano trovato le mie tracce o la lattina che avevo gettato a terra dopo averla bevuta (era stato un grosso errore, anche se in quel momento ne avevo abbastanza col problema di dover scappare), forse stavano dappertutto e mi avrebbero trovato comunque, o magari non sapevano nulla. Qualunque cosa fosse successa da quel momento in avanti, avrei dovuto cercare di stare più attento e lasciare il minor numero di tracce possibile ovunque andassi.



Rispetto a dove andare. Mi sembrava di ricordare che dall'aereo, durante l’atterraggio vertiginoso, avevo visto un villaggio all'orizzonte, in una grande radura nella giungla. Quello che non sapevo era se sarebbe stata la base dei ribelli o no, ma era molto probabile, visto che era molto vicino a dove ci avevano attaccato. Dato che stavamo viaggiando dal Sud Africa verso il nord, dovevo presumere che continuando sempre verso nord avrei lasciato la giungla, sarei arrivato in un altro paese e avrei avuto più possibilità di trovare aiuto. Come mi mancavano i miei amici adesso! In quel momento mi sarebbero serviti l'entusiasmo, l'ottimismo e la gioia traboccanti di Alex e la fredda capacità di analisi, calma e determinazione nell’affrontare le situazioni di Juan. Quanto avevo bisogno della loro compagnia per trovare abbastanza coraggio e per affrontare questa sfida indesiderata che mi si presentava inevitabilmente! Con loro sarebbe stato più facile, addirittura un'avventura da raccontare al ritorno; ma erano morti, assassinati, sterminati come mosche volgari senza pietà, annientati nel fiore della vita... e io dovevo sopravvivere in un modo o nell’altro. Bastardi, figli di...! Tranquillo, Javier, tranquillo, dovevo cercare di mantenere la calma, era la mia unica opzione se volevo avere qualche possibilità. Bene, il sole sarebbe dovuto sorgere a est e tramontare a ovest, quindi se aveva albeggiato più o meno da quel lato... sarei dovuto andare in quella direzione. Se con quel sistema di orientamento fossi arrivato da qualche parte non sarebbe stata abilità, ma un miracolo. Comunque, per essere sicuro, scalai con attenzione uno degli alberi più alti che riuscii a vedere.



Fu facile, poiché aveva molti rami da usare come scale, anche se più in alto salivo più erano piccoli e flessibili, quindi feci molta attenzione ad appoggiare i piedi proprio sulla base dei rami, che era la parte più ampia e resistente. Spuntava sopra la maggior parte degli alberi e, quando raggiunsi quasi il punto più alto, il panorama era scioccante. Un mare verde si stendeva in tutte le direzioni come un tappeto, salendo e scendendo, seguendo il contorno della terra, imitando le onde, una vasta distesa di vita. Solo alcuni alberi solitari molto più alti degli altri spiccavano nell'immensità di quell'arazzo, formato dalla chioma delle cime infinite della giungla. Non vedevo altro che le cime degli alberi in tutte le direzioni, senza fine. Anche con l'aiuto del binocolo non si vedeva nulla da nessuna parte. La verità è che questo non mi aiutava troppo nella mia ricerca della direzione da seguire. Scesi dall'albero e nascosi lo zaino di Juan, con tutto ciò che rimaneva in esso, seppellendolo per metà sotto un tronco caduto. All'ultimo momento decisi di tenere la giraffa per Elena, se mai l'avessi rivista, volevo avere un regalo per lei. Diedi un'ultima occhiata in giro per controllare che non restassero chiari segni della mia presenza e, quando ero mediamente convinto, iniziai a camminare senza troppe speranze. Quanto avevo bisogno dei miei amici!



Durante la marcia incontrai alcuni uccelli colorati con suggestivi petti rossi e il resto del corpo verdastro


. Volteggiavano in uno stormo di circa dodici o quindici tra i rami degli alberi con incredibile agilità. Non appena feci un po’ di rumore scomparvero dalla mia vista in un batter d'occhio. Solo quegli splendidi animali mi fecero uscire per un momento della opprimente sensazione di solitudine con cui la giungla mi colpiva implacabilmente, un mondo opprimente, ostile, spietato, nell'oscurità permanente in cui il peso, lo sconforto o il soffocamento non erano altro che abituali compagni di viaggio.



Il percorso era difficile. Dovevo costantemente aggirare o saltare ostacoli. A volte c'erano delle piccole radure, ma le costeggiavo per paura di risultare troppo visibile. Sudavo senza sosta e avevo molta sete, ma non volevo bere un'altra lattina perché ne restavano solo tre. Dovevano essere circa 25º con un'umidità molto elevata, il che accentuava la sensazione di oppressione e calore. Per un po' mi tolsi la maglietta, ma venni punto da così tante zanzare che dovetti rimettermela. A volte il bosco diventava troppo fitto e dovevo farmi strada con un bastone che avevo raccolto e usato come macete. In quei casi, praticamente non avanzavo, poiché con il bastone il massimo che riuscivo a fare era rimuovere i rami dal sentiero mentre passavo, non tagliarli. Inoltre, avevo la parte inferiore delle gambe e gli avambracci pieni di ferite causate dallo sfregamento delle piante in quelle zone in cui i vestiti non mi coprivano. Perfino il viso mi pizzicava in diversi punti, segno che mi ero tagliato anche lì.



