Книга - I rossi e i neri, vol. 1

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I rossi e i neri, vol. 1
Anton Barrili






I rossi e i neri, vol. 1





PARTE PRIMA





I


Nel quale si discorre del bel tempo e si fa la conoscenza di qualche personaggio.

Era uno dei primi giorni di febbraio, nell'anno di grazia 1857, ed era, a mal grado della stagione, una bella giornata. A Genova le belle giornate, anco nel cuore dell'inverno, sono la cosa più naturale del mondo. Il cielo è sereno; il sole non si contenta di mostrarsi in tutta la sua splendidezza, ma vi scalda sovrammercato; l'aria è tiepida, sarei per dire balsamica. E perchè no? In questa città i fiori durano nei giardini come nelle stufe, solo che vi pigliate la briga di ripararli dal vento. Quando fanno di queste giornate, i genovesi escon dal chiuso e vanno a passeggio, benedicendo alla provvidenza, che ai giorni di pioggia, di vento e di neve, alterna qualche settimana di questi giorni, che di là dalle Alpi ne vede pochi l'Europa nelle sue più famose primavere.

Per le strade e pei vicoli, non essendo giorno di festa, si vedeva il solito viavai: ma un attento osservatore avrebbe facilmente notata l'assenza dello zerbinotto e della signora elegante. Infatti, era un lunedì, e il veglione del teatro Carlo Felice era finito alle sei del mattino. Le belle dormivano; e l'ora dei belli, come la dicono a Genova con frase molto gustosa, non era anche suonata. I belli duravano ancora nel primo sonno, quantunque fossero le undici all'orologio delle Vigne, le undici e un quarto a quel della Posta. Notiamo di passata che gli orologi di Genova non sono punto dissimili da quelli delle altre città. Tutto il mondo è paese.

Il sole (non si sgomentino i lettori, che qui non si fanno descrizioni retoriche) il sole indorava i tetti di lavagna e faceva scintillare co' suoi raggi i vetri delle finestre; s'intende di quelle che erano chiuse, perchè dove c'erano finestre aperte i raggi entravano senza chieder licenza. E noi che per il nostro ufficio di narratori non dobbiamo chiederne mai, ci metteremo a cavalcioni sopra un raggio di sole, come faceva il fantastico Oberon sui raggi di luna, ed entreremo per una finestra, che in quel giorno, a quell'ora, si ritrovava aperta, a ricevere i tiepidi saluti di un'aria ristoratrice.

La casa in cui dobbiamo far entrare il lettore insieme con noi, era una vecchia casa di tre piani, posta in via Luccoli. Sebbene di modesta apparenza, lasciava intendere com'ella fosse stata la dimora di una di quelle famiglie consolari, la cui nobiltà risaliva più su delle Crociate, descritta a caratteri di buone opere e generosi sentimenti di virtù cittadina nel libro d'oro della storia. Più tardi la lunga consuetudine del potere, il fasto, la magnificenza del vivere, diedero origine a più orgogliosa forma di patriziato, e si fabbricarono i sontuosi palazzi, con le ville principesche. Ma noi, rispettando i palazzi che attestano lo splendido uso delle ricchezze, e i vecchi nomi non indegnamente portati da tardi nepoti, corriamo più volentieri con l'animo alle memorie di Genova popolana, anteponendo i modesti ricordi d'Almèria, di Tolemaide, di Caffa, alle pompose tradizioni del Consiglietto, con la flotta francese innanzi al Molo vecchio, o con le soldatesche del Botta Adorno entro le mura di Genova patrizia.

Le pietre nere riquadrate formavano la base e il primo piano della casa accennata; e la cornice sotto il secondo piano, colla sua fila d'archetti del vecchio stile lombardo, era anch'essa di pietra dello stesso colore, venuta dalle cave di Promontorio. Anticamente la casa aveva posseduti i suoi portici; ma da un pezzo il vano tra le colonne si era rimpicciolito ad usci di botteghe, e le colonne bisognava indovinarle sotto l'intonaco profano di secoli più recenti. Gli eruditi diranno a chi fosse appartenuta quella casa, e per qual filiera di vendite fosse caduta in balìa di un mastro Nicola Ceretti di Molassana, antico muratore, fattosi ricco più tardi del suo milioncino, e di un figlio unico, il quale, tranne il nome profumato di Arturo e la naturale differenza d'età, era tutto suo padre.

Ma dei Ceretti non dobbiamo darci pensiero per ora. Siamo ai primi di febbraio dell'anno 1857, ed entriamo con un raggio di sole per una finestra al terzo piano della casa in discorso, la qual finestra ci lascia vedere un mondo di cose nella cameretta a cui ella dà il conforto della luce e dell'aria.

Anzitutto, nel fondo, un letticiuolo, appoggiato con una sponda alla parete; al capezzale un comodino colla sua lastra di marmo ingombra per metà da una catasta di libri, a cui faceva la guardia una candela stearica mezzo consumata, su d'un candeliere che voleva parere di bronzo lavorato. Lì presso un cassettone di noce, ma di quella forma bizzarra, ricca di sporti e d'intagli, che consola i dilettanti d'anticaglie, e anch'esso col suo ripiano ingombro per una parte di libri. Poco distante dalla finestra, e collocato pel buon verso ad avere da sinistra la luce, stava un tavolino, che s'atteggiava a scrivania.

Non dimentichiamo uno specchio appiccato alla parete, presso il vano della finestra, e sopra lo specchio un certo trofeo di spade e sciabole in croce; più lungi, in un angolo, un fucile di guardia nazionale, con la sua baionetta voltata all'ingiù, e con larghe chiazze di ruggine, che attestavano i suoi scarsi servizi, lasciando supporre che il suo padrone andasse più sovente ad onorare di sua presenza la sala di disciplina nel vicolo dei Salvaghi, che non il portone del palazzo municipale.

Non finiremo questa breve descrizione senza accennare due quadri a olio, di mezzana grandezza, che presentavano le figure di un uomo e di una donna. Questa era una signora sui quaranta, d'una appariscente e serena bellezza di forme, quantunque il pittore coscienzioso avesse dovuto correggerne lo splendore con qualche ruga alle tempie, un cerchio turchiniccio intorno agli occhi malinconicamente affondati, e molti capelli grigi tra i neri. Questo ritratto di donna aveva molta somiglianza, nel complesso dei lineamenti, con l'unica persona viva, di sesso mascolino, che veniva passeggiando per la camera.

L'altro ritratto era quello di un bel soldato, con le insegne di colonnello; stupenda testa, con grandi baffi e pizzo tra il biondo e il castagno, spaziosa la fronte, nobile lo sguardo e pieno di bontà. Il pittore, per un tratto di bizzarria non insolito in questo genere d'arte, aveva dipinti gli occhi del colonnello in guisa che parevano sempre guardarvi, da qualunque lato vi foste messo a contemplarlo.

Infatti, il giovine Lorenzo Salvani passeggiava su e giù per la camera, e gli occhi di suo padre erano sempre fissi su lui. L'amore di Lorenzo per suo padre era stato immenso, e pareva a lui, anima di poeta, di non averne perduto l'amore, se, alzando gli occhi al quadro, vedeva sempre il suo buon padre sorridergli.

I lettori non saranno scontenti di noi, che senza tanti preamboli, abbiamo messo loro dinanzi l'inquilino di quella camera, visitata __ex abrupto__ e senza passare per l'uscio. Eglino sanno ora che costui si chiamava Lorenzo Salvani, che era giovine, ed anche poeta. Intendiamoci, per altro; era poeta, e scriveva di molto, ma la sua musa vereconda non aveva ancora gittato una strofa, o una pagina di prosa ai dispregi del pubblico.

Lorenzo aveva venticinque anni, e studiava leggi all'Università. Bene avrebbe potuto strappare la laurea qualche anno prima, se i suoi studi, ch'erano stati altrettanto sodi quanto precoci, non avessero patito una troppo lunga interruzione, durante la quale egli si era addottorato nella disciplina delle armi, alla difesa di Roma, del 1849.

Ritratto non ne faremo, perchè non si capisce mai niente in questa descrizione di bocche e di nasi, che è il forte di certi romanzieri; o piuttosto lo faremo a spizzico, quando ci venga in taglio di accennare a questi particolari. Era di capel bruno, di statura giusta, pallido, con due occhi affondati e grandi come quelli di sua madre. Aveva sempre sulla fronte una grand'aria di malinconia, diradata a tratti da pazzi impeti di allegrezza, così forti e così brevi, da non parere schietta espressione d'una gaia natura. Andava molto volentieri vestito di nero, e colle mani inguantate. Nel momento in cui lo troviamo, nella sua camera e solo, passeggiava in maniche di camicia, con le mani raccolte dietro le spalle, come usava Napoleone il grande, e come doveva esser costume di Alessandro Macedone, se è vero che tutti i grandi uomini si rassomigliano nelle piccole cose.

Uno zibaldone squadernato lo aspettava inutilmente sul tavolino che sapete. Egli già da un'ora andava misurando i sei metri di lunghezza della sua camera; e chi sa quanto avrebbe passeggiato ancora a quel modo, se un leggero batter di nocche sull'uscio non gli avesse rotto il filo delle meditazioni, e se, mentre egli alzava la fronte, l'uscio, che era appena socchiuso, non si fosse aperto tanto da lasciar passare nel vano la più bella testa che Iddio avesse mai posta sugli òmeri di una donna; una di quelle belle teste genovesi, ritratte con tanto amore dai pennelli del Vandyck, piene di vita e di leggiadria, dagli occhi sereni, che promettevano di diventar languidi un giorno, se già non erano a mezzo, per l'ombreggiamento delle lunghe ciglia. Il collo era forse d'una linea troppo lungo, per un sottile ricercatore del bello assoluto; ma il bello relativo ci aveva il conto suo, per dare un ragionevol sostegno ad una abbondanza prodigiosa di capelli neri e lucenti, che la fanciulla stentava ogni mattina a chiudere nel minore spazio possibile.

– Lorenzo, – diss'ella con un bel suono di voce argentina, – cercano di voi.

– Di me? – chiese il giovine, trasognato. – E chi mai?

