Книга - La Bugia Perfetta

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La Bugia Perfetta
Blake Pierce


“Un capolavoro del thriller e del mistero. Blake Pierce ha fatto un ottimo lavoro sviluppando dei personaggi con un lato psicologico così ben descritto da farci sentire come dentro alle loro teste, seguendo le loro paure e gioendo per i loro successi. Pieno di svolte, questo libro vi terrà svegli fino a che non girerete l’ultima pagina.” --Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il killer della rosa) LA BUGIA PERFETTA è il libro #5 della nuova serie psicologica piena di suspence create dall’autore campione d’incassi Blake Pierce, il cui best seller numero #1, Il killer della rosa (scaricabile gratuitamente) ha oltre 1.000 recensioni da cinque stelle. Quando una bellissima e popolare insegnante di fitness viene trovata assassinate nella ricca periferia della città, la profiler criminale e agente dell’FBI Jessie Hunt, 29 anni, viene chiamata a collaborare per scoprire chi l’abbia uccisa. Ma i segreti contorti che si celano in questa città piena di relazioni e tresche è una cosa per lei mai vista prima.Con chi andava a letto questa donna? Quanti matrimoni ha mandato all’aria?E perché qualcuno la voleva morta?Un thriller psicologico veloce e pieno di suspence, con dei personaggi indimenticabili, LA BUGIA PERFETTA è il libro #5 di una nuova serie che vi terrà incollati alle pagine e non permetterà quasi di andare a dormire.Il libro #6 della serie di Jessie Hunt sarà presto disponibile.







l a b u g i a p e r f e t t a



(un emozionante thriller psicologico di jessie hunt—libro 5)



b l a k e p i e r c e



edizione italiana

a cura di

Annalisa Lovat


Blake Pierce



Blake Pierce è l’autore della serie di successo dei misteri di RILEY PAGE, che si compone (al momento) di tredici libri. Blake Pierce è anche autore della serie dei misteri di MACKENZIE WHITE, composta (al momento) da nove libri; della serie dei misteri di AVERY BLACK, composta da sei libri; della serie dei misteri di KERI LOCKE, composta da cinque libri; della serie di gialli GLI INIZI DI RILEY PAIGE, composta (al momento) da tre libri; della serie dei misteri di KATE WISE, composta (al momento) da due libri; della serie dei thriller-psicologici di CHLOE FINE, composta (al momento) da tre libri; della serie dei thriller-psicologici di JESSE HUNT, composta (al momento) da tre libri.



Avido lettore e appassionato da sempre di gialli e thriller, Blake riceve con piacere i vostri commenti, perciò non esitate a visitare la sua pagina www.blakepierceauthor.com per saperne di più e restare in contatto con l’autore.



Copyright © 2019 by Blake Pierce. All rights reserved. Except as permitted under the U.S. Copyright Act of 1976, no part of this publication may be reproduced, distributed or transmitted in any form or by any means, or stored in a database or retrieval system, without the prior permission of the author. This ebook is licensed for your personal enjoyment only. This ebook may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this book with another person, please purchase an additional copy for each recipient. If you’re reading this book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then please return it and purchase your own copy. Thank you for respecting the hard work of this author. This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental. Jacket image Copyright hurricanehank, used under license from Shutterstock.com.


LIBRI DI BLAKE PIERCE



THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Volume#1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Volume #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Volume #3)



LA RAGAZZA ALLA PARI

QUASI SCOMPARSA (Libro #1)

QUASI PERDUTA (Libro #2)

QUASI MORTA (Libro #3)



THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Libro #1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Libro #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Libro #3)



I THRILLER PSICOLOGICI DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)

LA BUGIA PERFETTA (Libro #5)

IL LOOK PERFETTO (Libro #6)



I GIALLI PSICOLOGICI DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

UN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)

RITORNA A CASA (Libro #5)



I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)

SE LEI SI NASCONDESSE (Libro #4)

SE FOSSE FUGGITA (Libro #5)

SE LEI TEMESSE (Libro #6)



GLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)



I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)

OMICIDI CASUALI (Libro #16)

IL KILLER DI HALLOWEEN (Libro #17)



UN RACCONTO BREVE DI RILEY PAIGE

UNA LEZIONE TORMENTATA



I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)



I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)



I MISTERI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)


INDICE



CAPITOLO UNO (#ufd01c86b-0aa3-5a59-84d7-01edc0face53)

CAPITOLO DUE (#u6dd8b947-55be-5cb4-875c-8369ebc5d373)

CAPITOLO TRE (#ue39e2851-3efc-5c1d-a8a0-e3afc12235cd)

CAPITOLO QUATTRO (#u2e4382fa-0c2a-5b30-a115-2de10a0f045c)

CAPITOLO CINQUE (#u74e09d46-fc34-5bc4-9d6d-d435c8615ede)

CAPITOLO SEI (#u05ff6926-f9fb-5b45-b1ed-f3e4e29942e9)

CAPITOLO SETTE (#ud6d6bcb5-3998-5b9b-bf89-c4c1457ef160)

CAPITOLO OTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO NOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DIECI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO UNDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DODICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TREDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUATTORDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUINDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIASSETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIANNOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIDUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTITRÉ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTICINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTINOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTADUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTATRÉ (#litres_trial_promo)




CAPITOLO UNO


Jessie l’aveva quasi preso.

Il sospettato si trovava dieci metri davanti a lei. Entrambi stavano correndo sulla sabbia, che era sorprendentemente fredda sotto ai piedi scalzi. La spiaggia era vuota e Jessie si chiedeva quando sarebbero arrivati i rinforzi. Il sospettato era più grande di lei e se si fosse girato, lei avrebbe dovuto sparargli per mantenere il vantaggio su di lui. Se possibile, voleva evitare di arrivare a tanto.

All’improvviso, quando l’uomo si trovava veramente a distanza di un braccio da lei, parve collassare a terra. Ma poi Jessie si rese conto che stava effettivamente affondando nella sabbia. Nel giro di un secondo, era scomparso del tutto sottoterra, davanti a suoi occhi.

Jessie ebbe appena il tempo di capire che l’uomo era stato inghiottito da una dolina sulla spiaggia, prima di sentire che la sabbia iniziava a risucchiare anche lei. Cercò di aggrapparsi a qualcosa per evitare di cadere nel buco, ma non c’era nient’altro che sabbia. Lo stesso Jessie vi si strinse, mentre pian piano scompariva sotto alla duna.

Quando riprese conoscenza, si accorse di essere all’interno di quella che sembrava una caverna marina. Non aveva ricordi di come avesse fatto ad arrivare lì. Vide che il sospettato che prima stava inseguendo era ora sdraiato prono a terra a pochi metri da lei. Era immobile, probabilmente privo di conoscenza.

Guardandosi attorno, Jessie cercò di orientarsi e capire meglio dove si trovasse. Fu solo allora che si rese conto che si trovava in piedi con le braccia legate sopra alla testa. Aveva i polsi legati con una fune che pendeva dal soffitto della caverna. La corda era così tesa che le punte dei suoi piedi toccavano appena il terreno sotto di sé.

Quando le si schiarirono le idee, un’orripilante consapevolezza la pervase: si era già trovata in quella posizione. Questo era lo stesso identico scenario che aveva vissuto due mesi prima, quando suo padre, il brutale serial killer Xander Thurman, l’aveva catturata e torturata prima che lei riuscisse a ucciderlo.

Si trattava forse di un altro assassinio che lo emulava? Come poteva essere possibile? I dettagli del fatto erano stati tenuti nel massimo riserbo e segreto. Poi Jessie sentì un rumore e vide un’ombra comparire dal fondo della grotta. Mentre la figura avanzava, Jessie cercò di identificarla. Ma l’uomo era in controluce e i tratti del suo volto erano quindi nascosti nel buio. Tutto ciò che Jessie poteva vedere era la sagoma di un uomo alto e magro, e il luccichio della lama che teneva in mano.

L’uomo avanzò e diede un calcio al corpo dell’uomo che prima Jessie aveva inseguito sulla spiaggia e che ora si trovava privo di conoscenza, riverso nella sabbia. Quando il corpo rotolò, Jessie si accorse che non era privo di conoscenza. Era morto. Gli era stata tagliata la gola e aveva il petto ricoperto di sangue.

Jessie risollevò lo sguardo, ancora incapace di vedere il volto del suo aguzzino. Di sottofondo sentiva un sommesso ansimare. Guardò nell’angolo della caverna e notò una cosa che prima le era sfuggita. Una ragazza apparentemente adolescente era legata a una sedia, imbavagliata. Era lei che ansimava e sbuffava. I suoi occhi erano spalancati e colmi di terrore.

Anche questo sembrava impossibile. Era proprio come due mesi fa. Anche in quell’occasione una giovane ragazza si era trovata legata a una sedia. Ma anche quel dettaglio era stato tenuto segreto. Eppure l’uomo che le si stava avvicinando pareva conoscere ogni particolare della dinamica. Ora si trovava a un paio di metri da lei, e Jessie poté finalmente vederne il volto. Sussultò.

Era suo padre.

Era impossibile. Lei stessa l’aveva ucciso al termine di un combattimento brutale. Ricordava come gli aveva spaccato il cranio con le gambe. Si era trattato di un impostore? Suo padre era in qualche modo sopravvissuto? La domanda non aveva importanza, ora che l’uomo stava alzando il coltello preparandosi a colpirla.

Jessie cercò di appoggiare meglio i piedi a terra, in modo da poter saltare e dargli un calcio per spingerlo indietro, ma per quanto si allungasse, non riusciva a raggiungere il terreno con le punte dei piedi. Suo padre la guardò con un’espressione di divertita commiserazione.

“Pensavi che avrei fatto lo stesso errore una seconda volta, farfallina?”

Poi, senza aggiungere una parola di più, calò la lama che teneva in mano, puntandola dritta contro il suo cuore. Jessie serrò gli occhi, preparandosi al colpo mortale.



*



Jessie sussultò sentendo una fitta acuta, non al petto ma alla schiena.

Aprì gli occhi e scoprì di non trovarsi nella grotta marina, ma nel suo letto, zuppo di sudore, nel suo appartamento di Los Angeles. Era seduta.

Si voltò a guardare l’orologio e vide che erano le 2:51 del mattino. Il dolore alla schiena non derivava da una recente pugnalata, ma piuttosto dall’intensità della sua ultima sessione di terapia effettuata il giorno precedente. L’indolenzimento generale era invece un ricordo del vero attacco di suo padre otto settimane prima.

Le aveva tagliato la carne subito sotto la spalla destra con una ferita che le era arrivata nei pressi del fegato, falciandola tra muscolo e tendine. L’intervento chirurgico che ne era conseguito aveva richiesto trentasette punti di sutura.

Con la testa ancora frastornata, Jessie si alzò dal letto e si diresse verso il bagno. Una volta arrivata nella stanza, si guardò nello specchio e controllò le sue ferite. Con gli occhi passò in rassegna la cicatrice sul lato sinistro dell’addome, un regalo permanente causato da un colpo di attizzatoio a opera del suo ex marito. Notò anche di sfuggita la cicatrice d’infanzia che le attraversava buona parte della clavicola, un ricordo questa volta del coltello di suo padre.

Si concentrò invece sulle diverse ferite risultanti dall’effettivo combattimento letale che aveva avuto contro suo padre. Le aveva inferto diversi colpi con il coltello, soprattutto attorno alle gambe, lasciandovi cicatrici che non sarebbero mai scomparse e che le avrebbero impedito di indossare un costume da bagno senza rischiare di attirare gli sguardi scioccati di chi l’avesse vista.

Il colpo peggiore l’aveva raggiunta alla coscia destra, dove lui le aveva piantato il coltello nell’ultimo fallito tentativo di liberarsi dalle sue ginocchia che gli stavano schiacciando le tempie. Ora non zoppicava più, ma provava un certo disagio ogni volta che esercitava una certa pressione sulla gamba, vale a dire ogni volta che faceva un passo. Il terapeuta diceva che c’erano stati alcuni danni ai nervi e che anche se il dolore sarebbe diminuito nel giro dei mesi successivi, non sarebbe mai scomparso del tutto.

Nonostante tutto questo, le era stato permesso di tornare al lavoro come profiler forense al Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Il suo primo giorno di lavoro sarebbe stato l’indomani, cosa che poteva aiutare a spiegare il motivo dell’incubo molto realistico che aveva appena avuto. Ne aveva fatti molti altri, ma questo sicuramente li batteva tutti.