A volte il terreno era pieno di rami o tronchi abbattuti, altre volte era morbido, coperto di foglie cadute, e dovevo stare attento a non torcere la caviglia in un buco o scivolare, perché sarebbe stato fatale. In alcune zone le cime degli alberi erano così vicine da impedire il passaggio della luce, creando atmosfere di chiaroscuro, sicuramente cupe; oppure formavano diversi piani di luci di diverse tonalità a seconda delle altezze. In quelle zone passavo spaventato perché avevo l'impressione di essere costantemente attaccato da fantasmi, che in realtà erano i rami più alti degli alberi che si muovevano al suono del vento, che doveva essere sul tetto verde della giungla e che, per inciso, faceva si che si producesse un terribile urlo perenne che ti perseguitava da tutte le parti. Più volte la giungla si addensava così tanto che era assolutamente impraticabile e dovevo fare lunghe deviazioni per andare avanti. Non avevo mai creduto che così tante piante diverse potessero vivere assieme. Non vedevo più il romanticismo di camminare nella giungla come gli esploratori, inoltre, volevo uscire da quel luogo il prima possibile. Infine, dato che stavo facendo molto rumore, mi tremava il cuore pensando che, se mi avessero seguito, sarebbe stato molto facile localizzarmi.



Proprio come durante la notte, c'era un suono incessante in tutte le direzioni, non era lo stesso rumore, però si sentiva anche il ronzio degli insetti, strani canti di uccelli nelle cime degli alberi e alcune urla che supponevo provenissero da delle scimmie o qualcosa del genere. Almeno non si sentivano i ruggiti inquietanti, dovevano essere stati di un cacciatore notturno, o almeno così volevo credere. Per quanto potessi vedere, non vedevo molti animali, ma potevo sentirli tutti.



Guardai l'ora sul mio orologio. Erano le dieci del mattino. Camminavo da un'ora e non ne potevo più. Il ginocchio aveva già iniziato a inviare segnali di avvertimento, lo sentivo un po' gonfio. Più volte i legamenti o qualunque cosa fossero mi si erano accavallati e avevo dovuto rimetterli a posto con la mano, massaggiandoli delicatamente ma con fermezza. Mi sedetti per terra a riposare un po', appoggiato a un tronco di un albero molto alto e ci strofinai le mani. Il caldo mi fornì un po’ di sollievo. Ero in una zona abbastanza libera. Dopo un po’ di tempo che stavo seduto, vidi sul ramo di un albero di fronte a me un uccello simile a un pappagallo con un piumaggio bluastro opaco, l'unica nota di colore era il rosso della sua coda, con un alone bianco intorno agli occhi, il becco nero ed emetteva strilli quasi umani


. Girava la testa praticamente in tutte le direzioni, senza muovere il resto del corpo, ricordandomi la ragazza dell'esorcista. Si avvicinò dondolandosi a un frutto dell’albero e cominciò a beccarlo. Il frutto era di colore rosso-arancio, delle dimensioni di una mano e di forma simile a una zucca.



“Sicuro che sai dove sei”, dissi tra me e me, “sicuro.”



Rimasi quasi mezz'ora a riposare, dopodiché ricominciai a camminare. Ogni volta che costeggiavo una radura e dovevo riprendere la direzione presumibilmente corretta, mi convincevo sempre di più che sarei potuto rimanere a girare per anni senza accorgermene. Mi sembrava tutto uguale e il sole non mi era già più di grande aiuto. Guardavo quanto era alto, lo confrontavo con l'ora dell’orologio e arrivavo alla conclusione che non avevo idea di cosa stessi facendo. Continuai con lo stesso ritmo tutta la mattina, camminavo un'ora e mi riposavo per un po'. Nei momenti di riposo leggevo il frasario in swahili o il diario di viaggio per intrattenere la mia mente con qualcosa, magari mi sarebbe servito per comunicare con qualcuno in un ipotetico incontro. Ogni volta era più faticoso alzarsi e continuare, il mio ginocchio mi faceva zoppicare e verso le due del pomeriggio caddi arreso.



Era tutta colpa mia, avevo trascinato i miei amici in questo posto infernale, per colpa mia erano morti. Se li avessi ascoltati saremmo stati di ritorno dall'Italia con tantissime foto di Venezia e qualche cartolina della Toscana. Colpa mia, era tutta colpa mia.



Ero assetato e il mio stomaco ruggiva ininterrottamente. Mi trovavo di fronte a un dilemma: mangiare per recuperare le forze o risparmiare, data la scarsità di cibo che avevo, rischiando che mi succedesse qualcosa? Si supponeva che avere cibo e acqua in una giungla fosse facile, o almeno così pensavo in quel momento, ed ero molto affamato, quindi optai per bere una lattina di soda e mangiare i biscotti rosicchiati, allontanando le formiche soffiando, e il panino. Alleviai un po' il mio appetito tenace. Tenni le mele cotogne pensando che ci avrebbero messo più tempo per rovinarsi. Poi mi addormentai per la stanchezza e perché non ero riuscito a dormire la sera prima.



