Книга - Raggio di Dio: Romanzo

a
A

Raggio di Dio: Romanzo
Anton Barrili




Anton Giulio Barrili

Raggio di Dio: Romanzo





Capitolo I.

Un bel sogno avverato


“E andando da Chiavari a Lavagna, occorre in poca distanza il fiume nominato dagli antichi Entella, e dai moderni Lavagna; il quale ha la sua origine nel monte Appennino, di qua dalla terra di Torriglia in le confine di Bargagli e di Roccatagliata: e muoiono in questo fiume, Graveglia, Ollo e Sturla, torrenti che alcuna volta vengono con furia„. Grazie, monsignor Giustiniani, vescovo di Nebbio e annalista di Genova; grazie infinite, e basta così. È la “fiumana bella„ di Dante Alighieri, certamente la più bella di Liguria; e bene l’ha dichiarata tale il divino poeta, che le vide tutte, quante ce n’erano “tra Lerici e Turbìa„, ma su questa si trattenne più a lungo, guardandone dal ponte della Maddalena il largo specchio azzurrino, con le due file di pioppi che ne accompagnavano il corso. Ma noi non ci fermeremo qui, come il grand’esule fiorentino; risaliremo la fiumana bella fino al confluente del Graveglia, dov’essa fa una gran curva, per voltar poi risoluta a ponente maestro; e lì faremo alto ai Paggi, come ora si dice, e dove nell’anno di grazia 1506 durava ancora in ottimo stato un castello dei Fieschi.

In altri tempi s’era chiamato la Guaita; più tardi, con lieve mutamento, la Guardia. E meritava il suo nome, stando là come una scolta avanzata di tutte le terre Appenniniche ond’era formato il dominio dei Fieschi, gran ventaglio di borghi e castella che dalla Scrivia si stendeva alla Magra, includendo Casella, Savignone, Montobbio, Torriglia, Valdetaro, Santo Stefano d’Aveto, Varese, Pontremoli; e chi più n’ha ne metta, andando fin oltre i cinquanta. Passavano infatti questo numero le terre murate dei Fieschi; tenute con varia fortuna, s’intende, come in tempi guasti doveva accadere; onde i cinquanta e più feudi contigui scesero qualche volta a trentatrè, facendo ancora quel che si dice comunemente un bel numero.

Gran gente, quei conti di Lavagna! Disputata un pezzo al Comune di Genova la terra onde traevano il titolo maggiore e più caro, vedutosi fabbricare all’incontro, nel 1167, il castello di Chiavari, indi a trentun anno cedevano quel feudo invidiato, diventando nobili genovesi, e ben presto una delle quattro grandi famiglie potenti e prepotenti della Repubblica. Ricchi di capitani e d’ammiragli, come di cardinali e di papi, ora ripigliavano le terre perdute, ora altre ne acquistavano, a ristorarsi dei danni. Al tempo di cui raccontiamo, erano già molti rami di Fieschi, ma tutti strettamente collegati d’interessi, sotto gli auspicii del ramo principale, rappresentato allora da Gian Aloise, signor di Pontremoli, di Varsi, di Loano, di Montobbio; principe di Valdetaro e conte di San Valentino; marchese di Torriglia, Varese, Santo Stefano d’Aveto, Calestano, Vigolzone, Gremiasco, San Sebastiano, e via discorrendo per un pezzo; un gran signore, a farla breve, superiore nel tempo suo agli altri tutti d’Italia per ampiezza di dominio, e quasi un piccolo re. In Genova, tanta era la sua autorità, sedeva per decreto sugli anziani, e gli si davano i titoli d’illustre e di eccelso, come ai principi di corona.

Con queste fortune al casato e con le politiche necessità che ne conseguivano, la Guardia aveva riconquistata una parte dell’antica sua importanza militare. Il padrone era un valoroso; ma in patria non aveva fatto niente di notevole, e per quello che aveva fatto in terre lontane si poteva dire che riposasse sugli allori. Avrebbe difesa strenuamente la sua rocca, se mai fosse stata minacciata: per intanto l’aveva battezzata Gioiosa Guardia, in omaggio al cavalier Lancillotto di romanzesca memoria, ma più alla bellissima donna che da un anno aveva fatta signora del castello, impalmandola con rito solenne e con gran pompa comitale nella vicina chiesa di San Salvatore.

Era dunque gioiosa, la Guardia, per decreto recente del suo felice padrone. Ma non corrispondeva alla bellezza dell’epiteto la faccia smunta del suo custode, o gastaldo che vogliam dirlo, non potendo, per la presenza del legittimo signore, decorarlo del sonoro titolo di castellano. E nondimeno, quel gastaldo decorava l’ufficio con la misurata gravità dell’aspetto; a cui, nel pomeriggio del 5 marzo 1506, si poteva aggiungere la composta dignità dell’atteggiamento, quantunque egli fosse modestamente seduto sovra una panca, entro la prima cinta del castello, assistendo ad una partita di pallone, caldamente impegnata fra sei giuocatori. Diciamo di passata che cinque di essi erano uomini d’arme del castello, e il sesto un frate francescano, come appariva dalla tonaca, saviamente raccorciata a mezza gamba coll’aiuto del fido cordone, su cui ella veniva a far grembo.

Quanto al nostro personaggio, vediamo di abbozzarne in pochi segni l’asciutta figura. Appoggiate le mani scarne ma forti sul pomo della spada; accavalciate le gambe lunghe, che mettevano in mostra due stivaloni di cuoio cordovano e due calze divisate di bianco e d’azzurro; ritto il busto nel suo giubbone attillato di cuoio, donde uscivano le maniche di lana, divisate anch’esse dei due colori di casa Fiesca; ritta la testa che pareva tutta in fiamme pel colore della barba e dei capelli rosseggianti al sole; tirata un po’ indietro sul cocuzzolo la berretta, anch’essa di cuoio, con larghe frappe di bianco e d’azzurro, sormontata da una gran penna lionata di pavone, il nostro personaggio aveva una bell’aria di vecchio soldato in licenza, felice d’un po’ di riposo, ma pronto a gittar la berretta per calzar la barbuta. Non era bello, no davvero; aveva troppo scarno il viso lungo, e gli occhi grigi, quasi bianchi, sotto le ispide sopracciglia rossigne: il naso, poi, che incominciava colla buona intenzione di parere aquilino, finiva in una pallottola rossa, non conveniente di certo alla severità dell’aspetto, e molto meno alla dignità della carica. Ahimè, non si nasce perfetti. Ma don Garcìa, che tale era il nome del personaggio, non si dava un pensiero al mondo di queste fisiche imperfezioni. Era passato il tempo, se mai; ed egli godeva della vita quel tanto che se ne può godere di là dai cinquanta. Per allora, si dilettava di veder giuocare al pallone; era tutto nelle belle battute e nelle pronte rimesse, nelle volate e nelle cacce vinte; accennava del capo ai bei colpi, batteva le labbra ai falli. A lui si rimettevano nei casi dubbi, ed egli dava il responso, con calma e buon giudizio, senz’ombra di parzialità. Pure, come ogni fedel cristiano, egli avrebbe potuto pendere più di qua che di là, ed averne ancora la scusa, poichè uno dei giuocatori, il frate, era spagnuolo al pari di lui.

Perchè quella spagnuoleria là dentro? E come andava che non dispiacesse a nessuno? Diciamo subito che quei due spagnuoli, don Garcìa e frate Alessandro, e per terra e per mare erano stati compagni di ventura al signore del castello; e soggiungiamo che dei cinque giuocatori genovesi, tutti uomini d’arme della Gioiosa Guardia, tre erano stati coi due spagnuoli ai medesimi incontri, ricordando altresì che più di tutti aveva rischiata la pelle quel vecchio, non solamente per far servizio al loro signore, ma ancora per salvare la bellissima donna, diventata da un anno cristiana e contessa, col nome di Giovanna del Fiesco.

Queste erano ragioni da bastare là dentro, rendendo cari, non che tollerabili, i due forestieri. Ma della ammissione d’un di loro in ufficio tanto geloso dovevano pur fare le meraviglie taluni di fuori, che non sapevano bene le cose. Ed uno di costoro, Filippino Fiesco, passato due mesi prima da Gioiosa Guardia, non aveva potuto trattenersi dal farne cenno al signore del luogo.

– Cugino Bartolomeo, – gli aveva detto, temperando con un suo risolino l’impertinenza della domanda, – che v’è saltato in mente di prendere per servitore uno spagnuolo? Siamo per Francia, noi, non per Castiglia e Leone.

– Ah, sì? – aveva risposto Bartolomeo Fiesco. – E meglio per noi, che non fossimo per nessuno. Quanto alla gente fidata, si raccatta dove si trova. Il mio gastaldo io l’ho conosciuto tra Spagnuoli, e di dovunque egli sia, me lo tengo caro. Del resto, che ci trovate di strano? Io non faccio altro che imitare il re Cristianissimo.

– In che modo?

– Nell’unico che sia possibile a me. Chi ha messo egli a comandarci, che Iddio lo benedica?

– Monsignor Filippo di Cleves, signore di Ravenstein, – rispose Filippo Fiesco, – regio governatore e luogotenente generale dei Genovesi, come cantano tutte le gride.

– Dimenticate “ed ammiraglio del Levante„; – ripigliò Bartolomeo Fiesco. – Ma forse egli pare anche a voi un ammiraglio d’acqua dolce. Quello, del resto, è il capo della gente di Francia, mandato qui per figura e per indorarci la pillola. Io intendevo parlare del comandante vero, di quello che fa tutto in casa nostra. Non è questi il Roccabertino? E chi è il Roccabertino? non è forse un Aragonese? Ed io ho per luogotenente un Catalano. La differenza è qui tutta. —

L’argomento non ammetteva risposta; e messer Filippino potè anche pensare che ognuno in casa sua si governa a suo modo. Nè altre molestie ebbe don Garcìa, che veramente non le meritava. E tutti sapendo ch’egli era stato buon compagno di rischi del capitano Fiesco, nessuno conobbe mai quale alto ufficio avess’egli esercitato in Haiti. Tacevano le sue gesta i pochissimi che avrebbero potuto parlarne; frate Alessandro, ad esempio, suo conterraneo e suo introduttore alla mensa soldatesca nel bosco di Xaragua; Giovanni Passano e Pietro Gentile, che di aiutanti del Fiesco essendosi mutati in aiutanti di don Garcìa per una lugubre impresa, non avevano nessuna ragione di vantarsene, quantunque nella brutta occasione avessero imparato a stimare quell’uomo. Senza di lui, come si sarebbe salvata la infelice regina di Xaragua? Senza i casi che necessariamente n’erano seguiti, come si sarebbe salvata Higuamota, la graziosa fanciulla, diventata moglie a Giovanni Passano un mese dopo che sua madre era diventata contessa del Fiesco?

Fortunato, il Passano! Restava luogotenente del conte; ma in tempo di pace, com’erano allora i nostri reduci del nuovo Mondo, faceva dell’altro, vivendo molto a Genova e curando gl’interessi del suo protettore. Lo chiamavano già Da Passano. E perchè no? Forse era della stirpe onorata di quei nobili della Riviera di Levante, e il nome voleva pur dire qualche cosa, anzi più di qualche cosa, in un tempo che quei de e quei da non si usavano con norme fisse. Era il tempo, o giù di lì, che un gran capitano di ventura, d’antico ceppo parmense, signor di Berceto, di Torchiara e di San Secondo, si sentiva chiamare promiscuamente Pier Maria Rossi e Pier Maria De Rossi; ed egli poi, a farlo a posta, sull’ingresso di Torchiara faceva scolpire il suo nome nella umilissima forma di Pietro Rosso. È vero che lo metteva in fin di verso, per far rima a modo suo con due finali in “orso„. Ma, per trovare esempi più prossimi, gli stessi conti di Lavagna non avevano sempre creduto, coi genealogisti di casa, d’essere stati chiamati Fieschi, per una ottenuta prefettura del Fisco imperiale in Italia, donde sarebbe venuta la più o meno naturale storpiatura del Fliscus. Il nostro Bartolomeo, che gradiva anche alle sue ore il nome di Damiano, lasciava correre un Bartholomeus Frescus in atti notarili; e questo forse in omaggio ad una più modesta genealogia del 1171, quando due conti di Lavagna avevano preso a far cognome dai lor soprannomi di Fresco e di Secco, trovati buoni a distinguere le loro due nobili persone, che portavano il medesimo nome di Ugo. Non troppo dissimilmente i contèrmini Malaspina si erano spartiti in due rami, il fiorito ed il secco.

Ma torniamo a don Garcìa, che in tutte queste minuzie non ha niente a vedere. Era un brav’uomo, che si sapeva contentare, avendo un pane onorato per la vecchiaia. Faceva un po’ di tutto, alla Gioiosa Guardia. Antico soldato, insegnava anche il mestier delle armi ai vassalli del conte; nei giorni festivi metteva in ordinanza un centinaio di fanti a piedi, e una diecina d’uomini a cavallo, che facessero bella mostra battendo le strade da Chiavari a Carasco, a San Colombano e più oltre. Invigilava, nelle stagioni opportune, ai raccolti dei poderi, e riscuoteva in nome del conte tutti i diritti feudali, facendo qui, come del resto, assai bene le cose, con gravità, senza rigore, con giustizia che non escludeva la umanità, persuaso dopo tutto di far piacere al padrone, e più ancora alla padrona.

Quella donna era amata, adorata per tutta la valle dell’Entella e per le vicine convalli dello Sturla, della Graveglia, dell’Ollo. Bisognava vedere che calca di gente, quando, insieme colla nobilissima suocera, la veneranda madonna Bianchina, scendeva ai divini uffizi nella chiesa di San Salvatore. Ricordavano tutti che ne’ suoi paesi di là dall’Atlantico era stata regina; e naturalmente si magnificava il suo lontano reame. Quello che non si poteva ingrandire, perchè già troppo grandeggiava da sè, era la sua stupenda bellezza. La sua carnagione d’un color caldo oltre il tipo europeo, non appariva neanche tale, smorzata com’era e condotta al vermiglio dallo strano onnipotente fulgore delle pupille nerissime. E ferivano, quelle pupille, dovunque si volgessero a caso; e molti si sarebbero lasciati ferir volentieri, a patto di sentirle rivolte a sè con qualche pietosa intenzione. Ma la contessa, nel fatto, non aveva occhi se non per il suo dolce marito, che spesso le accadeva di chiamare Damiano. E a lui più spesso accadeva di chiamarla Fior d’oro: Giovanna non mai; piuttosto, alla spagnuola, Juana, che riteneva molto del suono di Anacoana. I nomi, si sa, non hanno piccola importanza, in amore.

Anche a lui volevano bene quei terrazzani, più ancora che non lo rispettassero come vassalli. Già, non lo tenevano quasi più per un Fiesco; tanto che, all’usanza di Genova, lo chiamavano Bartolomeo delle Indie. Sicuro, e bene prendeva egli il nome da quelle Indie occidentali, dov’era stato quattro volte ad ogni sbaraglio, prode soldato, esperto navigatore, singolarmente caro a quell’altro Genovese, così grande e così maraviglioso uomo, che le aveva scoperte per potenza d’ingegno e di fede. Quanti erano stati con lui partecipavano un poco della sua epica grandezza; perfino i due umili marinai, Guglielmo e Battista, che si erano ridotti a vivere anch’essi nel recinto ospitale della Gioiosa Guardia, e che tutti i giorni di festa, infallantemente, seduti all’ombra fuor della porta del castello, tenevano cattedra di geografia transatlantica. A quei discorsi accorreva sempre più gente che non alle prediche dei frati, i quali pure descrivevano qualche volta le magnificenze del regno di Dio. Ma in queste si sentiva sempre lo sforzo di fantasia di chi non c’era mai stato; laddove le magnificenze del nuovo Mondo avevano avuto quei due semplici marinai per testimoni recenti.