Jessie si raccolse i capelli in una coda di cavallo e studiò il proprio volto con i suoi penetranti occhi verdi. Fino ad ora non aveva nessuna cicatrice, e le avevano detto che la cosa era piuttosto stupefacente. Così slanciata, alta quasi un metro e ottanta, era stata spesso scambiata per una modella sportiva, anche se dubitava che avrebbe mai potuto fare un lavoro del genere, soprattutto adesso che il suo corpo era così martoriato. Del resto però, per essere una donna di appena trent’anni che ne aveva già passate così tante, aveva l’impressione di reggere meravigliosamente.

Si diresse in cucina, si versò un bicchiere d’acqua e si sedette al tavolino della colazione, rassegnandosi alla possibilità di non riuscire a dormire ancora molto per quella notte. Si era abituata alle notti insonni fin da quando aveva avuto alle calcagna due serial killer che le davano la caccia. Ma ora uno dei due era morto e l’altro aveva apparentemente deciso di lasciarla stare. Quindi, teoricamente, probabilmente sarebbe stata davvero capace di rimettersi in sesto. Ma non sembrava funzionare esattamente così.

In parte, non poteva essere certa al cento per cento che l’altro serial killer che si era interessato così tanto a lei, Bolton Crutchfield, fosse davvero scomparso del tutto. Tutto indicava che le cose stessero così: nessuno l’aveva visto o sentito da quell’ultimo avvistamento otto settimane prima. Non era emersa una sola pista.

E, cosa più importante di tutte, Jessie sapeva di piacergli in un certo modo non-assassinesco. Le innumerevoli conversazioni che aveva avuto con lui nella sua cella prima che fuggisse avevano stabilito una sorta di connessione tra loro. In effetti era stato proprio lui a metterla in guardia contro la minaccia di suo padre in ben due occasioni, mettendo i bastoni tra le ruote al suo stesso mentore. Sembrava essere passato dalla parte di Jessie. Quindi perché non poteva fare anche lei la stessa cosa? Perché non permettersi di passare una buona nottata di sonno ristoratore?

In parte probabilmente c’era la semplice incapacità di lasciar andare tutto definitivamente. E poi era ancora fisicamente acciaccata. Inoltre, tra cinque ore avrebbe ricominciato a lavorare, probabilmente in coppia con il detective Ryan Hernandez, nei confronti del quale provava dei sentimenti complicati, per farla breve.

Sospirando rassegnata, Jessie passò ufficialmente dall’acqua al caffè. Mentre aspettava che si preparasse, si aggirò per l’appartamento, il terzo nel giro degli ultimi due mesi, controllando che tutte le porte e le finestre fossero ben chiuse.

Questo avrebbe dovuto essere il suo nuovo indirizzo semi-permanente, e ne era piuttosto contenta. Dopo aver rimbalzato impotente tra diverse location approvate dal servizio federale statunitense, alla fine le avevano permesso di metter voce in materia di casa. I federali l’avevano quindi aiutata a trovare un posto e l’avevano messo in sicurezza per lei.

L’appartamento si trovava all’interno di un condominio di venti piani a pochi isolati dal suo ultimo vero appartamento nel quartiere alla moda del centro di Los Angeles. L’edificio disponeva di una sua squadra di sicurezza e non c’era una sola guardia nella lobby. C’erano sempre tre guardie in servizio: una pattugliava il garage mentre un’altra faceva regolari giri ai vari piani.

Il parcheggio era messo in sicurezza per mezzo di un cancello sorvegliato 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. I guardiani del cancello erano tutti poliziotti in pensione. C’era un metal detector incorporato nella porta d’accesso dedicata ai non residenti che entravano nell’edificio. Tutti gli ascensori avevano una doppia chiave e riconoscimento tramite impronta digitale. Ogni piano del complesso, incluse le strutture di lavanderia, palestra e piscina, avevano numerose videocamere di sicurezza. Ogni unità abitativa era dotata di pulsanti di allerta e accesso interfono diretto alla sicurezza. E questa era solo la dotazione dell’edificio.

Oltre a questo c’erano la sua arma di servizio e le ulteriori misure di sicurezza che i federali le avevano permesso di impostare all’interno dell’appartamento e che includevano balconi di sicurezza, vetri antiproiettile alle finestre, porta scorrevole sul patio e porta d’accesso di spessore doppio che era quasi impossibile da scardinare, oltre a videocamere con sensori di movimento e di calore che si potevano accendere e spegnere usando il cellulare.

Infine c’era un’ultima precauzione, la preferita di Jessie. Viveva al tredicesimo piano, anche se, come in molti altri edifici, quel piano non esisteva. Non c’era nessun pulsante nell’ascensore. L’ascensore di servizio poteva fermarsi al piano, ma questo richiedeva la presenza di una guardia di sicurezza per potervi accedere. Per avere accesso al piano in normali circostanze, era necessario fermarsi al dodicesimo o al quattordicesimo e aprire una porta che dal corridoio era contrassegnata come “Ingresso pannello di servizio”.

La porta conduceva effettivamente a una stanzetta con il pannello di servizio. Ma sul retro della stanza si trovava un’altra porta con la scritta ‘magazzino’, per cui era richiesta una chiave speciale. La porta dava accesso a una scala che portava al tredicesimo piano, dove si trovavano otto appartamenti, proprio come agli altri livelli.

Ciascuno di questi appartamenti era occupato da persone che chiaramente tenevano particolarmente alla loro privacy, alla loro sicurezza o a entrambe le cose. Nella settimana che Jessie aveva trascorso lì, aveva incontrato in corridoio una nota attrice della televisione, un avvocato di alta levatura e un controverso presentatore radiofonico.

Avendo fatto le cose a regola d’arte con il divorzio, Jessie non si doveva preoccupare del costo. E grazie ad alcuni sconti dovuti alla sua appartenenza al Dipartimento di Polizia di Los Angeles e all’intervento del Servizio Federale, alla fine la sistemazione non risultava costosa quanto si era immaginata. E ad ogni modo ne valeva la pena, se il risultato era il suo benessere mentale. Ovviamente aveva pensato che anche la sua ultima casa fosse stata un posto sicuro.

La macchinetta del caffè emise il suo segnale acustico e Jessie andò a versarsi una tazza. Mentre preparava la bevanda, aggiungendo panna e zucchero, si chiese se fossero state prese misure speciali per proteggere anche Hannah Dorsey. Hanna era la ragazza di diciassette anni che si era trovata legata alla sedia e imbavagliata quando Xander Thurman l’aveva costretta ad assistere mentre lui assassinava i suoi genitori e quasi uccideva anche Jessie.

I pensieri di Jessie andavano spesso ad Hannah, in parte perché si chiedeva come la ragazza stesse gestendo la sua vita nella famiglia a cui era stata data in affido dopo un trauma del genere. Lei stessa aveva passato qualcosa del genere da ragazza, anche se era stata molto più giovane, appena sei anni d’età. Xander l’aveva legata in un capanno isolato e l’aveva costretta a guardare mentre torturava e uccideva sua madre, la donna che lui stesso aveva sposato.

L’esperienza l’aveva segnata per sempre e Jessie era certa che lo stesso valesse per Hannah. Ovviamente, quello che questa ragazza non sapeva, ciò che aveva la benedizione di ignorare, era che Xander era anche suo padre, il che significava che Jessie era sua sorellastra.

Secondo le autorità, Hannah sapeva di essere stata adottata, ma non aveva idea di quale fosse l’identità dei suoi veri genitori. E dato che Jessie aveva avuto il divieto di incontrarla dopo che avevano condiviso una tale odissea, la ragazza non aveva idea che loro due fossero parenti. Nonostante avesse implorato per poter parlare con la ragazza, promettendo che non avrebbe rivelato nulla riguardo al loro legame, tutti tra le autorità erano stati concordi nel non farle incontrare di nuovo fino a che i medici non avessero ritenuto che Hannah fosse pronta a gestire la cosa.

Nella sua mente, Jessie comprendeva la decisione e la approvava pure. Ma in qualche punto più profondo della sua coscienza, provava una forte urgenza di parlare con la ragazza. Avevano un sacco di cose in comune. Loro padre era un mostro. Le loro madri erano dei misteri. Hannah non aveva mai incontrato la propria, e quella di Jessie era solo un lontano ricordo. E proprio come Xander aveva ucciso i genitori adottivi di Hannah, lo stesso aveva fatto con quelli di Jessie.

Nonostante tutto questo, non erano sole. Ciascuna di loro aveva un legame familiare che poteva offrire sollievo e una certa speranza di recupero. Ciascuna di loro aveva una sorella, una cosa che Jessie non aveva mai creduto possibile. Desiderava tantissimo mettersi in contatto con lei e creare un legame con quell’unico elemento ancora vivente appartenente alla sua stessa linea di sangue.

Eppure, anche se desiderava riunirsi a lei, non poteva che soffermarsi a riflettere.

Conoscermi potrebbe arrecare a questa ragazza più danno che vantaggio?




CAPITOLO DUE


L’uomo era appostato nel corridoio esterno del condominio e si guardava continuamente alle spalle. Era mattina presto e un tizio come lui, grande e grosso come un armadio, afro-americano e con un cappuccino in testa, non poteva che attirare l’attenzione.

Era all’ottavo piano, subito fuori dall’appartamento della donna che sapeva abitare lì. Conosceva anche la sua auto e l’aveva vista parcheggiata nel garage di sotto, quindi era quasi certo che lei si trovasse in casa. Come precauzione, l’uomo bussò delicatamente alla porta.

Non erano neanche le sette del mattino, e lui non voleva svegliare prematuramente i vicini inducendoli ad affacciarsi curiosi per vedere cosa stesse succedendo. Era freddo fuori questa mattina e l’uomo non avrebbe voluto levarsi il cappuccio dalla testa. Ma temendo che avrebbe dato troppo nell’occhio, alla fine se lo tirò giù, esponendo la pelle all’aria pungente.

Non sentendo nessuna risposta al suo bussare, fece un inutile tentativo di aprire la porta, che era certo di trovare chiusa. Lo era. Andò quindi alla finestra accanto. Quella era leggermente aperta. Era dibattuto se provare davvero ad entrare da lì. Dopo un po’ di titubanza, prese la sua decisione, sollevò la finestra e saltò all’interno. Sapeva che chiunque l’avesse visto avrebbe probabilmente chiamato la polizia, ma decise che valeva la pena di correre quel rischio.

Una volta all’interno, si diresse silenziosamente verso la camera da letto. Tutte le luci erano spente e c’era uno strano odore che lui non riusciva a identificare. Mentre si addentrava di più nell’appartamento, si sentì percorrere da uno strano brivido che non aveva niente a che vedere con la temperatura. Raggiunse la porta della camera da letto, ruotò delicatamente la maniglia e sbirciò all’interno.

Lì sul letto c’era la donna che si aspettava di vedere. Sembrava dormire, ma c’era qualcosa di strano. Anche alla tenue luce della mattina, la sua pelle appariva stranamente pallida. E poi sembrava del tutto immobile. Il petto non stava salendo e scendendo nel normale movimento indotto dalla respirazione. Niente di niente. L’uomo entrò nella camera e si avvicinò al letto. L’odore ora era fortissimo, un puzzo di marcio che gli fece lacrimare gli occhi e gli rivoltò lo stomaco.

Avrebbe voluto allungare una mano e toccarla, ma non riuscì a farlo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non trovò le parole. Alla fine si girò e uscì dalla stanza.

Tirò fuori il telefono e digitò l’unico numero che gli venisse in mente. Ci furono diversi squilli prima che una voce registrata gli rispondesse. Lui premette diversi pulsanti e aspettò la risposta mentre si ritirava nel salotto dell’appartamento. Alla fine una voce risuonò dall’altro capo della linea.

“911. Qual è la vostra emergenza?”

“Sì, mi chiamo Vin Stacey. Penso che la mia amica sia morta. Si chiama Taylor Jansen. Sono venuto a casa sua perché per diversi giorni non sono riuscito a mettermi in contatto con lei. È stesa a letto. Ma non si muove e… non mi pare che sia a posto. E poi c’è puzza.”