Quando mi svegliai sentii un suono sibilante molto vicino. Doveva esserci un serpente accanto a me. Rimasi immobile cercando di affinare l’udito per scoprire dove potesse essere. La paura mi attanagliò lo stomaco e divenne faticoso respirare. Una volta avevo visto un documentario sui serpenti chiamato "I serpenti dei tre passi", perché quando ti mordevano ti davano il tempo di fare solo tre passi prima di morire. Questo in fondo non era male considerata la situazione, ma se fossi stato morso da un serpente che mi avrebbe fatto agonizzare per ore, perdendo il controllo a poco a poco, raggiungendo il parossismo della follia... Avevo così paura di soffrire, il terrore del dolore. Se dovevo morire volevo che fosse una cosa rapida, quasi lo desideravo per liberarmi della situazione in cui mi trovavo. Me lo meritavo. Mi sembrava che il sibilo fosse man mano più vicino, potevo anche sentire il fruscio delle foglie al suo passaggio, si stava dirigendo verso di me, ne ero sicuro. Quasi potevo sentire come scivolava sul mio corpo, salendo dalla gamba verso il mio collo, era quasi arrivato, stava per mordermi. Chiusi gli occhi per un momento e respirai profondamente, cercando di calmarmi. Poi riaprii gli occhi e, senza muovermi di un centimetro, li muovevo in tutte le direzioni cercando di localizzarlo. Finalmente riuscii a vederlo. Stava raggomitolato su un ramo di un albero tre metri alla mia destra, alto circa due metri. Muoveva solo la testa da un lato all'altro, come se stesse tenendo d’occhio qualcosa. Era di colore verde con un leggero tocco bluastro, un po' giallastro ai lati, con una lunga coda, poco più di un metro di lunghezza, e un corpo magro, come se fosse compresso lateralmente, quasi invisibile tra le foglie


. Quando scivolò lungo il ramo, vidi che aveva la pancia biancastra.



Restai per un po' senza muovermi, in ascolto, finché mi convinsi che era lui quello che avevo sentito e il resto era stato il risultato della mia immaginazione. Mi alzai lentamente e scrutai il terreno per cercare un altro serpente, ma quello che vedevo era l'unico. Almeno l'unico che avevo localizzato. All'inizio pensai di fare una deviazione e di andarmene, ma poi mi ricordai che si diceva sempre che la carne di serpente aveva il sapore del pollo, che era molto buona. O almeno questo era ciò che i nonni raccontavano come storiella della guerra civile e della fame che avevano sofferto. Mi sembrò una buona opportunità per procurarsi del cibo e, se inoltre avrebbe avuto un buon sapore, sarebbe stato ancora meglio. Cercai un bastone lungo con una punta a "V" per cercare di tenergli la testa. Tolsi anche il coltello dalla tasca, lo aprii e lo misi sulla cintura dei miei pantaloncini. Trovai un ramo caduto adatto e gli diedi la forma che stavo cercando, tagliando un'estremità a forma di “V”, senza mai perdere di vista il serpente. Il processo di preparazione mi sembrò infinito e mi esaurii estremamente, sebbene in realtà non comportasse alcuno sforzo fisico considerevole.



Quando fui pronto, mi avvicinai di soppiatto al serpente. Questo sembrò non accorgersene o mi ignorò, in ogni caso non mi prestò nessuna attenzione. Quando fui a circa mezzo metro di distanza, sollevai il bastone e lo colpii con tutte le mie forze sulla testa. Con il primo colpo rimase mezzo sospeso, così glie ne diedi altri due finché non cadde a terra. Poi gli agganciai la testa con la forchetta del bastone e premetti molto forte contro il terreno. Il serpente tremava convulsamente, sibilando senza sosta ed io ero terrorizzato. Se lo avessi lasciato per colpirlo a distanza con il bastone, avrebbe potuto attaccarmi, l'altra opzione era avvicinarmi e infilzarlo con il coltello. Raccogliendo il mio coraggio, mi avvicinai e calpestai la coda, premendola a terra nel tentativo di tenerla ferma. Mi chinai e conficcai il coltello appena sotto la testa dell’ofide, incollato al bastone, lasciandolo conficcato a terra. Tuttavia, continuava ad agitarsi, così tolsi il coltello e segai il suo collo fino a quando non separai la testa dal resto del corpo. Poi feci un salto indietro, temendo, ignaro, che potesse ancora attaccarmi. La coda continuava a dimenarsi senza sosta, sputando sangue dove prima c’era la testa. Lo colpii un paio di volte con il bastone, ma non gli importò, quindi decisi di lasciarlo lì per un po'. In meno di mezzo minuto, smise di muoversi gradualmente fino a quando fu completamente fermo. Gli diedi qualche colpetto con il bastone ma non si muoveva. Era decisamente morto. Finalmente riuscii a respirare tranquillo.



Il mio primo trionfo nella giungla. L'uomo aveva dominato la bestia. Mi sentivo totalmente euforico, per un momento tutti i miei problemi si dissolsero come lo zucchero in un bicchiere di latte caldo. Da quel momento sapevo che sarei sopravvissuto e sarei uscito di lì. Ero un autentico avventuriero, un sopravvissuto nato. Nulla poteva impedirmi di uscire da quel labirinto verde e di tornare a casa, a casa. Ero stato sfidato da Madre Natura e avevo dimostrato il mio valore, la mia capacità di adattarmi e sopravvivere. Adesso lo sapevo, ero il vincitore di questo ineguale combattimento tra me stesso e gli elementi avversi.



Presi il serpente e lo tagliai a metà con il coltello, tirando fuori le viscere il meglio che potevo, non senza abbastanza disgusto. Per questo, l’afferrai per un'estremità e mi girai a tutta velocità, voltandomi più volte rapidamente e facendo uscire le viscere che volavano in tutte le direzioni. Poi pensai che questo andava contro il mio piano di essere discreto e di non attirare l'attenzione, ma c'erano già resti di serpente dappertutto e non avevo voglia di raccoglierli. Ciò che restava, una volta finito di pulirlo con il coltello, provocandomi un paio di conati di vomito, era disgustoso. A quel punto lo scuoiai. Quando era pronto mi resi conto di un problema. Non potevo accendere un fuoco per cucinarlo, perché avrebbero scoperto la mia esistenza e la mia posizione, quindi avrei dovuto mangiarlo crudo. Scrutai la carne insanguinata scrupolosamente. Tagliai un bel pezzo e me lo misi in bocca. Se gli animali mangiavano cibo crudo anche io potevo. Masticai un paio di volte e sputai tutto. Era disgustoso! Aveva una consistenza simile alla plastica, come se stessi cercando di mangiare una bambola dalle mie sorelle o cartilagine mezza distrutta. Mi era sempre piaciuta la carne molto cotta, non ero mai riuscito a mangiarla poco cotta e quindi, tanto meno, completamente cruda. Quello che mi aveva sempre disgustato erano le cose con la stessa consistenza di quella carne: la pelle di pollo poco cotta, la pancetta, i calli...