Che fossero egualmente veridici non si potrebbe giurare. Raccontavano le cose come se le avessero ancora davanti agli occhi, e raccontandole ne davano il barbaglio agli occhi dell’uditorio. Si trattava d’oro, infatti; oro a mucchi, in pagliuole ed in polvere, da tuffarci dentro le braccia fin sopra il gomito; oro ad ogni piè sospinto, a colonne, a pilastri, a scaglioni, a piramidi; oro a bizzeffe, in quel paese di Veraguas, dove bastava smuovere un pochettino le zolle, per trovar le radici degli alberi affondate in quel coso giallo lucente; oro nel fiume dello Yaque, presso San Domingo, ove del prezioso metallo non erano fatte solamente le arene del fondo, ma i ciottoli delle due rive, e i massi e le scogliere delle svolte. Che poesia, quella dell’oro! E come è nata? Tutta per amore della sua bellezza in sè, o non per l’acquisto, che rende così facile, d’ogni desiderata fortuna?

S’intende che i due narratori non si fermavano alla magnificenza delle cose inanimate. Anche gli uomini, laggiù, erano d’una specie insolita; e tra gli uomini il Prete Janni, favolosa figura del Medio Evo, ci aveva la sua parte non piccola. Guglielmo non lo aveva veduto; Battista nemmeno. Personaggi così alti come il Prete Janni non si lasciavano vedere da poveri marinai; ma il grande scopritore del nuovo Mondo sì, lo aveva veduto, gli aveva parlato a lungo, era stato suo ospite, accolto alla sua mensa, nella sua intimità. Quel gran monarca si era tanto innamorato delle virtù di Cristoforo Colombo, che lo avrebbe caricato di diamanti, se questi si fosse risoluto di prender servizio con lui. E si diceva a San Domingo che l’odio di Aguado, di Bovadilla e di Ovando contro l’ammiraglio e vicerè delle Indie fosse nato appunto da questo, che il Prete Janni aveva fatto festa a lui, non volendo veder loro neanche come prossimo; ond’era avvenuto che verdi dall’invidia fossero andati ad accusar l’ammiraglio presso Ferdinando il Cattolico, dipingendolo come uno che era già in via di tradirlo, sottraendo alla corona di Spagna i benefizi della grande scoperta. Sicuramente, l’ammiraglio poteva far ciò, solo che lo avesse voluto. Il prete Janni lo stringeva tanto colle sue offerte d’amicizia! Figurarsi, che voleva dargli in moglie sua figlia, ricca come il mare, bella come il sole, e buona come il pan di Natale. Ma il signor ammiraglio non si era lasciato prendere all’amo; aveva resistito a tutte le offerte, a tutte le promesse più lusinghiere; tanto più che da genovese sottile s’era accorto che la bella aveva un occhio di vetro. Bella, poi, la vantavano tutti alla Corte; ma Guglielmo e Battista non l’avevano veduta mai. Un’altra, piuttosto; e quella bella era bellissima; e il loro capitano se l’era portata via, quantunque regina, e l’aveva fatta contessa. Già, tutti i salmi finivano in gloria.

Qui poi l’uditorio poteva dar ragione ai parlatori, e in piena cognizione di causa. Un tal miracolo di donna non si era visto mai, neanche dai più vecchi, che pure avevano veduta entrare in casa Fieschi madonna Bianchinetta, nel primo fiore della sua gioventù. Che splendore di sposa, quella regina delle Indie! Per lei si era scomodata, e con ragione, tutta la casata dei Fieschi; ed anche gli altri rami minori dei conti di Lavagna, come gli Scorza, i Bianchi, i Della Torre, i Levaggi, i Leivi, gli Zerli, i Cogorno, i Cavaronchi, i Ravaschieri, i Penelli. Il capo dei Fieschi, in persona, l’eccelso conte Gian Aloise, aveva lasciato Genova e la sua reggia di Vialata, per assistere alla cerimonia, per condurre egli stesso quella regina del nuovo Mondo all’altare. E bella come il sole, poichè non si poteva trovare un paragone più alto; e buona come il pan di Natale, e dotta come un libro stampato. Come parlava l’italiano! come il genovese, che è poi la madre lingua d’ogni buon Ligure, e certamente quella del Paradiso terrestre; specie colla giunta di quella sonora e dolce cantilena chiavarese! Difatti, anche queste finezze aveva imparate in pochi mesi la regina delle Indie. E si andava a sentirla, ma più ancora a vederla, senza stancarsene mai, nelle domeniche, quando la bellissima donna, ritornata dai divini uffizi, scendeva alla porta del castello per distribuire il pane ai poveri dei dintorni. Quei poveri si moltiplicavano come i pani e i pesci dell’Evangelio. C’erano molti che si facevano poveri a bella posta: ma erano riconosciuti, e tenuti lontani. Solo alle donne, che usavano di questo sotterfugio per avvicinarsi alla signora contessa, non si faceva il torto di cacciarle; per rispetto al loro sesso si lasciavano accostar tanto, che la signora le riconoscesse da sè.

– E voi, che cosa chiedete? – diceva ella, ridendo d’un risolino malizioso. – Non siete già povere, voi!

– Oh, signora, siamo bisognose la parte nostra; – rispondevano le più ardite. – E siamo venute, perdonateci… siamo venute a prenderci un’occhiata di sole. —

Sorrideva, la bellissima donna, arrossendo; e dava un ceffone, con la sua morbida mano; ma tanto leggero, che pareva una carezza, ed era ricevuto con divozione, come la guanciata del vescovo alla cresima.

– Qui non voglio altri che poveri, avete capito? —

Così conchiudeva, volendo parere sdegnata. Ma c’era tanta soavità d’accento nel rimprovero, e tanto sorriso nello sfolgorìo di quegli occhi scorrucciati, che le buone valligiane di Carasco, di Graveglia e di Paggi levavano le mani in atto di adorazione, come se avessero veduta la Madonna, e in cuor loro promettevano di ritornarci la domenica vegnente.

Gioiosa Guardia, davvero, sotto la benefica luce di quegli occhi celestiali. Ma qualche volta su quei begli occhi si stendeva un velo di mestizia. Passavano allora le immagini di un altro popolo, assai più numeroso, amante anche quello e devoto, ma che aveva la sua quiete, la sua sicurezza da lei, e non era avvezzo a provare più gran gioia nella vita, di quando si raccoglieva estatico ad ascoltarla, rapito ai suoni del maguey, agli accenti soavi dell’areìto Povero popolo d’Itiba! come lo avevano ridotto allo stremo quei feroci conquistatori spagnuoli, deludendo i nobili disegni del Giocomina, del venerando condottiero dei Figli del Cielo! Ma se il ricordo d’Itiba era triste, la bella ed infelice regina di Xaragua aveva imparato molte cose nella terra di Azatlan. Era disceso su questa terra un altr’uomo dolce, buono, compassionevole ai mesti, un uomo divino, e avevano voluto sperimentarne la virtù infinita mettendolo in croce come un malfattore; poi si erano pentiti, lo avevano riconosciuto in ispirito e verità, gli avevano eretto altari, e lo adoravano, e lo mettevano in croce ogni giorno, disconoscendolo, bestemmiandolo, negandolo nei giorni della spensierata allegrezza, per invocarlo nell’ora della paurosa avversità, superbi a vicenda e codardi, sopra tutto eternamente fanciulli.

Perciò qualche volta accadeva anche a lei d’esser mesta. Ma quelle erano le nubi passeggere, candidi fiocchi vaganti, che macchiavano all’orizzonte un bel cielo d’estate, senza turbarne il sereno. Ed era felice, oramai, quanto è dato a creatura umana sulla terra; felice per quell’uomo che viveva adorandola, e non si muoveva di là, dove l’aveva condotta a rifugio. Che amasse la sua rocca e il suo poetico Entella, non si poteva dubitare, poichè tante volte lo diceva egli stesso. Ma non così aveva amato quel fiume e quelle mura negli anni della adolescenza, quando animoso cacciatore batteva le macchie, ed era sull’Antola o sul Penna più spesso e più volentieri che in casa. In quel castello era nato; su quelle rive beate era cresciuto, ricco, orgoglioso del nome e della potenza che confortava quel nome; e giovane si era mescolato in Genova alle zuffe micidiali del tempo, avendone presto la sazietà. Curioso di dottrina, o più vago di novità, aveva atteso agli studi nella università di Pavia, riportandone come un fastidio d’anni sciupati; ond’egli non aveva cercato nella quiete della sua terra il rimedio alle pene del cuore, ma si era buttato per morto alle imprese del mare. E quali imprese! Non già per diventarci padron di galere, e da fortunati scontri aver lustro e potenza come tanti altri suoi pari e consorti, per vantaggio di una casata che omai ridiventata padrona dell’antico dominio, lo aveva allargato quasi a reame, dall’Appennino al mare e dalla Scrivia alla Magra; bensì per tentare un cammino ignoto, col rischio di giungere ad un punto donde il naviglio si sprofondasse nel vuoto. Orribile chiusa, e creduta allora certissima! Il guaio non gli era occorso; aveva potuto ritornare, e con la sua parte di gloria. Pure, ricondottosi a casa, non aveva potuto star fermo; viaggi su viaggi, fortunali e vitacce da cani; spesso in pericolo d’andar pastura ai pesci, più spesso di buscarsi un colpo di freccia avvelenata; prigionia tra i selvaggi, condanna a morte, agonia a fuoco lento, nulla aveva potuto corregger l’umore vagabondo del gentiluomo marinaio, di quell’argento vivo. Ed ecco, di punto in bianco, il gran cambiamento: quell’umor vagabondo, quell’argento vivo, s’era chetato ad un tratto: lui tutto casa, lui tutto “fiumana bella„, lui tutto moglie, e innamorato per giunta, come un ragazzo di vent’anni. Ma ecco, il segreto del mutamento era qui.

– Come sei buono, Damiano! – gli bisbigliava Fior d’oro.

– Sfido io! – rispondeva egli, con quel suo piglio che volentieri girava al comico. – Son buono, perchè sono felice. E sono felice…

– Perchè? – domandava lei, con accento di cara malizia.

– Perchè… – ripigliava Damiano, girando un po’ largo, per voglia di ridere. – Perchè ci ho la mia Gioiosa Guardia che amo tanto…

– Giustissimo; e la tua “fiumana bella„ – suggeriva lei, prestandosi al giuoco assai volentieri. – Con queste due cose…

– Con queste due cose ci sarebbe anche da morir di noia; – proruppe Damiano. – Le avevo, e non mi sono bastate. Diciamo dunque, per essere nel vero, che ci ho te, cara donna adorata. La più bella donna, nel verde più vivo, sotto il più dolce azzurro del mondo, ecco la felicità vera ed unica. Ed ecco quello che io volevo dire, contessa Juana, se voi mi aveste lasciata fare la mia progressione ascendente.

– E non ve l’ho lasciata fare, da quella gran cattiva che sono! Ma voi me ne punite tanto severamente, che avrei voglia di rifarmi da capo. Per altro, – soggiunse ella, mettendosi sul grave, – dicono che un bene posseduto non sia più un bene.

– Vedete che logici da strapazzo! – replicò Damiano, ridendo. – Il bene è il bene, di qui non si esce. Se si mutasse, sarebbe un’altra cosa, ne convengo. Ma come potrei volerlo mutato? In più no, perchè io ho tutto quello che desideravo. In meno, neanche, perchè quello che desideravo lo desidero ancora: e questo è il fatto, la condizione su cui possiamo fondare il nostro ragionamento. Ho io studiata bene la mia logica?

– Eh, non voglio dire di no. Il mio signore ha sempre ragione. Ed era il bel sogno, questo, – diss’ella traendo un sospiro, – il bel sogno che ho sognato con te. Il bel sogno si è finalmente avverato; o Dio, tra quanti pericoli, tra quante angosce mortali! Se c’è giustizia in terra, il bel sogno non dovrebbe finire.

– Così dico io; – conchiuse Damiano. – Non dovrebbe, non deve, non dovrà. Dimmi, Fior d’oro; sei tu sicura di te?

– Oh sì, di me… – gridò ella, levando gli occhi al cielo. – Ed anche di te, – soggiunse tosto, – anche di te, conte Fiesco, che sei così nobile spirito e così candido cuore. Ma non presumi troppo delle tue forze… e della natura umana? È della donna amare, e saperlo far bene, non sapendo far altro: è dell’uomo l’operare, il faticare in qualche utile impresa, per deludere la sazietà… per vincer la noia… E per questo, me lo lasci dire?.. per questo, bisognerebbe forse mettersi a far qualche cosa. —

Tremava un pochino, parlando così, e mendicava le parole. Ma ebbe il pronto conforto di sentirsi dar ragione da lui.

– Sicuramente; – diss’egli. – Ci pensavo appunto stanotte, mentre tu riposavi, Fior d’oro. Bisognerà far qualche cosa. Ed ho trovato.

– Ah sì? E che sarà?

– Continuare ad amarti; – rispose gravemente Damiano, facendo cadere dall’alto, l’una dopo l’altra, le sillabe. – Vi ho lungamente contemplata, amica mia; vi ho pure abbracciata, ma guardingo, sapete, con mano leggera leggera, per non rompervi il sonno, che era così dolce; ed ho pregato Dio che non mutasse niente, che lasciasse tutto così, come ha tanto saviamente disposto, nella sua misericordia infinita. —

E voleva dare in una risata; ma non n’ebbe il tempo. La contessa Juana rideva già più di lui, non senza lagrime; quelle care lagrime che tanto abbelliscono ogni profonda allegrezza. E un po’ tardi, ma in tempo, gli ricambiava l’abbraccio.




Capitolo II.

Ambasciator non porta pena


Ma ritorniamo una seconda volta, e sia la buona, al nostro don Garcìa, che con tanta attenzione seguiva le vicende di un bellissimo giuoco. Proprio si arriva al punto che la piacevole occupazione gli era interrotta dall’avvicinarsi d’un famiglio, le cui prime parole ebbero virtù di farlo balzar subito in piedi. Molestie dell’ufficio, naturalmente; e la Guardia non poteva esser sempre gioiosa, pel suo degno custode.

– Ci abbandonate? – gli chiese frate Alessandro, che per fortuna di giuoco veniva ad essergli più vicino, e lo vedeva muoversi di scatto dalla panca.

– Per forza; – rispose don Garcìa. – Ed anche, diciamolo pure, con un certo piacere. Arriva il nostro Giovanni Passano. —

La nuova si sparse fra gli altri giuocatori, e la partita fu subito interrotta, come la piacevole occupazione di don Garcìa. Il Passano aveva amici da tutt’e due le parti; e se si contentavano di piantar lì la giuocata quei che avevano il disopra, con “quaranta e la caccia„, era naturale che non si dolessero quelli che s’avviavano a perdere, non avendo che un “quindici„.

Giovanni Passano, al suo smontar da cavallo nel cortile della Gioiosa Guardia, fu accolto a festa dai suoi vecchi compagni d’Haiti e della Giamaica.

– Che buon vento vi porta? – gridavano a gara, stringendogli la mano. – Finalmente! Bisognerà metterci il segno per ricordo, stamparla, toccarsene un occhio. Sapete che ci mancate da un mese?

– Eh, si fa come si può; – rispondeva il Passano, commosso da tutte quelle dimostrazioni d’amicizia. – Appena levati i piedi dagli impicci, eccomi qua. Pietro Gentile! Guglielmo! Battista! frate Alessandro, che per riverenza alla tonaca dovevo metter primo di lista!.. Quantunque, – soggiunse ridendo, al vedere tutti quei grembi e sboffi fuor dal cordone di san Francesco, – mi pare che la portiate sempre alla diavola. Giuocate al pallone, vedo. È un bel giuoco; ma non da frati.

– Chi ve l’ha detto, messer Giovanni? Nessun testo lo proibisce; e ce n’è uno che forse li permette tutti. Ma sì. Servite Domino in laetitia; lo raccomanda il Salmista. Volete giuocare anche voi?

– Eh! se non fossero quattr’ore che mangio polvere, e che mi fiacco le reni col cavallo più indiavolato della cristianità… A proposito, mi fareste un gran piacere ad esorcizzarlo coll’acqua santa.

– O voi col vino di Vernazza, piuttosto.

– Il vino di Vernazza fa bene all’uomo; – conchiuse gravemente il Passano, mentre si avviava colla brigata verso l’ingresso della seconda cinta. – Qui, infatti, ci ho un testo sacro ancor io; vinum bonum laetificat cor hominis. E il signor conte? – ripigliò, con accento mutato, parlando a don Garcìa. – E la signora contessa?