In quel momento la realtà della situazione lo colpì: la vivace e allegra Taylor era morta, lì, a pochi metri da lui. Vin si chinò in avanti e vomitò.



*



Jessie sedeva nel sedile posteriore per quella che sperava fosse l’ultima volta. Il veicolo del servizio federale parcheggiò nella struttura del Dipartimento di Polizia di Los Angeles, in un posteggio dedicato ai visitatori. Lì ad attenderla c’era il suo capo, il capitano Roy Decker.

Non sembrava molto diverso dall’ultima volta che l’aveva visto. Sulla sessantina, anche se sembrava molto più vecchio, Decker era alto e magro, con la testa quasi calva, profonde rughe in volto, un naso adunco e occhi piccoli e penetranti. Stava parlando con un agente in uniforme, ma era evidente che si trovava lì per aspettare lei.

“Wow,” disse Jessie con tono sarcastico ai federali seduti davanti nell’auto. “Mi sento come una donna nel diciottesimo secolo che viene formalmente ceduta al suo sposo dal padre.”

Il federale che occupava il posto del passeggero le lanciò un’occhiataccia. Si chiamava Patrick Murphy, anche se tutto lo chiamavano Murph. Basso e tarchiato, con i capelli castano chiaro tagliati corti, emanava una sensibilità pragmatica, anche se nel tempo quell’atteggiamento si era rivelato essere un po’ un suo stratagemma.

“Un tale scenario richiederebbe un marito intenzionato a prenderti, cosa che trovo piuttosto improbabile,” disse l’uomo che aveva coordinato buona parte della sua sicurezza durante la sua fuga dai due serial killer.

Un sorriso appena abbozzato che gli incurvava leggermente le labbra lasciava intendere che stava scherzando.

“Sei sempre un principe tra i principi, Murph.,” disse Jessie con finta gentilezza. “Non so come farò a cavarmela adesso, senza la tua affascinante presenza al mio fianco.”

“Vale lo stesso per me,” mormorò lui.

“E lo stesso vale per la tua carismatica loquacità, agente Toomey,” aggiunse Jessie rivolgendosi all’autista, un uomo dalla stazza imponente, con la testa rasata e l’espressione vuota.

Toomey, che parlava molto raramente, si limitò ad annuire.

Il capitano Decker, che aveva finito di parlare con l’agente, guardò i tre con impazienza, aspettando che uscissero dall’auto.

“Immagino che sia giunta l’ora,” disse Jessie aprendo la portiera e uscendo con maggiore energia di quanta ne sentisse in corpo. “Come va, capitano?”

“Più complicato oggi che ieri,” rispose lui, “ora che ho lei di nuovo fra le mani.”

“Ma le giuro, capitano, che il nostro Murph qui ha messo da parte un’ottima dote per me. E io prometto che non sarò un peso e che sarò un’ottima mogliettina.”

“Cosa?” chiese il capitano, perplesso.

“Oh, papi,” disse rivolgendosi a Murphy. “Devo lasciare la fattoria? Te e mamma mi mancherete un sacco.”

“Che diavolo sta succedendo?” chiese Decker.

Murph si sforzò di restare serio e impassibile e si girò verso il confuso capitano che si era avvicinato alla portiera del passeggero.

“Capitano Decker,” disse con tono formale, porgendogli un portablocco con un foglio attaccato. “Il servizio di sicurezza federale statunitense non è più richiesto. Riconsegno qui ufficialmente la custodia di Jessie Hunt al Dipartimento di Polizia di Los Angeles.”

“Custodia?” ripeté Jessie risentita. Murph la ignorò e continuò.

“Qualsiasi altra misura di sicurezza è ora obbligo del vostro dipartimento. La firma su questo documento la sancirà come tale.”

Decker prese il portablocco e firmò il foglio senza neanche leggerlo. Poi lo restituì a guardò Jessie.

“Buone notizie, Hunt,” disse con tono burbero, senza il minimo accenno dell’entusiasmo che solitamente accompagnava le buone notizie. “I detective che stanno tentando di rintracciare Bolton Crutchfield hanno trovato il video di una persona che corrisponde alla sua descrizione e che ha varcato ieri il confine con il Messico. Pare che lei si sia finalmente liberata anche del secondo inseguitore.”

“È stato confermato anche il riconoscimento facciale?” chiese Jessie scettica, rinunciando ora alla vocina farsesca di prima.

“No,” ammise il capitano. “Ha tenuto sempre la testa bassa mentre attraversava il ponte a piedi. Ma corrisponde quasi perfettamente alla descrizione fisica, e il fatto che sia stato attento a non farsi riprendere in viso suggerisce che sapesse quello che stava facendo.”

“Questa è davvero una buona notizia,” disse Jessie, decidendo di tenere per sé qualsiasi ulteriore commento.

Era d’accordo con il fatto che probabilmente non si trovava più tra le mire di Crutchfield, ma non per un qualche video approssimativo che le pareva fin troppo comodo. Ovviamente non le sembrava di poter raccontare a Decker il vero motivo della sua tranquillità, vale a dire la consapevolezza che il serial killer avesse un debole per lei.

“Pronta a tornare al lavoro?” le chiese, soddisfatto di aver sollevato ogni preoccupazione lei potesse ancora nutrire.

“Solo un minuto, capitano,” rispose Jessie. “Devo solo scambiare una rapida parola con gli agenti federali.”

“Faccia veloce,” disse Decker mentre si allontanava. “Ha ad aspettarla una lunga giornata da passare dietro alla scrivania.”

“Sì, signore,” gli rispose, poi si chinò verso il finestrino dalla parte dell’autista.

“Penso che mi mancherai più di tutti, Spaventapasseri,” disse a Toomey, che era l’agente principale assegnatole negli ultimi due mesi. L’uomo annuì in risposta. A quanto pareva non c’era bisogno di parole. Poi Jessie andò dall’altra parte dell’auto, dal lato del passeggero e guardò Murphy con volto colpevole.

“A parte tutti gli scherzi, volevo solo dirti quanto abbia apprezzato tutto quello che hai fatto per me. Ti sei messo in prima linea per difendermi e non me ne dimenticherò mai.”

Aveva ancora le stampelle, anche se i gessi alle gambe erano stati tolti la settimana precedente, sostituiti ora da stivali morbidi. E anche la fascia attorno al braccio era stata recentemente eliminata.

Tutti quei danni erano stati causati da Xander Thurman quando l’aveva investito con l’auto durante la sua imboscata a lui e Jessie in un vicolo. Murph ne era uscito con la frattura di entrambe le gambe e della clavicola. Quindi era ufficialmente in congedo dal lavoro per altri quattro mesi. Si era presentato questa mattina solo per salutarla.

“Non iniziare a fare la sentimentale con me, adesso,” protestò. “Abbiamo questa perfetta ‘alleanza’ fredda e immusonita. Rischi di rovinare tutto.”

“Come sta la famiglia di Emerson?” gli chiese lei sottovoce.

Troy Emerson era l’agente federale a cui suo padre aveva sparato alla testa in quella terribile serata. Jessie non aveva neanche saputo il suo nome di battesimo prima che morisse, e neanche sapeva che si era sposato recentemente e che aveva un figlio di quattro mesi. Non aveva potuto andare al funerale a causa delle sue ferite, ma aveva successivamente contattato la vedova. Non aveva ricevuto risposta.

“Kelly si sta riprendendo,” le assicurò Murph. “Ha ricevuto il tuo messaggio. So che vuole risponderti, ma ha solo bisogno di un po’ di tempo ancora.”

“Capisco. A essere onesta, capirei anche se non volesse mai rivolgermi la parola.”

“Ehi, non prenderti tutta la colpa,” le rispose lui quasi arrabbiato. “Non dipende da te se tuo padre era un pazzo. E Troy conosceva i rischi quando ha preso questo lavoro. Li conoscevamo tutti. Puoi sentirti vicina a loro. Ma non sentirti in colpa.”

Jessie annuì, incapace di pensare a una risposta adatta.

“Ti darei un abbraccio,” le disse Murph, “ma salterei per il male, e non per motivi emotivi. Quindi facciamo finta che l’abbia fatto, ok?”

“Tutto quello che vuole, agente Murphy,” gli rispose.

“E adesso non metterti a fare la formale con me,” insistette lui mentre si rimetteva comodo, appoggiato allo schienale del sedile passeggeri. “Puoi ancora chiamarmi Murph. Non è che io smetta di chiamarti con il tuo soprannome.”

“Che sarebbe?” gli chiese Jessie.

“La mia rottura di scatole.”

Jessie non poté fare a meno di ridere.

“Arrivederci, Murph,” gli disse. “Dai a Toomey un bacio da parte mia.”

“Lo avrei fatto anche se non me l’avessi chiesto,” gridò, mentre Toomey schiacciava sull’acceleratore e i copertoni fischiavano contro il pavimento del garage.

Jessie si girò e trovò Decker che la guardava impaziente.

“Ha finito?” le chiese col suo modo brusco. “O dovrei forse mettermi comodo a guardare Le pagine della nostra vita, mentre voi elaborate ancora un po’ le vostre emozioni?”

“È bello essere tornata, capitano,” disse lei sospirando.

Il capitano si diresse verso l’ingresso e le fece cenno di seguirlo. Jessie ignorò i dolorini a gambe e schiena e fece una piccola corsa per raggiungerlo. L’aveva appena raggiunto, che lui subito si buttò a spiegare il piano che aveva per lei.

“Allora, non si aspetti del lavoro sul campo per un po’ di tempo,” le disse burbero. “Non stavo scherzando quando parlavo di tenerla alla scrivania. È ancora arrugginita, e vedo che sta disperatamente tentando di non zoppicare da quella gamba, mentre cammina. Fino a che non sarò convinto che è tornata del tutto in forma, dovrà abituarsi alle luci fluorescenti della centrale.”

“Non pensa che potrei tornare più rapidamente quella di prima se mi tuffassi a capofitto in qualche caso?” chiese Jessie, tentando di non apparire implorante. Doveva fare due passi per ciascuno di quelli del capitano per non restare indietro mentre percorrevano velocemente il corridoio.

“Buffo, è proprio quello che ha detto anche il suo amico Hernandez quando è tornato la scorsa settimana. Ho messo anche lui alla scrivania. E indovini un po’? È ancora lì.”

“Non sapevo che Hernandez fosse tornato,” disse Jessie.

“Pensavo che foste amiconi,” rispose il capitano, mentre svoltavano l’angolo.

Jessie lo guardò di sbieco, cercando di capire se il suo capo stesse alludendo a qualcosa. Ma sembrava essere sincero.

“Siamo amici,” confermò lei. “Ma pensavo che con le ferite che ha subito e con il divorzio, volesse un po’ più di tempo per sé.”

“Davvero?” disse Decker. “Avrebbe potuto quasi convincermi.”

Jessie non aveva idea di come interpretare quel commento, ma non ebbe il tempo di fare domande perché arrivarono al centro della stazione, una grande stanza piena di un marasma di scrivanie tutte messe insieme e popolate da vari detective che rappresentavano le diverse divisioni del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Dalla parte opposta della stanza, insieme ad altri agenti della Sezione Speciale Omicidi, c’era Ryan Hernandez.

Per essere un uomo che aveva subito due pugnalate solo due mesi prima, sempre ad opera di suo padre (sembrava che ultimamente tutte le persone che conosceva venissero assalite e ferite da suo padre), Hernandez sembrava piuttosto in forma.

L’avambraccio sinistro non era neanche più fasciato. L’altra ferita era sul lato sinistro dell’addome. Ma dato che l’agente ora era in piedi e stava ridendo, era probabile che neanche quella gli desse più tanto disturbo.

Mentre Decker la accompagnava verso di lui, Jessie si sentì perplessa per il suo attuale sentimento di irritazione nel vedere Hernandez in atteggiamento così scherzoso. Avrebbe dovuto essere felice di non vederlo depresso perché il suo matrimonio era andato in pezzi e perché era stato quasi ucciso. Ma se stava così bene, perché non l’aveva contattata più di quelle due volte molto sbrigative negli ultimi due mesi?

Lei si era sforzata molto di più per contattarlo e raramente lo aveva sentito fare lo stesso. Aveva pensato che la cosa fosse dovuta alla sua difficile situazione, e aveva deciso di lasciargli spazio perché si riprendesse. Ma per come lo vedeva ora, tutto sembrava essere al profumo di rose.