Totalmente deluso, presi tutti i resti del serpente e i resti del mio cibo e li seppellii. Poi ci gettai alcune foglie sopra per nasconderlo meglio. A cosa mi serviva procurarmi il cibo se non riuscivo a mangiarlo? Rischiare di essere morso da un serpente e ucciso, per cosa? Inoltre, c'era il problema dell'acqua. Dovevo trovare qualcosa da bere perché non smettevo di avere una sete terribile e mi rimanevano solo due bibite. Mi lasciai cadere a terra, sudando copiosamente per lo sforzo fatto per catturare il serpente. Sconfitto, bevvi una delle due bibite e lanciai la lattina. Che mi scoprano, dopo tutto è meglio morire crivellati che di fame, ci vuole meno. Inoltre, avevo sparso budella di serpente per un raggio di due metri. Addio al vincitore, addio al sopravvissuto nato, benvenuto al fallito che stava per morire in un giardino selvaggio. Me lo meritavo, per cui non potevo lamentarmi. Avevo ucciso i miei due migliori amici. Comunque sapevo di aver visto qualcosa in televisione a proposito dell'acqua nella giungla, mi ricordavo che avevano detto che era facile ottenerla in un modo specifico, ma non ricordavo come.



Per un po' di tempo, che non calcolai, rimasi lì, seduto sul suolo, con le braccia appoggiate sulle ginocchia e la testa in giù, la mente vuota, lasciandomi andare. Rassegnazione, conformismo, abbandono, rinunciare a vivere. L’incidente aereo con la morte di Alex, vedere come crivellavano Juan, l'euforia del serpente e la conseguente delusione, stanchezza, sonno... Troppe cose praticamente in ventiquattro ore, troppe emozioni intense. Perché Juan era stato così stupido ed era uscito correndo così? Perché mi aveva lasciato solo? Almeno saremmo stati noi due e tutto sarebbe stato diverso; ma no, aveva dovuto cercare di scappare in quel modo così... così... Volevo andare a casa, chiudere gli occhi e trovarmi nel mio letto quando li avrei riaperti e tutto sarebbe stato un incubo più realistico del normale, un brutto sogno come qualsiasi altro, un aneddoto da raccontare quando esci con la tua ragazza e i tuoi amici nel pomeriggio. Mi misi a piangere, ma quasi non cadevano lacrime dai miei occhi.



Perso, scoraggiato, deluso e consumato dalla stanchezza e dal sonno. Non sapevo cosa fare. Alla fine, per semplice automatismo, seppellii la lattina che avevo gettato e mi alzai per continuare a camminare, anche se a un ritmo molto più calmo, lasciandomi andare, quasi trascinando i piedi. Camminai e mi fermai a intermittenza fino a quando furono le otto di sera. Le soste erano ogni volta più lunghe, i momenti di camminata sempre più brevi. Usavo il bastone che avevo usato con il serpente come appoggio, alleviando così la pressione sul ginocchio infortunato, anche se in quel momento non sentivo più le gambe. Camminare per camminare, senza nemmeno provare a stabilire bene la mia direzione, dopo tutto, non sapevo con certezza come farlo e potevo quasi dire che non mi importava. Perché avevo dovuto convincerli a venire qui, perché? Non ascoltavo mai nessuno, dovevo sempre uscirmene con la mia. Guarda dove mi aveva portato la mia voglia di controllare tutto, di comandare tutto. Juan, idiota, perché eri uscito correndo così, suicidandoti? Questo era colpa tua, io non avevo niente a che fare con questo. Colpa tua. Tua.



Quando non ne potei più, mangiai una scatola di mele cotogne intera e bevvi la lattina rimasta, nascondendo tutti i resti, inclusa una delle due coperte che mi erano rimaste. Perché ne volevo due? Meno peso portavo meglio era. Inoltre, erano molto calde e quando portavo lo zaino avevo l'impressione che mi stessero arrostendo la schiena, portavo la maglietta incollata permanentemente al corpo per il sudore, il che produceva una sensazione spiacevole. Avevo anche iniziato a provare una costante sensazione di vertigini, forse perché ero disidratato per mancanza di acqua. Non c'era da stupirsi, le bibite avrebbero dovuto dissetare sul momento ma non idratavano molto. L'effetto yo-yo, lo chiamava un mio compagno di classe della scuola, a causa dello zucchero diceva.



Siccome si stava facendo buio e non avevo voglia di tornare a dormire così scomodo su un albero, cercai un posto un po' riparato, con la terra asciutta, fabbricai un esiguo materasso di foglie e rami verdi, mi raggomitolai come potei, coperto dalla piccola coperta e con lo zaino come cuscino e mi addormentai. Avevo trascorso il mio primo giorno intero nella giungla ed ero più che stufo, ero esausto e volevo che tutto questo finisse in tutti i modi.