– Benissimo; – rispose lo Spagnuolo. – E vi direi che sono là bene accostati sul medesimo ramo, come due tortore innamorate, se fosse almeno ora di giardino. Saranno invece nella caminata, lei col suo tombolo a far merletti, lui a metter del nero sul bianco.

– Ma anche a far merletti e a scrivere si può star molto vicini, non è vero?

– Oh questo poi sì; alla medesima tavola, per non perdersi d’occhio. Vi faccio annunziare, mentre bevete un bicchiere?

– No, non occorre; – rispose pronto il Passano. – Non dico per il bere, intendiamoci; dico per il farmi annunziare. Non c’è premura; è una visita senza impegno, la mia. A presentarmi, ci sarà sempre tempo per la cena.

– Ah, mi levate una spina dal cuore; – disse quell’altro, mentre lo faceva entrare nel tinello, al pianterreno della rocca. – Avrei giurato a tutta prima che veniste per portarci via il padrone. Che ci volete fare? Presentimenti; e fortuna che qualche volta ingannano! L’altro giorno, passando di qua messer Filippino, che, sia detto con la debita reverenza al casato, ha sempre la lingua un po’ amara, si lasciò sfuggire certe parole! “Che Gioiosa Guardia! diceva; che Gioiosa Guardia! Dormigliosa, dovreste chiamarla. Con Ercole che fila ai piedi di Onfale„. Io, per dirvi la verità, non conoscevo questa signora, ed ho dovuto farmi spiegare l’arcano da frate Alessandro. Ne sapeva poco più di me, quel bravo figliuolo; ma tanto da capire che si trattasse d’una donna, la quale faceva perdere il tempo al dio della forza. Il nostro conte, veramente non fila, e nemmeno la contessa; quantunque, se filasse, vi so dir io che con quelle sue dita darebbe dei punti alle fate. Ma io ho bene inteso, dopo la spiegazione di frate Alessandro, che cosa volesse dire messer Filippino. Il padrone non si occupa se non della padrona, e lascia che gli altri della casata facciano e disfacciano a modo loro le cose della Repubblica. Ma di che si lagnano, se mai? Egli tira le mani e i piedi fuori del giuoco; li lascia dunque padroni; non vi pare?

– Giudicando alla grossa, sì; – rispose il Passano, mentre con diligenza amorosa osservava il liquido topazio delle Cinque Terre attraverso la lucida parete del bicchiere. – Ma possono aver ragione i suoi nobili parenti, a desiderare che un tal uomo non si ritiri dal giuoco. Sapete bene; dove bastano undici, il dodicesimo aiuta. —

Don Garcìa rizzò l’orecchio a quelle parole dell’amico.

– C’è dunque da aiutare a qualche impresa? – diss’egli.

– No, ch’io sappia; – replicò il Passano. – Ma c’è una condizione di cose che parla abbastanza chiaro da sè. Noi del Gatto, o del Basilisco, anzi diciamo pure di tutti e due questi graziosi animali, siamo per Francia; e sta bene, tenuto conto delle buone ragioni che ci abbiamo: ma siccome tutto questo, messo in ispiccioli, significa avere un presidio straniero in città, non si può neanche sostenere alla faccia del popolo che sia la più bella cosa del mondo. D’altra parte, i popolari, cioè a dire i nostri signori d’origine popolana, chiamati altrimenti del portico di San Pietro, vorrebbero aver mani in pasta, allontanando dalla madia quei del portico di San Luca; e questi, capirete, spalleggiati come sono dal gatto e dal basilisco, antiche insegne dei Fieschi, non ci pensano neanche a ceder d’un passo. Si guardano dunque in cagnesco, e come possa andare a finire Dio solo lo sa. Speriamo, nondimeno; Dio misericordioso potrebbe appigliarsi al buon partito di accomodar la testa a tutti. Dei miracoli se ne son visti, in altri tempi: perchè non ne accadrebbe uno nel nostro? Parlo così, – soggiunse il giovanotto, – perchè conosco il padrone, chè non se ne fa nè di qua nè di là. Ma guai a parlar di pace in Violata!

– Gian Aloise è sempre il più forte? – entrò a dire don Garcìa. – E sempre bene coi francesi?

– E come! – rispose il Passano. – Non si muove foglia che Gian Aloise non voglia. Quasi si direbbe che in Genova sia lui il padrone, com’è il capitano generale di tutta la Riviera di Levante. Ci sono i francesi nel Castelletto. Ma quelli si possono magari considerare stipendiati, come se fossero svizzeri, o tedeschi; zuppa o pan molle.

– Sia contento, allora, – disse don Garcìa, – e lasci quieti noi in Gioiosa Guardia, dove si sta così bene.

– Felice mortale! L’avete trovata, la nicchia? E badate, ci verrei tanto volentieri ancor io.

– Con donna Higuamota, non è vero? Ma olà! – ripigliò don Garcìa, come per darsi sulla voce. – Non dimentichiamo che l’ha tenuta a battesimo la madre del padrone, e che bisogna dire donna Bianchina.

– Già, – disse ridendo il Passano, – quantunque sia bruna. Tien più di Caonabo che di Anacoana, la mia dolce metà. Fortuna che amo le brune!

– O perchè non l’avete condotta con voi, amico Passano?

– Che, vi pare? dovendo fare una visita di poche ore… —

Don Garcìa inarcò le ciglia, ma non aggiunse parola.

In quel mentre si faceva udire un gran rumore dalla scala vicina, donde qualcheduno scendeva a precipizio, saltando ad ogni tanto e tonfando, alla guisa dei ragazzi. E subito dopo si vide balzar dentro un adolescente, dai capegli biondi e dalla faccia birichina. Pareva, a vederlo, che il mondo fosse suo, o che lo credesse da vendere, e da poter comprare coi quattro soldi che a lui ballavano in tasca. Polidamante (era questo il suo nome) poteva dirsi l’imagine, il simbolo, il genio della Gioiosa Guardia, ove del resto era nato. Se gli altri ci avevano pochi fastidii, egli non ne aveva nessuno. Tutto di primo impeto, correva sempre, quando c’era da muoversi; quando poi doveva star fermo, si addormentava. Non faceva mai niente con misura; e forse per ciò era molto caro al padrone.

– Che c’è? – chiese don Garcìa.

– Presto, le acque; – gridò quell’altro, senza fermarsi a rispondere in tono. – Dove sono le acque?

– Nei fiumi; – disse il Passano; – e neanche ne han tutti.

– Ah, siete voi, messer Giovanni? Bene arrivato! Dicevo le acque acconce, le acque cedrate, i siroppi per la signora. —

I famigli, che non avevano bisogno di tutte quelle spiegazioni, avevano già levato da una credenza il vassoio con le bocce di cristallo, e si preparavano a seguire con quello il messaggero Polidamante.

– Quando si dice nascer vestiti! – esclamò don Garcìa, volgendosi al Passano. – I padroni hanno anticipata l’ora di uscire in giardino. Potete salire dietro a Polidamante, e presentarvi, e far le vostre ambasciate, senza interrompere i commentarii di Cesare.

– I commentarii… Che dite voi, don Garcìa?

– Eh, sì, i commentarii di Cesare, come li chiama frate Alessandro.

– Sta bene, avevo inteso; – riprese il Passano. – Domandavo che diavolo è.

– Una storia, amico, una storia di laggiù, mi capite? Il capitano ci ha fatto l’onore di chiamarci nella caminata, per cinque sere alla fila, e ce ne ha letti già cinque capitoli. In quello scritto racconta tutto quello che s’è fatto alle Indie.

– Ah, bene! capisco, ora. Ci avrà molto da raccontare, perchè molto si è fatto. E parla di voi?

– No, non ci siamo ancora, a quel punto; – rispose don Garcìa, rannicchiandosi. – Penso, del resto, che quando saremo a quel punto, egli mi dovrà passare sotto silenzio. Del che non mi lagnerò, – soggiunse egli umilmente; – che anzi, dovrò sapergliene grado. Beati gli uomini di cui non avrà da occuparsi la storia.

– Bravo! siete filosofo?

– Alle mie ore, amico Passano. —

L’amico Passano strinse la destra di quell’altro Seneca; e vuotato il suo calice fino all’ultima goccia, che non era d’aceto, si avviò verso la scala.

– Va, bello mio, va, che non la conti giusta; – borbottò tra i denti il bravo don Garcìa, uscendo alla sua volta di là. – Questa visita di poche ore, a spron battuto, mi sa di chiamata a Genova lontano un miglio. C’è la mano di messer Filippino, qui sotto; scommetterei. Quello là non vuol dare nè lasciar pace a nessuno. —

Il giardino di Gioiosa Guardia, anzi i giardini, perchè erano quattro, bisognava andarli a cercare in alto, come gli orti pensili di Semiramide. Si stendevano essi sui bastioni della rocca, per tutta la lunghezza delle cortine, fiancheggiati e conterminati dalle torri, che, per conseguenza logica quanto architettonica, erano appunto quattro, senza contare il battifredo, gran torre più alta, dalla parte dell’ingresso, colla campana al sommo e con l’orologio nel mezzo. Forte arnese per guerre medievali, la Gioiosa Guardia non poteva più dirsi tale in un tempo che le artiglierie mobili e di grande gittata potevano batterla da parecchie eminenze circostanti. Ma essa non s’aspettava di queste noie, e il suo padrone, amico della pace, ne lasciava il carico ad altri luoghi fortificati della sua parentela, da Montobbio a Pontremoli. In uno di quei casi di necessità, che gli amici della pace come Bartolomeo Fieschi si dovessero ricordare d’essere stati uomini di guerra, la Gioiosa Guardia poteva essere ancora un bell’inciampo a soldatesche raccogliticce, non esperte o impazienti d’assedii; e il suo signore, poi, avrebbe amato sempre meglio far impeto in aperta campagna; che infine non era neanche troppo aperta, e i suoi duecento uomini, ben comandati, potevano valere per mille. Frattanto, sui pensieri di guerra avevano il sopravvento le arti della pace, e prima fra tutte l’arte dei giardini.

Madonna Bianchinetta, la santa madre del capitano Fiesco, ne aveva preso cura da giovane; ma poi, cresciuta negli anni, se n’era via via disamorata, piacendole assai più di passar le sue ore nella cappella del castello, dedicata a san Colombano; un gran santo, quello, e quasi di casa, che era morto non troppo lontano di là, nel monastero di Bobbio, e che dava il nome, del resto, ad una terra vicina. N’era venuto nei giardini del castello un gran guaio per le varie famiglie dei fiori; i quali, si sa, per prosperare domandano amore, intristiscono nell’abbandono, e muoiono anzichè darsene pace. Per contro erano cresciuti gli alberi, gran solitarii, anche quando si ritrovino in molti, che degli uomini non si dànno un pensiero al mondo, e vorrebbero anzi che gli uomini non si dèssero tanto pensiero di loro, per tagliarli, segarli, riquadrarli, piallarli a molti usi volgari, o farne legna da ardere. E insieme con gli alberi erano venute su liberamente le rose, belle salvaticacce che bastano molto a sè stesse. Diradare quegli alberi, sfrondandoli un pochino qua e là, ravviar quelle rose, nettandole d’ogni seccume e potandole, era stata la prima cura dei nuovi arrivati; quanto ai fiori più delicati, poco c’era voluto a trarne da tutti i dintorni, a farne allignare nelle vecchie aiuole risarchiate, e lungo i viali rifatti.

Per quei viali passeggiava la coppia felice; Fior d’oro col braccio sinistro girato intorno alla vita di Damiano; Damiano col braccio destro girato intorno al collo di Fior d’oro. Erano atti, per avventura, di soverchia libertà; ma non veduti per allora se non dagli uccellini saltellanti e chioccolanti sugli alberi. Ed essi, finalmente, come quegli alberi per tanti anni avevano fatto, non si davano pensiero di nessuno. Se n’andavano a passi lenti, così mollemente abbracciati, chiacchierando a mezza voce, bisbigliando quasi, com’è l’uso degli innamorati a buono, che non han nulla da dirsi di serio, nè sopra tutto di nuovo, ma che nelle cose più naturali e più comuni debbono metter sempre un po’ di mistero.

Un rumor di passi sulla ghiaia del viale fece voltar la testa a Damiano. Una sbirciata bastò al felice mortale, perchè egli spiccasse il braccio dalla dolce postura che s’era scelta con tanto buon gusto, e prendendo per mano la contessa Juana muovesse incontro al nuovo venuto.

– Quello, o ch’io sogno, è il vostro genero; – gridò egli con ostentazione di allegrezza, più fatta per consolar l’ospite, che per esprimere il vero sentimento dell’animo. – Capite, Fior d’oro? – incalzò, rivolto alla contessa, mentre stendeva pure la mano al suo antico aiutante. – Vostro genero! vostro genero!

– Già, – disse a sua volta il Passano inchinandosi, – il genero d’una suocera a trent’anni. Si può ben dire l’età d’una donna, in un caso come il mio, non è vero? —

Così dicendo, prendeva la mano che la contessa gli aveva stesa in atto benevolo, e si chinava ancora accennandovi il bacio di cerimonia che la galanteria spagnuola incominciava a far prosperare sulle terre italiane. Mai suocera al mondo meritò tanto un simile omaggio, od altro assai meno cerimonioso di quello.

– Come sta madonna Bianchina? – gli domandava frattanto il Fiesco.

– Bene, benissimo; e saluta, s’intende, e abbraccia la sua bella mamma.

– Perchè non condurla con voi? —

Era la stessa domanda di don Garcìa; ed ebbe l’istessa risposta. Onde da parte del Fiesco l’istesso inarcamento di ciglia, ma con una giunta di parole che non aveva potuta fare quell’altro.

– Visita di poche ore! Mi spaventate, Giovanni mio. Faccende, dunque? e gravi?

– Oh, questo poi no. Son venuto col libro dei conti. Volevo sapere che cosa si dovrà fare della vostra parte di profitti sulla nave Paradiso. Siete il partenevole più grosso, e ci avete un guadagno, quest’anno, di seimila ducati larghi. —

Bartolomeo Fiesco fece una bella riverenza. Seimila ducati larghi erano una bella somma. Il ducato largo, o genovino d’oro come s’era chiamato nei tempi anteriori, con un peso di grammi 3,567, eguale del tutto al suo fino, e con un valore di due lire, due soldi, e due denari, valeva nei primi anni del Cinquecento, in moneta corrente, tre lire e due soldi. La lira genovese ne valeva allora più di tre delle nostre; sicchè, fate il conto, e troverete che il ducato largo ne valeva più di dodici delle odierne italiane. Moltiplicate per seimila, e vedrete che bel guadagno avesse fatto messer Bartolomeo delle Indie col suo Paradiso. Ancora qualche annetto di fortuna, e c’era da farsi foderar d’oro una bella nicchia in purgatorio.

Fece dunque una bella riverenza, come il caso meritava. Ma non gli parve altrimenti che fosse mestieri un viaggio, per sapere dove andasse collocato tant’oro.

– Per questo siete venuto! – diss’egli. – E non la ricordavate, la mia massima? San Giorgio, amico Passano; le “colonne„ di san Giorgio sono le mie colonne d’Ercole. È quello il luogo, il posto, il rifugio sicuro pei ducati larghi. Ma forse avete ancora da dirmi della Santa Giovanna?

– Quella è arrivata a Bari per le lane; non si aspetta prima di giugno. Così almeno mi ha detto ier l’altro il Sauli, che aveva ricevuto lettere. Ho qui invece il fogliazzo delle spese. Se gli date un’occhiata, essendo ancora giorno…

– Volete dire che i numeri si leggono male a lume di lucerna? E sia; – soggiunse messer Bartolomeo, – contentiamo questo terribil Passano. Sedete? – diss’egli, facendo un cenno d’invito a Fior d’oro.

– Fate, fate; – rispose la contessa; – io vi lascio. Quando siete coi numeri, bisogna lasciarvi stare.