Per intendere la maraviglia di Lorenzo bisognerà sapere ch'egli non riceveva nessuno. Amici ne aveva pochissimi, piuttosto conoscenti che amici; e se gli occorreva di accennare il numero del suo uscio di strada, non era certamente con aria d'invito. Non usava dimestichezza colla gente, e non ne lasciava prendere; a molti aveva reso servizio, senza chiederne mai a sua volta. Però gli era venuta la fama di carattere chiuso, solitario, ed anche un tantino ombroso; tranne i saluti di necessità, e le fermate di convenienza, non s'indugiava egli con la gente, nè la gente inclinava a trattenerlo per via.

Soltanto l'Assereto, un antico suo compagno di scuola, aveva il privilegio di andare attorno con lui; e allora a vederli erano passeggiate lunghissime, in città, e fuori le porte. Ma i due amici si vedevano di rado. L'Assereto era un giovinotto così affaccendato nella piazza de' Banchi; Lorenzo Salvani, dal canto suo, viveva così immerso ne' suoi studi, che l'amicizia, l'intrinsichezza loro passava quasi inosservata; e il nostro Salvani restava sempre, nel concetto dei giovani, il solitario e l'ombroso di prima.

Lorenzo aveva chiesto adunque chi fosse il nuovo e inaspettato visitatore.

– Un signore, – rispose la fanciulla, – che dice di essere vostro amico. Michele non ha saputo ridirmene il nome; lo ha fatto passare nel salottino, ed io sono venuta ad avvertirvene.

– Grazie, buona Maria! – E lo sguardo del giovine si fece tutto amorevole, per accompagnare quelle tre parole. Così nella voce, come negli occhi, era una espressione ineffabile di tenerezza quasi paterna.

Mentre egli s'era voltato per indossare il soprabito, si sentì sfiorare il volto da qualche cosa, che, descritta in aria la sua curva, venne a cadergli da' piedi. Era un mazzolino di viole mammole, ch'egli si chinò prontamente a raccogliere. Rivòltosi da capo verso l'uscio, Lorenzo Salvani vide ancora la testa di Maria, che lo guardava e rideva.

– Orso! – gli disse la fanciulla, temperando col sorriso il rimprovero. – Non siete venuto neanche a dirmi buon giorno, questa mattina, e non meritate che sia dato a voi in altra maniera.

– Voi sarete sempre migliore di me; – rispose Lorenzo, mentre riponeva il mazzolino tra le risvolte della sottoveste. Sono un orso; è proprio vero.

– Oh, come la pigliate voi? Non lo dico già perchè sia vero; – replicò la fanciulla, mettendosi sul grave. – So bene, io, che lavorate tanto, e pensate ancora di più. —

Quindi levati gli occhi al ritratto della madre di Lorenzo, le scoccò un bacio colla punta delle dita, e disparve.

– Chi è mai quest'importuno? – chiese a sè stesso Lorenzo, imitando senza avvedersene il conte Almaviva nella prima scena del __Barbiere di Siviglia__.

E si mosse, per andare nel salottino.




II


Nel quale si dimostra come da buona pianta abbia a venir sempre buon frutto.

Il primo a dir ciò, sebbene con diversa immagine, è stato Orazio Flacco, in uno di quei versi, che vincono il bronzo al paragone. Verrà il giorno, pur troppo, che in Italia non si saprà più il latino; ma in qualche altro paese non lo avranno dimenticato; i versi del nostro amico Orazio si leggeranno ancora, e si citerà sempre il suo aureo dettato: __fortes nascuntur fortibus et bonis__.

Questo ricordo classico avrà fatto intendere al lettore il nostro proposito. In quella che Lorenzo Salvani va a ricever quell'altro, che ancora ignoriamo chi sia, non sarà male che diciamo qualche cosa intorno alla famiglia del nostro giovine amico.

Il colonnello Salvani, già da due anni dormente il gran sonno, era stato a' suoi tempi uno di quegli uomini che ad una mente eletta e ad un cuor di leone accoppiano una squisita delicatezza di sentire. Grande sventura, essere cosiffattamente dotati dalla natura; perchè queste splendide virtù, con le quali si potrebbe fare il mondo, se fosse ancora da fare, e soprattutto se francasse la spesa di farlo, non riescono in quella vece se non a cozzar le une con le altre, o a renderci sventurati, in un mondo già fatto, anzi così mal fatto come ognun vede. Rigo Salvani, andando molto diritto sulla via del dovere, seguendo il bene e propugnandolo in ogni occasione, aveva avuto di molte amarezze, perfino nella ristretta cerchia de' suoi amici e compagni di lavoro. In politica il cuore è un viscere inutile, spesso anche dannoso; ed egli era così venuto, per una lunga trafila di disinganni, a disdegnare il genere umano, con tutta la migliore intenzione che aveva di amarlo.

In assai giovine età Rigo Salvani aveva preso a congiurare, ed era uno dei più animosi soldati di quella falange sacra, decimata prima dai patiboli di tutti quanti i governi della penisola, poscia dai campi di battaglia, e schernita più tardi da una generazione di sconoscenti, i quali si figurano di aver fatta essi la patria, perchè hanno comperato cartelle del debito pubblico molto sotto alla pari, o perchè hanno messo mano in laute imprese industriali. Ai tempi di Rigo Salvani l'amor di patria non fruttava nulla in quattrini; e neanche in onori, salvo alle volte il cordone dell'ordine riverito di mastro Impicca.

Ma lasciamo da parte queste malinconie. A Bologna, in una di quelle spedizioni di carbonaro, o giù di lì, Rigo Salvani si era invaghito di una nobilissima donna, e l'aveva fatta sua, nè parve che quelle nozze scemassero l'audacia e la costanza del congiurato. Profondamente innamorata di lui, animosa e paziente, Luisa Salvani fu una forza nuova, non già un ostacolo ai propositi dell'intrepido uomo.

Il primo processo lo trovò padre d'un figliuoletto, e la dolcezza degli affetti domestici fu turbata poi dall'esilio. La sua Luisa rimase sola, sposa e vedova ad un tempo, senz'altra consolazione che quella creaturina, di cui ella doveva custodir l'esistenza, innanzi di poterla educare ai nobili esempi paterni.

Così visse Lorenzo Salvani dal 1832 fino al '47, sempre accanto a sua madre, e non vedendo suo padre se non rarissime volte, allorquando l'esule interrompeva i suoi sconsolati viaggi per venire a salutar di soppiatto la moglie e fuggirsene da capo innanzi che la polizia avesse sentore della sua presenza: mesti ritorni e meste dipartite, che poi risplendevano come altrettanti fari luminosi sul mare tenebroso della sua vita raminga.

Nè più riposato per lui fu il tempo succeduto all'esilio; perchè, ritornato del '47 in Italia, Rigo Salvani partecipò ai moti di Genova, che dovevano finire con la promulgazione dello Statuto e con la dichiarazione della guerra santa, come la chiamarono allora; nè valse a mutarle il nome che il papa Pio IX, dopo aver benedetta l'Italia, la maledicesse pentito.

Non è nostro intendimento raccontare quel che operasse allora il Salvani. Uomini come lui non potevano stare inoperosi, o mancare, dovunque fosse da menar le mani; e quando le fortune d'Italia si trovarono ridotte allo stremo sulle sacre mura di Roma, minacciate dai fratelli di Francia, il Salvani era maggiore, e contava le sue quattro ferite.

Era la sera del 29 aprile del '49, e il maggiore occupava coi suoi legionari la porta di San Pancrazio, quando gli venne annunziata la presenza di un giovinetto, il quale chiedeva di lui. Rigo Salvani stava in quel punto scrivendo; però, fatto entrare il visitatore, gli chiese, senza alzar gli occhi dal foglio, chi fosse e che cosa volesse.

L'adolescente, ch'era vestito di rosso, e ad onta della tenera età portava molto fieramente il cappello di feltro a larghe falde con la penna tricolore, salutò militarmente e rispose:

– Sono Lorenzo Salvani. —

Immagini il lettore che senso facesse sull'animo del maggiore quella breve risposta. Rigo Salvani balzò dalla sedia, corse ad abbracciare il figliuolo, e tirandolo con dolce violenza sotto il lume d'una candela, gridò:

– È lui, proprio lui! —

Ma l'ebbrezza di quell'amplesso paterno non fu lunga; il maggiore, lasciata la bruna testa del figlio, che teneva stretta nelle palme, ripigliò con accento di rimprovero:

– E tua madre, disgraziato?

– Mia madre, – rispose l'adolescente, – mi ha data la sua benedizione, trovando giusto che dov'era il padre potesse stare anche il figlio. —

Il maggiore stette un istante a guardare quel sedicenne che ci aveva le risposte così pronte, e che stava lì ritto e rispettoso davanti a lui nella posizione del soldato senz'armi; poscia borbottò tra i denti:

– Infine, ha ragione, ci può stare anche lui. – Abbracciò allora una seconda volta suo figlio, e dopo averselo fatto sedere vicino, e chiestogli le nuove di casa, proseguì:

– E adesso, in che compagnia sei?

– In nessuna, signor maggiore. Desidero di servire sotto il vostro comando, se non vi è discaro.

– Sta bene; e quando sei giunto?

– Oggi stesso; vengo da Civitavecchia, e precedo i signori Francesi, dei quali ho veduto lo sbarco, liberamente operato. —

Dicendo queste ultime parole, l'adolescente batteva de' piedi sul pavimento, in segno di dispetto.

– Chétati! – rispose sorridendo il maggiore. – Non entreranno così liberamente di qua.

– Lo credo; qui ci siete voi, padre mio. E poi, penso che i cittadini di questa repubblica ricorderanno gli esempi dell'antica. Furio Camillo era ben nato da queste parti. —

Lorenzo, sebbene in quell'anno avesse cominciato a studiare filosofia, non aveva già dimenticati i due di rettorica. Parlava volentieri dei Fabii, dei Manlii, dei Quinzii, e d'altri somiglianti semenzai d'uomini prodi. Ancor egli aveva cantato a squarciagola per le vie di Genova:

Fratelli d'Italia,
L'Italia s'è desta;
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Ov'è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Che schiava di Roma
Iddio la creò.

Rigo Salvani era tutt'occhi a contemplare suo figlio; ne ammirava lo sciolto linguaggio e il piglio marziale. Lorenzo era ancora un ragazzo, ma già in lui si sentiva l'uomo. Le prime schioppettate avevano da compiere la trasformazione, e da porvi il suggello.