“È bello vedere la Sezione Speciale Omicidi così di buon umore in una mattinata così bella,” tuonò Decker, facendo sobbalzare i cinque uomini e la donna che facevano parte dell’unità. Il detective Alan Trembley, distratto come sempre, lasciò addirittura cadere la sua brioche.

La Sezione Speciale Omicidi era una divisione a cui venivano assegnati casi di alto profilo, spesso con intenso scrutinio mediatico. Ciò significava un sacco di omicidi con molteplici vittime, oppure casi di omicidi seriali. Era un compito prestigioso e Hernandez era considerato il migliore della squadra.

“Ma guarda chi è tornata,” disse con entusiasmo il detective Callum Reid. “Non sapevo che tornavi oggi. Ora finalmente è tornata un po’ di classe qua dentro.”

“Sai,” disse Jessie, decidendo di accogliere l’allegria del gruppo, “potresti avere classe anche tu, Reid, se non ne mollassi una ogni dieci secondi. Non è così difficile.”

Tutti scoppiarono a ridere.

“È divertente perché è vero,” disse Trembley allegramente, i riccioli biondi e selvaggi che rimbalzavano mentre rideva. Si tirò su gli occhiali sul naso, cosa che faceva di continuo, dato che gli scivolavano sempre giù.

“Come ti senti, Jessie?” chiese Hernandez quando le risate si furono placate.

“Sto recuperando,” disse lei, cercando di non suonare fredda. “Pare che tu stia alla grande.”

“Ci sono quasi,” disse lui. “Ho ancora qualche dolorino, ma come continuo a dire al capitano qui, se mi lasciasse giocare un po’, potrei davvero fare la differenza. Sono stanco di stare in panchina, coach.”

“È sempre la stessa storia, Hernandez,” disse Decker con il suo tono scontroso, chiaramente stufo della consueta analogia con la squadra di calcio. “Hunt, ti do qualche minuto per sistemarti. Poi daremo un’occhiata al tuo lavoro. Ho un bel mucchio di casi di omicidio irrisolti che potrebbero avere bisogno di un occhio fresco. Magari il punto di vista di una profiler potrebbe dare uno scossone alla situazione. Mi aspetto che tutti voi mi diate aggiornamenti sui vostri casi tra cinque minuti nel mio ufficio. A quanto pare avete tempo libero.”

Si diresse verso il suo ufficio, brontolando fra sé e sé. I componenti del team misero insieme le loro cartelle mentre Hernandez si lasciava cadere sulla sedia di fronte a Jessie.

“Tu non hai niente di cui fare rapporto?” gli chiese lei.

“Non ho ancora nessun caso mio. Ho passato tutto il tempo a dare aggiornamenti a questa gente. Magari adesso che sei tornata possiamo metterci in squadra per convincere Decker a mandarci fuori a seguire qualcosa. Noi due insieme facciamo quasi una persona sana.”

“Sono contenta che tu sia di così buon umore,” disse Jessie, cercando disperatamente di non dire di più, ma fallendo clamorosamente. “Mi avrebbe fatto piacere se mi avessi detto prima che stavi tanto bene. Me ne sono stata alla larga perché pensavo che stessi sistemando le tue cose.”

Il sorriso di Hernandez sfumò mentre capiva pian piano quello che gli stava dicendo. Parve soppesare il modo in cui rispondere. Mentre aspettava la sua risposta e nonostante la sua irritazione, Jessie non poté fare a meno di ammettere che quell’uomo si era davvero mantenuto bene, pur avendo dovuto gestire un divorzio e delle brutte ferite.

Sembrava tutto d’un pezzo. Non c’era un ciuffo di capelli neri fuori posto. Gli occhi castani erano limpidi e concentrati. E in qualche modo, nonostante le ferite, era riuscito a tenersi in forma. Poteva aver perso qualche chilo, probabilmente per la difficoltà a mangiare dopo che lo stomaco gli era stato aperto a metà. Ma all’età di trentun anni, aveva ancora l’aspetto tonico di uno che si allenava molto spesso.

“Sì, a proposito di questo,” iniziò a dire, risvegliandola dalle sue considerazioni. “Volevo chiamarti, ma il fatto è che sono successe delle cose e non ero sicuro di come parlartene.”

“Che genere di cose?” gli chiese lei nervosamente. Non le piaceva la direzione che il discorso stava prendendo.

Hernandez abbassò lo sguardo, come se stesse decidendo come affrontare al meglio quello che era evidentemente un argomento delicato. Dopo cinque minuti buoni, risollevò lo sguardo su di lei. Proprio mentre stava per aprire bocca, Decker uscì di scatto dall’ufficio.

“Abbiamo una sparatoria a opera di una gang nella Westlake Nord,” gridò. “La scena è ancora attiva. Ci sono già quattro morti e un numero indefinito di feriti. Mi servono SWAT, HSS e unità gang subito sul posto. Tutto l’equipaggio a bordo, gente!”




CAPITOLO TRE


Subito tutti si misero in moto nella centrale. Molti si diressero verso il centro per l’attrezzatura tattica, dove presero dell’artiglieria pesante e giubbotti anti-proiettile. Jessie ed Hernandez si scambiarono uno sguardo, insicuri sul da farsi. Lui fece per alzarsi dalla sedia, quando Decker lo fermò.

“Non ci pensi neanche, Hernandez. Non pensi di potersi nemmeno solo avvicinare a questa faccenda.”

Hernandez si lasciò ricadere sulla sedia. Sia lui che Jessie osservarono la frenesia della stazione con effettiva gelosia. Dopo pochi minuti, le cose si calmarono e la gente rimasta nella centrale tornò al proprio lavoro. Prima di quel turbinare di attività, nella centrale c’erano state con tutta probabilità una cinquantina di persone. Ora sembrava una città fantasma. Inclusi Hernandez e Jessie, c’erano meno di dieci persone in tutto.

Improvvisamente Jessie sentì un forte tonfo. Si voltò e vide che il capitano Decker aveva lasciato cadere sulla sua scrivania una dozzina di spesse cartelle.

“Questi sono i casi che voglio farle revisionare,” disse. “Avevo sperato di potervi dare un occhio insieme a lei, ma ovviamente sarò piuttosto impegnato nelle prossime ore.”

“Aggiornamenti sulla sparatoria?” gli chiese Jessie.

“La sparatoria è terminata. Si sono sparpagliati tutti non appena sono arrivate le nostre pattuglie. Siamo saliti a sei morti, tutti di gang rivali. Un’altra dozzina circa sono feriti. Abbiamo una trentina di agenti e una dozzina di detective che stanno rastrellando la zona. Senza parlare della SWAT.”

“E io?” chiese Hernandez. “Come posso essere di aiuto, capitano?”

“Può dare un’occhiata ai casi dei suoi colleghi fino a che non tornano. Sono certo che lo apprezzeranno molto. Ora devo tornare a questa cosa delle gang.”

Rientrò di corsa nel suo ufficio, lasciandoli soli con le loro montagne di carte.

“Secondo me sta facendo lo stronzo apposta,” mormorò Hernandez.

“Vuoi finire di dirmi quello che mi stavi raccontando prima?” chiese Jessie, chiedendosi se non stesse forse tirando troppo.

“Non ora,” rispose lui, perdendo del tutto la rilassatezza della voce. “Magari più tardi, quando saremo fuori dall’ufficio e tutto sarà meno… amplificato.”

Jessie annuì, d’accordo con lui, anche se era comunque delusa. Piuttosto che fare il muso o stare nello scomodo spazio della sua testa, si concentrò sulle cartelle dei casi che aveva davanti.

Magari concentrarmi sui dettagli di alcuni omicidi mi schiarirà le idee.

Ridacchiò silenziosamente davanti al proprio tetro senso dell’umorismo mentre apriva la prima cartella.

Funzionò. Si immerse così profondamente nei dettagli dei casi che quasi passò un’ora senza praticamente notare lo scorrere del tempo. Solo quando Hernandez le diede un colpetto sulla spalla, Jessie sollevò lo sguardo e si rese conto che era metà mattina.

“Penso di aver trovato un caso per noi,” disse, porgendole con fare provocatorio un pezzo di carta.

“Credevo che non dovessimo andare a caccia di nuovi casi,” gli rispose lei.

“Infatti,” ammise lui. “Ma qui non c’è nessun altro che lo prenda e penso che sia il genere di cosa che Decker potrebbe permetterci di assumere come incarico.”

Le porse il foglio di carta. Senza la riluttanza che probabilmente avrebbe dovuto mostrare, Jessie lo prese. Non le ci volle molto per rendersi conto che avrebbero potuto davvero avere fortuna nel convincere Decker ad assegnare loro quel caso.

Sembrava piuttosto semplice. Una donna di trent’anni era stata trovata morta nel suo appartamento a Hollywood. Il giovane che per primo aveva denunciato il ritrovamento era stato il principale sospettato quando un vicino aveva affermato di averlo visto entrare nell’appartamento dalla finestra. Ma lui aveva dichiarato di essere un collega intenzionato a controllare cosa le fosse successo non avendola sentita per due giorni. Non c’erano evidenti segni di violenza e l’impressione iniziale sulla scena era che si trattasse di un suicidio.

“Pare che abbiano la cosa ben sotto controllo. Non sono sicura di cosa potremmo offrire…”

“Sento un tacito ‘ma’ tra le righe,” disse Hernandez sorridendo.

Jessie non voleva dargli la soddisfazione, ma si trovò a sorridere leggermente a sua volta.

“Ma… c’è un riferimento a vecchi lividi su polsi e collo, che potrebbero suggerire precedenti abusi. Probabilmente vale la pena dare una controllata. E secondo il suo collega, lavorava come personal trainer in una palestra esclusiva dove si era specializzata in clienti di alta levatura. È possibile che alcuni di loro si stizziscano se il Dipartimento di Polizia di Los Angeles non investirà sufficienti risorse nel caso.”

“Esatto,” disse Hernandez entusiasta. “Qui sta il nostro ingresso, Jessie. Se conosco bene Decker, non vorrà rischiare di alienare il popolo, se può evitarlo. Assegnare il caso a un detective della HHS e a una celebre profiler forense lo allontanerà da ogni genere di critica. E poi sembra veramente fatto apposta per farci tornare tranquillamente al lavoro. Non ci sono segni di violenza. Se è stato un omicidio, parliamo probabilmente di avvelenamento o di qualcosa del genere. Mi sembra un fantastico caso privo di accoltellamenti.”

“A me sembrava piuttosto convinto nel volerci far stare incollati alle scrivanie per un po’,” gli ricordò Jessie.

“Io penso che accetterà,” insistette Hernandez. “E poi è così distratto con la sparatoria tra le gang, che potrebbe dire di sì anche solo per sbarazzarsi di noi. Almeno proviamoci.”

“Vengo con te,” disse Jessie. “Ma non parlo io. Se taglierà la testa di uno di noi, sarà la tua.”

“Codarda,” le rispose lui con tono canzonatorio.



*



Jessie doveva ammettere che Ryan Hernandez era bravo.

Gli bastò pronunciare le parole “clienti abbienti”, “Hollywood” e “probabile suicidio” perché Decker li mandasse fuori a lavorare sul caso. Quelle parole chiave erano andate tutte a colpire i punti deboli del loro capo: la sua paura della cattiva pubblicità, il costante obiettivo di non alienare i suoi supervisori e il suo profondo desiderio di non avere la costante presenza assillante del detective Hernandez alle calcagna.

La sua unica regola era piuttosto semplice.

“Se inizia a sembrare un omicidio e vi pare che il colpevole sia uno avvezzo alla violenza, chiamatemi per darvi rinforzi.”

Ora, mentre Hernandez andava verso Hollywood, sembrava quasi traboccante di entusiasmo. E così sembrava anche il suo piede sull’acceleratore.

“Stai attento con la velocità, Schumacher,” lo mise in guardia Jessie. “Non voglio finire in un incidente mentre vado sulla scena di un caso.”

Non fece nessuna allusione alla loro conversazione di prima, decidendo di lasciare che fosse lui a risollevare l’argomento quando l’avesse ritenuto opportuno. Non ci volle molto. Dopo che l’iniziale entusiasmo per essere effettivamente diretti verso la scena di un crimine fu svanito, Hernandez si voltò a guardarla.