– Capirete, Juana, e perdonerete senz’altro. Son genovese; e il genovese, per vostra norma…

– Oh, non dicevo per questo; – interruppe la bella. – Che genovese, del resto? Non vi vantate, amico mio. Volevo dire piuttosto che vi c’imbrogliate parecchio.

– Ah sì, birichina? Ma ciò avviene perchè guardo voi; e allora, povero a me, smarrisco perfino il ricordo della tavola pitagorica.

– Vedete dunque… – diss’ella con aria di trionfo. – Ragione di più per lasciarvi con messer Giovanni mio genero. Farò allestir la cena un po’ prima, perchè egli avrà appetito, m’immagino.

– Abbastanza, madonna; – rispose il Passano. – Ho tanto rinsaccato, su quel maledetto cavallo! —

La contessa si era ritirata; ma dal vano di un uscio, voltandosi, aveva gittato un bacio col sommo delle dita a Damiano. E Damiano, che lo colse al volo, non volle lasciarlo senza ricevuta.

– Povera tavola pitagorica! – gridò egli ridendo. – La vedo brutta.

– Che c’è? – disse il Passano, levando la fronte dai suoi scartafacci.

– Niente, niente; parlavo a mia moglie. Mia moglie! – ripetè il capitano Fiesco. – Ecco due strane parole. Sapete, Giovanni mio, che non so avvezzarmi a questo nome? e che mi par sempre un sogno?

– Restate nel sogno; – rispose quell’altro.

– Certamente, certamente, poichè il sogno è così dolce! Ma ora che siamo soli, ragazzo mio, vuoi tu dirmi che cosa significhi la tua visita? Tu non sei mica venuto per sapere dove andassero collocati i miei ducati larghi… e neanche per rompermi la testa col fogliazzo. Tu hai una commissione per me, ed una commissione urgente.

– Avete ragione; – rispose il Passano. – Ecco qua, infatti. —

Così dicendo, traeva di sotto al giubboncello una lettera, e la porgeva al capitano Fiesco.

– Ah, volevo ben dire! – esclamò questi. – Gian Aloise?..

– Lui, in persona. Mi aveva mandato a chiamare in gran fretta, ier sera; ed ho risicato, figuratevi, di fiaccarmi tre volte il collo in quei cento scalini di Violata, non avendo altro lume nel buio se non questi due occhi. Giunto alla sua presenza, eccovi il dialogo che corse tra noi: Verrà di questi giorni a Genova il tuo principale? – No, eccelso signore; è più facile che Genova vada a Chiavari, di quello che venga a Genova lui. – Ebbene, andrà Genova a Chiavari, nella persona tua; passerai da me domattina per tempo; ti darò una lettera, che dovrai consegnargli senza fallo in giornata; a lui, mi capisci? e parlandogli a quattrocchi, che nessuno ne abbia fumo. Ritornai da messere Gian Aloise questa mane per tempo; tenevo il cavallo sellato ad aspettarmi fuori della porta di Santo Stefano. Avuta la lettera, son ridisceso dalla Montagnola; ho infilata la via dei Lanieri; son montato in arcione, e via di galoppo, che n’ho ancora le reni fiaccate.

– S’intende che ti sarai ristorato a tutte le frasche.

– Messere!..

– Eh via, non saresti genovese. Hai rinfrescato a San Martino, confessalo; e nota che ti fo grazia di San Fruttuoso. Il secondo bicchiere l’hai bevuto a Nervi; il terzo a Recco, con un rincalzo a Ruta, per ragione della faticosa salita; il quarto a Rapallo, il quinto a Zoagli. Dimmi che non è vero.

– Siete uno stregone, messere; – disse ridendo il Passano. – Per altro, non sono mai sceso d’arcione.

– Te lo credo, questo, perchè al debito non sei venuto mai meno. Quanto a rinfrescar l’ugola, non è mai stato un delitto. E dall’oste della Maddalena, poi? Dicono che ce n’abbia bevuto una mezzina anche Dante.

– Ma sempre stando in arcione; – rispose il Passano. – Furono tutti bicchieri della staffa.

Il capitano Fiesco s’indugiava in queste celie, per non leggere il foglio che gli aveva consegnato il Passano. La lettera donde si aspetta una noia si dissigilla mal volentieri; si spera sempre in un accidente improvviso che possa dispensarcene. Ma l’accidente non ci fu, e messer Bartolomeo dovette rassegnarsi. Aperse il foglio, e lo spiegò; spiegato che lo ebbe, incominciò a leggere, ed anche ad aggrottare le ciglia, a batter le labbra, a sbuffare.

– Oh Dio! – esclamò, quand’ebbe finito. – Ma son pur fastidiosi! Io consigli? E che ci ho da veder io? come ho da darne io, che non ho saputo mai domandarne? Che noia! che noia! E ancora dovrò ringraziarlo, il mio eccelso parente, che ha mandato te per messaggero, e non il suo Filippino.

– Filippino?.. – balbettò il Passano, che non vedeva la ragione dell’essere messo in paragone con quel pezzo grosso.

– Già, il nostro buon cuginetto Filippino; – riprese il capitano Fiesco. – Quello là, o con un pretesto o con un altro, è sempre da queste parti; due, tre, quattro volte ogni mese. Il giovanotto non ha mai avuto tanto da fare nel capitanato di Chiavari, come dal giorno che ho preso moglie io.

– Che dite, messere? Io casco dalle nuvole.

– Ed io vorrei risalirci, con Fior d’oro tra le braccia, e non ricomparire mai più alla vista dei seccatori. Vuoi sapere? Filippino s’è messo in mente di toccare il cuore a Fior d’oro. Fa l’occhio pio, lui, ch’è una bellezza a vedere. Sospira, recita i sonetti del Petrarca, e li mette a raffronto colle rime amorose dell’Alighieri. Una sera, che ci fece la stampita più lunga, figúrati che ci sciorinò tutto il canzoniere della Bella Mano. Tu non lo conosci, il canzoniere di Giusto de’ Conti da Valmontone, tutto inteso a celebrare la mano della sua bella? Lo conosco io, pur troppo, e me ne dolgono ancora gli orecchi. Maledetto biondino! Quantunque, a farlo a posta, s’è imbattuto in una che i biondi non li vuol neanche per prossimo.

– O allora, scusate… – si provò a dire il Passano.

– O allora, caro mio, m’annoia egualmente; – rispose il capitano Fiesco. – Qualche volta mi vien voglia di assestargli uno scapaccione.

– La contessa se n’è avveduta?

– E come no? Se ne avvedono gli usci e le imposte, che sono di legno, e gli arazzi e i corami delle pareti; perfino il pappagallo, ultimo avanzo dei dodici portati da San Domingo, che ha imparato a ciangottare: Filippino sciocco! Noto, per amor di giustizia, che vorrebbe dire Filippino Fiesco; ma non gli riesce, e dice sciocco tale e quale. Fior d’oro, dal canto suo, lo chiama Gunora. E potrebbe anche chiamarlo Guatigana. Ma quel poveraccio va rispettato, che almeno ha saputo morire. Quanti pretendenti, mio Dio! – esclamò il capitano Fiesco, sospirando. – Hanno avuto tutti buon gusto, non lo nego; ma ti confesso che m’hanno tutti mortalmente seccato, e mi seccano. Basta, ti ho fatto il mio sfogo, e tu chiudilo in petto, alta mente repostum, come direbbe Virgilio. Il giorno che avrò accoppato messer Filippino, ne capirai il perchè, senza bisogno di venirmelo a chiedere. Ma ora che ci penso… In questa lettera dell’eccelso Gian Aloise non ci sarebbe la zampa di messer Filippino bello? Mi vogliono levare da Chiavari, è chiaro, come si leva una lepre, o un cinghiale. Vogliono tirarmi sul Bisagno, anzi peggio, sul Rivo Torbido. Una volta là, addio guardia e custodia del fatto mio: feste in Violata, festini a San Lorenzo; dovunque c’è un Fiesco, sarà un invito a ballare. E tu balla, Damiano, o lascia ballar chi ne ha voglia. Così il mio Filippino ha libertà di corteggiare Madonna, di atteggiarsi a suo “intendio„ secondo l’uso della giornata. Ma io me ne intendo più di te, Filippino bello; quando il tuo diavolo nasceva, il mio andava già ritto alla panca. E per la croce di Dio… Oh, smettiamo; ecco madonna che torna. —

Infatti, sull’uscio dond’era sparita un’ora prima, riappariva Fior d’oro.

– Avete finito di far conti? – diss’ella.

– E da un pezzo; – rispose Giovanni Passano.

– Allora, eccomi qua. Vorrete accettare un rinfresco, per aguzzar l’appetito? Polidamante, i bicchieri e il vin di Cipro. —

Polidamante, che era comparso allora nel vano dell’uscio, corse ad eseguire i comandi. Due minuti dopo, era in giardino col vin di Cipro e il vassoio.

– Dategli da bere, Juana; – disse il conte Fiesco alla moglie. – Ma in verità non lo merita. Sapete che ha vuotate tutte le cantine che ha incontrate in viaggio, da San Martino d’Albaro al ponte della Maddalena? E certo, con lo stomaco scavato da tanto bere, egli ha più fame che sete.

– È anche pronta la cena; – rispose Fior d’oro; – ed egli non avrà da penar molto. Genero, – soggiunse ella, accostando il calice a quello del Passano, – siate il benvenuto coi vostri scartafacci e colle vostre belle notizie. Beviamo ora alla salute della nostra Bianchina. —

Tutto bene, sì; ma le belle notizie il Passano non le poteva mandar giù, dopo averle portate, e conosciute molto noiose.

– Ed ora, – diceva egli tra sè, mentre mandava giù più facilmente il suo vin di Cipro, – come la prenderà Fior d’oro, quando saprà che si vuol Damiano a Genova? Basta, la cosa non mi riguarda; ambasciator non porta pena. —




Capitolo III.

I commentarii di Cesare


La cena era imbandita nella gran caminata del castello, dove il nostro Giovanni Passano ebbe il piacere di far riverenza a madonna Bianchinetta Fiesca, la veneranda madre del suo capitano. Il giovinotto la chiamava madrina, per aver ella tenuta la vezzosa Higuamota al fonte battesimale. La nobil signora vide assai volentieri il marito della cara figlioccia, e lo chiamò a dirittura figliuolo. Ha di queste delicatezze la vecchiaia, e pare che le derivi dal cielo, a cui è già tanto vicina.

Si ragionò di molte cose, a mensa, mutando gli argomenti come le portate. Così venne “in tavola„ l’eccelso Gian Aloise, con tutte le sue vaste ambizioni, ch’erano poi la gloria e l’onore della illustre casata dei Fieschi; una delle prime signorili d’Italia, e già considerata come principesca, tanto che non si faceva più lega o trattato di pace tra il re Cristianissimo e gli stati Italiani, che non vi fosse inclusa quella grande famiglia, alla pari con essi. Ed anche, volgendo il discorso qua e là, non fu dimenticata una più potente signoria, che per verità non era argomento da tavola; vogliamo dire la peste, oramai da tre anni vagante in Liguria, come nelle regioni contermini, ma che a Genova non aveva potuto menare gran guasto, per le buone provvisioni del governo. Strano, per altro, che ne avesse avuto a pagar le pene il provveditore, che era messer Giacomo Fouchesolts, luogotenente del regio governatore monsignor Filippo di Cleves. Ma oramai da un anno il povero luogotenente era morto, succedendogli, come sappiamo, il Roccabertino; sicchè, non c’era più molto da dirne, e neanche molto di un morbo al quale i popoli d’Europa s’erano avvezzati in que’ tempi, come noi a tutte le specie di nemici invisibili, che coi nomi svariati di microbii, bacilli, micrococchi e germi patógeni, dovrebbero poi essere l’attenuata ma non estenuata discendenza dei persecutori di quattro o cinque secoli fa.

– Parliamo di cose allegre; – disse ad un certo punto il Passano. – Ne ho sentito una, che mi ha riempito di giubilo. Voi scrivete i vostri commentarii, capitano?

– Chi te lo ha detto? Sei arrivato ora, e già sai…

– Non ve ne maravigliate, principale. Per giunger quassù, naturalmente, dovevo passar di laggiù.

– Tu parli come un libro stampato; – disse Bartolomeo Fiesco. – Alla mia volta dovevo immaginare che don Garcìa e frate Alessandro non volessero aver segreti per te. Sono essi infatti i miei due pazienti uditori serali. Che vuoi? bisogna ammazzare il tempo. Io scrivo di giorno, e leggo di sera. Oggi appunto ci avevo un paio di capitoli finiti. Ma ora che sei capitato tu coi tuoi scartafacci, tanto più importanti dei miei…

– Li avete letti, i miei; letti ed approvati; – interruppe il Passano. – Non vogliate defraudarmi della parte mia. Diteglielo voi, madrina; – soggiunse il giovinotto, vedendo che il principale nicchiava; – diteglielo voi, che ha da leggere.

– Mio figlio mi fa piacere, se legge; – rispose madonna Bianchinetta. – Quando legge dei suoi viaggi, mi par di viaggiare con lui.

– E che bel viaggiare! – aggiunse il Passano. – Se scrive come parla, ha da essere un racconto gustoso.

– Voi volete lodarmi, Giovanni, e, sia detto con vostra buona pace, proferite una sciocchezza insigne; – sentenziò gravemente Bartolomeo Fiesco. – Imparate, giovinotto di poche lettere, che lo scrittore italiano si guarda bene di scrivere come parla, avendo alto il rispetto delle vergini muse, dei lettori di buon giudizio, e di sè. Quando parla, apre la bocca, e dà il volo a tutti i passerotti che gli girano per l’anima; quando scrive, li mette tutti quanti sotto chiave, indossa il lucco, tempera la sua penna d’oca, e va a cercare nel fondo del calamaio tutte le sentenze più gravi, tutti i più ornati periodi. Prosa robusta vuol essere. Noi discendiamo dai Romani, che diamine! e Cicerone, maestro in materia, vi mostrerà coll’esempio che altro è scrivere un bigliettino al suo segretario, altro è scrivere a Pomponio Attico; altro scrivere a Pomponio, ed altro assalir Catilina, o Verre, o Marc’Antonio. Ma basta; voi mi sentirete, o giovane inesperto, mi sentirete scrittore; e se non dormirete in piedi, o seduto, l’avrò per un atto di valor singolare, da mettere accanto agli altri, per cui vi ho sempre stimato ed amato. Dixi.—

E qui, naturalmente, una bella risata, di quelle che sapeva rider Damiano. La cena era finita, e i famigli erano venuti a sparecchiare, mentre i padroni di casa e il loro ospite uscivano a far due passi in giardino. Quando rientrarono, la gran tavola era rischiarata da tre grandi lucerne d’argento; il lusso d’allora, in materia d’illuminazione. Il numero dei lumi e la preziosità del metallo compensavano la poca vivezza della luce. E non solo c’erano lumi in tavola, ma anche ciò che può far perdere il lume del raziocinio a chi non sappia usarne con discrezione; vogliamo dire certe bocce vistose di vino delle Cinque Terre, coi calici di cristallo in grandi vassoi d’argento. Furono allora mandati a chiamare i due “uditori pazienti„ che per verità erano impazienti d’aspettar la chiamata, tanto furono pronti ad accorrere.

Offriva un bel quadro, la caminata di Gioiosa Guardia, in quella sera di marzo, al lume delle tre grandi lucerne d’argento, i cui dodici lucignoli, diradando le ombre senza cacciarle del tutto, lasciavano intravvedere lungo le alte pareti i ritratti di quattro o cinque generazioni dei Fieschi, soldati e marinai, ambasciatori, vescovi, cardinali e papi. Ma lo sguardo era maggiormente attratto verso il camino, onde la sala prendeva il suo nome di caminata; gran camino di pietra nera scolpita, sul cui alto stipite sorgeva lo stemma dei Fieschi, col suo elmo di fronte, carico di svolazzi e fogliami, donde apparivano affrontati il gatto sedente e il basilisco nascente. In quella mezza luce non si poteva leggere il motto: sedens ago, scolpito in una fascia tra l’elmo e lo scudo; e questo solamente si ricorda per amor d’esattezza. Davanti al camino, un po’ lontano dal capo della tavola, sull’alto scanno comitale sedeva madonna Bianchinetta, tutta vestita d’ormesino nero, con la sua cuffiettina della medesima stoffa marezzata, donde sbucavano sulle tempie le ciocche dei capelli bianchi come neve, tanto belli a vedersi nelle case che serbano il culto della dolce famiglia. Alla destra di lei stava la contessa Juana, ma seduta più in basso, in modo da potere ad ogni tanto piegar la testa sul bracciuolo dello scanno, e i suoi capelli nerissimi alle carezze della vecchia signora. I detrattori delle suocere avrebbero dovuto ritrovarsi un po’ là, per sentirsi morire l’eterna celia sul labbro.