– Tu, dunque, sei venuto a tempo; – gli disse il maggiore. – Credo che domani i signori Francesi, ai quali mi sembra che tu porti già un grande amore, saranno alle viste.

– __Hannibal ad portas__. Ma noi, babbo, non istaremo a piagnucolare come la plebe romana dopo la rotta di Canne, e muoveremo loro incontro.

– Se questo sarà il comando dei capi.

– S'intende, signor maggiore. Ma poichè oggi, entrando in Roma, ho già imparato a cantare: __Anneremo in Campidojo – A saluta' er berretto__, non mi spiacerebbe cambiar domattina di musica. A proposito, padre mio, dicono che il primo fuoco fa paura…

– Secondo i casi, ragazzo mio; – rispose il maggiore, che se la spassava ad ascoltare la gaia parlantina del figlio. – Ed anche dipende molto dalla compagnia in cui uno si trova.

– Orbene, padre mio, se non vi spiace, starò vicino a voi, farò di non tremare. Se mi vedrete una brutta cera, ditemelo subito; la vergogna mi farà diventar rosso come questa camicia.

– Te lo darò io, il rimedio contro la commozione del primo fuoco; – disse il maggiore. – Mettiti a cantare la Marsigliese, e ti sentirai un cuor di leone.

– Avete ragione, padre mio; ma io non la canterò certamente in francese.

– E perchè?

– Perchè non mi pare ben fatto cantarla nella stessa lingua di chi viene ad assalirci. Voi avete detto ch'io porto amore ai Francesi, e, sebbene celiando, avete colto nel segno. Io amo molto i Francesi, perchè sono un gran popolo, ed hanno fatto di grandi cose nel mondo; ma la lingua della patria innanzi tutto. Ed io, per far le schioppettate con loro, come dobbiamo, essendo assaliti, vedrò di scordare che hanno fatta la rivoluzione dell'89 e promulgati i diritti dell'uomo.

– Ecco, tu parli come un uomo di Stato, mio buon Lorenzino; – disse Rigo Salvani, accarezzando i neri capegli del figlio. – Ma perchè non vorrai tu cantare la Marsigliese nella sua lingua nativa? È il canto della libertà, e la libertà è patrimonio di tutte le nazioni. D'altra parte, mi dicono che sia impossibile voltarlo in italiano, conservando tutti quei tronchi che sono nell'indole della lingua francese.

– Oh! – rispose Lorenzo con la baldanza spensierata che è propria dei giovani. – Se la difficoltà è tutta nei tronchi, non è cosa da spaventarsene; e poichè l'essenziale è di poterla cantare, io ne sono venuto a capo. Non ci sarà la forza dell'originale; ma la musica supplisce al difetto. Sentite un po'.

E l'adolescente cominciò in questo modo a cantare:

Prodi, orsù; per la terra natia
Il bel dì della gloria spuntò.
Contro noi la tirannide ria
Lo stendardo sanguigno levò.
Udite voi? – L'empie coorti
Van ruggendo per l'arso terren;
Vengono, vengono, sul vostro sen
A sgozzarvi figliuoli e consorti.
All'armi, cittadini
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!

– Benissimo! va innanzi: – gridò il maggiore Salvani. – La musica ci si adagia abbastanza bene, in questa tua strofa. Sentiamo l'altra. —

Lorenzo, incuorato dalla lode paterna, proseguì con accento più concitato:

Che vuol mai questa folla di schiavi,
Questa lega di perfidi re?
Per chi mai questi ceppi da ignavi?
Quelle pronte catene perchè?
Forse per noi? – Su, ti disfrena,
O gran tempo represso furor!
Siam noi che pensano nell'imo cor
Di ridurre all'antica catena?
All'armi, cittadin!
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!

– Lascio stare le altre, – soggiunse l'adolescente, com'ebbe finito il ritornello, – e vengo subito all'ultima, a quella che ogni buon repubblicano usa cantare in ginocchio.

Santo amor della patria, tu incita,
Tu sostieni la vindice man;
Libertà, libertade gradita,
Co' tuoi figli combatti sul pian,
E volga a noi – i passi suoi
La Vittoria, al tuo forte chiamar;
E i vili veggano, presso a spirar,
La tua gloria e il trionfo de' tuoi.
All'armi, cittadin!
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!

– Bene! – gridò il maggiore, stringendo il giovinetto nelle sue braccia. – Tu sei davvero sangue del mio sangue.

– Ah! questo bel legionario è vostro figlio? Me ne rallegro con voi, maggiore Salvani. —

Queste parole erano proferite da un nuovo personaggio, entrato allora allora nella camera. Portava egli pure la tunica rossa e il cappello di feltro nero colla penna dei tre colori, e sebbene non contasse ancora i ventidue anni, aveva già aspetto d'uomo maturo. Il pensiero è quella certa lama, così spesso adoperata a raffronti poetici, che a lungo andare logora la guaina. Il viso pallido, lo sguardo e l'atteggiamento malinconico, la fronte prominente e spaziosa sotto l'onda dei lunghi capelli biondi, mostravano a prima giunta il pensatore; e il pensatore a quell'età non poteva essere se non un poeta.

– Sei tu, amico? – disse il maggiore, muovendo incontro al nuovo venuto. – Eccoti mio figlio, per l'appunto, Lorenzo Salvani: un tuo concittadino, il quale, scommetto, sa tutti i tuoi canti a memoria.

– Bello, e animoso, in verità! – soggiunse quell'altro. – Ed è probabilmente lui, che ha tradotta la Marsigliese.

– L'hai dunque udito?

– Sì, mentre salivo da te. Sentendo il canto famoso in parole italiane, mi sono fermato sul pianerottolo, per non interrompere. È molto difficile voltare quell'inno nella lingua nostra, senza mettersi in guerra dichiarata colla musica. C'è sopra tutto la prosodia del quinto verso e del settimo, che non si acconcia abbastanza al ritmo italiano. Io però mi rallegro con voi, signor Lorenzo Salvani. E a proposito, l'ultima strofa non ce l'avete mica fatta sentire. Sapete bene che la Marsigliese ha un'ultima, ultimissima strofa, dove sono i fanciulli che cantano, come negli inni di Tirteo; __Nous entrerons dans la carrière__…

– Ah sì, dite benissimo; – replicò il giovinetto; – e questi sono i versi che stanno meglio sulle labbra d'un ragazzo par mio. Infatti, ho tradotto anche questi:

Noi verremo secondi a riscossa,
Che i maggior non saranno già più;
Ma là sparse sarannovi l'ossa,
Ad esempio d'antica virtù.
A quelli eroi – sopravvivendo,
O con essi caduti sul pian,
– «Hanno voluto» tutti diran
«Vendicarli, o seguirli morendo».
All'armi, cittadini
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!

– Voi non dimostrate di voler aspettare che noi siamo morti, – disse l'altro, quando Lorenzo ebbe finito di cantare, – perchè venite animoso a mettervi in riga con noi. Da bravo, imitate vostro padre; e così possano somigliarvi coloro che ci dovranno vendicare, quando saremo caduti. —

Parole che arieggiavano il pronostico! Un mese dopo, quel giovine pensoso doveva cader ferito alla Villa Corsini, e non morire nemmeno sul campo di battaglia, ma sul letto di un ospedale, tra gli spasimi della gangrena, e le palle di cannone ch'entravano per le finestre a turbar l'agonia del Tirteo genovese.

Quando il nostro adolescente seppe che il suo interlocutore era Goffredo Mameli, l'autore dei __Fratelli d'Italia__ e di tanti altri bei versi che giravano manoscritti per Genova, arrossì un poco della sua sconciatura, e più del coraggio con cui s'era fatto a metterla in mostra.

Per fortuna, un soldato venne ad annunziare l'arrivo del generale Garibaldi, il quale, seguito da parecchi ufficiali, andava visitando le mura. Rigo Salvani e il Mameli uscirono incontro a lui, e Lorenzo si pose sull'orme del padre.

L'eroe di Sant'Antonio e di Rio Grande fece un gran senso nell'animo del giovinetto. Tutto ciò ch'egli aveva udito e letto intorno a quel maraviglioso soldato della libertà, riusciva minore a gran pezza della riverenza che gl'inspirava la vista del grand'uomo dalla camicia rossa, coperto il petto e le spalle dal __poncho__ americano, onde il braccio non poteva uscir fuori del tutto senza un certo movimento dell'òmero e un alzar della mano, che rimarranno caratteristici nella tradizione, come le braccia incrociate sul petto di Napoleone I, o le mani raccolte dietro le reni di Federico il Grande.

A quell'aspetto veramente olimpico, sereno e dolce nella calma, terribile ad un solo aggrottare di sopracciglia, Lorenzo intese d'un subito tutta la possanza di quell'uomo sulle moltitudini; comprese allora soltanto come potessero essere al mondo uomini tali, al cui cenno altri si precipitasse senza esitare dall'alto d'una torre, siccome egli aveva letto del Vecchio della Montagna; con questo solo divario tra i due, che questi adoperava la sua sterminata autorità ad operare il male, laddove il fascino del viso, della voce, del gesto di Garibaldi non doveva esser volto altrimenti che al bene.

Il generale strinse la mano al maggior Salvani e al poeta genovese; indi, come gli fu presentato il volontario sedicenne, gli pose la destra sulla spalla e gli disse con la sua poetica breviloquenza:

– Bravo! Quando tutti i giovani faranno come voi, non ci sarà più dispotismo sulla terra. —

Queste parole non le dimenticò più, il giovinetto Salvani; e gli suonavano così spiccatamente negli orecchi il giorno appresso, che non ebbe neanche bisogno del rimedio di suo padre per vincere la paura delle prime schioppettate. In quello scontro e negli altri che seguirono, si era diportato da valoroso: usciva nel giugno dalle vinte mura di Roma, sconfortato e pieno di amarezze, ma colla coscienza di aver fatto il debito suo, e meritato i filetti da ufficiale, che gli erano stati conferiti dopo la gloriosa giornata di Villa Panfili. Suo padre, poi, entrato maggiore in Roma, ne usciva colonnello.

Tornarono a Genova; Rigo Salvani per ritrarsi tosto in un suo podere presso Montobbio, grossa terra del nostro Appennino, dov'era già la moglie ad attenderlo; Lorenzo per proseguire gli studi all'Università genovese, dopo che egli pure fu andato a passare alcuni giorni tra le carezze di sua madre.