“Allora, ecco il fatto,” iniziò, le parole che gli uscivano dalla bocca più velocemente del solito. “Avrei dovuto contattarti più spesso quando le acque si sono calmate. Voglio dire, all’inizio l’ho fatto, ovviamente. Ma tu eri malconcia e non parlavi molto, cosa che capisco benissimo.”

“Davvero?” chiese Jessie scettica.

“Certamente,” rispose lui, mentre usciva dall’autostrada 101 e si immetteva sulla Vine Street. “Hai dovuto uccidere tuo padre. Anche se era un pazzo, era tuo padre. Ma non ero sicuro di come parlarne con te. E c’era il fatto che il tuo padre psicolabile mi aveva accoltellato. Non è stata colpa tua, ma avevo paura che tu lo pensassi. Quindi avevo tutte queste cose in testa mentre ogni tanto lo stomaco mi andava in emorragia, e mi riempivano di antidolorifici, e cercavo di mandare giù qualcosa da mangiare. E quando ho pensato di poter discutere della cosa in modo del tutto adulto e consapevole, mia moglie mi ha formalmente servito le carte del divorzio. Doveva succedere, lo so, ma c’è stato qualcosa nel ricevere realmente quei documenti ufficiali, soprattutto mentre ero ancora in ospedale, che mi ha veramente devastato. Sono caduto in questo buco nero. Non volevo mangiare. Non voleva fare riabilitazione. Non volevo parlare con nessuno, cosa che invece avrei dovuto fare.”

“Posso raccomandarti qualcuno se…” iniziò a dire Jessie.

“Grazie, ma a dire il vero è tutto a posto adesso,” la interruppe lui. “Decker alla fine mi ha ordinato di vedere qualcuno. Ha detto che c’era il pericolo che non mi facesse tornare se non mi fossi rimesso a posto. Quindi l’ho fatto. E mi è stato di aiuto. Ma allora erano tipo passate sei settimane dall’aggressione, e mi sembrava strano chiamarti così, di punto in bianco. E a essere onesto, non ero sicuro al 100% di stare bene… psicologicamente, e non volevo perdere il controllo quando avrei parlato con te seriamente per la prima volta dopo che entrambi avevamo rischiato di morire. Allora ho tergiversato ancora un po’. E poi c’è l’altra cosa.”

“Quale altra cosa?”

“Sai quella cosa dei ‘colleghi che vanno d’accordo e poi la situazione diventa strana perché forse c’è qualcosa’? Non sto immaginando cose inesistenti, vero?”

Jessie fece un profondo respiro prima di rispondere. Dare una risposta onesta avrebbe cambiato le cose. Ma lui stava mettendo tutto allo scoperto sul tavolo. Era da codardi non fare lo stesso.

“No, non stai immaginando niente.”

Hernandez rise con leggero disagio, una risata che si trasformò in un susseguirsi di colpi di tosse.

“Stai bene?” gli chiese Jessie.

“Sì, solo che… ero nervoso al pensiero di parlare dell’ultima cosa.”

Rimasero in silenzio per un minuto mentre lui si destreggiava nel traffico della Sunset Boulevard, cercando di trovare un posto dove parcheggiare.

“Quindi questo è il fatto?” chiese lei alla fine.

“Questo è il fatto,” confermò lui, mentre finalmente posteggiava.

“Sai,” disse lei con voce delicata. “Non sei per niente fico come inizialmente pensavo che fossi.”

“È tutta una facciata,” disse lui un po’ scherzosamente, ma chiaramente solo un po’.

“In un certo senso mi piace. Ti rende più… avvicinabile.”

“Dovrei dire grazie, penso.”

“Beh, forse dovremmo parlarne un po’ di più,” rispose lei.

“Penso che sarebbe la cosa matura da fare,” confermò lui. “Intendi dopo che abbiamo dato un’occhiata al cadavere su di sopra, giusto?”

“Sì, Ryan. Prima il cadavere. Poi le conversazioni strane.”




CAPITOLO QUATTRO


Fu come se nella testa di Jessie si fosse accesa la luce.

Nel momento in cui chiuse la portiera dell’auto e guardò l’edificio che ora conteneva il cadavere di una donna, la sua mente si schiarì. Tutti i pensieri che ruotavano attorno al suo padre assassino, alla sua sorellastra orfana e alle proprie mezze probabilità sentimentali svanirono.

Lei e Ryan erano sul marciapiede vicino all’angolo tra la Sunset e la Vine e guardavano la zona. Questo era il cuore di Hollywood e Jessie era stata qui un sacco di volte. Ma era sempre successo per una cena, un concerto, o un film oppure uno spettacolo dal vivo. Non si era mai veramente concentrata su questo posto pensandolo come un luogo dove c’era gente normale che lavorava, viveva e a quanto pareva moriva.

Per la prima volta notò che tra le torri di uffici, i ristoranti e i teatri, molti degli edifici erano come quelli del suo quartiere, con attività commerciali al piano terra e appartamenti ai piani superiori.

In fondo alla strada vide un condominio di dieci piani con un Trader Joe’s al piano terra. Dalla parte opposta della strada c’era una palestra Solstice alla base di un edificio che doveva avere venti piani. Si chiese se i residenti avessero degli sconti sugli abbonamenti, ma ne dubitava. Quel posto era incredibilmente costoso.

Sembrava che il condominio in cui risiedeva la vittima fosse un po’ meno di lusso. Aveva diversi ristoranti e un centro yoga al primo piano. Ma c’erano anche una farmacia Walgreens e un Bed, Bath & Beyond. Mentre percorrevano il marciapiede verso l’ingresso principale, dovettero allargarsi per lasciare spazio a una fila di barboni accampati lungo la parete dell’edificio. Molti di loro non erano ancora svegli, ma c’era una donna anziana seduta a gambe incrociate che borbottava tra sé e sé.

Passarono oltre senza fare commenti e arrivarono all’ingresso dell’edificio. Confronto al condominio dove abitava ora Jessie, la sicurezza qui era uno scherzo. C’era un ingresso a bussola che richiedeva una carta d’accesso e un’altra chiave era necessaria per chiamare l’ascensore. Ma quando lei e Ryan si furono avvicinati all’entrata, un residente tenne la porta aperta per loro e attivò il sensore dell’ascensore senza chiedere loro niente. Jessie notò delle videocamere fisse nell’atrio e nell’ascensore, ma sembravano di fattura economica. Ryan premette il pulsante per l’ottavo piano e nel giro di pochi secondi si trovarono a destinazione, senza aver incontrato la minima difficoltà.

“È stato facile,” disse Ryan, mentre percorrevano il corridoio esterno in direzione del nastro messo dalla polizia, dove c’erano anche diversi agenti all’opera.

“Fin troppo facile, dire,” commentò Jessie. “Mi rendo conto di essere una matta quando si tratta di sicurezza personale, ma questo posto è davvero patetico, soprattutto considerato il circondario.”

“È molto più sicuro di quanto fosse vent’anni fa,” le ricordò Ryan.

“Vero. Ma solo perché non hai spacciatori di droga e prostitute in bella vista a ogni angolo non significa che adesso sia Disneyland.”

Ryan non rispose. Nel frattempo avevano raggiunto l’appartamento della vittima. Lui mostrò il suo cartellino identificativo e lei la sua carta d’identità da profiler del Dipartimento di Polizia di Los Angeles.

“I detective della divisione di Hollywood sono già venuti e ripartiti,” disse perplesso un agente.

“Stiamo solo facendo da appoggio alla Sezione Speciale Omicidi,” mentì Ryan. “È più che altro un favore da parte del nostro capitano. Ci farebbe piacere se mandasse qualcuno ad accompagnarci sulla scena del crimine, anche se dovranno ripetere le stesse cose.”

“Nessun problema,” rispose l’uomo. “L’agente Wayne è il primo responsabile sulla scena. Vi chiamo lui.”

Mentre l’uomo comunicava tramite radio con l’altro agente, Jessie si guardò attorno. La porta d’ingresso era aperta ora, come anche la finestra accanto. Si chiese se anche prima si fossero trovate in quella posizione. Era difficile immaginare che una donna single, nel cuore di Hollywood, lasciasse una finestra aperta se questa era accessibile dall’esterno. Era quasi un invito per eventuali problemi.

L'appartamento della vittima si trovava dalla parte opposta degli ascensori, all’estremità di un corridoio a forma di ‘C’. Questo significava che l’appartamento era visibile a chiunque percorresse i corridoi. Jessie sarebbe stata curiosa di sapere se qualcun altro avesse mai perlustrato quegli appartamenti.

In quel momento un agente uscì dall’appartamento per accoglierli. Era di corporatura pesante e con un’incipiente calvizie, con pochi capelli che stavano attaccati alla testa sudata. Sembrava essere sulla quarantina e aveva quella sorta di aspetto di chi ‘ha visto tutto’, che poteva essere un aiuto o un impedimento, a seconda dell’atteggiamento.

“Agente John Wayne,” disse porgendo la mano a Ryan. “Ho già sentito tutte le possibili battute immaginabili al riguardo, quindi possiamo andare avanti. Cosa posso fare per voi?”

“È veramente identico,” disse Ryan, non riuscendo a trattenersi.

Jessie gli diede un pugno al braccio e poi riportò l’attenzione sul poliziotto, che sembrava non essere per niente turbato dal commento.

“Scusi, agente Wayne,” disse Jessie. “Grazie per il suo tempo. Sappiamo che i detective di Hollywood hanno già lavorato sulla scena. Ma speravamo che potesse farci fare un giro comunque. Questo caso ha un sacco di dettagli che corrispondono a una cosa sulla quale stiamo lavorando e vorremmo vedere se c’è davvero una connessione.”

“Certamente, venite dentro,” disse lui, rientrando nell’appartamento e porgendo loro dei copri-scarpe di plastica.

Jessie e Ryan li infilarono, insieme ai guanti, ed entrarono.

“Alcuni dei effetti della vittima sono già stati messi da parte come prova,” disse Wayne. “Ma possiamo darvi un elenco dettagliato.”

“Niente che l’abbia particolarmente colpita?” chiese Ryan.

“Un paio di cose,” rispose l’agente. “Non ci sono segni di scasso. C’erano dei soldi nella sua borsetta. Il telefono era sul comodino.”

“Se non le spiace,” chiese Jessie, “prima che lei ci fornisca il resto dei dettagli, vorrei prendermi un momento per valutare il posto senza nessun preconcetto.”

L’agente Wayne annuì. Jessie fece un lungo e profondo respiro, permise al suo corpo di rilassarsi e iniziò a tracciare un profilo della vittima. Il salotto era arredato in maniera essenziale con mobili che sembravano essere stati acquistati all’Ikea. C’erano pochi quadri alle pareti e nessuna foto in mostra. L’unico tocco personale era un certificato da personal trainer appeso alla parete.

Jessie entrò nella cucina quasi intatta. Non c’erano piatti sporchi nel lavandino, né stoviglie pulite nello sgocciolatoio. Sul bancone era appoggiato un canovaccio pulito e ben piegato. Accanto ad esso si trovavano diversi contenitori di pastiglie, ciascuno contrassegnato da giorni della settimana, tutti disposti in estremo ordine. Jessie non li toccò, ma da quello che poteva dire, le pillole all’interno sembravano essere integratori e vitamine. Notò che quelle del lunedì e del martedì non erano state prese. Ora era mercoledì mattina.

Si guardò attorno osservando il resto della cucina. Il rotolo della carta assorbente era quasi intero. Aprendo le diverse ante della credenza, trovò dozzine di lattine di fagioli e tacchino macinato, un sacco di barrette proteiche e contenitori di proteine del siero del latte.

Il frigorifero era mezzo vuoto, ma il contenuto comprendeva due confezioni da litro di latte, diversi contenitori di yogurt greco e un’enorme busta di spinaci. Il congelatore era un miscuglio di mirtilli, fragole e açaí surgelati, oltre a un contenitore Tupperware con all’interno quella che sembrava una zuppa di noodle al pollo. All’esterno della confezione era attaccato un post-it che diceva “da mamma, 11/2018”. Era più di un anno fa.

I tre percorsero il corridoio verso la camera da letto, dove li attendeva il corpo. L’odore di carne putrefatta inondò le narici di Jessie. Lei si concesse un attimo per abituarvisi, poi si fermò un momento nel bagno, che non era ordinato come il resto della casa. Era evidente che la donna trascorreva buona parte del suo tempo là dentro.