Presso il capo della tavola, o meglio, tra questo e la contessa Juana, e avendo alla sua destra il Passano, era venuto a sedersi Bartolomeo Fiesco, pronto a squadernare i suoi gran fogli di carta. Dall’altro lato sedeva frate Alessandro, e presso a lui don Garcìa, con Polidamante; il quale per verità non si poteva dire che sedesse, avendo addosso l’argento vivo, ed ora per una cosa ora per l’altra cercando sempre di muoversi. In mezzo al semicerchio sarebbe rimasto uno spazio vuoto; ma lo colmavano già due grossi alani, Ovando e Bovadilla. Immaginate di certo chi avesse chiamata così quella coppia canina. Onore immeritato, e solamente da attribuirsi alla sua desinenza, il nome del commendatore di Calatrava era venuto a decorare la femmina. Gran matti, quei cani, essendo ancora molto giovani; più matti di Polidamante, col quale facevano a correre nei cortili e nei fossi di Gioiosa Guardia. Ma per allora, o che sentissero la gravità del momento, o che avessero abbastanza rosicchiato in cucina, si erano adagiati in quel vano, come due sfingi di basalto, colle zampe anteriori accostate e coi musi allungati sulle zampe. Facevano così per godere quanto più potevano la frescura del pavimento? o non piuttosto per prepararsi a gustare la prosa robusta d’uno scrittore italiano?

Bartolomeo Fiesco prese i suoi fogli in mano; tossì, com’era di rito, e poi disse:

– Frate Alessandro li chiama i Commentarii di Cesare; ma egli s’inganna a partito. Cesare raccontava le cose da lui medesimo operate, e con tanta fortuna; io le cose che ho viste accadere, e non liete, pur troppo. Quæque ipse miserrima vidi…

– Et quorum pars magna fuisti;– aggiunse prontamente frate Alessandro.

– Ah no; fui parte, ma piccola; – ribattè il capitano Fiesco. – Questo capitolo, poi, a farlo a posta, narra di cose avvenute quando io e voi, frate Alessandro, fummo partiti dalla Giamaica su quel guscio di noce, lasciando il nostro grand’uomo a combattere con l’ira degli elementi e con quella degli uomini sulla spiaggia di Maima. Tutta roba adunque che sapemmo poi, al ritorno, e che naturalmente ho dovuto restringere in una mezza dozzina di pagine.

– Leggete, principale, leggete! – gridò il Passano. – Non ce le fate sospirare, vi prego.

– Lo volete, e sia. Tossisco ancora una volta, e incomincio; – disse il capitano Fiesco. – Non m’interrompete; le vostre osservazioni potrete dirmele poi. Non fate rumore, che la mamma vuol sentir bene ogni cosa. A farvi bere ci penserà Polidamante, che per muoversi non ha bisogno d’inviti. —

Dopo questo preambolo il capitano Fiesco incominciò la lettura dei suoi Commentarii, al capitolo XXV: Di quel che seguì alla Giamaica, come ne fu partito il Mendez col Fiesco.

“Partite le canòe per l’isola di Haiti, la gente dei navigli cominciò ad ammalarsi, così pei travagli del fortunoso viaggio, come per la mutazione dei cibi, non avendo più vino, nè altra carne che d’utia, quando pure potevano procacciarsene dai naturali. Aspra vita; e dovevano durarla, stando colà sequestrati? Certamente ci sarebbero morti d’inedia, dicevano alcuni; perchè l’Almirante non voleva ritornare in Ispagna, dond’era stato bandito, nè all’isola di Haiti, dove alla vista di tutti il commendatore di Lares gli aveva proibito di toccar San Domingo, per quanto bisogno ne avesse. Sarebbero tornate le canòe del Mendez e del Fiesco? soggiungevano i fratelli Porras, che primeggiavano tra i mormoratori scontenti. Quei due potevano esser giunti a San Domingo, ma forse per andar di là in Castiglia, a perorare la causa dell’ammiraglio caduto in disgrazia. E che questo potesse anch’essere il vero, lo dimostrava il fatto che il Fiesco, avendo avuto oramai il tempo di andare a San Domingo e tornare, non era più ricomparso. Del resto, potevano le due canòe essersi anche perdute: si doveva per questo rimanere laggiù ad aspettare una morte sicura, chiusi in quelle due navi sdruscite, per capriccio d’un gottoso, la cui stella era tramontata da un pezzo? Essi ancor sani, e, per grande fortuna, dovevano pensare ai casi loro, e andarsene a San Domingo, per raccontare all’Ovando come fossero trattati tanti onorati Spagnuoli da quell’avventuriere italiano. L’Ovando sicuramente li avrebbe rimandati in Castiglia, dove li avrebbero ascoltati e vendicati il vescovo Fonseca e il tesoriere Morales.

“Così parlavano i Porras, uno dei quali era il capitano della arenata Bermuda, e l’altro il notaio capo della spedizione. E Francesco e Diego furono tanto più facilmente ascoltati, in quanto che si sapeva da tutti che d’una loro sorella era il Morales fortemente invaghito. Entrarono quarantotto nella congiura dei Porras; e il giorno 11 di gennaio del 1504 il capitano Francesco se ne andò di buon mattino colla saliva amara dal signor Almirante, che era inchiodato dalla gotta nel suo giaciglio a poppa. “Perchè restiamo qui? gli chiese. Non vi par tempo di levarci da questo cimitero?„ Le parole del Porras fuor del costume arroganti, lasciarono intendere al signor Almirante che quell’uomo avesse già molti a spalleggiarlo; e più se ne persuase, quando, alle sue ragioni alzando le spalle, il capitano della Bermuda gridò con piglio sdegnoso: io me ne vado in Castiglia, con coloro che vorranno seguirmi. Ed usciva così dicendo dal castello di poppa, l’insolente capitano; e a lui si univano tumultuando i seguaci della sua ribellione, mettendo mano alle scuri, e gridando all’Almirante ed ai suoi: mueran! mueran! col qual grido si riscaldavano il sangue.

“A quelle voci balzò dal giaciglio il signor Almirante, e venne zoppicando sull’uscio. Accorsero i suoi familiari, ed altri che l’obbedivano ad ogni costo, per fargli scudo dei loro petti contro quei forsennati. Altri correvano a trattenere l’Adelantado, il valoroso don Bartolomeo Colombo, che già abbrancata una lancia si disponeva come Achille a dar dentro. E gli uni e gli altri consigliavano al capitano Porras di non tentare la sorte di una strage fraterna, che anco a lui poteva costare la vita: se ne andasse pure coi suoi, quanti fossero, quanti volessero seguirlo.

“Accetta quell’altro il partito, forse immaginando che a far peggio, e con fortuna, non avrebbe poi evitato un castigo. Egli e i suoi scendono dalle navi; slegano dieci canòe che il signor Almirante aveva comperate dai naturali, per tenerle pronte ad ogni stremo; vi tirano dentro molti rematori dell’isola, che hanno con belle promesse adescati, e mettono la prora verso levante, costeggiando, come avevano veduto fare al Fiesco ed al Mendez.

“Andando così marina marina, spesso calavano a terra, e prendevano a forza quanto lor bisognasse. Pagherà l’ammiraglio, diceva il capo dei ribelli; se non vi pagherà ammazzatelo pure, essendo egli prima e vera cagione d’ogni male, e per voi e per noi, come pei vostri fratelli di Haiti. Con queste arti si vettovagliavano ogni dì. Giunti finalmente alla punta orientale della Giamaica, e fatte le maggiori provvigioni per il lungo tragitto, si spinsero in alto mare, ma non andando più di quattro leghe lontano. Il vento si era voltato; si procedeva a stento coi remi, e le onde furiose entravano a far carico, minacciando di affondare o di capovolgere le lunghe e sottili imbarcazioni. Bisognò alleggerire, buttando le vettovaglie; bisognò alleggerire ancora, buttando i poveri Indiani che s’erano fidati alle belle promesse. Così ne perirono diciotto; con altri pochi che stavano ai remi, si toccò finalmente la riva, delusi d’ogni speranza, famelici, ed armati; perchè alle armi non avevano già rinunziato.

“Che fare? Alcuni proponevano di aspettare il buon tempo, e di navigare a Cuba, donde più facilmente avrebbero raggiunto Haiti. Altri, non intieramente guasti dell’anima, consigliavano di tornar pentiti al signor Almirante. Prevalse il partito dei Porras, di restar liberi, scorrazzando per l’isola. Non marcirebbero nelle navi; con l’armi alla mano otterrebbero da vivere; e là, stando alle vedette, aspetterebbero come tutti gli altri una via di salute. Era il partito peggiore, derivandone il malcontento dei poveri isolani, soggetti alle rapine continue di quella schiera malvagia. E un altro guaio sovrastava agli uomini rimasti obbedienti sulle navi. A provvederli di cassava e dei frutti della terra gli isolani si erano volentieri adattati. Ma quella povera gente, vissuta fino allora con pochi bisogni, non faceva grandi seminagioni. I figli del Cielo distruggevano in un giorno più di quello che i naturali del paese consumassero in venti. Dovevano lasciarsi taglieggiare dai ribelli, e provvedere in pari tempo agli uomini del Giocomina, per il ricambio di qualche campanello, o d’una manata di perline di vetro? Così avvenne che dispregiando i baratti e dimenticando le fatte promesse, non portassero più nulla, trascurando perfino di accostarsi alle navi.

“In quel terribile frangente una ispirazione celeste venne al pensiero del gran Genovese. Altri dirà che le sue cognizioni d’astronomia gli tornarono utili. E l’una cosa e l’altra possono ritenersi per vere. Scelto il suo giorno, che fu l’ultimo di febbraio, mandò un naturale di Haiti ad invitare i capi delle vicine tribù, che freddi si dimostravano, ma non erano nemici, e in lui riponevano fede. Avutili a sè, parlò in questa guisa: – Noi siamo cristiani; il nostro Dio abita in cielo, buon re per tutti i suoi sudditi, e dei buoni ha cura, e i malvagi castiga. Già voi vedete come abbia punito i cristiani ribelli, non permettendo che si allontanassero dalla vostra isola contro il comando del loro Giocomina; vi vedrete ora puniti con fame e peste voi stessi, che non portate più alle navi le vettovaglie pattuite. Non lo credete? Ebbene, n’avrete un segno manifesto nel cielo, non più tardi di questa notte, vedendo venir fuori la luna adirata.

“Partirono; alcuni con paura, altri sprezzando la vana minaccia. Ma non era vana, com’essi pensavano. Appunto in quella sera, all’apparir della luna incominciando l’ecclisse, e più aumentando quanto ella più ascendeva sull’orizzonte, quei poveri inesperti ricordarono le parole del Giocomina quanto fossero vere; e fu tanta la paura loro, che con grandissimi pianti e strida venivano d’ogni parte ai navigli con grandi carichi di vettovaglie. Prega il tuo Dio per noi, dicevano al Giocomina, pregalo che non eseguisca l’ira sua contro di noi; e manterremo d’ora in poi le nostre promesse, fino a tanto che tu rimarrai alla spiaggia di Maima. A che il signor Almirante si raccolse, per parlar col suo Dio; e tanto stette appartato finchè l’ecclisse della luna era sul crescere; ed essi tuttavia forte gridavano che dovesse aiutarli. Ma quando egli vide che l’oscuramento della luna era presso al suo massimo punto, non rimanendo più che di vederlo scemare via via, venne fuori dicendo aver fatto orazione per loro, promettendo che quind’innanzi sarebbero buoni, e tratterebbero bene i Cristiani, portando loro tutte le cose necessarie alla vita; e Dio aver perdonato, in segno di che vedrebbero essi che l’ira passava, e con questa la infiammazione della luna. La qual cosa avendo effetto insieme con le sue parole, essi rendevano molte grazie al Giocomina e lodavano il suo Dio: e così stettero finchè non ebbe termine l’ecclisse.

“Fu questo assai buono espediente, al cui felice successo aiutò la nessuna cognizione di quei naturali intorno ai moti degli astri, e alle ragioni per cui talvolta si ecclissano il sole e la luna; eventi celesti che essi stimano accadere a danno degli uomini. Nè io mi starò a lodare con molte parole l’accorgimento del signor Almirante, bastando il considerare che con esso egli ebbe provveduto alla salvezza di tanta gente cristiana, quantunque per sedizioni e turbolenze continue così poco meritevole delle sue cure paterne. Indi a pochi giorni giungeva alla spiaggia di Maima la canòa di Bartolomeo Fiesco, che prima non aveva potuto, per ragioni gravissime, le quali partitamente si diranno più sotto, non volendo io interrompere con privati accidenti, comunque maravigliosi e terribili, il racconto delle cose che riguardano il grande Navigatore genovese e le fortunose vicende del suo quarto viaggio. Accolto a festa dal signor Almirante, recava il Fiesco novelle del Mendez, da lui lasciato a San Domingo; novelle non liete, le quali il signor Almirante non stimò di far conoscere ad altri; che anzi, a tutti i ritornati della canòa fe’ giurare il segreto. Le novelle erano queste, che dopo tanti mesi di preghiere, tenuto quasi sotto custodia dal governatore, il Mendez non aveva potuto ottenere i navigli da condurre alla Giamaica, nè la licenza di trovarne egli stesso, pagandoli coi denari del signor Almirante; donde appariva chiaro il bieco proposito del gran commendatore d’Alcántara, di far perire Colombo e di oscurarne la gloria. Ma forse in tal proposito non avrebbe egli potuto durare, poichè il Fiesco gli era fuggito di mano, e certamente, Dio permettendolo, sarebbe giunto ad informare il signor Almirante di tutte quelle macchinazioni della brutta invidia e malvagità singolare di lui.

“Ma intanto la gente raccolta nelle due navi sdruscite, ignorando le nuove, stimava perduto il Mendez; nè quasi poteva più dubitarne, non pure per il ritorno avvenuto del Fiesco senza il compagno di tragitto, ma ancora per certe voci sparse dai sollevati del Porras, di una imbarcazione che s’era vista al largo della punta di Aramaquique, capovolta e trasportata dalle correnti, che sono fortissime al levante della Giamaica. Crebbero le paure, e con le paure le mormorazioni, i malcontenti, le trame. Già si ordiva una congiura, capitanata da un Bernardo di Valenza, speziale dell’armata, a cui s’aggiungevano uno Zamora e un Villatoros. E questa certamente avrebbe potuto segnare la estrema rovina dell’Almirante e de’ suoi fedeli, se non fosse intervenuto un caso fortunato a sviare le menti; onde lo speziale finì con aver pestata l’acqua nel mortaio. Si vide adunque una sera apparire da scirocco una caravelletta, quasi una voglia delle due che si aspettavano, sospirando, da poco meno di otto mesi. Quel piccolo guscio si accostò sull’imbrunire alle due navi arenate; un palischermo se ne spiccò, muovendo verso la capitana e portandovi il suo comandante Diego d’Escobar, inviato dal signor governatore. Brutta scelta era stata quella di Nicola Ovando, che sapeva l’Escobar nemico mortale del signor Almirante, contro il quale si era ribellato col famoso Roldano, meritando una condanna di morte, a cui non era sfuggito se non per l’amicizia del Bovadilla, gran protettore dei tristi.