Triste ritorno, davvero: e non bastarono a temperarne l'acerbità gli amplessi della donna gentile, nè il riposo delle domestiche pareti. Roma era caduta: il 30 di agosto il Radetzky entrava in Venezia: l'Austria metteva presidio in Alessandria, dove le sue soldatesche erano precedute dalla musica, che suonava a scherno il __Fratelli d'Italia__; i Francesi intanto restauravano il poter temporale dei papi: le ultime fiamme di quel grande incendio che aveva signoreggiata la penisola si andavano spegnendo tacitamente qua e là: morta la prima grande rivoluzione d'Italia, soldati d'ogni paese e strumenti d'ogni tirannia ne vigilavano mal raffidati il sepolcro.

Lorenzo si pose con tutta l'anima allo studio. Lo sconforto che gli occupava lo spirito gli nutrì quell'amore della solitudine che già rispondeva alle sue fantasie di poeta. Era sempre colla fronte china sui libri, e nelle vacanze, quante ne offriva l'anno scolastico, volava difilato a Montobbio. Colà suo padre faceva una vita che si sarebbe potuta dir lieta, se le miserande fortune della patria non gli avessero avvelenato ogni gioia, e fatto quasi parere un nuovo esilio la pace della famiglia. Scorato, come tanti altri generosi della sua tempra, passava il tempo a leggere di storia; ma, nelle vacanze del figlio, le sue letture si alternavano colle lezioni di scherma, nella quale il colonnello Salvani, italiano del vecchio stampo, era fin dalla sua prima giovinezza diventato maestro.

Egli soleva dire a Lorenzo:

– Impara a leggere ne' tuoi codici; impara a scrivere le tue prose e i tuoi versi; ma impara anche a dare in tempo la botta diritta, e a piantare di primo lancio una palla di pistola in un palo, a quaranta passi discosto. Il coraggio l'hai; abbi ancora la destrezza, perchè gli uomini in maggioranza son tristi, e dai tristi bisogna sapersi far rispettare. Ama la patria, perchè essa, che ti ha dato i natali, è schiava dello straniero, e perciò non devi patire questa vergogna, non già per alcun bene che tu ti possa riprometter da lei. Così devi amare il tuo simile, senza dolerti delle sue doppiezze e de' suoi tradimenti. Se trovi una donna sincera, amala come io ho amato ed amo tua madre. Se trovi un amico che sia schietto e generoso, stendigli la mano. Se la donna o l'uomo non risponderanno alla fede che avevi riposta in essi, non ti accorare oltre il bisogno; sarà tanto peggio per loro; tu ara diritto, e non ti dar pensiero del resto. —

Questi insegnamenti, misti alle conversazioni politiche, ai ricordi del campo, alla lettura di Plutarco e alle lezioni di scherma, avevano fatto opera gagliarda nell'animo sensitivo di Lorenzo. A quarant'anni, ammaestrato ad una simile scuola, sarebbe riuscito uno stoico; ma non aveva ancora diciott'anni, e lo aspettavano certe battaglie, alle quali si mostra inerme quel petto che era pur dianzi tetragono ad ogni avversità della vita.

La madre di Lorenzo era una di quelle donne, non troppo rare, la Dio mercè, presso noi, cresciute nel culto del bello, del buono e del vero. Ella aveva molto sofferto per la lontananza del marito, che fortemente amava, e al quale aveva consacrato quel ragionevole ossequio che si merita la virtù presso gli animi virtuosi. Egli, poi, la ricambiava di pari affetto, la sua nobilissima Luisa; per lei si spianavano le rughe della sua fronte; e quando ella parlava. Rigo Salvani trovava pure il modo di comporre ad un sorriso quelle sue labbra chiuse. L'amor loro poteva assomigliarsi a que' fiumi, i quali son tanto più profondi, quanto alla superficie vi appariscon più calmi.

E nondimeno taluni si argomentavano di sapere che negli anni dell'esilio il signor colonnello avesse fatte le sue. Ignoravano costoro che per la donna amata Rigo Salvani era tornato di sovente a casa, sotto mentite spoglie, arrisicando la libertà e la vita. Non erano questi davvero i diportamenti di un uomo, che mettesse i suoi affetti fuggevoli in paese straniero. Tuttavia, ed eccettuato quel tanto che vuolsi ascrivere al bisogno naturale della maldicenza, ecco da dove quelle ciarle avevano potuto prendere una mezza apparenza di vero. Al suo palese ritorno, che fu nel '47, Rigo Salvani aveva condotta con sè una bella fanciullina di forse otto anni, collocandola in casa come una sua propria figliuola.

Ora, siccome i Salvani vivevano piuttosto appartati, non si poteva a tutta prima capire che cosa significasse quella ascosaglia. Le poche domande che in un lungo spazio di tempo si poterono fare da qualche curioso, erano accortamente deluse. Ne seguì naturalmente che quanto non si sapeva di certo, si affermasse audacemente per vero, attinto da buonissima fonte, e che presto non ci fosse più alcuno, tra i conoscenti e i vicini della famiglia, il quale non credesse esser quella una figlia naturale di Rigo Salvani. La cosa era chiara; non poteva essere altrimenti; e qui taluno, di fantasia più ferace, rimpolpava di qualche particolare la chiacchiera, accennando, coll'aria di chi sa più che non voglia dire, a certo amorazzo di Spagna, e compiangendo sinceramente la povera signora Luisa, costretta a tenersi in casa quel frutto degli illeciti amori del vagabondo consorte.

Ma la povera signora Luisa non pareva dolersene, come tutta quella brava gente avrebbe desiderato, per accattar fede ai suoi benevoli sospetti. Essa amava teneramente la fanciulla; ed anche Lorenzo, di sette anni maggiore in età, l'aveva in conto di sorella. Quante volte ritornava a Genova in vacanze, ci aveva sempre il suo presente per la cara Maria, che d'anno in anno cresceva in bellezza, affinandosi in grazia, in gentilezza, in bontà, tutta amore e devozione per quella che aveva preso a chiamare anche lei col dolce nome di madre. Presentiva ella, tenendosi così stretta al fianco della pietosa signora, che troppo breve spazio di tempo le sarebbe avanzato per dimostrarle tutta la sua gratitudine?

Nel '55 la signora Luisa morì: il colonnello, d'allora in poi, fu più taciturno, più chiuso del solito: Lorenzo per quell'anno lasciò le Pandette e il Digesto da banda, e non si mosse da Montobbio, perchè, oltre il suo proprio dolore che lo aveva abbattuto, c'era l'accoramento del babbo, che gli faceva paura.

Tutte le mattine, sull'alba, Rigo Salvani era al camposanto a salutare la tomba di sua moglie, quella tomba che racchiudeva la miglior parte di sè, tutte le ricordanze profumate della sua giovinezza, gli amori, le gioie, i patimenti in ugual misura divisi tra due nobili cuori. Nè l'amore dei figli poteva più bastare a quell'anima sconsolata. I figli nostri son nati per la vita del futuro, nè ci compensano della perdita di chi ha vissuto con noi amorosamente il passato.

Un giorno. Rigo Salvani, andato secondo il costume al camposanto, non ne fu più visto ritornare. Lo trovarono freddo irrigidito sulla tomba della moglie. Le due parti d'una sola esistenza, che tali si potevano dir veramente, divise per breve ora dalla morte, si erano nella morte ricongiunte. L'orfano pianse a lungo i parenti, ed allorquando le lagrime cessarono, il suo cuore era già largamente abbeverato di quella amarezza, che è il viatico degli onesti nel mare procelloso della vita. Dei cari estinti gli rimaneva pur qualche cosa; il culto dei severi insegnamenti, il sacro debito di dar sesto alle non prospere cose domestiche, e di essere a sua volta come un padre per la giovine Maria.

Lasciò allora la campagna, e pose dimora in Genova, dove sperava di cavare in qualche onesta maniera il vivere, pure attendendo a finire i suoi studi. Delle sostanze paterne ben poco si potè sottrarre ai creditori ed ai vampiri giudiziarii. Intanto due anni passarono, e salvo l'esser giunto a conseguir la licenza in leggi, il povero Lorenzo non era venuto a capo di nulla. E di sovente pensava al triste futuro, alla sua vita senza indirizzo, senza speranze, con pensieri a contrasto coi fatti, come con le necessità urgenti del giorno. Vero figlio del suo secolo, si lagnava del padre suo che lo divorava, come Saturno la prole.

Che cosa avrebbe egli fatto? L'avvocato? Era una bisogna troppo lunga, nè egli aveva modo di aspettare un altr'anno per la laurea, poi due per le pratiche, e dio sa quanti altri per sudarsi una clientela. C'erano i pubblici uffizi; ma in questi si comincia sempre dal lavorare per nulla, e a farsi avanti occorre poi sempre una legione di santi intercessori, Darsi al commercio? Peggio che mai. Anche a cominciar da scritturale, da commesso, da galoppino, gli sarebbe bisognato rifar da capo tutta la sua educazione, e aver conoscenti che sapessero e volessero raccomandarlo caldamente qua e là, dove e quando il posticino si potesse trovare. Intanto, il bisogno di lavorare incalzava. Lorenzo era giunto a quell'ultimo stadio dell'agiatezza, allorquando dall'oggi al domani si casca nelle strette della necessità, perchè si è vissuti con gli ultimi avanzi di una modesta sostanza, e non si sa ancora che cosa sostituirvi.

Egli tuttavia non si era perduto d'animo, vagheggiando in buon punto un modesto disegno. Apertosi schiettamente coll'amico Assereto, aveva finalmente, nè senza fatica, trovato qualche cosa. L'Assereto era uomo di partiti, e di facile entratura; amava anche molto Lorenzo Salvani, col quale discorreva volentieri di letteratura. Il che non deve far maraviglia ai lettori non genovesi. Essi hanno da sapere, infatti, che da noi le Camene son tenute in conto più che a prima vista non sembri. La necessità fa l'uomo industrioso, perciò il genovese, quando sia giunto all'età di dover pensare ai casi suoi, si mette a lavorare con tutte le sue forze; ma non dimentica le panche della scuola, e gli studi geniali della adolescenza gli sorridono sempre, come l'immagine dell'òasi al viaggiatore del deserto. S'ingegna tutto il giorno sulla piazza de' Banchi e sulla popolosa calata del porto; ma si riposa alla sera discorrendo d'arte, mettendo a confronto drammi e commedie, teatri di prosa e teatri di musica, ed accettando la discussione su tutti i rami dello scibile.