GIORNO 3


COME COMINCIANO LE MIE SOFFERENZE



Qualcosa mi stava attaccando, sentivo come mi pungeva su tutto il corpo. Mi alzai di scatto, completamente sveglio di colpo e urlando. Guardai le mie mani ed erano coperte di formiche rossastre con la testa molto grande, il mio corpo ne era completamente ricoperto. Mi pungevano di continuo, da tutte le parti. Mi tolsi i vestiti, quasi strappandoli e iniziai a scuotermi il corpo con le mani, saltare, agitarmi e contorcermi come la coda di una lucertola, urlando e gemendo per il dolore. Alcune mi entrarono in bocca, costringendomi a sputare ancora e ancora, altre le sentivo nel naso, nelle orecchie, ovunque. Era come se un intero sciame di api avesse deciso di attaccarmi nello stesso momento. A poco a poco riuscii a sbarazzarmi delle formiche, ma mi ci vollero circa dieci minuti prima che notassi che nessuna di loro correva più impunemente sul mio corpo. Un'infinita colonna di formiche


attraversava il punto in cui mi ero sdraiato. Tutto il mio corpo era rosso per i colpi che mi ero dato per staccare le formiche e pieno di macchie ancora più rosse per i morsi ricevuti da quei dannati insetti. Tutto mi prudeva così tanto che non sapevo nemmeno da dove cominciare a grattarmi. Sebbene non ne avessi addosso più nessuna, di tanto in tanto avevo l'impressione di notare qualcosa che correva da qualche parte e mi agitavo di nuovo convulsamente.



Quando riuscii a dominare un po' la mia rabbia e frustrazione, presi lo zaino e lo scossi da tutte le formiche, e feci lo stesso con la coperta e i vestiti che avevo sparso per terra. Indossai solo le scarpe da ginnastica e misi il resto nello zaino. Afferrai alcune pietre e alcuni rami e li lanciai furiosamente contro la colonna ordinata, mentre insultavo le formiche. Per un momento persi il controllo, la rabbia mi investì. Sì, le formiche avevano la colpa di tutto, dovevo ucciderle, mi avevano portato a questa stupida situazione e avrebbero pagato per questo. Le pestai ancora e ancora, furioso, frenetico, come posseduto dall’ardore di una distruzione inarrestabile. Alcune mi salirono su per le gambe e mi morsero di nuovo, ma non sentivo più nulla, il dolore aveva cessato di esistere per un momento. Un pensiero solitario nella mia testa: uccidere le formiche. Calciavo, colpivo quelle a terra e schiacciavo quelle che avevo sul corpo con pesanti manate, spiaccicandole contro le mie gambe, le mie braccia o il mio petto. Per alcuni minuti quella fu la mia unica guerra, il mio unico mondo: pestoni, colpi con le mani, urla di furia, di frustrazione soppressa per troppo tempo. Un Gulliver furioso che distrugge il mondo di Lilliput. Poi mi allontanai di qualche passo, crollai per terra e rimasi per un po' come perso, totalmente abbandonato al mio destino, cieco a ciò che stava accadendo intorno a me, ignaro di qualsiasi cosa che non fosse il niente, il vuoto interiore. Alla fine reagì. Durante la notte mi era sembrato di sentire il mormorio di un ruscello vicino, così andai a cercarlo, nudo, riluttante, tremante, con tutto il corpo che mi pungeva, bastone in mano e zaino in spalla. Dietro di me una miriade di formiche schiacciate e molte altre che correvano in giro nella loro danza particolare di follia disorganizzata.



Effettivamente, il mio orecchio non mi aveva ingannato. Un fiume largo circa cinque metri si apriva la strada attraverso la foresta sotto il mio naso. La mia prima intenzione fu quella di togliermi le scarpe e gettarmi in acqua, ma mi ricordai qualcosa sulle sanguisughe, così prima ispezionai attentamente l'acqua sulla riva, permettendo alla prudenza di vincere la mia disperazione per un momento. Il solo pensiero che una sanguisuga potesse attaccarsi al mio corpo, agganciata, succhiandomi il sangue, mi scosse. Toccando l'acqua con la mano, notai che non era così fredda da non poterla sopportare per un po'. Mi sembrò di non vedere nulla, tranne alcuni bellissimi pesciolini rossi, alcuni più colorati di altri; erano troppo piccoli per sfamare e troppo carini per ucciderli. Avevano un corpo allungato e appiattito, la coda divisa in tre parti, quella centrale simile alle piume degli uccelli, gli occhi proporzionalmente grandi rispetto alla testa, avevano una colorazione blu iridescente, ma, quando i raggi del sole si riflettevano su tutto il loro corpo, una gamma incredibile dal blu al viola si sfumava sulle loro squame


. Cercai qualcos'altro come piranha, coccodrilli o qualcosa del genere ma non trovai nulla. Così decisi di farmi un bagno dopo aver bevuto un po' d'acqua.



Entrai un po' in acqua, assicurandomi prima con il bastone che il terreno fosse solido, con le scarpe addosso, perché avevo paura che mi mordesse un insetto o qualcosa mi si conficcasse. Il primo impatto mi causò un brivido per il contrasto dell'acqua con la temperatura esterna, anche se presto mi abituai. Intorno a me volavano alcune libellule dai colori vivaci, con le loro forme allungate e il loro volo veloce e sicuro; c’erano anche molti insetti, che volavano tanto quanto correvano sulla superficie dell'acqua come se fosse una pista di pattinaggio.