“Quasi per aggiungere lo scherno all’offesa, portava l’Escobar in presente un barile di vino e una mezzina di porco salato. Se ne cavassero la sete, un centinaio di bocche, quante ne lasciava alle due navi sdruscite la sollevazione del Porras! Quanto ad aiuto di navigli, il gran commendatore (lo avevano infatti promosso alla maggior dignità di Alcántara, e si era spogliato della commenda di Lares) non poteva far altro che promesse, e solo per dimostrare il suo buon animo mandava quella piccola caravella, l’unico legno che si trovasse ad aver sotto mano. Bisognava contentarsi delle promesse, e far buon viso a chi le portava. Gran mercè che Diego d’Escobar si fosse incaricato di portar anche una lettera del Mendez, dove quel buon servitore faceva relazione di tutto il suo viaggio: relazione attenuata, s’intende, poichè doveva passare sotto gli occhi dei nemici; ma il signor Almirante sapeva leggere tra le righe.

“Questi avrebbe voluto rispondere, non pure al Mendez, ma ancora al governatore. Ma venne il mattino, e la caravelletta era scomparsa. Diego d’Escobar non aveva avuto altro incarico che di spiare e di riferire all’Ovando se l’odiato Genovese fosse ancor vivo. Bartolomeo Fiesco, dal canto suo, potè immaginare che quell’esploratore fosse venuto anche un pochino per lui, per vedere se egli, con quel suo tronco di legno incavato, fosse riuscito ad afferrar la Giamaica, e quali notizie avesse portate al signor Almirante. Se questo era il disegno di Nicola Ovando, poco doveva profittargli la sua accortezza. Bartolomeo Fiesco, che già all’apparire della piccola caravella si era posto sull’avviso, e delle persone che lo accompagnavano aveva prudentemente nascoste quelle che gli premeva di non lasciar vedere ai curiosi, trovò modo di dire all’Escobar, nel cospetto del signor Almirante, come questi fosse già informato delle buone intenzioni di don Nicola Ovando. – Gliel ho pur detto io, non dubitate, che il signor governatore non ha per ora a San Domingo i legni necessarii per mandare a levarci di qui; e se anche non giungevate voi, egli era già ben persuaso della bontà e della cortesia, comunque per ora impotenti, del gran commendatore d’Alcántara che Dio guardi, a cui vi prego di rammentarmi come suo buon servitore. – Era una bugía necessaria; e con certa gente, del resto, non si nasconde mai abbastanza quel che si pensa di loro. Il Fiesco, dopo tutto, non si pentì di quella bugía, nè d’altre parecchie, che per difesa sua e degli amici gli fosse tornato di dire. Se poi son colpe, ne domanderà l’assoluzione al suo confessore.„

– Fossero tutte lì! – scappò detto a frate Alessandro.

– Ah, tu non vuoi starmi ai patti, frate scudiero! – esclamò il capitano Fiesco. – Polidamante, negagli il vino.

– Per carità! – riprese il frate scudiero. – Stavo appunto per accennargli di mescere; e vi chiedo assoluzione a mia volta. Sapete pure che in certi brutti momenti avevamo promesso di confessarci l’un l’altro. Ma proseguite, capitano, ve ne prego. —

Il capitano Fiesco bevette un sorso, e ripigliò la lettura.

“Ritornando ora al signor Almirante, dirò com’egli, confidando oramai d’essere prima o poi sovvenuto di navigli, e cedendo all’impulso del suo cuore sempre inchinevole a pietà, mandasse due uomini a terra, dei suoi più fedeli, per tornare all’obbedienza i ribelli, avvisandoli dell’arrivo della piccola caravella, e mandando loro a testimonianza del fatto, come della bontà sua, una parte dei presenti che gli aveva portati l’Escobar. Già si disponevano alcuni ad accettare il perdono; ma li trattennero i Porras, più infelloniti che mai. E così, dopo essere stati un pezzo a consiglio, rispondevano tutti ad una, non volersi fidare del perdono, nè del salvacondotto che mandava loro il signor Almirante. Volentieri se n’andrebbero quieti dall’isola, s’egli promettesse di dar loro uno dei due navigli che aspettava, o mezzo naviglio, se uno solo ne fosse arrivato; e frattanto, poichè avevano perdute tutte le cose loro, volesse egli spartire con essi tutte quelle che aveva. E rispondendo i due ambasciatori non esser patti ragionevoli i loro, replicarono arroganti che quanto non si concedesse loro per amore, saprebbero bene pigliarsi per forza.

“Altro aggiungevano i Porras, riscaldandosi via via. Bene conoscevano l’Almirante per uomo vendicativo e crudele. Per sè stessi non temevano, sapendosi forti di amicizie e protezioni alla Corte; bensì per tanti loro compagni dei quali egli avrebbe preso vendetta, sotto colore e nome di castigo. Per tali ragioni non si era fidato di lui Francesco Roldano; e bene gli era riuscito, essendo stato tanto favorito da far mandar l’Almirante carico di ferri in Castiglia. Nè essi avevano minor cagione o speranza di fare altrettanto. Della piccola caravella, poi, non era da creder niente; ad altri la dèsse ad intendere. Quella non era stata una caravella vera, ma un fantasma di nave, opera di negromanzia, essendo noto come valesse l’Almirante in quell’arte diabolica. Perchè, se era opera d’uomini, non era rimasta, scambio di apparire a vespro e di sparir nella notte? Perchè con nessuno della sua marinaresca si era potuto parlare? Se fosse stata vera, bene si sarebbe affrettato l’Almirante a imbarcarvisi, col fratello e col figlio. Con le quali e con altre parole indirizzate allo stesso proposito, ottennero i Porras che la gente si confermasse nella ribellione, deliberando ancora di muovere verso i navigli, per far bottino, e prender l’Almirante prigioniero; se pure già non pensavano di far peggio.

“E mandavano i fatti compagni alle parole, accostandosi alla spiaggia di Maima. Non era più tempo d’indugi. Scese l’Adelantado con cinquanta armati, risoluto di sanare quei cervelli matti con buone ragioni, se potevano bastare; con le cattive, se fosse stato mestieri. Giunto ad una collina, e fermatosi ad un tratto di balestra dai sollevati, Bartolomeo Colombo fece chiedere il capo loro a parlamento. Non risposero quelli alla proposta degli ambasciatori, e pensando di aver da fare con gente stremata di forze, brandendo le spade nude, e le lance che avevano, formati in un drappello, e gridando ammazza, ammazza, assalivano la squadra dell’Adelantado; avendo prima giurato i sei più valenti di non dipartirsi l’uno dall’altro, ma di volgersi tutti contro Bartolomeo Colombo, perchè, morto lui, non facevano stima degli altri. Il che non piacque a Dio che loro venisse fatto, essendo stati così ben ricevuti, che cinque o sei ne caddero per terra, tra i quali erano i più di quelli che avevano giurato di colpire l’Adelantado. E questi diè dentro così forte, uccidendo ed atterrando, che l’istesso Francesco Porras non fu più in tempo a fuggire; laonde, lui fatto prigione, voltarono le spalle quanti non eran caduti.

“Volentieri avrebbe Bartolomeo Colombo proseguito l’inseguimento e lo sterminio di quei malvagi. Ascoltò nondimeno il consiglio di tale che aveva veduti sopra un’eminenza i naturali in gran numero, e forse disposti a saltare sui combattenti, sotto colore di aiutare i sollevati, ma col proposito di opprimere i fedeli dell’Almirante. E di questo il consigliere non si loderà troppo, pensando che forse egli vide un po’ grosso, quel giorno; mentre forse era meglio sperdere in un colpo la mala semenza, poichè nessuno valeva forse meglio del loro capo prigioniero ed incolume, nè del suo fallito imitatore, lo speziale mastro Bernardo da Valenza; il quale, a detta del signor Almirante, avrebbe meritato d’esser fatto a pezzi non una volta ma cento.

“Bene o male che fosse, l’inseguimento cessò, e ritornammo ai navigli, menando prigione Francesco Porras con altri de’ suoi. Della nostra gente due soli i feriti; l’istesso Bartolomeo Colombo in una mano, assai leggermente, e un maestro di sala dell’Almirante, percosso di lancia in un fianco. Pareva una cosa di nulla; pure, in capo a pochi giorni, il disgraziato morì. Dei sollevati, per contro, moriva in battaglia Giovanni Sanchez di Cadice, quello che sulle acque del Betlem si era lasciato sfuggire il cacico Quibian, per avergli allentata in mal punto la fune; e taccio d’altri minori. Ferito in molte parti del corpo, e rovinato giù da una balza, guariva invece Pietro di Ledesma, il forte nuotatore che tuffatosi in acqua dalla nave di Colombo, aveva superata la barra del Betlem, giungendo alla piccola colonia dell’Adelantado, e riportandone per l’istessa via le tristi notizie al signor Almirante.

“E merita costui un particolare ricordo, per la stravaganza del caso. Per due dì, dal 19 maggio, che fu il giorno della battaglia, rimase in quella fossa, senza che alcuno sapesse di lui, o gli desse aiuto, tranne gl’Indiani; i quali con maraviglia, non sapendo come tagliassero le spade nostre, gli aprivano con istecchi le ferite; una delle quali nella testa, per cui si vedeva il cervello, un’altra in una spalla, che si era quasi spiccata; un’altra ancora ad una gamba, spaccata dalla coscia alla caviglia; un’altra finalmente (e questa non si sapeva come fosse avvenuta) alla pianta del piede, dal calcagno alle dita. Coi quali danni nello scafo, quando gl’Indiani gli davan più noia, diceva: lasciatemi stare, che s’io mi levo su, vi farò… E lo diceva con tal voce di tuono, che quelli spaventati la davano a gambe.

“Inteso di quel fatto sui navigli, volle pietà che fosse curato e portato in una capanna, per ripararlo dal freddo della notte, e dalle migliaia d’insetti che lo molestavano di giorno, minacciando di finirlo essi soli. Quivi, invece di usar trementina a ciò necessaria, gli medicavano le piaghe con olio bollente. Le quali furono tante, da far strabiliare il cerusico. Infatti, ogni giorno dei primi otto che lo medicò, gli trovava sempre qualche nuova ferita.

“La lezione domenicale del 19 maggio era stata così solenne, che la mattina del lunedì i superstiti fuggiti mandarono a chiedere misericordia. Si pentivano dei lor falli; volevano tornare alla obbedienza. E l’Almirante concesse un perdono generale, a patto che il Porras, capo ed istigatore, rimanesse in prigione, per non esser causa d’alcun nuovo tumulto, e che i pentiti non venissero sulle navi a leticare coi rimasti fedeli, o a seminarvi zizzanie. Questi, per miglior consiglio, sotto la scorta di un fidato ufficiale, mandò per l’isola al traffico, prendendo vettovaglie e dando cianfrusaglie in ricambio. Ed erano i baratti di questa forma; per uno o due utias, che son come conigli, si dava un ferretto di stringa; per una focaccia di pan di cassava, due o tre avemmarie verdi o gialle; per maggior quantità di cose, un campanello di ottone; ai capi delle tribù, che stavano ai patti, ora un piccolo specchio, ora una berretta rossa, ora un paio di forbici. Piccole cose, e di piccola utilità; ma sapevano contentarsene quei popoli agresti. Certo, in cuor loro pregavano Giocovagama che ci rimandasse in Azatlan, donde eravamo venuti. Amavano il Giocomina degli uomini bianchi; ed egli ne meritava l’amore. Ma quante anime nere, tra quegli uomini bianchi! Per un vero figlio del cielo, quanti Goeiz scaturiti d’inferno!„




Capitolo IV.

L’epistolario di Cicerone


– Chi dorme si svegli; – gridò il capitano Fiesco, deponendo i suoi fogli, poichè aveva finito il capitolo.

– Siamo qui con gli occhi aperti e le orecchie tese; – disse frate Alessandro.

– Continuate, signor conte, se le dame permettono che si abbia una volontà in loro presenza; – aggiunse il cerimonioso don Garcìa.

– Le dame veglieranno fino a mezzanotte, se occorre; – disse a lui di rimando madonna Bianchinetta, avendo un cenno di assenso dalla contessa Juana.

– Avete tutti i voti, capitano; – conchiuse Giovanni Passano.

– Non tutti; – riprese il Fiesco. – Vedo che Ovando e Bovadilla sbadigliano. Del resto, per continuare a leggere, bisognerebbe che n’avessi materia. E sono rimasto qui, non avendo per l’altro che un guazzabuglio di appunti. Debbo ancor raccontare mezzo mondo di cose: come e quando ci giunse la nave comperata dal Mendez, e un’altra mandata per vergogna dal gran commendatore di Alcántara; come si partì finalmente il 28 giugno dalla spiaggia di Maima, un anno e quattro giorni dopo averci dato in secco per nostra salute; come si giunse il 13 agosto nel porto di San Domingo, dove il nostro grande e sant’uomo ricevette senza perdere la pazienza le mendicate giustificazioni e le false proteste d’amicizia dell’Ovando; mentre a costui doveva scusarsi Bartolomeo Fiesco, per quanta poca voglia ne avesse, dell’essersi allontanato da San Domingo, senza prender commiato da quel suo svisceratissimo amico; intanto che un bel mozzo tinto di carbone la faccia e le mani, un frate francescano più soldato che frate, e un certo don Garcìa travestito da marinaio e più nero del mozzo, si tenevano prudentemente sotto coperta. Come Dio volle, uscimmo da quella trappola il 12 settembre, dopo essere stati un mese coll’anima in soprassalto, per passare cinquantasei giorni sempre sospesi tra morte e vita, da San Domingo nel nuovo mondo a San Lucar di Barrameda nel vecchio. Che mare, vi ricordate? Cristoforo Colombo non l’ebbe mai peggio in sua vita. Ed anche si può dire che l’Atlantico serbasse i suoi furori solamente per lui, non lasciandogli, salvo nell’approdo a Guanahani, un giorno intiero di pace. Agli altri navigatori sempre mare tranquillo, e vento in fil di ruota! È giusto, dopo tutto. Quello è il grand’uomo, epico e tragico ad un tempo; debbono dunque esser sublimi di angosce mortali tutti gli accidenti della sua vita. Gli altri sono i curiosi che vanno sull’orma, i mediocri che seguono il solco tracciato da lui. Cabral, d’Ojeda, Vespucci, Cabotto, ed altri, quanti siete o sarete, che la fortuna manderà innanzi a pedate, affrettatevi a dimenticare quello che il gran Genovese ha operato per benefizio di tutti, non avendone altro che amarezze dagli uomini e tradimenti dalla vostra cieca signora. Ma basti di ciò, se pure non ho detto già troppo; – conchiuse il capitano Fiesco, prudentemente ammainando la vela. – Volevo dirvi che da San Domingo a San Lucar ce ne avrò ancora per quattro o cinque capitoli; dopo di che prenderò a raccontare la nostra particolare odissea, dalla Giamaica ad Haiti, e da questa a quella ritornando, con tutto quello che c’è stato di mezzo. Sarà l’episodio nel poema eroico del nostro immortale cittadino; ma che episodio, siatemene voi testimoni! e ditemi ancora se per me non debba esser piuttosto il poema. Lo scriverò, mettendoci tutto il tempo che sarà necessario, e lo lascerò per ricordo ai Fieschi delle generazioni future.

– Lo darete alle stampe, speriamo; – disse il Passano.

– Questo poi no. Ai Fieschi, ho detto, e non ai fischi; – ribattè prontamente l’autore. – Dimmi tu ora, Giovanni dell’anima mia, se con questa allegrezza della Gioiosa Guardia, dove ho portato con me il premio maggiore che uomo potesse sperare dei patiti travagli, e con l’onesto desiderio di lasciarne memoria ai dolci nepoti, io possa risolvermi di lasciare questo mio nido di pace per le chiamate del colle di Carignano.

– Che c’è? – disse Juana, turbata a quel cenno improvviso.

– Leggi; – rispose il Fiesco, levando dal giustacuore la lettera che poche ore prima gli aveva consegnata Giovanni Passano.