L'Assereto, voleva ad ogni costo trovar modo di aiutare l'amico Salvani. A grossi guadagni non c'era da pensare, pur troppo; ma occorreva procacciargli tanto da tirar avanti la barca, aspettando una giornata di buon vento. Quel tanto, gli pareva di averlo trovato presso un ricco bottegaio, il quale «sapeva poco di lettera», e aveva bisogno di uno, che ogni sera gli mettesse a segno i suoi conti.

Non arriccino il naso certi lettori schizzinosi, al sapere che Lorenzo Salvani, uno dei più ragguardevoli personaggi della nostra storia, teneva i libri d'un bottegaio. Se hanno essi un'altra occupazione più nobile da offrirgli, ci usino la cortesia di avvisarcene, e noi lo accomoderemmo subito al loro servizio. Di meglio non s'era trovato allora; ma era pur sempre il principio di qualche cosa. Ottanta lire al mese, pagate in sedici scudi d'argento, non erano una spregevole moneta, e Lorenzo Salvani la guadagnava con due orette di lavoro notturno, che neppur l'aria aveva a risaperlo.

Quelle ottanta lire, messe insieme con qualche avanzo delle antiche sostanze e con alcune gioie di famiglia, vendute alla spicciolata, aiutavano tre persone a vivere. Lorenzo, la giovine Maria, ed il vecchio Michele, veterano di Montevideo e di Roma, il quale, a sua volta, si acconciava all'umile ma gradito ufficio di servitore. La pigione di casa, al tempo in cui comincia il nostro racconto, era pagata ancora per tre mesi.

E adesso, che abbiamo fatto intendere un poco lo stato delle cose nella famiglia Salvani, non sarà male proseguire la narrazione interrotta.




III


Nel quale si racconta di un uomo di capelli rossigni, e di una spasimata voglia che aveva di scendere in campo per la sua dama.

Abbiamo lasciato Lorenzo nel punto che egli era per entrare nel salottino, chiedendo a sè stesso chi fosse mai l'importuno che veniva a cercare di lui. L'importuno era un giovinotto sui trenta, lungo e magro, con una testa volgare, capelli rossigni e ruvidi, corti e radi i peli sul viso, la guardatura fosca. Non bello, adunque; ma non per niente è stata inventata la moda, che anco d'un ceffo di cane può farvi una faccia da figurino di Parigi.

I capelli rossigni del nuovo venuto erano dunque tagliati a spazzola sulle tempia, con la divisa tirata ben diritta e bene impomatata sul cranio. La barba rada, che traeva un pochettino al castagno, si stendeva tra gli orecchi e gli zigomi in due ventole smilze. Il labbro superiore e il mento accuratamente rasi, lasciavano risaltare una bocca sottile, ornata di denti bianchissimi, ch'egli faceva spesso vedere, con notevole compiacenza. La magrezza delle membra, coll'aiuto d'un vestimento all'inglese, simulava sveltezza di forme. I guanti perlati, coi tre cordoncini neri sul dorso, che era mezzo coperto dai manichini insaldati, lo stivalino inverniciato, e l'occhialetto cerchiato di tartaruga, davano il compimento a questo esemplare della grazia posticcia d'allora, e di poi. C'era insomma tutta la parte materiale della eleganza aristocratica; e l'aspetto dell'uomo, così ridotto a forme di consuetudine, poteva riuscir tollerabile ai più, e, crepi l'avarizia, parer grazioso a parecchi.

Lorenzo Salvani non seppe trattenere un atto di maraviglia, quando vide costui nel suo salottino. L'inarcamento delle ciglia e la testa tirata indietro significavano il più grosso dei punti ammirativi, e una filza di puntini per giunta.

– Collini! – esclamò egli, senza muoversi ancora dal suo atteggiamento.

– Sì, Collini, per l'appunto; – rispose l'altro con un sorriso ch'egli si studiava di rendere amabile. – Vi maraviglia forse?

– Forse; lo avete detto voi stesso; – ripigliò Lorenzo, con accento malizioso, ma senza cattiveria. – Ma che buon vento vi sbalza quassù?

– Non troppo buono, per verità; – disse il Collini. – Comunque sia, non vi dispiaccia che io sia venuto da voi per chiedervi un servizio da amico.

– Non potevate farmi cosa più grata, – disse di rimando il Salvani. – Son così lieto quando posso renderne uno, che ciò mi consola della mia pochezza, e della mia povertà. Accomodatevi, prego, e veniamo all'essenziale.

– Eccolo; – rispose il Collini, sedendosi sulla scranna che Lorenzo gli offriva. – Questa notte, alla veglia del Ridotto, sono stato insultato.

– Oh diamine! e da chi?

– Dal marchesino di Montalto. Un tale che non ha il becco d'un quattrino! Lo conoscerete; è quel coso biondo, tutto superbia, che va sempre ritto impalato, nell'eterna compagnia del Pietrasanta.

– Voi sapete che io non ho dimestichezza con questi signori del patriziato. Vivo così fuori del mondo!

– Ah, è vero; e forse è il meglio che si possa fare; – concesse con un mezzo sospiro il Collini, – Ma a noi la professione comanda di viverci dentro, e bisogna adattarsi. Io dunque vi dicevo che questa notte, al ridotto del Carlo Felice, sono stato insultato dal signor Montalto, e alla presenza di una signora, di una dama.

– Perdio! la cosa è grave. Ma dite… in che modo?

– Oh, si andrebbe per le lunghe; – rispose il Collini, con aria impacciata.

– Scusate; – si affrettò a dire Lorenzo. – Non domandavo del modo, se non per misurare la gravità dell'offesa, e non pensavo affatto alla persona che era presente. Le donne, in questi casi, van nominate il men che si può. Ma bisognerà pure, se debbo darvi consiglio, bisognerà pure ch'io sappia la frase, la parola di cui vi ritenete offeso.

– Avete ragione, Salvani; ed ecco qua tutto il necessario. Accompagnavo la signora, che era mascherata. La signora bisbigliò alcune parole, certamente di grazioso motteggio, come è l'uso, al marchese di Montalto, il quale stava insieme col marchese Pietrasanta, in un angolo della sala dove c'è il camino. Non udii le parole della signora; ma quali si fossero, non dovevano meritare una dura risposta, alla quale essa ribattè prontamente ch'egli non era cortese. Notate, Salvani, che la signora è di buonissima nobiltà, e le smorfie del Montalto, che non potrà poi far risalire la sua al tempo delle Crociate, erano veramente fuori di posto, e un grazioso motteggio della contessa… Oh, perdonate, quasi mi lasciavo sfuggire il suo nome.

– Non importa, – disse Lorenzo. – Io non soglio ricordarmi di ciò che debbo dimenticare. Proseguite pure.

– Orbene, – soggiunse il Collini, – a quel piccolo rimprovero della signora, il Montalto fece un inchino impertinente, accompagnato da un sorrisetto sarcastico.

– E voi?

– Io non potei ritenermi dal fargli notare la sconvenienza del suo ghigno. Ma egli allora, rialzando il capo e guardandomi in atto sdegnoso, mi disse: «Voi badate ai fatti vostri». Volli replicare; ed egli da capo: «Mi provocate voi forse?» – «Sì, perchè no?» – «Voi?» ribattè egli, beffardo. – «Signore» dissi allora, «io non so di che cosa possiate ridere, quando io vi parlo in questo modo; ma penso lo direte a coloro che avrò l'onore di mandarvelo a chiedere». – «Saranno i ben venuti» rispose; e ci separammo. Eccovi tutto l'accaduto. Che cosa debbo fare? —

E il giovinotto dai capelli rossigni stette ansioso ad aspettar la risposta.

– Perbacco! – esclamò Lorenzo Salvani. – Non trovo altro modo di uscirne, se non mandando i padrini a questo marchese di Montalto. La ragione del duello mi sembra assai lieve; ma probabilmente c'è sotto qualche ruggine colla signora…

– Colla signora? Oh no; – rispose il Collini. – Ella mi disse di non conoscere il Montalto altrimenti che di vista, e di non avergli detto se non cose gentili, e molto innocenti.

– Allora ci sarà una ruggine del Montalto con voi.

– Eh, qui penso che abbiate ragione, Salvani. Egli deve volermi un mal di morte, perchè gli ho lasciato sempre intendere di non stimarlo gran che.

– Male! – esclamò Lorenzo. – Consentite a me, più giovine di voi, ma vostro antico compagno alle medesime scuole, di sgridarvene un poco. Gli uomini bisogna stimarli tutti, senza accarezzarne nessuno. Ora a noi; in che cosa posso esservi utile?

– Già lo immaginate, poichè vi ho detto d'esser venuto chiedervi un servizio. Fatemi da padrino.

– Sta bene; – disse Lorenzo, accennando del capo. – Siete pratico d'armi?

– E di sciabola e di spada ho tre anni di scuola, da Licurgo Cavalli.

– Ce n'è d'avanzo. E di pistola?

– Mi son sempre esercitato.

– Ottimamente! Due grammi di coraggio, di cui non patirete certamente difetto; due di sangue freddo, che è proprio dell'arte vostra, e siete armato di tutto punto. Dove abita questo Montalto?

– In via Balbi.

– Palazzo?..

– Oh, non abita in un palazzo, il marchese di Montalto. La nobiltà ce l'ha tutta in boria. Non ricordo più il numero dello stabile; ma non vi sarà difficile trovarlo, prendendo lingua dai bottegai di là dal palazzo Reale. Aspettate; ricordo che c'è un portinaio, e ch'egli abita al secondo piano.

– Bene, bene, lo troveremo; – conchiuse Lorenzo. – Ma, a proposito del mio plurale, non avete un compagno da darmi, per questa bellica impresa?

– Non ne ho; non saprei… – disse impacciato il Collini.