Quando l'acqua raggiunse le mie ginocchia mi fermai e mi bagnai tutto il corpo con l'aiuto delle mani. L'effetto rinfrescante dell'acqua sugli infiniti morsi delle formiche, sugli innumerevoli graffi e sul ginocchio infiammato mi diede una indescrivibile sensazione di sollievo. Poter stare in acqua per un po', dimenticandomi di tutto, godendo di ogni secondo, mi produsse uno stato di profondo rilassamento. Chiusi gli occhi e immersi la testa nell'acqua, trattenendo il respiro il più possibile, sentendo la freschezza che scorreva attraverso la mia pelle, avvolgendola e accarezzandola delicatamente. Per un breve momento tutti i problemi e le preoccupazioni svanirono. Bevvi anche grandi boccate d'acqua, fino a quando mi sentii completamente sazio. Quando uscii dall'acqua, ero determinato a sopravvivere in un modo o nell’altro, il mio animo si era rinforzato, il mio spirito pronto per la lotta.



Udii un rumore in un albero vicino e mi nascosi rapidamente nella boscaglia. Mi avevano già trovato, nudo e impreparato, sicuramente mi avrebbero ucciso, assassinato senza pietà, sacrificandomi come un vile animale. Non volevo morire, non avrei potuto ingannarli? Non meritavo un po' di pace? Non ne avevo avuto abbastanza con le formiche? Le immagini di Juan mitragliate dai ribelli apparvero nella mia testa come una successione di brevi lampi, il corpo senza vita di Alex seduto sull'aereo dopo l'incidente con il sangue che gli scorreva sulla fronte mi tormentò di nuovo. Mi immaginai sanguinante dai vari buchi nel mio corpo prodotti dagli spari dei ribelli, steso a terra ai piedi di un grande albero, loro ridendo, io agonizzando. Il dolore... Sbirciai tra le foglie degli alberi e finalmente scoprii l'origine del suono: una scimmia alta circa cinquanta centimetri con una coda altrettanto lunga, la faccia bluastra, su ogni lato tra occhio e orecchio una fascia di pelo scuro, una chiara fascia trasversale sopra gli occhi, la maggior parte del corpo di colore marrone giallastro, con gola, petto e pancia bianchi


. Forse non ero predestinato a morire quel giorno. A poco a poco ne apparvero altre e cinque di loro si unirono, saltando da un ramo all'altro e lanciando strilli acuti. Stavano giocando o qualcosa del genere, si appollaiavano su un ramo e lo agitavano con energia mentre urlavano. Forse erano in calore, non lo sapevo, ma fu un grande spettacolo. Lentamente il mio cuore ricominciò a battere alle sue pulsazioni normali. L'ultima cosa che vidi fu una di loro raccogliere qualcosa dal suolo, che da lontano sembrava una scolopendra, e mangiarsela.



Sull'altra sponda del fiume apparve un'altra scimmia di forma simile ma con colori diversi. Questa aveva una faccia nera, basette e barba bianche che continuavano sul suo petto e parte delle sue braccia. Il suo colore era più nerastro e aveva una macchia triangolare rosso-arancio sul dorso. Era più grande della precedente e considerevolmente più robusta


. Bevve un po' d'acqua portandosela alla bocca con la zampa e scomparve. Rimasi un po' a guardare gli altri giocare e saltare. Era un'esperienza unica che non avrei mai pensato di vivere. Ancora una volta mi ricordai dei miei due amici morti e di quanto si sarebbero divertiti a vedere tutto ciò, specialmente il gioviale Alex, sempre così curioso di tutto. Con chi avrei commentato questi momenti, con chi li avrei condivisi? Non c'era nessuno che li avrebbe vissuti con me, che avrebbe potuto capirli. No, non dovevo pensarci, non mi aiutava ad andare avanti, mentre avevo bisogno di raccogliere quanta più energia possibile per sopravvivere. Uscire da questa dannata giungla doveva essere il mio unico obiettivo. Fuga da questo inferno verde.



Mi tolsi le scarpe, le strizzai un po' per far uscire l'acqua e le agganciai alle estremità di alcuni rami per asciugarle. Poi presi la bottiglia d'acqua e cercai un posto con acqua corrente per riempirla, mi sembrava di aver letto che era peggio prenderla in luoghi dove l'acqua era stagnante perché c'erano più possibilità che non fosse salutare o che contenesse qualche tipo di parassita. Certo, avrei potuto ricordarmene prima di bere. Tutto il mio corpo non smetteva di prudere, anche se con meno intensità di prima. Sentivo delle fitte alla coscia e quando la guardai per vedere se avesse preso qualche botta, trovai una sanguisuga che mi si era attaccata alla gamba per succhiare il sangue. Era una specie di lumaca, forse più sottile. Prima mi spaventai, poi reagii e pensai a come risolvere la cosa. Se non mi ricordavo male, le sanguisughe venivano rimosse con il sale o bruciandole. Tirai fuori l'accendino e le avvicinai la fiamma fino a quando non si restrinse, approfittai di quel momento per staccarla con il coltello. Dove prima era attaccata restava solo una macchia rossa, una goccia di sangue trasudava dal bordo. Bruciai la punta del coltello con l'accendino e accuratamente cauterizzai la ferita. Non avevo idea se le sanguisughe infettassero o meno la ferita che producevano e preferivo non rischiare. Mi fece così male che dovetti fare grandi sforzi per non urlare con tutte le mie forze. Controllai il resto del corpo per vedere se ne avevo altre, ma era l'unica. Sulla gamba avevo la forma della punta del mio coltello incisa a fuoco. Mi sarebbe uscita una vescica tremenda. Forse non avrei dovuto fare quella barbarie.