Poi, rivolgendosi al suo luogotenente, soggiunse:

– Caro mio, non ti maravigliare. Per mia moglie e per mia madre non posso avere segreti. —

Fior d’oro, intanto, aperto il foglio sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, a mezza voce leggeva. E noi leggiamo con lei la lettera dell’eccelso ed illustre Gian Aloise Fiesco:


“A messer Bartholomeo Feisco nostro amato parente nec non viro excellentissimo

“Havemo ricevute a suo tempo le doe lettere che Voi ne mandasti per lo cavallante Nicholin di Baceza et per lo ballestero Anthonio de Rì. Le quali ne hanno immensamente allegrato per quello che diti de la vostra bellissima sposa et de la nostra nobile cugina Bianchineta che Dio vardi. Ma similmente non intenderne che Voi vi adormentati in ocio de Gioyosa Guardia, come novo Hercule in Lydia, salva sempre la gratia de la celeste Fior d’auro; non parendone digno di cavallier come Voi et experimentato in tanti famosi incontri de terra e mar, di restar lontano et alieno da quelle imprese dove se guadagna gloria et roba per lustro d’el nome et potencia de la casata. Ergo è nostra mente che Voi vegniate quam primum poteritis a trovarci in Violato; che se noi facessimo come ne avressimo bon desiderio una seconda volta il viaggio, li maligni inimici del Gatto direbbono forsi che noi tememo per lo nostro capitanato de Levante; il che non sarìa savio da parte nostra. Etiam molte cose haverei da dirvi et tute di grande importancia per Voi et per noi che dite di amare, nel che volemo ben credervi. Onde Vi preghiamo non fate dimora. Il nostro Giovan di Passano el ve dirà a bocca quanto sia nostra voglia di vedervi accanto a noi per quel molto o poco che vorrete restare. E Iddio vi tegna sempre in la soa santa custodia.



“Genue. Die V Martii A. D. 1506.

    “Vostro parente et bon servidore
    “Gioan Aloyse.„

Così la lettera dell’eccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior d’oro, com’ebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.

– Andrai? – diss’ella. – Gian Aloise ti prega.

– Andare è presto detto; – rispose Bartolomeo Fiesco. – Io non ci ho cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma sì; – rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva balenare dagli occhi di Fior d’oro; – io sono famelico di oscurità, che è principio di pace, e quell’altro laggiù vuol tirarmi in luce di meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche nostra madre, che è vissuta tanti anni senza di me, ha bisogno di rifarsi della lunga solitudine. Di voi non parlo, Juana, che mi dareste un ceffone più forte di quelli con cui accarezzate le guance alle finte povere della vallata. Qui si sta bene, ripeto, e meglio non si starebbe in nessun altro luogo. Desideri la vita operosa, con tutte le sue ansie, con tutte le sue illusioni e le sue delusioni, chi non l’ha ancora vissuta. È giusto che ognuno s’istruisca, e paghi i maestri del suo. Quanto a me, ho imparato abbastanza; onde dirò col poeta, di cui non ricordo più il nome:

Il porto è qui: speme e fortuna addio;
Già m’ingannaste, or fate ad altri il gioco. —

Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso, perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e tracannò il vino d’un fiato.

Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di confortare con nuove ragioni a bocca l’invito che recava per iscritto. Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui. La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela confermava il giudizio di Fior d’oro.

– Non vi piace la mia risoluzione? – diss’egli.

– Non dico questo, nè lo penso; – rispose la contessa. – Ma riconosco che ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci torna meglio.

– Oh, per questo, vedrai che lo potrò; – ribattè egli animandosi. – Non sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo piuttosto ch’egli tratta da re. Quando un re scrive “vi vedrò volentieri„, il cortigiano accorre senz’altro. Io non sono un cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare. Infine, che cos’è che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo; difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il mio scoglio, e ci fo il mestiere dell’ostrica. Quando mai si è preteso che l’ostrica lasciasse di far l’ostrica, per fare il pesce spada? —

Gli pareva d’aver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso e rizzarono gli orecchi, brontolando verso l’uscio:

– Che c’è? – disse il Fiesco. – Hanno sentito qualche cosa d’insolito?

– Rumore nel cortile; – rispose Polidamante. – Sembra uno scalpitìo di cavalli.

– Visite a quest’ora? – ripigliò messer Bartolomeo. – Vedrete che sarà Filippino.

– Ma che! – disse allora Madonna Bianchinetta. – Sono appena tre giorni che l’abbiamo veduto.

– E tre giorni sono qualche volta un secolo; – ribattè egli ostinato. – Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere. —

Comparve indi a poco sull’ingresso della cantinata un famiglio, che tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:

– Magnifico signore, è qui messer Filippino.

– Ah, Filippino!.. Ma se lo dicevo io!.. Questo qua veramente mi ha preso a proteggere. —

Fior d’oro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.

– Già… ecco… – balbettò egli allora. – Volevo dire che m’ha preso a voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge. Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per tanta bontà. —

Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer Filippino sull’uscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e d’un bel biondo di stoppa, come la natura benigna ne dispensa qualche volta alla umanità bisognosa.

Frate Alessandro e don Garcìa, fatta riverenza alle dame, erano spulezzati al primo annunzio della visita illustre. Li avrebbe seguiti volentieri Giovanni Passano, ma non n’ebbe il tempo. Del resto, arrivato quel giorno come un messaggero di Gian Aloise, egli era anche in quella casa un parente. Non appariva dunque un intruso; non doveva riuscire importuno, se anche i due Fieschi avessero a parlare di cose per le quali era venuto alla Gioiosa Guardia egli stesso.

– Siete dunque voi, Filippino? – gridò il capitano Fiesco, dischiudendogli quasi le braccia, ma fermandosi a mezz’aria per istendergli le mani. – A quest’ora ci capitate? Di passaggio, m’immagino, e vorrete pernottare da noi?

– No, non di passaggio, vengo appunto per voi; – rispose Filippino, arrossendo un poco. – Del resto, è sempre piacevole capitare a Gioiosa Guardia, che è tanto ospitale e benevola. Sapete bene che quante volte ho da passare di qua, non mi lascio sfuggir l’occasione di riverir le dame e di stringer la mano a Voi. Questa volta sono ambasciatore, o messaggero, o cavallante, come vorrete chiamarmi. Ecco una lettera di Gian Aloise.

– Dell’eccelso Gian Aloise? – esclamò il capitano Fiesco. – La seconda in un giorno!

– Infatti, sì; – rispose Filippino. – Egli mi ha detto della commissione che aveva data al nostro Giovanni Passano. Ma nella lettera a lui consegnata aveva dimenticato un punto di capitale importanza. Allora egli ha chiesto a me se mi sarei sentito…

– Di montare a cavallo, non è vero? – interruppe messer Bartolomeo. – E di galoppare a Gioiosa Guardia, dove gli amici son sempre così lieti di vedervi? Ma galoppando così, Voi avrete anche dimenticato di cenare; e se permettete, s’imbandirà subito per Voi. Polidamante!..

– No, vi prego, non fate nulla di nulla. Sapevo di non giungere in tempo per la cena, ed ho mangiato un boccone dall’oste del Rupinaro. Piuttosto, – soggiunse Filippino con grazia, – l’ho ancora qua nella gola, e gradirò che mi diate da bere.

– Allora, faccia Polidamante l’ufficio suo, e Voi siate contento a modo vostro. All’ospite non bisogna dar noia, per desiderio di mettergli la casa sulle spalle; – conchiuse saviamente messer Bartolomeo. – Ma intanto, – seguitò, volgendosi al Passano, – eccoti qui un oste del Rupinaro, che tu hai saltato nella tua rassegna stradale.

– Non l’ho saltato; – rispose il Passano. – Ho solamente risposto di sì a tutti i nomi che Voi dicevate.

– E perchè non ho detto quello, tu l’hai taciuto, manigoldo? Ma leggiamo questa lettera, che dovrebb’essere la seconda ai Corinzii. —

Mentre il capitano Fiesco parlava così, disponendosi ad aprire la lettera, messer Filippino faceva riverenza alle dame. Fior d’oro, contro l’usanza delle nuore, stava molto ai panni della suocera; e messer Filippino, che aveva una voglia spasimata di bisbigliare qualche cosa molto sottile e molto profonda a madonna Juana, dovette contentarsi di dirne molte assai comuni e leggiere a madonna Bianchinetta, parlando della salute, del tempo, della strada percorsa, e di simili altre bazzecole. Ma anche a ragionare d’inezie c’è il modo di andar nel sublime, o almeno di rasentarlo, con un buon lavoro d’occhiate compassionevoli, tremiti di voce e soavi inflessioni d’accento. Ora in quest’arte Filippino era passato maestro.

Gli occhi di Fior d’oro, badando poco agli atti di Filippino, andavano spesso al marito, spiandone i moti e ricercandone l’animo; cosa facilissima, perchè egli non usava nascondersi mai. Così lo vide batter le labbra, leggendo, tentennare il capo, e finalmente richiuder la lettera con un atto di grande impazienza.

– Ebbene, ve lo dicevo io, che non si può far sempre quel che si vuole? – gli bisbigliò ella, che già si era staccata dal fianco della suocera, per accostarsi a lui.

– Ma sì! Fior d’oro ha sempre ragione; – rispose egli avvilito. – Questo è più forte dell’altra. Leggila a nostra madre. —

Fior d’oro prese il foglio dalle mani di lui, e come aveva letto il primo sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, così lesse il secondo. Qui Giovanni Passano si mosse per andarsene. Messer Bartolomeo voleva trattenerlo, non vedendoci ragione; ma il suo luogotenente ottenne licenza con una argomentazione invincibile.

– Se quello che scrive Gian Aloise è tale da poterlo sapere ancor io, me lo potrete dire domani, prima ch’io parta; se non è tale, potrete tacerlo, ed io sarò felice di non averlo ascoltato. Voi anche mi avete insegnato a non esser curioso; e i fatti del prossimo sono spesso così poco interessanti! Aggiungete che in ogni cosa io sono vostro, ed altro non mi piace che di obbedirvi. Ora, se permettete, vo a prendere il fresco e a fare un po’ di chiacchiere con quei due, che sicuramente m’aspettano. —

Giovanni Passano aveva fatto un altro ragionamento tra sè, in forma di dilemma. Una delle due, diceva; o messer Filippino s’è fatto aggiungere un poscritto per averne occasione a capitare anche lui, e non bisogna essergli testimoni d’una puerile alzata d’ingegno; o Gian Aloise ha pensato di mandare per un secondo messaggero le cose più importanti o più gelose che non aveva confidate al primo, e non è bene che il primo resti a sentire ciò che porta il secondo. I grandi vanno serviti con discrezione, non mostrando troppa curiosità di capirli. Queste massime il Passano non le avrebbe pensate al Mondo nuovo; ma le doveva pensare e praticare nel vecchio, dove infine voleva far la sua strada, da onest’uomo, sì, ma senza dar nello sciocco.

La lettera di Gian Aloise diceva così:


“A messer Bartolomeo Flisco nostro caro cugino et strenuo cavalliere

“Il nostro Giovan Passano vi avrà data a quest’ora una lettera mia et significata la nicissità grande in che vivemo del vostro consiglio di valente huomo qual siete in così giovine età et forte non manco di braccio. Del quale come del consiglio poderia esser uopo, se Vi parerà esser da ciò, come noi Vi stimiamo. Sappiate ora che non solo è turbamento in città et gran confusione, per li popolari che sempre vorriano mettersi in loco di nobili, con dire che essi son nati in casa soa, di gente municipali romane et noi di fuori et stirpe di barbari: del che non so come possino haver certezza, non leggendosi in carta veruna se non questo, che i loro ascendenti furono gente della plebe arricchiti in vender grasce et navigar trafficando. Nè questo solo; ma ancora vorriano che s’aiutassi Pisa contro l’armi di Firenze, mettendo il Comune in tale impegno che non sia poi sicuro di sopportare. Etiam non possiamo noi dimenticare che per muover con oste a Pisa bisognerà passare per le terre del nostro capitanato; dove ogni grosso esercito che passasse facilmente sarìa tratto da desiderio a mutare quello che ivi è stato stabilito per l’onore de la nostra casata; et contrariamente un piccolo soccorso non bastando per salvezza di Pisa, trarrebbe le vendette di Fiorenza, non già contro il comune di Genoa lontano, ma contro li feudi nostri in val Magra, quali assai ne dee premere di tener fortemente. Ond’io meglio stimo che un potente signore abbia Pisa, il quale ne assicuri et conservi la libertà contra Firenze, potendo misurare gli aiuti al bisogno et non lasciarsi cogliere alla sprovveduta, come senza fallo userebbe il Comune nostro, sempre in tumulti et trambusti et confusione babelica. Il carico di tener Pisa par dunque a noi destinato dal cielo, non ad altro signore che già briga per ottenerlo, mettendosi in vista. Uomo nostro, intendente et valoroso per andar colà, sentir le opinioni et provvedere con pronte risolutioni io non vedo altri che Voi, nostro cugino amatissimo; che se gli animi dei Pisani, come io credo, fussino a noi inclinati, Voi subito di studioso ambasciatore e consigliero potresti mutarvi in capitano di armati, avendone noi già in Lunigiana ammassati quanti basteriano per il primo bisogno, e gli altri sarian pronti a seguire. Meglio di tutto ciò parleremo in Violato, ove è sempre gran desiderio de la vostra persona. Venite dunque; e se non basta a muovervi la nostra amicizia, Vi muova il consiglio di madonna Bianchinetta, orgoglio del nostro parentado, a la quale bacio divotamente le mani, come alla eccelsa sposa vostra incomparabil Fiordoro.



“Genoa, li V martio del 1506.

    “Sempre al vostro servitio et bon cugino
    “Gio: Aloixe.„

E indirizzo e firma apparivano un po’ diversi dall’una lettera all’altra. Ma così erano gli uomini di quel tempo, che all’ortografia badavano poco, anche per il fatto di non averla troppo sicura. Per altro, come si riconoscerà dal contesto di quest’ultimo messaggio, vedevano chiaro in quel che volevano, e non si lasciavano tirare nè di qua nè di là da pericolose incertezze.

Madonna Bianchinetta e la sua bellissima nuora erano rimaste sopra pensiero. Proponeva gran cose, l’eccelso Gian Aloise, e per accettare, come per ricusare il partito, bisognava meditarci su. Messer Filippino frattanto aggiungeva di suo, commentando l’epistola:

– Siamo in famiglia, e si può dire ogni cosa. I Pisani non vogliono essere oppressi da Fiorenza; e tanta è la ripugnanza loro a quel giogo, che vogliono piuttosto quello di Genova, dimenticando il colpo mortale della Meloria. Potrebbe Genova accettare l’invito, e noi di casa Fiesca goderne, se Genova fosse nostra più che non sia. La teniamo in parte, preponderandovi con l’aiuto del re Cristianissimo, a cui siamo d’aiuto pur noi, tenendogli in fede la Repubblica. Ma più teniamo e con maggior sicurezza la Riviera di Levante, quanta n’è dall’Appennino al mare tra la Scrivia e la Magra, non senza forti scolte nelle valli del Taro e della Baganza. A noi, non a Genova, si spetta di andare in soccorso di Pisa. Ma c’è qualcun altro che vorrebbe mettersi avanti in nostro luogo. Quest’altro non ve lo dice la lettera di Gian Aloise, perchè non tutto si confida allo scritto; ma egli è Gian Giacopo Trivulzio, il quale, se non forse quanto Gian Aloise Fiesco, è pur molto in grazia del re Cristianissimo. Non pare a Voi che in questo caso avrà ragione il primo che metta innanzi le mani? A questo occorre un uomo assai destro, che vada ad offrire gli aiuti, a concertarne il modo; e tutto ciò non in nome del Comune, che non sarebbe prudente consiglio aggravar dell’impresa, ma di quell’uomo che in Genova è più potente e a Pisa più prossimo per l’ampio dominio. Accettano? Sì, perchè nella estremità a cui sono ridotti non hanno altro partito. E Voi allora vi potete scoprir meglio, come capitano della gente che aspetterà un cenno vostro per accostarsi alla città, fronteggiare i Fiorentini e lasciare a terra il Trivulzio con le sue ambizioni. Questo in digrosso il pensiero del nostro eccelso parente; le cose minute vi dirà egli in Violata. —

Bartolomeo Fiesco stava fra due; nè già pei commenti di Filippino, che lo avrebbero anzi persuaso a dire un no tondo tondo, ma per la lettera di Gian Aloise. Si volse allora alla madre, domandandone con gli occhi il parere.