– Come? E non siete voi sempre in fiorita compagnia, nella quale potrete sempre trovar l'uomo che occorre? – chiese Lorenzo, che non poteva più stare alle mosse. – I vostri antichi compagni li avete sempre trascurati un tantino, per andare con altra gente, e di maggior levatura. Non dico ciò per farvene un rimprovero. Dio guardi. Accenno il fatto, e ripeto lagnanze di vecchi amici, che forse, confessatelo, da un pezzo in qua non v'accorgevate nemmeno che fossero al mondo.

– È un'accusa che non merito; – gridò il Collini, arrossendo. – La mia professione di medico, l'onesto desiderio di tirarmi innanzi, mi hanno condotto a vivere più in un ceto che in un altro; ma io vi giuro…

– Oh, non giurate nulla; – interruppe Lorenzo. – Capisco tutto, e vi ripeto che non parlavo per farvi rimprovero. Io, finalmente, debbo riconoscere che nel momento del bisogno avete pur fatto capo alla mia modesta persona. Sapete da quanto tempo non ci troviamo insieme? Da due anni.

– Credete? – balbettò il Collini, arrossendo ancora.

– Se lo credo! ne son certo. Ma andiamo, via! Non avete tra i vostri magnati l'uomo che vi possa servire? Lo cercherò io tra i miei fedeli del buon tempo e del gramo. Pregherò l'Assereto di darmi man forte.

– L'Assereto? Mi par di conoscerlo.

– Certamente, lo conoscerete. Studiava filosofia con me, all'Università, quando voi eravate ai primi anni di medicina. Ma noi altri non ci siamo perduti di vista, sebbene egli abbia mutato strada. Ordunque, ai fatti. Aspettatemi due minuti, e sono ai vostri comandi. —

Come il lettore ha veduto, questo signor dottor Collini, che veniva a chieder servizi di tanto rilievo, non si faceva notare per costanza nelle sue amicizie. Inoltre, viveva in un ceto di persone, e andava a cercare assistenza fraterna in un altro, in quello, per l'appunto, che aveva abbandonato.

Il dottor Collini (lo diciamo ora, poichè ci viene in taglio) era un ambizioso di tre cotte, e della modesta sostanza che aveva ereditata dai suoi, si era giovato accortamente per frequentare i gran signori. Esercitava la medicina, nella quale era versatissimo e già famoso per qualche cura fortunata, sebbene ancor giovine: ma si diceva che quel giovine medico s'aiutasse più con la sottigliezza dei raggiri che con la bontà delle ricette. E taluno, anzi, più addentro in certi misteri della vita cittadina, lo accusava d'imprestar denaro ai figli di famiglia, ai troppo vivaci rampolli delle nobili casate con le quali era entrato in relazione, per farselo poi restituire raddoppiato dai frutti, o triplicato, o quadruplicato, col savio metodo delle rinnovazioni. Ahi, la calunnia! Ma egli in questi negozi non entrò mai per suo conto: parlava, faceva parlare da altri, e non domandava nemmeno di essere ringraziato della sua cortese intromissione. Al più, volendo malignare ad ogni costo, si sarebbe potuto dire che egli sapesse collocar bene il suo denaro, essendo uno dei socii occulti del banco Cardi Salati e C., del quale a suo tempo racconteremo vita e miracoli. Brutta cosa, non è vero? Ma questa non si sapeva, e quanto a certe chiacchiere di gente malevola, il Collini le poteva disprezzare. Dotto e virtuoso per molti, non aveva agli occhi loro altro difetto che l'ambizione, anzi la forma più tenue dell'ambizione, la vanità. E se ne rideva un pochino, senza perdergli stima. Si sa bene, chi non ha il suo difettuccio? La vanità è il piede di creta di tanti colossi! Ma bisognava anche dire che la vanità del Collini, non che un piede, fosse una gamba a dirittura.

Per avere un titolo di conte, il giovinotto avrebbe sacrificato Dio sa che cosa, e, stiamo per dire, battuto moneta falsa. Però invidiava al marchese di Montalto le sue pergamene, come gl'invidiava la bellezza (un po' sciocca, la chiamava egli tuttavia) e i sospiri delle belle signore. In teatro gli davan noia gli applausi prodigati ad un tenore, come di cosa che gli levassero a lui: sulla pubblica piazza avrebbe augurato il capitombolo ad un saltatore di corda, ad un mattaccino, per tutte le prodezze che sapevano fare, e che tiravano troppo l'attenzione della folla.

Lorenzo Salvani non sapeva niente di ciò. Nel Collini non vedeva altro che un semplice vanerello, e, da buon filosofo com'era, gli perdonava facilmente quel suo peccatuccio. Era d'altra parte contento che nell'ora della necessità, in una di quelle occasioni che provano gli amici, il Collini si fosse ricordato d'un vecchio compagno di scuola, da gran tempo a mala pena salutato per via.

Così risoluto di rendergli servizio, si vestì in fretta, mise nel taccuino alcuni biglietti di visita, e uscì di casa in compagnia del Collini, suo Pilade improvvisato.

L'Assereto fu presto scovato tra piazza dei Banchi e il vicolo de'

Cartai, ragguagliato d'ogni cosa e persuaso a dare una mano. Due ore più tardi, egli e il Salvani erano al caffè della Concordia, dove il

Collini stava aspettando l'esito della loro visita al marchese di Montalto.

– Ebbene? – chiese egli ansioso.

– Tutto fatto; – rispose Lorenzo.

– Come, fatto?

– Eccovi tutto per filo e per segno. Abbiamo trovato il signor marchese, assai garbato nei modi, quantunque ne trapelasse un poco della sua alterigia. Saputo del nostro incarico, ci domandò se sapevamo anche le condizioni dell'alterco tra lui e voi. Io, come potete immaginare, risposi di no; che infatti siamo ancora adesso a non saperne nulla. Parve meravigliato, e mormorò tra i denti: «Tanto meglio; vorrei essermi ingannato». Gli chiesi allora che cosa significassero quelle sue parole di colore oscuro. «Niente, niente che vi possa dispiacere, nel vostro delicatissimo ufficio» si affrettò egli ad aggiungere colla maggior compitezza. «Voi bene intenderete, signori, che per andarmi a incontrare sul terreno col signor Collini io non sono certamente costretto a pensare di lui come ne pensano i suoi amici. La sua riserbatezza, del resto, gli fa molto onore, e voi vedete che amo rendergli giustizia. I miei padrini sono il marchese Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, capitano nel settimo reggimento di fanteria». Infatti, quei due signori erano in casa sua, e ce li presentò. Sono due compitissimi cavalieri, e c'intendemmo subito. Noi abbiamo lasciato loro, com'era giusto, secondo gli usi nostri, la scelta dell'arma, ed essi hanno scelta la spada. —

Un sottile osservatore avrebbe potuto notare un lieve mutamento sul volto del Collini, una cosa da niente, ma di quelle che bastano a far sentenziare sommariamente di un uomo. Lorenzo tuttavia non si addiede di nulla, e la faccia del Collini si ricompose prontamente. Che paura, del resto? Una piccola scossa, a tutta prima, sentendo nominar l'arma che si dovrà maneggiare. Ma le armi son tutte pari, davanti alla fortuna che le guida.

– Domattina, – proseguiva Lorenzo, – alle ore cinque dobbiamo trovarci in Albaro, presso la chiesuola diroccata di San Nazaro. È un ottimo luogo. Le armi le porterò io, che sono di Toledo, col __Christi__ inciso sul forte della lama. Siete contento?

– Contentissimo: – rispose il Collini; – e vi ringrazio di cuore.

– Anch'io sono contento, – disse il Salvani. – Non già del duello. Ma poichè bisognava farlo, preferisco la spada. È un'arma meno chiassosa, e di antica nobiltà italiana.

– Così penso ancor io; – riprese il Collini. – Io dunque faccio assegnamento su voi altri.

– State sicuro. Ma, a proposito, e il ritrovo? Verremo da voi alle quattro, se vi conviene…

– No, no; – interruppe il Collini. – Non venite da me; ci ho le mie buone ragioni; temo che s'indovini dove vado. Per una visita medica, che fingerò di aver da fare, non è proprio necessario che si vedano due gentiluomini al mio uscio di casa. Farò dunque in modo da non dar sospetti in famiglia, e alle quattro e mezzo sarò io stesso a' piedi della collina, sotto la villa del Paradiso.

– Vi aspetteremo dunque lassù. E adesso dove andrete?

– Dal Cavalli, a rifare la mano.

– Benissimo; a domattina. —

I due amici, salutato il Collini, andarono pei fatti loro. Ma come furono giunti sulla piazza delle Fontane Amorose, l'Assereto si fermò sui due piedi, guardando il compagno.

– Ebbene? – disse Lorenzo. – Che c'è?

– Sai una cosa? – disse di rimando quell'altro. – Questo Collini non mi pare un uomo solido.

– Baie! e perchè?

– Perchè più volte ho cercato di guardarlo nel mezzo degli occhi, e non ne sono mai venuto a capo.

– Sai che è una sua abitudine non guardar mai fissamente. E voi altri lo tartassavate sempre per ciò, dandogli del gesuita a tutto pasto.

– Sì, quello che vuoi; ma la sua faccia mi persuade meno che mai.

Credo che sia pentito d'essersi messo in questo impiccio.

– E in questo noi non ci abbiamo da entrare; – rispose il Salvani. – È venuto a chiederci un servizio; glielo abbiam fatto, e penso, mettendo la modestia da banda, che non avrebbe potuto trovare altri due che lo servissero meglio. Sul terreno farà il debito suo. Li conosco bene, questi uomini: non hanno il coraggio impetuoso, ma il sentimento della loro dignità li sostiene. E poi, questo non è il suo primo duello.

– Credi? Ebbene, si vedrà domattina. Addio; sarò da te questa sera. —

Così dicendo, l'Assereto se ne andò a casa sua, per la salita di Santa Caterina, crollando il capo come l'Apostolo del dito; benedettissimo uomo, che voleva vedere e toccare.

Lorenzo Salvani discese dai Ferri della Posta verso Luccoli, e rientrando in casa ordinò al fido Michele che spiccasse le spade dal trofeo, per dar loro una ripulita. Poi si mise da capo a tavolino, ripigliando a scrivere nel suo zibaldone, con la voluttà dell'uomo povero, che ha tutti i suoi feudi nel regno della fantasia.




IV


Qui si mostra con la prova in mano come gli angeli non siano poi tutti in paradiso.