La pigrizia prese il controllo del mio corpo e decisi di concedermi una mattinata libera. Così tante emozioni di seguito stancavano, ero devastato e il mio corpo pesava uno sproposito. Cercai un posto ombreggiato e quando mi asciugai mi misi i vestiti e la maglietta ricordo della Namibia, che portavo nello zaino, la usai per coprirmi tutta la testa, inclusa la faccia, per evitare i fastidiosi e numerosi insetti che popolavano la riva. Prima di coricarmi osservai un cespuglio lì vicino, ne avevo visti abbastanza come questo, con un vistoso frutto color carminio con piccoli semi bluastri


. Sarebbe stato commestibile? Schiacciai qualche formica sbadata che non era ancora riuscita e scrollarsi dai vestiti. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da uno stato di sonnolenza, di torpore, il calore e l'umidità producevano pesantezza nei muscoli e nella volontà.



Uno sparo, poi una raffica di qualche arma automatica, altri colpi. Mi alzai di scatto. Si sentivano dall'altra sponda del fiume, sebbene lontani. Davvero non me lo aspettavo, mi avrebbero trovato da un momento all'altro. All'improvviso ripresi nuovamente coscienza che la mia situazione non mi permetteva di rilassarmi, che non mantenere tutti i miei sensi in costante allerta sarebbe stata la mia rovina.



Rapidamente raccolsi tutte le cose, misi la maglietta nello zaino, indossai le calze e le scarpe e raccolsi il bastone. Erano ancora bagnate, ma in quel momento non avevo tempo di fissarmi su quei dettagli. Decisi che il modo migliore per arrivare da qualche parte era di continuare lungo il letto del fiume, ma dal momento che seguirlo lungo la riva mi sembrava molto pericoloso, mi addentrai di nuovo nella giungla per cercare di passare inosservato tra il fogliame e camminare a quattro o cinque metri parallelamente al fiume. Era un mondo chiuso, dove guardando in qualsiasi direzione non trovavo altro che un impenetrabile muro verde senza via d'uscita. Al massimo vedevo a tre o quattro metri di distanza da me. Presto persi il fiume e ancora una volta mi ritrovai sulla strada verso il nulla.

Continuai a camminare a un ritmo a volte molto veloce e talvolta più morbido per tutto il pomeriggio, con pochi momenti di tregua. Quanto bastava per riprendere fiato e ascoltare se si udivano altri spari. Dovetti sopportare permanentemente il suono, simile a quello prodotto quando si pesta una pozzanghera, che facevano le mie scarpe ad ogni passo e sporadici avvertimenti di crampi al polpaccio. A volte la densità del fogliame aumentava, immergendo alcuni luoghi nell'ombra. C'erano zanzare dappertutto, non smettevano di tormentarmi come se si trattasse di una battaglia senza fine. A volte mi ricordavano i kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale, che piombavano sul bersaglio senza preoccuparsi della propria vita. Le zanzare erano uguali, si lanciavano continuamente sul mio corpo senza preoccuparsi delle vittime che causavano i miei colpi, usando le mie mani come artiglieria antiaerea. Alcune erano così grandi che, piuttosto che aerei da combattimento, sembravano giganteschi bombardieri la cui semplice presenza produceva apprensione nel nemico. Quando le vedevo avvicinarsi, mi mettevo immediatamente in tensione, pronto a evitarle. Ce n’era sempre qualcuna con appetito e avevo infiniti morsi su braccia e gambe, lì dove i vestiti non mi coprivano il corpo. Alcune stavano persino sulle stesse punture che mi avevano causato le formiche quando mi ero svegliato. Era una battaglia persa in partenza, una lotta banale, futile, inutile, poiché loro non avevano fine e io ero sempre più stanco. Mi infastidivano così tanto che decisi di coprire le parti su cui non avevo vestiti con della terra umida, formando una barriera impenetrabile per loro. Quell'idea fugace mi salvò. Era scomodo per muoversi, specialmente quando si seccava, ma erano peggiori i loro continui attacchi. Grazie a questo trucco potei dimenticarmi a lungo degli implacabili insetti e, anche se non ottenni la vittoria, almeno ottenni una tregua temporanea. Inoltre, ebbe l'effetto sorprendente di spegnere il prurito lì dove erano passate le formiche. Un po' di fortuna finalmente.



Continuavo ad osservare tutto ciò che mi circondava, avevo la costante sensazione di essere seguito, di essere sempre più circondato, messo alle strette in una giungla illimitata. Mi sembrava persino di sentire passi e voci dietro di me o di vedere volti fugaci di guerriglieri che mi fissavano ferocemente tra gli alberi, sorvegliandomi senza sosta. La verità è che non riuscii a vedere nessuno chiaramente, non potei nemmeno notare alcuna traccia della loro presenza nell'area. Mi sembrava che gli alberi si piegassero sulla mia testa, imprigionandomi sempre più in una cella di legno vivente. Non sapevo se stavo diventando paranoico o cosa, ma dovevo calmarmi per sopravvivere in quella giungla sconosciuta e mortale.



In quel folle vagare trovai uno spettacolo dantesco. Ciò che sembrava essere stata una famiglia di primati, delle dimensioni di uno scimpanzé o simili, giaceva in una radura senza mani, piedi o teste, in mezzo a grandi pozze di sangue secco e circondati da miriadi di mosche e ogni sorta di insetti e animali spazzini. La puzza che emanavano era insopportabile e non riuscii a evitare il vomito, che mi salì all'istante su per la gola. Raccolsi il mio coraggio e guardai di nuovo. Ce n'erano due che dovevano essere adulti e uno più piccolo. Sembrava che non ci fossero piccoli, ciò che non sapevo era se non c’erano perché non li avevano catturati, perché non ne avevano, o se perché li avevano portati via per venderli sul mercato nero. Sapevo che c'erano alcune parti di animali che si vendevano molto bene come afrodisiaci nei paesi asiatici: corni di rinoceronte, ossa di tigre e simili. Forse era qualcosa del genere. Decisi di allontanarmi da quel luogo maledetto il prima possibile. Quella scoperta non solo mi dimostrò ancora una volta la crudeltà umana, ma mi mostrò anche che stavo camminando in zone frequentate da bracconieri, sicuramente non molto amichevoli con gli estranei.