“Come si chiamava la vittima?” chiese Jessie. Era sul documento che Ryan le aveva dato alla centrale, ma lei aveva volutamente evitato di annotarselo.

“Taylor Jansen,” disse l’agente Wayne. “Era…”

“Scusi, agente,” lo interruppe Jessie. “Non voglio sembrare maleducata, ma la prego di trattenere qualsiasi altro dettaglio ancora per un po’.”

Guardò poi con attenzione il comò di Taylor. Per quanto apparentemente non si curasse di tenere rifornita la cucina, a quanto sembrava lo stesso non valeva per il bagno. Lo scaffale era pieno zeppo di trucchi, inclusa una confezione aperta di ombretti e diversi rossetti. Due spazzole e un pettine erano appoggiati in un angolo, accanto a una boccettina di profumo.

L’armadietto dei medicinali era pieno di prodotti da banco come Advil, Benadryl e Pepto-Bismol, ma non c’erano flaconi di medicinali che richiedevano ricetta. Nella doccia c’erano diversi rimasugli di bottiglie di shampoo e balsamo, alcuni detergenti viso, un rasoio per le gambe, crema da epilazione e una saponetta.

Jessie uscì dalla stanza e il forte odore che era stato temporaneamente mascherato dai profumi del bagno la colpì di nuovo. Lei si guardò alle spalle osservando il corridoio e notando ancora una volta la completa assenza di oggetti personali alle pareti.

“Prima di entrare in camera,” disse rivolgendosi a Wayne, “mi faccia sapere su quanti di questi elementi ho ragione. Taylor Jansen è single, bianca, attraente e sui trent’anni. Lavora qui vicino e viaggia spesso. Ha pochi amici. È molto attenta ai dettagli. E ha tanti soldi da potersi permettere un posto molto migliore di questo.”

Wayne sgranò gli occhi per un secondo prima di rispondere.

“Aveva precisamente trent’anni,” le disse. “Li ha compiuto il mese scorso. È bianca e pare sia stata molto carina. Lavora qui vicino, alla palestra che si trova a neanche un isolato da qui. Stiamo ancora raccogliendo informazioni sullo stato delle sue relazioni. Ma il suo collega, quello che l’ha trovata, dice che al momento non frequentava nessuno. Lui è attualmente qua sotto che sta riconfermando la sua dichiarazione, se poi volete parlargli. Non so dirvi nulla di viaggi e situazione finanziaria, ma lui magari sì.”

“Vorremmo parlargli non appena avremo finito qui,” disse Ryan, poi si rivolse a Jessie. “Sei pronta ad entrare?”

Lei annuì. Non le era sfuggito il fatto che, tranne poche eccezioni, la sua descrizione di Taylor Jansen poteva essere anche quella di se stessa. Avrebbe compiuto trent’anni tra poche settimane. Il suo appartamento in centro era spartano quanto questo e non perché lei non avesse il tempo di personalizzarlo. Poteva contare sulle dita di una mano i propri buoni amici. E a parte il suo recente matrimonio con un uomo che aveva tentato di ammazzarla, non aveva alcuna relazione, messa da parte la sua recente conversazione con Ryan. Se fosse morta domani, l’analisi di un altro profiler non sarebbe forse stata tanto diversa da quella che lei aveva fatto della donna che si trovava ora dietro quella porta.

“Ne volete un po’?” chiese Wayne mentre si metteva della crema all’eucalipto subito sotto alle narici. Aiutava a contrastare i brutti odori che li circondavano.

“No, grazie,” disse Jessie. “Per quanto faccia schifo, ho bisogno che tutti i miei sensi siano in piena forza quando sono su una scena. Eliminare l’olfatto potrebbe mascherare qualche importante elemento.”

“Lo stomaco è suo,” disse Wayne scrollando le spalle e aprendo la porta.

Quasi immediatamente, Jessie si pentì della decisione presa.




CAPITOLO CINQUE


La puzza era fortissima. La donna doveva essere morta da due o forse addirittura tre giorni. Era distesa a letto con le coperte scostate, e indossava un paio di pantaloncini da palestra e un reggiseno sportivo. Non c’erano evidenti segni di lotta nel modo in cui era posizionata o nella stanza in generale. Non sembrava che niente fosse stato buttato a terra. Non c’era nulla di rotto. Le cose che indossava erano intatte. Non c’erano evidenti lividi o tagli.

Ovviamente questo non provava niente. Se si trattava di un delitto, il colpevole aveva avuto un sacco di tempo a disposizione per risistemare la stanza e posizionare al meglio Taylor prima di andarsene. Le impronte sugli oggetti nella stanza, incluso il corpo, avrebbero potuto offrire dell’aiuto su quel fronte. Ma almeno a primo colpo d’occhio, non c’era niente fuori posto.

Jessie si avvicinò per guardare meglio la vittima. Gli assistenti del medico legale, che stavano per inserire il cadavere nel sacchetto di plastica, fecero un passo indietro lasciandole spazio.

Il volto di Taylor Jansen era blu e gonfio. Gli occhi erano chiusi. L’addome che aveva chiaramente mantenuto sodo e tonico con un sacco di esercizio era ora rilassato, risultato dei gas che si erano formati all’interno del corpo dopo la morte. Anche in quella condizione, Jessie poteva confermare che era stata una donna molto bella.

“Qualcuno l’ha toccata?” chiese Ryan.

“Solo per prendere le impronte,” gli assicurò Wayne.

“Pare che sia morta nel sonno,” notò Ryan. “Non c’è da stupirsi che la prima ipotesi sia suicidio. Magari quelle pillole in cucina non sono proprio tutte vitamine. Sono molto curioso di vedere il resoconto tossicologico.”

Jessie si chinò in avanti e notò gli ematomi ora quasi sbiaditi sui polsi e sul collo di Taylor. dato lo scolorimento e il gonfiore della pelle, era difficile dire quanto fossero vecchi. Ma se lei avesse dovuto indovinare, avrebbe detto un paio di giorni.

“La finestra vicino alla porta d’ingresso è sempre stata aperta?” chiese Jessie. “O l’ha aperta qualcuno dopo aver trovato la donna?”

“Secondo quanto dice il suo collega, era leggermente aperta quando lui è arrivato. Ha detto di aver bussato alla porta e di aver tentato di aprirla. Ma era chiusa a chiave, quindi ha usato la finestra per entrare.”

Jessie annuì, allontanandosi dal corpo di Taylor e portandosi verso l’armadio. Aprì l’anta scorrevole e lanciò un’occhiata all’interno. Sembrava che tre quarti del suo guardaroba comprendessero esclusivamente abbigliamento da palestra e indumenti intimi. Jessie si voltò verso Ryan e l’agente Wayne.

“Dobbiamo decisamente parlare con il suo collega,” disse.



*



Vin Stacey aveva un aspetto davvero misero, seduto sul sedile posteriore dell’auto di pattuglia parcheggiata fuori dal condominio.

“Lo state tenendo in custodia?” chiese Jessie all’agente dall’espressione annoiata che si trovava accanto all’auto.

“No. Gli abbiamo solo chiesto di stare qui ad aspettare che voi scendeste a parlargli.

“Sa che non è tenuto ad aspettare in auto? Perché dalla sua faccia sembra che pensi che l’abbiate arrestato.”

“Non gli abbiamo chiarito la natura della nostra richiesta,” ammise timidamente l’agente. “Gli abbiamo solo detto di aspettare nel veicolo per delle altre domande.”

“Quindi pensa di essere sotto arresto?” chiese Jessie incredula.

“Non so quale impressione abbia, signora. Noi abbiamo solo espresso la nostra richiesta.”

Jessie guardò Ryan, che non sembrava essere irritato quanto lei.

“Non dici niente?” gli chiese.

“No,” disse lui. “Ma non posso negare di aver usato la stessa tattica in passato. È un modo per tenere una persona ferma dove si vuole senza doverla arrestare formalmente.”

“Ma pensavo che non fosse più un sospettato,” ribatté Jessie.

“Tutti sono sospettati. Lo sai.”

“Okay,” gli concesse Jessie. “Ma nel frattempo lui se ne sta seduto lì con l’intero mondo che gli passa accanto pensando che lo abbiano arrestato per qualcosa.”

“Immagino che allora dovremmo chiarire la cosa,” disse Ryan con tono piatto.

Jessie lo guardò accigliata prima di aprire la portiera posteriore.

“Signor Stacey?” chiese, lasciando andare la nota di nervosismo nella voce, che ora risuonò dolce e zuccherosa.

“Sì,” rispose lui tremante.

“Perché non viene fuori dall’auto? Mi spiace che lei abbia dovuto aspettare così tanto. Io e il mio collega eravamo sopra a svolgere le indagini. Speravamo di poterle fare qualche domanda, se non le spiace.”

“Ho risposto alle domande di tutti,” disse lui con tono implorante. “Non riesco a capire perché mi trovo nei guai.”

“Non si trova nei guai, signor Stacey,” gli assicurò lei. “Venga fuori. Mi chiamo Jessie Hunt. Sono una profiler criminale del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Questo è il detective Ryan Hernandez. Vedo una caffetteria nell’angolo laggiù. Prendiamo una tazza di qualcosa e facciamo due chiacchiere. Cosa ne pensa?”

L'uomo annuì e uscì dal veicolo. Fu solo allora che Jessie si rese conto di quale fosse la sua stazza. Completamente dritto in piedi, doveva arrivare facilmente a un metro e novanta. Jessie ipotizzò che il peso dovesse essere di un centinaio di chili. Indossava una maglietta da palestra a manica lunga che metteva in evidenza i suoi addominali. Sembrava che i bicipiti potessero strappare la stoffa delle maniche da un momento all’altro.

Nonostante la sua imponenza, l’atteggiamento trasmetteva delicatezza e gentilezza. Guardandolo più attentamente, Jessie notò che portava una collanina con il ciondolo di un arcobaleno e che aveva le unghie dipinte di viola.

“Immagino che anche lei sia un trainer nella palestra dove lavorava Taylor, giusto?” gli chiese, cercando di alleggerire l’atmosfera mentre si dirigevano verso la caffetteria.

L’uomo annuì ma non rispose. Ryan li seguiva a poca distanza, chiaramente consapevole che la sua presenza avrebbe potuto intralciare i tentativi di Jessie di creare un collegamento con l’uomo. Mentre camminavano, Jessie notò che l’uomo di strofinava energicamente i polsi.

“Va tutto bene?” gli chiese.

“Ancora non ci credo. È come se mi avessero rivoltato lo stomaco. Aspettare lì e sapere che una persona con una personalità così solare ora è un essere freddo e privo di vita. Mi fa male solo a pensarci. E i vostri colleghi hanno solo peggiorato le cose.”

“È stata una vera sfortuna,” disse Jessie.

“Sapete che gli agenti mi hanno ammanettato quando sono arrivati all’appartamento di Taylor?” insistette lui. “Io me ne stavo seduto là fuori ad aspettarli. E uno di loro mi ha messo le manette mentre l’altro ha tenuto la mano pronta sulla pistola per tutto il tempo. Io sono quello che ha chiamato il 911!”

“Mi spiace davvero, signor Stacey,” cercò di calmarlo Jessie. “Purtroppo, quando gli agenti arrivano su una scena del crimine, devono prendere delle precauzioni che possono sembrare eccessive.”

“Mi hanno tenuto ammanettato per mezz’ora, e nel frattempo mi hanno preso le generalità e hanno controllato se avessi la fedina penale sporca, cosa che non ho, e hanno controllato che lavorassi con Taylor. E tutto mentre lei stava sdraiata su quel letto, morta. Penso che sappiamo entrambi benissimo che se fosse stata lei a chiamare il 911 e li avesse aspettati lì, l’avrebbero trattata un modo diverso.”

“Giusto,” rispose Jessie annuendo comprensiva mentre entravano nella caffetteria. Si voltò a guardare l’agente che li aveva seguiti fino a lì e gli fece cenno di aspettare fuori.

“Quindi ha detto che lavorava con lei. Eravate entrambi insegnanti?” continuò Jessie, cercando di smorzare l’indignazione di Stacey e andare oltre.

“Sì… al Solstice.”

“La palestra proprio davanti al condominio?” chiese Jessie, ricordando il fitness club che aveva visto quando erano arrivati.