Qualche lettore curioso vorrà sapere dell'altro intorno a quella testolina di fanciulla, che insieme abbiam vista apparire dal vano di un uscio, e di cui, con pochi e rapidi tocchi abbiamo anche abbozzato una specie di ritratto. E noi vogliamo contentarlo, questo lettore curioso, anche a costo di non far correre abbastanza spedito il racconto.

Maria era bella, come si è detto, ma non di quella bellezza tutta seste, misure e proporzioni, che piace nelle statue, ed è muta e fredda com'esse; bensì di quella viva e calda e prepotente bellezza, che è tutta espansione, accoppiando la soave euritmia delle forme al raggio divino dell'anima, per modo che tutto parli in lei e commuova, perchè tutto palpita e vive. Il carattere di quella bellezza faceva senso, la grazia angelica de' suoi contorni soggiogava gli occhi e gli spiriti. I capelli neri, che traevano all'azzurro intenso come la classica ala del corvo, i neri occhi, le lunghe ciglia, il naso profilato, la bocca vermiglia, il volto ovale, l'incarnatino delle guance, i delicati contorni del collo, erano tanti ingredienti coi quali uno scrittore esercitato avrebbe potuto comporvi una bellissima testa, e che noi, non sapendo far meglio, vi mettiamo qui alla rinfusa, perchè vogliate formarvela da voi, coll'aiuto della vostra immaginazione.

Maria aveva di poco passati i suoi diciott'anni; ma il suo cuore, castissimo sacrario di nobili affetti, ne aveva quindici appena. Però gli occhi della fanciulla splendevano di una luce modesta, non scintillavano ancora. Per lei tornava a mente il primo verso d'un celebrato poema del Moore, nella amorosa versione del Maffei: «Sul mattin della vita era il creato». La scienza del bene e del male non aveva ancora profferto il suo fatale insegnamento a quella gentil creatura.

Tra Lorenzo e Maria correva una certa somiglianza. Ambedue avevano neri i capelli e spaziosa la fronte: ma il volto di Maria era bianco incarnato, quello di Lorenzo era bianco pallido; se il giovane fosse vissuto un tratto alla vampa del sole, quel volto sarebbe diventato bruno, poichè c'era sangue marinaro nelle vene dei Salvani. Inoltre, gli occhi di Maria erano d'un nero turchiniccio, dai riflessi d'indaco; quei di Lorenzo d'un lionato carico, e li faceva parere neri la profondità delle occhiaie, sotto la guardia delle sopracciglia prominenti.

Più forte tra i due era la somiglianza del carattere, frutto evidente di una parità di educazione, che può farsi in noi come una seconda natura. Senonchè, le esterne sensazioni conducevano l'animo di Maria alla dolce gaiezza, o alla malinconia rassegnata, quello di Lorenzo alla pazza allegria, o alla tristezza profonda. Non c'era gradazione di tinte, nello spirito di Lorenzo Salvani. Ambedue, del resto, sentivano altamente di sè, anime dignitose e preparate ad ogni maniera di sacrifizi. L'impresa dell'armellino: «__malo mori quam foedari__» (anzi che macchiarmi morire) pareva fatto bella posta per quelle due nobilissime creature.

Era nobile di natali Maria? Lorenzo, qualche volta, celiando, le dava un certo nome! Ma i natali di quella che egli chiamava celiando «la bella marchesina» erano rimasti un segreto fra il colonnello Salvani e sua moglie. Lorenzo teneva in un ripostiglio del suo cassettone, gelosamente nascosto e chiuso, uno scrignetto d'ebano, nel quale il gran segreto aveva a trovarsi di certo: ma i parenti l'avevano dato in custodia a Lorenzo, col patto che fosse il dono di nozze dei Salvani alla cara fanciulla.

– Un giorno qualcheduno ti amerà, – aveva detto la signora Luisa, – di un amore diverso da quello di mio marito e dal mio. Quell'uomo, se tu lo ricambierai d'affetto sarà degno veramente di te; ed allora meriterà di sapere da che sangue sei nata. Svelartelo ora sarebbe impossibile; e dirti soltanto il nome di tuo padre, che fu onesto, buono e generoso, potrebb'essere un grave pericolo, per te e per altri. Egli ti confidò come un sacro deposito a Rigo Salvani, e noi dobbiamo rispettare la sua volontà.

– E mia madre? – aveva chiesto Maria.

– Tua madre è felice. Quel giorno ch'essa chiederà di te, meriterà davvero di esser tale. Per ora ti basti. Ne sei forse accorata?

– Oh, no! sarei un'ingrata. Finalmente, non siete voi la mia madre vera, da cui tutto mi viene? Se mio padre, colui che mi amava è morto, l'anima sua si è tutta trasfusa in voi altri, per farmi la più fortunata tra le orfane. —

Queste parole esprimevano allora i veri sentimenti di Maria; ma non è da credere che l'idea di quel segreto non gravasse talvolta sull'anima sua con tutte le ansie di un dubbio doloroso. La povera fanciulla si sentiva troppo sola al mondo, specie da quando la signora Luisa e il colonnello Salvani erano andati a riposare, l'uno accanto all'altro, nelle zolle del camposanto. Ella per giunta aveva inteso bene lo stato critico di Lorenzo, poichè questi l'ebbe condotta a dimorare in Genova, col veterano Michele. Per nessun'altra cosa al mondo il giovane Salvani si sarebbe piegato a vendere la casa paterna, se non fosse stato l'obbligo di proseguire l'opera pietosa dei parenti verso di lei. Questo aveva inteso Maria, e gliene serbava nel cuore una gratitudine infinita. I nuvoli della fronte di Lorenzo essa li conosceva a puntino, come il marinaio le seccagne della sua rada natale. Erano ben neri, quei nuvoli, e a grado a grado più frequenti e durevoli. Che dolore per lei, che assisteva alla rovina quotidiana del suo fratello d'adozione, senza che fosse in potere suo di recarvi un rimedio efficace!

E non sapeva ancor tutto; ignorava lo spediente delle ottanta lire al mese, che Lorenzo andava a guadagnarsi a tarda sera nel fondo di una bottega. Sentiva nondimeno le angustie di lui; e non potendo molto, aveva presto pensato di aiutare col poco. Si era indettata per ciò col vecchio Michele. Di giorno, le ore che Lorenzo passava fuori, o nella sua camera a scrivere, la magnanima giovinetta le spendeva a ricamare; e parecchie della notte egualmente. Da quelle sue dita maestre uscivano lavori delicatissimi, che il bravo Michele, per mezzo di certe conoscenze, trovava modo di spacciare presso qualche merciaio; e a volte, quando si trattasse d'opere più vistose e più fini, non arrossiva di metterle in lotteria.

Per altro, intendiamoci; se non arrossiva di spacciar la roba a quel modo, coll'obbligo di andare attorno e di sollecitare la gente, si ricattava di quell'audacia mettendo le poste salate. E se taluno gli diceva: «costa troppo», egli dava di piglio alla sua roba, e se ne andava difilato, senza più accettare nemmeno quel prezzo ch'egli stesso aveva chiesto da prima. Spregiare a quel modo un lavoro della sua Minerva celata, era un peccato da non portare speranza di assoluzione.

Quelle ore che Lorenzo passava in casa, erano ore di allegrezza e di festa. Il povero giovane studiava di molto, e non si prendeva uno svago a cui non partecipasse Maria. Ed era bello vederla, con la sua lunga veste di seta nera, o di mussolina bianca (che d'altri colori non usava adornarsi mai), col suo cappellino di paglia di Firenze all'estate, e di velluto nero all'inverno, prigione troppo stretta al volume della nerissima capigliatura, andar leggera leggera al braccio del suo caro fratello.

Michele non aveva mai voluto andar fuori con essi. E sì che il povero veterano delle __Tapera di Don Venanzio__ e di porta San Pancrazio ne aveva una voglia spasimata! Ma anche Michele ci aveva il suo segreto, che non aveva confidato nemmeno alla sua bella padroncina. Egli non voleva che dalla sua compagnia nessuno argomentasse che quegli occhi neri, i quali guardavano a mala pena la strada, e quelle dita affusolate, chiuse in un guanto perlato, fossero quegli occhi e quelle dita che si affaticavano su certi ricami, ch'egli andava attorno a spacciare.

Quella bella e virtuosa famigliola viveva in un modesto quartierino che abbiamo fatto conoscere fin da principio ai lettori, composto sul davanti di due camere da letto, separato da una terza che faceva uffizio di camera da lavoro e di sala da pranzo. La camera di Lorenzo metteva nella sala d'entrata; quella di Maria in un corridoio, per dove si andava alla cucina. Dalla cucina, poi, si saliva ad una cameretta, ricavata nella impalcatura del tetto, nella quale dormiva Michele; e da questa cameretta si usciva sul terrazzo, ch'era tutto ornato di pianticelle, da giardino e da orto, cura particolare del vecchio servitore ne' suoi ozii mattutini.

Dall'altra parte della sala d'ingresso non c'era altro che l'uscio del salottino, malinconica stanza, che è sempre la stessa ed egualmente arredata in tutte le case di modesta fortuna, col suo canapè barocco, fasciato di lana a rabeschi, il tavolincino ovale poggiato su d'una gamba sola davanti al canapè; il piccolo tappeto da piedi tra l'uno e l'altro; quattro sedie a bracciuoli e una poltroncina; quattro battaglie litografate del '48, con la cornice dorata da tanto al palmo; le cortine di mussolina bianca traforata a fogliami, rialzate da due borchie d'ottone sui lati; finalmente un albo con venticinque ritratti, che il visitatore si crede in obbligo di sfogliare, osservando i mezzo svaniti gruppi di famiglia, la sposina in piedi, che posa una mano sulla spalla del marito comodamente seduto, i due amici in maniche di camicia, che fanno le viste di trincare alla salute della macchina fotografica, la balia con l'erede presuntivo sulle braccia, e via discorrendo.

Nel salottino di Lorenzo Salvani il terribile albo non c'era, non essendo ancora venuto l'uso della fotografia a buon mercato; e l'altra costumanza dell'albo bianco, trappola di poeti e di pittori, era in uno de' suoi intervalli di felicissimo riposo.