Era troppo scioccato da tutto ciò che stava succedendo. Alla fine, a un certo punto, mi venne un forte crampo al polpaccio della gamba destra che mi costrinse a fermarmi per allungare il polpaccio, mentre serravo forte la bocca per il dolore e mi dimenavo per terra. Dovetti restare seduto a lungo prima di potermi muovere di nuovo e mi tormentò senza sosta per tutto il resto della giornata. Diverse volte pensai che il crampo stesse tornando e mi dovetti fermare per allungare la gamba. Al crepuscolo ero completamente esausto e non ero avanzato troppo a causa del ritmo lento che avevo dovuto tenere. Soprattutto, avevo le gambe esauste per il tanto camminare, il ginocchio e il polpaccio erano doloranti e i piedi intorpiditi. Guardando la cosa da un punto di vista positivo, se ne fossi uscito, avrei eliminato l’incipiente pancetta da birra che mi stava uscendo. Ere già qualcosa. Non dovevo perdere il senso dell'umorismo, quello avrebbe potuto salvarmi. Era l'unica cosa che mi rimaneva, quello e il mio desiderio di vivere. Elena, cosa non darei adesso per un tuo abbraccio, per il tuo sorriso! O per uno di quei deliziosi piatti che preparavi!



Mi sedetti sopra un tronco caduto e mangiai tutte le mele cotogne che mi erano rimaste e un lungo sorso d'acqua. Mi restava solo un quinto della bottiglia circa e niente cibo. Quella terza notte l'avrei passata di nuovo su un albero, dopo l'esperienza delle formiche non pensavo che mi sarei addormentato, poiché le formiche erano le stesse, sul terreno come sugli alberi, ma mi andava ancora meno di venire catturato, mentre dormivo, dalle canaglie degli spari. Come la prima notte, cercai un albero adatto e quando lo trovai, cercai di salire sul ramo prescelto con l'aiuto di un rampicante. Non appena gli misi la mano sopra dovetti ritirarla perché sentii una puntura acuta. Il rampicante era spinoso. Mi massaggiai il palmo della mano e cercai un altro albero dove arrampicarmi. Quando lo trovai mi arrampicai con molta attenzione e mi preparai a passare un'altra notte in quell'inferno. Mi tolsi le scarpe e le calze e pregai per che fossero asciutte al mattino, anche se ne dubitavo, dato che l'aria era quasi permanentemente umida. Avevo i piedi rugosi e di un verde brunastro chiaro. Li asciugai come meglio potei, ma la sensazione di disagio persistette comunque. Provai a scaldarmi, ma non c'era modo di riuscirci né con la coperta né sfregandomi il corpo. Le punture delle zanzare e delle formiche mi tormentavano incessantemente, ma non c'era nulla che potessi fare. L'unica cosa che alleviava quel tormento era mettere il fango bagnato sul mio corpo per evitare le punture, in quei momenti il costante prurito si era trasformato in una sensazione confortante che non sapevo descrivere. Provavo un dolore costante e non localizzato alle gambe come alla schiena. Il braccio destro era addormentato per la stanchezza dovuta al simulare colpi di macete con il bastone per tutto il giorno.



Ero così esausto che mi addormentai subito. Il mio ultimo pensiero fu la speranza che, al mio risveglio, ci sarebbe stata ad aspettarmi una colazione con una grande ciotola di latte e miele e un paio di toast con abbondante burro e marmellata di fragole o more.









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Miglior romanzo per ragazzi del 2014 in Spagna! Una persona senza speciali conoscenze si trova sola, in mezzo alla giungla, dopo che il suo aereo si è schiantato e deve imparare velocemente per poter sopravvivere a tutte le sfide che gli si presenteranno. Una storia che ti insegna cosa si può fare quando ti spingono al limite.

Miglior romanzo per ragazzi del 2014 in Spagna! Quando una persona comune, chiunque di noi, si trova improvvisamente in una situazione di vita o di morte nel mezzo della giungla, SAPREBBE SOPRAVVIVERE? Questo è il semplice dilemma offerto al protagonista della nostra storia, che, tornando da una tranquilla vacanza in Namibia, un tipico safari fotografico, si vede coinvolto in un’inaspettata situazione di sopravvivenza estrema nella giungla di Ituri, nella Repubblica del Congo, in Africa, quando l'aereo su cui viaggia viene abbattuto dai ribelli. Un luogo dove la natura non è l'unico nemico e dove sopravvivere non è l'unico problema. Un'avventura con l'aroma di quelle classiche, di sempre, che rendono questo libro il piatto perfetto per sfuggire alla realtà e provare l'angoscia e la disperazione del protagonista di fronte alla sfida che gli si presenta. In questo libro si mescolano in modo naturale l'emozione e la tensione della sfida di sopravvivenza, il degrado psicologico del protagonista nel corso della storia e lo studio approfondito dell'autore sull'ambiente, i suoi animali, le piante e le persone. Ci insegna anche che la percezione dei nostri limiti spesso è sbagliata, a volte nel bene e a volte nel male. Una lettura senza dubbio consigliata.

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