“Comodo, no?” commentò lui.

Ordinarono i loro caffè e si sedettero a un tavolino. Ryan li raggiunse ma non disse nulla.

“Quindi, prima di arrivare a come le l’abbia trovata, signor Stacey…”

“Chiamami Vin,” le disse lui.

“Ok, Vin,” acconsentì lei. “Prima di questo, voglio che ci racconti di Taylor. Com’era? Amichevole? Tranquilla? Alla buona? Intensa?”

“La definirei una tipa alla buona. Era educata ma professionale con gli altri allenatori e con il resto dello staff. Era più amichevole con i suoi clienti, ma aveva sempre un certo atteggiamento professionale. Era fatta così. Alcuni clienti vorrebbero che il loro trainer fosse una specie di migliore amico. E io sono più o meno così. Altri preferiscono qualcuno che non dica scemenze e che li aiuti a raggiungere i loro obiettivi. Lei era la persona per questo secondo genere di clientela.”

“Che genere di clienti aveva per lo più?” chiese Ryan, parlando per la prima volta.

Vin guardò Jessie esitando, come se avesse bisogno della sua approvazione per rispondere. Lei annuì in modo rassicurante e lui proseguì.

“Di ogni genere. Ma direi che più della metà erano donne sposate tra i trenta e i quarant’anni. Un sacco di mogli benestanti e casalinghe che cercavano di perdere il peso accumulato con una gravidanza o di mantenere la linea evitando che i loro mariti le lasciassero per le segretarie.”

“Era questo il suo pane quotidiano?” chiese Ryan.

“Già. Era davvero bravissima a motivare donne del genere e a farle sentire come se avessero il pieno controllo dei loro destini. Io sono un uomo di colore single, gay, e a volte mi faceva venire voglia di sposare un tipo bianco di mezza età solo perché potessi assumere la piena responsabilità della mia vita.”

“Quindi eravate buoni amici?” chiese Jessie.

“Non così intimi,” disse lui. “Prendevamo un caffè insieme – a dire il vero molto spesso qui – o uscivamo a bere qualcosa. L’ho accompagnata a casa un paio di volte la sera tardi, a piedi. Ma non direi che eravamo amici. Ci definirei piuttosto colleghi amichevoli. Penso che le piacessi perché ero uno dei pochi uomini alla palestra che non le faceva la corte tutto il tempo.”

“Alcuni dei suoi corteggiatori erano particolarmente aggressivi?” chiese Ryan.

“Non sono sicuro di essere il migliore a giudicare ciò che una donna consideri aggressivo al giorno d’oggi,” ammise. “Posso dire però che non mi è mai sembrata intimidita da nessuno. Non aveva problemi a mettere a tacere uno in malo modo se andava troppo oltre.”

“Sai niente di quale fosse la sua situazione sentimentale?” chiese Jessie. “Hai detto agli agenti di sopra che non frequentava nessuno.”

“Ho detto che non pensavo che fosse attualmente impegnata in una relazione. So che stava uscendo con un tizio un paio di mesi fa. Ma dopo che la storia è finita, è diventata molto riservata riguardo alla sua vita amorosa. E non stava a me insistere per saperne di più, dato che non posso reputarmi un esperto.”

“Vin,” chiese Jessie, decidendo di lanciare la domanda che sapeva avrebbe impegnato tutti per il resto della giornata, “pensi che Taylor possa essersi uccisa?”

Lui rispose immediatamente e con un’intensità che ancora non gli avevano visto esprimere.

“Impossibile. Taylor non era quel genere di persona. Era una precisa, concentrata. Era una di quelle persone che hanno degli obiettivi concreti. Voleva aprire una sua palestra. Non si sarebbe mai fatta una cosa del genere. Era una succhia midollo.”

“In che senso?” chiese Jessie.

“Nel senso che succhiava il midollo della vita. Non avrebbe mai messo fine alla propria.”

Rimasero tutti seduti in silenzio per un momento, poi Ryan tornò a un argomento meno filosofico.

“Conosci il nome del suo ex?” gli chiese.

“No. Ma penso che una delle trainer donne alla palestra potrebbe saperlo. Ricordo che aveva raccontato di averlo visto portare lì Taylor una volta e di averlo riconosciuto.”

Mentre Vin rispondeva, Jessie spostò l’attenzione sull’ingresso della caffetteria, da dove stava entrando un uomo che era chiaramente un barbone. Aveva la barba lunga e le scarpe con le suole staccate che sventolavano ogni volta che sollevava un piede.

Ma non fu quello ad attirare la sua attenzione. C’era qualcosa di rosso che gocciolava dalla mano sinistra dell’uomo, che lui teneva nascosta sotto alla giacca. L’uomo stava borbottando tra sé e sé mentre si muoveva in mezzo agli altri clienti, andando a sbattere contro di loro in modo apparentemente intenzionale.

“Come si chiama la trainer?” chiese Ryan. Aveva la schiena rivolta all’ingresso, quindi non aveva potuto notare l’uomo.

“Chianti.”

“Dici sul serio?” chiese Ryan, ridendo involontariamente e sputacchiando un po’ del suo caffè.

“Non so se sia il suo nome di battesimo,” disse Vin, sorridendo per la prima volta. “Ma alla palestra la conosciamo come Chianti Rossellini. Non sta a me giudicare.”

“Perché pensi che non sia effettivamente la tua filosofia, Vin?” chiese Jessie maliziosamente, mentre continuava a tenere d’occhio il barbone.

Vin alzò le sopracciglia in modo provocatorio.

“Scusate se interrompo questo scambio di gossip…” iniziò a dire Ryan.

“Puoi fare tutto quello che vuoi, occhi belli,” lo interruppe Vin, sbattendo le palpebre.

Ryan non rispose alla sua allusione, ma andò avanti.

“Ma dobbiamo chiederti di quando hai trovato Taylor. Hai detto agli agenti che la finestra era aperta?”

Il volto di Vin tornò immediatamente serio.

“Di poco, sì. Prima ho bussato e ho controllato la porta, che era chiusa. Ma quando non ha risposto, ho aperto di più la finestra e sono entrato da lì. Immagino che avrei dovuto chiamare prima il 911. Ma ho pensato che se era ferita e aveva bisogno di aiuto, non era il caso che me ne stessi fermo lì con le mani in mano.”

“Non ti devi giustificare, Vin,” disse Jessie. “Eri preoccupato per la tua amica. Sono sicura che le prove sosterranno questo aspetto.”

“Grazie,” disse Vin, la voce leggermente rotta.

Jessie avrebbe avuto una reazione più marcata nei suoi confronti, se non fosse stata così distratta dal barbone con la piccola scia di sangue che gli cadeva dal braccio. Ora stava dondolando sui piedi mentre muoveva la mano sotto alla giacca, che sembrava essere zuppa di un liquido denso. Era come se si stesse dando dei colpi al fianco. Le sue labbra si stavano ancora muovendo, ma qualsiasi cosa stesse mormorando era inudibile, anche se la donna di mezza età che stava in fila davanti a lui continuava a guardarsi nervosamente alle spalle.

“Ehi, Ryan,” disse Jessie con noncuranza. “Dai un’occhiata alle spalle, senza farti notare. L’uomo con la barba, in fila.”

Ryan si voltò e così fece anche Vin.

“Quello che non riesce a tenere fermo il corpo e la bocca?” chiese Ryan.

“Già,” confermò Jessie. “Sta sanguinando dal braccio sinistro e penso che stia tenendo qualcosa con la mano destra sotto alla giacca.”

“Cosa pensi che sia?”

“Non ne sono sicura. Ma ho notato una macchia umida e scura sulla giacca all’altezza del fianco. Quindi immagino che sia la stessa cosa che gli ha fatto sanguinare l’altro braccio. E poi sembra piuttosto agitato. Prima stava andando addosso ad altri clienti, e non per sbaglio.”

“Potrebbe essere qualcosa,” disse Ryan sottovoce. “O potrebbe essere come la metà della gente a cui siamo passati accanto mentre venivamo qui.”

“Giusto,” disse Jessie, “anche se questa cosa del sangue aggiunge un po’ di pepe alla faccenda. E poi tutte le bariste sembrano terrorizzate, e immagino che abbiano barboni che entrano qua dentro tutto il giorno.”

“Giusto,” disse Ryan, sussultando leggermente mentre si alzava in piedi. “Direi che posso mettermi in fila per un altro caffè. Jessie, tu magari potresti andare a chiamare l’agente che è rimasto fuori e chiedergli di venire dentro come precauzione.”

Jessie annuì e si alzò in piedi a sua volta, cercando di nascondere il dolore che provava sia alla schiena che alla gamba dopo essere rimasta ferma per un po’. Mentre andava verso l’ingresso della caffetteria si voltò e vide che Ryan aveva preso posizione subito dietro all’uomo, che ancora brontolava. Jessie spinse la porta e fece cenno all’agente di entrare.

“Penso che ci sia possibile bisogno di aiuto qui,” disse. “L’uomo con la barba che sta davanti al detective Hernandez potrebbe avere un’arma sotto alla giacca. Non ne siamo certi, ma potrebbe esserci bisogno di rinforzi.”

Aveva appena finito la sua frase, quando un forte grido arrivò dall’interno. Jessie si girò e vide la donna di mezza età che si teneva stretta la spalla destra con la mano sinistra. Dietro di lei Ryan stava lottando con il barbone per strappargli di mano un coltello da caccia. Ma nonostante il vantaggio dato dalla sua prestanza fisica, sembrava comunque una battaglia persa.

L’uomo era come posseduto da una rabbia frenetica e Ryan evidentemente non era al massimo delle sue forze. Nel giro di pochi istanti il barbone si era liberato. Ryan perse l’equilibrio e cadde sul pavimento, mentre l’uomo si riorganizzava subito e gli si lanciava addosso.

Jessie corse dentro, aprì la fondina della pistola e avanzò verso di loro. Stava per tirare fuori l’arma quando vide un lampo di movimento davanti ai suoi occhi. Era Vin Stacey che balzava addosso al barbone, dandogli un colpo alla mandibola con l’avambraccio e facendolo andare a sbattere contro il bancone.

Il coltello volò via dalla mano dell’uomo ora frastornato e scivolò sul pavimento. Vin si fermò su di lui, pronto a procedere se necessario. Non servì. Un attimo dopo l’agente era addosso al barbone, lo faceva girare prono e lo ammanettava. Jessie rimise nella fondina la sua pistola e si inginocchiò accanto a Ryan.

“Stai bene?” gli chiese preoccupata.

“Sì. Mi riprenderò, anche se non sono sicuro che possa dirsi lo stesso per il mio orgoglio.”

Vin gli si avvicinò e gli tese la mano.

“Vuoi una mano, occhi belli?” gli chiese, sbattendo le palpebre con fare ammiccante.




CAPITOLO SEI


La sicurezza di Jessie era scossa.

Mentre lei e Ryan aspettavano nella lobby della palestra Solstice perché il direttore generale trovasse Chianti, non faceva che ripensare a quell’istante, tre secondi prima che Vin mettesse al tappeto il barbone.

In quella frazione di tempo Ryan era caduto, un uomo aveva tentato di ucciderlo e lei non era riuscita ad agire abbastanza rapidamente da evitarlo. Se non fosse stato per la prontezza di riflessi e la rapidità di quell’armadio umano, il detective Ryan Hernandez poteva benissimo essere morto adesso.

Prima di portare all’ospedale la donna che il tizio aveva pugnalato, uno degli addetti del pronto intervento aveva dato una controllata a Ryan e gli aveva dato il via libera. Ma Jessie non poteva fare a meno di chiedersi se entrambi fossero davvero pronti a rimettersi in gioco lavorando sul campo.

Il suo dibattito interiore venne interrotto quando il direttore generale fece loro cenno di entrare in sala. Jessie cercò subito di cacciare dalla mente le proprie preoccupazioni, tentando di restare concentrata sul caso che avevano per le mani. Mentre avanzavano, si guardò attorno nella palestra, cercando di fare in modo che la musica house martellante non le facesse venire il mal di testa.

La sala principale era enorme, con una schiera apparentemente infinita di macchinari cardio. Sulla sinistra c’era la sala pesi, così ampia che non si vedeva dove finiva. A destre c’erano due dozzine di materassini adibiti allo stretching e, almeno per ora, alle chiacchiere o al controllo dei cellulari.