– È cortesia lo andare; – disse madonna Bianchinetta. – Se tu non puoi accettare, figliuol mio, dirai meglio le tue ragioni a voce, che non per iscritto. —

Si volse egli allora a sua moglie, e n’ebbe queste parole:

– Bisogna andare. Te lo avevo già detto per la prima lettera; e nella seconda son nuove ragioni, che mostrano anche molta fede in te. Si verrebbe meno alla fede di un tant’uomo, non andando alla chiamata.

– Ah! siate lodata, madonna Juana; – gridò Filippino giubilante. – Sarete voi la fortuna di casa Fiesca. —

Fior d’oro non potè trattenersi dal ridere.

– Vedete, – diss’ella, – da che distanze doveva ella venire!

– Eh! – rispose Filippino. – Le vie della Provvidenza son tante! Si partirà dunque domattina; – soggiunse. – Gian Aloise sarà così lieto di riverirvi! —

Correva troppo, messer Filippino bello; e fu fermato di schianto.

– Voi mi mettete d’un viaggio che io non farò certamente; – rispose Fior d’oro. – È delle donne custodire la casa. Stando accanto alla madre di mio marito, mi parrà di non averlo tutto perduto, per quei due giorni che vorrà durarne l’assenza.

– E se durasse di più? – domandò Filippino, che non voleva darsi per vinto.

– Allora… allora, si vedrebbe; – rispose conchiudendo Fior d’oro.

Quella sera, ritirandosi nelle sue stanze, il capitano Fiesco diceva alla moglie:

– Filippino mi annoia.

– Annoia anche me; – rispose Fior d’oro. – Ma è giovane; si cheterà. Intanto bisogna riderne.

– Potere! È lui, frattanto, il noioso che mi mette tutti questi impicci sulle braccia. Non lo vedi tu, che fa scrivere due lettere in un giorno, e ad un oscuro uomo come il tuo Damiano, dall’eccelso Gian Aloise Fiesco, potentissimo tra i signori d’Italia, ed amicissimo del re di Francia? Io, come dice frate Alessandro, faccio un ridosso ai Commentarii di Cesare: ma il vecchio di Violata vuol farne un altro alle Epistole di Cicerone, che son più di ottocento.

– Vedi? – gli disse sorridendo Fior d’oro. – Bisogna andare, perchè non n’abbia a scrivere altrettante.

– Andare, – riprese Damiano, più Damiano che mai in quell’ora, – e dirgli quel no, che avrei potuto mettere in carta?

– Non è certo, – replicò la bellissima donna, – che quel no si possa scriver meglio, potendolo dire con garbo, dopo aver sentite tutte le ragioni del tuo nobil parente. Ci penserai, del resto, le peserai attentamente. Potresti anche lasciarti persuadere da qualche ragione più forte, che toccasse l’utilità della casa e l’onor del tuo nome. La ragione più forte non ci sarà? Il tuo no sembrerà detto dopo aver meditato, e ad ogni modo ne avranno scemato l’asprezza le parole cortesi e la stessa tua condiscendenza all’invito. —

Damiano guardò Fior d’oro con tenerezza, e le pose al collo le braccia.

– Bella bocca! – le mormorò. – Bella bocca, che parla così bene!

– Bella! – ripetè ella con accento malizioso. – E non cara?

– E bella e cara, – gridò Damiano, con uno de’ suoi impeti di passione, – e, se vi piace di saper tutto, adorata. —




Capitolo V.

Al soccorso di Pisa


Il palazzo di Gian Aloise Fiesco sorgeva sul colle di Carignano, accanto alla chiesa patronata che un cardinal Luca Fiesco, diacono di Santa Maria in Vialata a Roma, aveva ordinato nel 1336 fosse eretta in Genova col medesimo titolo; donde il nome di Vialata si stese a tutta quella parte della collina, corrompendosi poi nel dialettale “Viovâ„ per rifarsi ancora italiano in “Violato„ e dar occasione a qualche moderno di derivarlo “dalla copia delle viole che vi nascevano e soave fragranza diffondevano intorno„. Chi sente l’arcana poesia dei fiori può anche contentarsi di questa etimologia, che ha dopo tutto il gran merito di suscitare graziosi pensieri.

Non ne suscitava di tali il palazzo, edificato presso il fianco sinistro e perciò a mezzodì della chiesa, con la quale faceva angolo il suo fianco destro, conterminando il piazzale di quella fino al bastione, che in guisa di belvedere si stendeva lassù verso ponente per un gran tratto del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la mole dell’antico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di vele, che uscivano dal porto o venivano all’approdo, passando sotto i suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle d’Albaro, colla imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.

Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che dall’Acquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente, ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato appena il convento e la chiesa de’ Servi, si levava pel dorso della Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale dell’edifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica, onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre, inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con bell’arte d’intagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro, rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto, certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare d’un capo d’aquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli scudi e l’arme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. Nè mancava la “conoscenza„ ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era murata la targa indicante il privilegio d’immunità dalla forza della giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli dell’edifizio, si vedevano scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni “ultra quae non licebat satellitibus homines infestare„.

Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII, che alloggiò in Vialata nell’anno 1502, ebbe a dire, certamente prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia. Io, per amore dell’arte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove; motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata, abbattendone l’orgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo fastoso.

Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dell’Aquila, finalese, e da Giacomo Serfoglio, da Salto, l’eccelso Gian Aloise ricevette il parente aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei vecchi. Là dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce, alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale. Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna, riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e là in vistose credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo; idrie, guastade d’argento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti d’argento istoriato, confettiere d’argento niellato alla barcellonese. Ma più assai delle opere d’orefice, più ancora d’una collana di grosse perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi ond’erano coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal piede d’argilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.

Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò l’eccelso Gian Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin d’allora si chiamava “da consigli„ poichè già si fabbricava a quell’uso, di coprir tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno d’ebano intarsiato, nel manico d’argento del temperatoio, e sul pernio delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il consapevole orgoglio d’un principe. Non ci maravigliamo se mirasse al dominio di Pisa.

Dall’anno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver libera, e quella volendo signoreggiarla. Nè a Genova nè al suo potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero maggiormente l’imperio, poichè non solo questi agognavano l’occupazione di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si accoglieva l’ambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi. Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso, salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quell’altre, che pur da talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dall’altro. Ma l’appoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro, e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali, lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV, in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel primo trentennio del secolo XVI andar pienamente d’accordo i Fieschi coi Doria.

Tornando alle offerte di Pisa, com’erano fatte solennemente al Senato genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa. Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante. Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che la Riviera di Levante aperta a quell’esercito; onde per allora scemata l’autorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto l’util dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei Fieschi.

Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balìa. E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse lui, se n’esplorasse l’animo, prima di deliberare il soccorso di Pisa. Così nascevano le due ambasciate d’ufficio; una ai Pisani, per dar buone parole, l’altra al re Luigi, per averne il parere.

Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar l’animo dei Pisani, mandando loro un altr’uomo per chiedere se il valido e sicuro aiuto d’un gran signore genovese non potesse convenir loro assai più dell’incerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti, occorreva che l’uomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente agli interessi del futuro padrone.

Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi e piccole, che gli argomenti tutti dell’oratore e tutti i lenocinii dell’arte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il capitano Fiesco accettava di esser egli l’uomo per Pisa, il partito di soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio sarebbe rimasto colla voglia; i popolari genovesi non avrebbero più potuto alzare la testa; mentre dal canto suo Gian Aloise avrebbe posseduta di schianto una tal potenza principesca, da pesar poi, bene o male, ma sempre moltissimo, sulla bilancia mal certa delle fortune d’Italia.

Ma il capitano Fiesco non voleva esser quell’uomo. Più sentiva ragioni che lo dovessero smuovere, più ne trovava da opporre. Lo aveva giudicato male, il suo eccelso parente, argomentando di lui da sè stesso.

– Ahimè! – diss’egli, quando vide venire quell’altro a mezza spada. – Riconosco la bellezza audace del vostro disegno; ma tanta bellezza e tanta audacia non sono il fatto mio. Senza contare che io non son destro ai maneggi politici, e mi ci troverei davvero come un pesce fuor d’acqua, penso che nella parte militare dell’impresa fallirei per precipitazione, che è il guaio dell’indole mia, e di cui non son mai riescito a guarirmi. Troppo grande è il carico che vorrebbe darmi la vostra fiducia, ed io sono troppo piccolo uomo.

– Ma pensate, – replicò Gian Aloise, non vedendo altro nella risposta del capitano Fiesco che un effetto di modestia soverchia, – pensate che sareste spalleggiato da tutti. Duemila uomini son pronti a Sarzana, e mille a Pontremoli; tutta gente che al vostro cenno correrebbero sotto Pisa. Non vi parlo della gente che ho tra Rapallo e Lavagna, che ben sapete quant’è. L’avreste tutta, come si suol dire, sotto la mano.

– Ripeto, non è il fatto mio; – ribattè Bartolomeo Fiesco. – Voi mi fate più esperto capitano che io non mi sia mai sognato di essere. Chi ha comandato i cento, e magari i cinquecent’uomini, può ritrovarsi con diecimila impacciato come un pulcino nella stoppa.

– Eh via! s’ha da credere? Chi è stato a tanti sbaragli, meritando la lode e l’affetto del vicerè delle Indie occidentali, non vorrà mica perder la testa in una faccenda che deve andare da sè.

– Se deve andare da sè come Voi dite, perchè metterci a capo un uomo che mostrate di stimare più ch’egli non sia stato mai? Ogni altro, che abbia risolutezza, dovrebbe bastare.

– Risolutezza e perspicacia; – ripigliò Gian Aloise. – E perspicacia ed ambizione di far bene. Non avete Voi ambizione?

– No; – rispose Bartolomeo Fiesco.

– Per un Fiesco, è nuova; – ribattè Gian Aloise. – Per Bartolomeo delle Indie, è strana. —

Lo toccavano sul vivo; e naturalmente gli saltò la mosca al naso; che la pazienza non era mai stata il suo forte.

– Ecco; – diss’egli, assumendo a suo modo una cert’aria di gravità e promettendo colla solennità dell’accento un lungo discorso; – facciamo ad intenderci. Ne ho avute, delle ambizioni; e potrei averne ancora, ma in un campo diverso. Bartolomeo delle Indie, avete detto, e sta bene. Rimandatelo dunque alle Indie. Qui si fanno gran cose, che potranno riuscir piccine alla prova; laggiù si fan cose piccine, che potranno esser grandi. E questo, badate, non per diverso vedere, ma perchè laggiù si taglia dalla pezza, potendo fare una cappa da gentiluomini, mentre qui si raccozzano scampoli e stracci, volendo cucirsene un manto reale. Perchè questo? Perchè qui siamo gli eredi di un gramo passato, e in molti e in troppi ci contendiamo un osso già spolpato da Goti e Greci, da Longobardi e Franchi, da Ungheri ed Alemanni; un osso, mi capite? che oggi han preso a smidollare Francesi e Spagnuoli. Laggiù, vivaddio, non si è eredi di nessuno; laggiù si può esser magari gli autori della stirpe e gli arbitri del futuro, preparandolo con libertà, bene o male, meritandone la gratitudine o le maledizioni dei posteri.

– Spaziate come un’aquila, cugino! – esclamò Gian Aloise.

– E sarò un nibbio, poi; – rispose il capitano Fiesco. – Ma vedo, se permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato di più in compagnia d’un uomo grande, l’unico grande che mi offrano le storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre vanità, quando vanno più alte. Il mio grand’uomo, col suo ingegno e colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quell’altro, con la sua forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.

– Povero a voi, se foste vissuto a’ suoi tempi! neanche un paladino avreste voluto diventarci?

– Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo, avendo la Riviera di Levante per via, e la foce d’Arno per meta, sia pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere l’utilità, non ne vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia, niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del crescite et multiplicamini. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra mill’anni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno, ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un po’ del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.

– Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri; – notò Gian Aloise imbizzito.

– E faran bene, vedete? – ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco. – I vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire, avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera, nell’opera stupenda, indimenticabile, eterna, d’un uomo nuovo, d’un marinaio, d’un lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete, oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che m’era più a grado, e il cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la certezza d’una pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco l’onore e la sicurezza dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal posto mio non mancherei all’appello. Ma questo per difesa, e sentendo la voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come l’ultimo degl’imbecilli. Facciamo l’obbligo nostro, cediamo alle necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei vincoli cari ch’egli stesso s’è imposti. Non mi date ragione?

– Siete un bel matto; – disse Gian Aloise, ridendo.

La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebb’egli potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra tanti consanguinei, nè tra gli aderenti più saldi, l’uomo che potesse andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto com’era, l’eccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile, egli avrebbe perduta, non che l’impresa, la fama.

Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando di parlar d’altro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo; i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere l’eredità di tutti, avendo poi da Maria della Rovere l’ultimo dei Gian Luigi, e il più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po’ offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone d’un uomo nuovo, d’un lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo. Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte avevano contratto parentado con essi, e da trecent’anni si erano illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.

Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior d’oro, lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei, certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti all’eccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da quell’alzata d’ingegno del giovane innamorato!

Il capitano Fiesco aveva preveduto l’effetto del suo rifiuto sull’animo di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla morire del tutto, nè altrimenti mostrarsi impacciato.





Конец ознакомительного фрагмента. Получить полную версию книги.


Текст предоставлен ООО «ЛитРес».

Прочитайте эту книгу целиком, купив полную легальную версию (https://www.litres.ru/barrili-anton-giulio/raggio-di-dio-romanzo/) на ЛитРес.

Безопасно оплатить книгу можно банковской картой Visa, MasterCard, Maestro, со счета мобильного телефона, с платежного терминала, в салоне МТС или Связной, через PayPal, WebMoney, Яндекс.Деньги, QIWI Кошелек, бонусными картами или другим удобным Вам способом.



Как скачать книгу - "Raggio di Dio: Romanzo" в fb2, ePub, txt и других форматах?

  1. Нажмите на кнопку "полная версия" справа от обложки книги на версии сайта для ПК или под обложкой на мобюильной версии сайта
    Полная версия книги
  2. Купите книгу на литресе по кнопке со скриншота
    Пример кнопки для покупки книги
    Если книга "Raggio di Dio: Romanzo" доступна в бесплатно то будет вот такая кнопка
    Пример кнопки, если книга бесплатная
  3. Выполните вход в личный кабинет на сайте ЛитРес с вашим логином и паролем.
  4. В правом верхнем углу сайта нажмите «Мои книги» и перейдите в подраздел «Мои».
  5. Нажмите на обложку книги -"Raggio di Dio: Romanzo", чтобы скачать книгу для телефона или на ПК.
    Аудиокнига - «Raggio di Dio: Romanzo»
  6. В разделе «Скачать в виде файла» нажмите на нужный вам формат файла:

    Для чтения на телефоне подойдут следующие форматы (при клике на формат вы можете сразу скачать бесплатно фрагмент книги "Raggio di Dio: Romanzo" для ознакомления):

    • FB2 - Для телефонов, планшетов на Android, электронных книг (кроме Kindle) и других программ
    • EPUB - подходит для устройств на ios (iPhone, iPad, Mac) и большинства приложений для чтения

    Для чтения на компьютере подходят форматы:

    • TXT - можно открыть на любом компьютере в текстовом редакторе
    • RTF - также можно открыть на любом ПК
    • A4 PDF - открывается в программе Adobe Reader

    Другие форматы:

    • MOBI - подходит для электронных книг Kindle и Android-приложений
    • IOS.EPUB - идеально подойдет для iPhone и iPad
    • A6 PDF - оптимизирован и подойдет для смартфонов
    • FB3 - более развитый формат FB2

  7. Сохраните файл на свой компьютер или телефоне.

Книги автора

Последние отзывы
Оставьте отзыв к любой книге и его увидят десятки тысяч людей!
  • константин александрович обрезанов:
    3★
    21.08.2023
  • константин александрович обрезанов:
    3.1★
    11.08.2023
  • Добавить комментарий

    Ваш e-mail не будет опубликован. Обязательные поля помечены *