Il direttore della palestra, un uomo con i baffi folti che si chiamava Frank Stroup, era in attesa dietro a una donna bionda, magra ma tonica e sulla ventina, che secondo Jessie aveva in faccia decisamente troppo trucco per essere una trainer. I denti erano bianchissimi in modo del tutto innaturale e i seni erano compressi dentro a un reggiseno sportivo che sembrava essere parecchio più piccolo del necessario.

“Detective miei,” disse il direttore, dimenticando che solo uno dei due rispondeva a quel titolo, “questa è Chianti Rossellini. La lascio alle vostre domande. Vi prego di farmi sapere se avete bisogno di ulteriore aiuto.”

Jessie annuì educatamente. Non che fosse stato molto di aiuto effettivamente fino a quel momento. Oltre a dare informazioni di base sullo storico lavorativo di Taylor, sembrava conoscere molto poco della vita della donna. La struttura poteva anche essere grande, ma a Jessie sembrava strano che quel tizio non avesse altro da dire su una trainer che, a quanto ne diceva Vin, lavorava con alcuni dei clienti più facoltosi del club. Avevano evitato intenzionalmente di parlare della morte di Taylor. Ma lo stesso, Jessie si era aspettata di vederlo almeno curioso del perché fosse stata assente negli ultimi due giorni.

Mentre l’uomo si allontanava, Chianti li fissò con un miscuglio di apprensione e curiosità. Sembrava pensare di poter essere nei guai per qualche motivo. Ma il suo linguaggio corporeo suggeriva che non fosse certa del motivo.

“Signorina Rossellini,” iniziò Ryan, riuscendo a non mettersi a ridere a metà della frase, “quanto bene conosce Taylor Jansen?”

“Può chiamarmi Chianti,” rispose lei, non rendendosi conto di quanto questo potesse essere difficile per Ryan. “La conosco un po’. Cioè, lavoriamo nella stessa palestra. Interagiamo quasi tutti i giorni. Ma non direi che siamo amiche o qualcosa del genere. Taylor è molto concentrata sui suoi clienti e non passa tanto tempo a chiacchierare. Per quale motivo me lo chiede, comunque? Ha fatto qualcosa di sbagliato?”

“Sono solo domande di routine. Non serve che lei si preoccupi al riguardo,” disse Jessie, non ancora pronta a rivelare la verità fino a che non avessero raggiunto i loro obiettivi. “Cosa ci sa dire del suo ex fidanzato, quello che a volte la accompagnava qui al lavoro?”

“Oh, quello è Gavin. Gavin Peck.”

“Ci racconti qualcosa di Gavin, Chianti,” disse Jessie con tono casuale.

“Va bene,” disse lei, perdendo quasi subito quell’aria di disagio che sembrava circondarla. “Gavin è un’opera d’arte. Di sicuro ha un corpo fantastico. Penso che abbia anche vinto alcune gare di sollevamento pesi. Ed è, per dirla in modo carino, volatile.”

“Cosa intende dire?” insistette Ryan.

“È un tipo super intenso. Una volta mi allenavo alla palestra dove va lui ed era sempre su di giri, davvero una super energia. Anche Taylor è una con un sacco di energia. Ma in un modo più controllato. Lui tende a perdere il controllo.”

“Ha mai perso il controllo con Taylor?” chiese Jessie cautamente.

“Li ho visti insieme solo un paio di volte e non è mai stato così con lei in quelle occasioni. Ma non penso che abbia preso bene la fine della loro relazione.”

“Perché dice questo?” chiese Ryan, guardando Chianti con la sua migliore espressione da “quello che dici mi interessa davvero un sacco”. La donna quasi si sciolse davanti a lui.

“Ho sentito dire che è venuto da queste parti un paio di volte e quelli della sicurezza hanno dovuto chiedergli di andarsene,” rispose, arrossendo leggermente. “Non so se sia vero, ma mi pare una cosa da Gavin. Ha una certa propensione allo stalking. E poi potrebbe aver avuto dei buoni motivi per essere geloso.”

“Di che cosa?” chiese Jessie.

“Non per parlare male alle spalle, ma Taylor è una a cui piace flirtare con i clienti.”

In quel momento un uomo panciuto sulla trentina, con una maglietta grigia senza maniche passò loro accanto.

“Ciao Chianti,” disse con voce timida.

“Ciao Brett. Siamo sempre d’accordo per la tua lezione delle 11?” gli chiese lei mostrandogli il suo sorriso bianchissimo.

“Certo.”

“Eccellente, tesoro. Teniamo in forma quei bicipiti, ok? A dopo.”

Quando l’uomo se ne andò, il sorriso evaporò e la donna riportò subito l’attenzione su Jessie.

“Cosa stavamo dicendo?” chiese.

“Stava dicendo che Taylor è una tipa a cui piace flirtare,” le ricordò Jessie con volto impassibile.

“Giusto.”

“Sul serio?” insistette Jessie. “A noi hanno detto che è molto professionale.”

“In palestra di sicuro. Ma l’ho sentita parlare al telefono, prendere appuntamenti per sedute di allenamento private. La gestione in genere non vede di buon occhio queste cose, quindi lei ha volutamente tentato di tenerle sempre nascoste. Ma il suo tono durante quelle telefonate era decisamente meno… professionale.”

“Pensa che possa offrire più di semplici sessioni di allenamento?” chiese Jessie con intenzione.

“Non posso dirlo,” rispose Chianti scrollando le spalle. “Voglio dire, come si fa a sapere se è una tipa promiscua o se le piace solo scherzare. Ad ogni modo la direzione ha chiuso un occhio perché molti dei suoi clienti qui sono molto facoltosi. Non vogliono perdere dei soci, capite? Ma a volte non si presenta per giorni e nessuno dice niente. Se lo facessi io, mi licenzierebbero all’istante. A dire il vero, è un po’ che non la vedo. Immagino che sia una di quelle volte. Ma ora mi avete fatto preoccupare. Sta bene?”

Jessie guardò Ryan, facendogli capire con uno sguardo che per lei era arrivato il momento giusto. Lui annuì e si avvicinò a Chianti.

“Temo di no,” le disse sottovoce. “Taylor è morta.”

Jessie guardò Chianti con attenzione mentre la donna recepiva la notizia. Il suo sorriso plastico da trainer scomparve subito. Parve incredula.

“Mi spiace. Cos’è successo?”

“Taylor Jansen è stata trovata morta nel suo appartamento questa mattina,” disse Ryan con tono privo di espressione.

Chianti parve impegnata a comprendere l’informazione, rendendosi conto solo ora del motivo per cui le erano state poste tutte quelle domande. Il suo volto passò piuttosto rapidamente da un’espressione di shock a una mista di preoccupazione e curiosità.

“È stata uccisa? È stato Gavin?”

C’era mancanza di empatia nella sua voce e Jessie avrebbe voluto darle un pugno in faccia. Non serviva che fossero amiche, ma questa donna non riusciva neanche a fingere un secondo di dolore? Purtroppo quel genere di reazione, per quella che era la sua esperienza, non portava neanche a pensare che fosse colpevole.

L’espressione affamata di pettegolezzi che aveva ora stampata in viso e il suo nudo desiderio di scoprire i dettagli del fatto suggerivano che non ne fosse per niente a conoscenza. Anche se Ryan aveva ragione a sostenere che tutti sono sospettati, la formazione da profiler di Jessie le suggeriva con forza che Chianti non lo era per nulla.

“Non abbiamo al momento nessuna informazione sulla causa della morte,” disse Ryan, poi aggiunse riluttante. “Ha mai pensato che Taylor potesse essere depressa?”

“Oh wow!” disse Chianti sgranando gli occhi. “Si è suicidata?”

“La prego di limitarsi a rispondere alle domande, signorina Rossellini,” disse Jessie con tono secco, perdendo la pazienza.”

Chianti parve leggermente offesa, ma poi rispose subito.

“No,” ammise con tono più pacato. “A dire il vero mi è sempre sembrata piuttosto equilibrata. Non l’ho mai vista troppo esaltata o troppo giù di tono. Sarei piuttosto sorpresa se saltasse fuori che è stata lei a uccidersi.”

Jessie tentò di nascondere la propria delusione. Fino ad ora nessuno di coloro con cui avevano parlato pensava che Taylor fosse una probabile candidata al suicidio. Eppure fino a questo momento non avevano prove che suggerissero qualcos’altro.

“C’è qualcun altro che le viene in mente, oltre a Gavin, che potrebbe aver avuto dei rancori nei suoi confronti? Un cliente magari?” le chiese.

Chianti pensò un momento.

“Non mi viene in mente nessuno. Non la tenevo d’occhio così attentamente. Ma la sua reputazione era basata su clienti decisamente contenti di lei. In parte perché era una brava trainer. Altri motivi potrebbero essere in parte quelli di cui ho parlato prima, per non parlare male dei morti.”

“No, certo che no,” disse Jessie, sempre più disgustata. “Magari puoi concludere tu qui, detective Hernandez. Ho bisogno di un po’ d’aria.”

Fece un cenno di saluto a Chianti e se ne andò in modo brusco, passando davanti a Brett mentre usciva dalla sala. Era appoggiato a un tapis roulant, in attesa che la sua trainer per-niente-propensa-a-flirtare finisse di parlare e potesse iniziare la seduta con lui.

Jessie uscì dalla palestra, ritrovandosi nella grigia e trafficata via di Hollywood, dove in qualche modo di sentiva più pulita che vicino a Chianti.




CAPITOLO SETTE


Jessie si sentiva tesa adesso. Si stavano avvicinando e non sapeva come avrebbe reagito.

Dopo essere partiti da Hollywood, si erano diretti verso la centrale. Questa volta aveva insistito per essere lei a guidare. La sua spiegazione sarcastica a Ryan, che di solito stava al volante, era stata che qui non si trovavano in A spasso con Daisy e che da quelle parti le donne avevano il permesso di guidare.

Ma non era quello il vero motivo. Sapeva che se avesse guidato, avrebbe potuto prendere una strada che passava davanti alla casa dove la sua sorellastra da poco orfana, Hannah Dorsey, stava attualmente vivendo con una famiglia affidataria. Logicamente sapeva che le possibilità che la ragazza fosse fuori al suo passaggio erano ben remote. Ma voleva almeno provarci.

Mentre guidava, tentò di placare la crescente ansia che provava nel prestare attenzione a ciò che Ryan le stava dicendo. Stava commentando l’austerità dell’appartamento di Taylor.

“Ora ha molto più senso che quella casa sia così vuota,” disse. “Se quello che ha detto Chianti è vero, può darsi che abbia passato del tempo con i clienti a casa sua, che sia per motivi legittimi o poco ligi. Le era sufficiente tenere lo stretto necessario a casa propria. Magari un giorno è tornata a casa, si è guardata attorno, ha visto che aspetto deprimente avesse e ha deciso di farla finita.”





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“Un capolavoro del thriller e del mistero. Blake Pierce ha fatto un ottimo lavoro sviluppando dei personaggi con un lato psicologico così ben descritto da farci sentire come dentro alle loro teste, seguendo le loro paure e gioendo per i loro successi. Pieno di svolte, questo libro vi terrà svegli fino a che non girerete l’ultima pagina.” –Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il killer della rosa) LA BUGIA PERFETTA è il libro #5 della nuova serie psicologica piena di suspence create dall’autore campione d’incassi Blake Pierce, il cui best seller numero #1, Il killer della rosa (scaricabile gratuitamente) ha oltre 1.000 recensioni da cinque stelle. Quando una bellissima e popolare insegnante di fitness viene trovata assassinate nella ricca periferia della città, la profiler criminale e agente dell’FBI Jessie Hunt, 29 anni, viene chiamata a collaborare per scoprire chi l’abbia uccisa. Ma i segreti contorti che si celano in questa città piena di relazioni e tresche è una cosa per lei mai vista prima.Con chi andava a letto questa donna? Quanti matrimoni ha mandato all’aria?E perché qualcuno la voleva morta?Un thriller psicologico veloce e pieno di suspence, con dei personaggi indimenticabili, LA BUGIA PERFETTA è il libro #5 di una nuova serie che vi terrà incollati alle pagine e non permetterà quasi di andare a dormire.Il libro #6 della serie di Jessie Hunt sarà presto disponibile.

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