Maria, del resto (che in simili faccende gli uomini non contano mai), anche se la costumanza dell'albo fosse stata viva e fiorente, non l'avrebbe seguita di certo. La fanciulla aveva altro da pensare, e il gusto di certi trastulli donneschi non lo sentiva affatto. Non amava, per esempio, i fiori sul davanzale, nè i canerini in gabbia; amava tutte le creature del buon Dio, ma senza far preferenze.

Nel giorno da cui prende cominciamento la nostra narrazione, Maria aveva fatte le maraviglie della visita ricevuta da Lorenzo. Il giovine non chiudeva la sua casa a nessuno, ma nessuno ci andava, perchè egli non concedeva diritti di dimestichezza a nessuno. Sapevano tutti ch'egli aveva una graziosa sorella; lo vedevano uscire con essa, ma non c'era verso di potersi accompagnare. Eglino del resto andavano sempre a diporto per istrane vie, a guisa di chi va per le sue faccende. Le strade Nuove e l'Acquasola, ritrovo di gente sollazzevole, non vedevano quella coppia fraterna se non molto di rado, e sempre di passata.

Abbiam dunque detto che la visita del signore sconosciuto aveva fatto maravigliar la fanciulla. Lorenzo, dopo quella visita, era uscito in fretta, senza dirle nulla; ed era questa una grossa novità. Era tornato due ore dopo, e si era seduto al suo tavolino, senza andare neanco a salutarla. Che voleva dir ciò?

Non istette molto a saperlo. Un'ora dopo il ritorno del fratello (il lettore ha già inteso perchè usiamo chiamarli alla breve fratello e sorella), Maria si spiccò dal suo lavoro, per andare sul terrazzo a respirare un po' d'aria; chè la giornata, come abbiamo già detto, era bellissima, e tiepida, a malgrado della stagione.

Nel salire la scala, udì Michele, che era nella sua cameretta sotto il tetto e canterellava una sua prediletta romanza spagnuola:

Mis ojos te vieron
Rosaura querida;
Mortal fuè la herida
De mi corazon.

Michele cantava sempre spagnuolo, con quel suo accento americano che fa rabbrividire ogni buon cittadino della __Castilla vieja__. Ma egli non si curava più che tanto della purezza dell'accento, e tirava innanzi. Dopo la canzoncina di Rosaura, veniva quell'altra:

Pescadorcita mia
Desciende à la ribera,
Y escucha placentera
Mi cantico de amor;
Sentado en su barquilla,
Te canta su cuidado,
Cual nunca enamorado
Tu tierno pescador.

Il veterano di Montevideo ne aveva un centinaio, di queste canzoni, e quando lavorava attorno a qualche cosa, le sciorinava tutte, una dopo l'altra, con una costanza mirabile.

– Bravo, Michele! – gli disse la giovinetta, entrando nella camera.

– Oh, signorina! Domando mille perdoni. È una delle mie vecchie cantilene, che non mi lasciano mai, come certi dolori aromatici che ho buscati laggiù. —

Michele intendeva di parlare di dolori reumatici; ma la corretta pronunzia di certi vocaboli non era il suo forte.

– Povero Michele! – soggiunse la giovinetta, non badando ai dolori aromatici, ai quali era avvezza, come a tanti altri suoi __lapsus linguae__. – Cantate, cantate; è una cosa che rallegra lo spirito. Ma che cosa fate voi ora. Dio mio? Quelle spade!.. —

– Oh nulla, signorina. È il signor Lorenzo che mi ha comandato di dar loro una ripulitura. Sono belle armi, perdiana! Veda come si piegano! Le ho vedute adoperare dal signor colonnello, e le so dir io che fu un famoso scontro. Ho veduto allora una botta di terza, data così a tempo, che non l'ho scordata mai più, e mi corre l'acquolina in bocca al solo pensarvi. —

Così dicendo, il belligero servitore aveva smesso di pulire il ferro, e andava giostrando in aria come un vecchio spadaccino che prova i suoi colpi di riserbo.

A Maria tutti quei discorsi e quella mimica non dicevano nulla di ciò che voleva sapere.

– Ma voi non mi dite il perchè di questa novità! – esclamò ella. – Mio Dio! che cos'è egli avvenuto? Forse Lorenzo… —

E la povera fanciulla impallidì, e fu costretta ad appoggiarsi alla parete, tanta era l'improvvisa commozione.

– Oh, la non si spaventi, signorina! – gridò Michele, deponendo la spada e facendosi tutto sollecito accanto a lei. – Da quanto ho potuto capire, egli è solamente padrino. E poi, fosse anco lui, il signor Lorenzo sa pure tenerla in mano, una lama. Quello è un uomo che, non fo per dire, darebbe dei punti a suo padre. —

La fanciulla non istette ad aspettar la fine del discorso di Michele. Ridiscese la scala, corse alla camera di Lorenzo, e, trovato l'uscio socchiuso, entrò deliberatamente da lui.

Lorenzo stava scrivendo; ma al fruscio della veste, alzò il capo e si volse a guardare.

– Orbene, Maria? – disse egli, come per chiederle che cosa volesse.

La fanciulla era bianca in viso come un cencio lavato, e appoggiava la mano alla spalliera del letticciuolo di Lorenzo, quasi fosse per cader tramortita.

Allora il giovine fu pronto ad alzarsi e correrle incontro.

– Che cosa avete, mia buona Maria? Che cos'è egli avvenuto? —

La fanciulla non rispose alla dimanda di Lorenzo; e piantandogli addosso due occhi scrutatori, gli chiese a sua volta:

– Voi andate a battervi? —

A quelle parole, Lorenzo capì la cagione dello smarrimento di Maria, e si sovvenne dell'incarico dato a Michele, che aveva potuto far nascere in lei il sospetto. Però, assunta l'aria più grave, postosi una mano sul cuore e stendendo l'altra verso il ritratto di suo padre, rispose:

– Vi giuro, Maria, che non vado a battermi io. Sono padrino, insieme coll'Assereto, di un certo dottor Collini che avete veduto venir qua stamane, e al quale, come ad un antico compagno di scuola, non ho potuto dire di no. Eccovi la pura verità; mi credete voi?

– Oh, vi credo, Lorenzo, vi credo. Voi non mentite mai. – E il volto della fanciulla si rasserenò; le lagrime che stavano per isgorgarle dagli occhi alla pressione dell'improvviso sgomento, furono in quella vece spremute dalla gioia.

Avete veduto mai la campagna sorridere amorosamente ad un bel raggio di sole, dopo la tempesta? Gli smorti colori si ravvivano, le foglie abbattute si risollevano, e le gocce d'acqua che le avevano flagellate pur dianzi, riposano tranquillamente nelle verdi cavità, scintillando come altrettanti smeraldi.

Quanto affetto per Lorenzo! direte voi; e giustamente, nell'osservare il fatto in sè, non già nel cercarne una causa riposta in altr'ordine di pensieri. Maria amava Lorenzo di quell'unico amore che ella sentisse, e che non poteva definire la mercè di accorti raffronti, essendo l'unico che ella avesse mai conosciuto.

Lorenzo poi era un giovine eletto; amava Maria come una sorella, e per essa avrebbe corso ogni risico più grave. Ma v'erano di certe cose alle quali egli non avrebbe pure ardito pensare, temendo di commettere un sacrilegio. A dirvela in breve, Maria era per lui un angelo, cioè un essere di natura diversa dalla nostra, diafano, etereo, al quale non si potesse accostarsi se non dopo aver lasciato in disparte il pigro involucro della materia.

E Lorenzo non aveva il torto. Se egli è vero che gli angeli siano essi di natura superiore alla nostra, se è vero che questi esseri siano stati creati da messer Domineddio come suoi messaggeri e testimoni della sua bontà infinita, intermediarli tra il cielo azzurro e la creatura terrestre, Maria aveva tutti i requisiti per essere contata nel numero. In fin de' conti ella poteva passare per un angelo, il quale fosse toccato in sorte alla terra.

Non aveva le ali, ecco il guaio. Ma è forse necessario avere le ali, per essere angeli? E non sarebbe per avventura un guaio più grosso? come a dire una gran tentazione a volar via da questo mondo gramo?




V


Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a due amici di trovarsi in Purgatorio.

La collina di Albaro è la più bella collina che Domineddio abbia posto accanto ad una città, se pure non è meglio dire che Genova è l'unica città la quale sia stata posta accanto ad una così bella collina.

Genova, come tutti sanno, è edificata sulla spiaggia del mare, nel fondo di un golfo e alle falde di un contrafforte degli Appennini, che agli occhi del riguardante offre sembianza di anfiteatro, ed è, topograficamente parlando, un vasto triangolo inclinato, la base del quale è addossata al mare, e i lati, costretti fra due vallate naturali, salgono al vertice, che per una cresta si ricongiunge alle montagne vicine, sproni, o contrafforti che vogliam dire, dell'Appennino ligustico.

In quelle due vallate scorrono due torrenti, i quali non se l'avranno a male se li accuseremo di portare assai meno acqua che non consenta l'onorata ampiezza dei loro alvei la Polcevera a ponente, e il Bisagno a levante. La collina di Albaro è di là dal Bisagno, che essa accompagna in linea parallela fino alla foce.

Di che alberi era piantata nei tempi antichi la collina d'Albaro? Grave questione, ma fortunatamente oziosa. Oggi è piantata di palazzi, e un albero si paga tant'oro, a volerlo naturale. I pochissimi che vi sono, stanno colà soltanto per fare uffizio di cornice ai palazzi sullodati, tra i quali primeggia per bellezza il __Paradiso__, e per memoria quell'altro che diede albergo all'autore di __Don Giovanni__, della __Parisina__ e del __Lara__.

Un nostro faceto amico, in una sua storia inedita della collina d'Albaro, deriva i tre nomi che la dividono, da tre fratelli che la avevano avuta in retaggio da uno dei soliti Noè dell'antichità; i quali tre fratelli si chiamavano Luca, Martino e Francesco. C'è infatti un San Luca, un San Martino e un San Francesco d'Albaro. Quest'ultimo è il più meridionale di tutti; laonde voi, quando abbiate fatto dieci minuti di strada dopo il ponte della Pila, vi trovate alle falde della collina incerto tra due strade, come l'asino di Buridano tra due misure di fieno. La strada a sinistra risale dolcemente la collina a San Martino, e di là scende a Sturla, a Quarto, a Quinto, a Nervi, e giù, giù, fino in capo al mondo; quella a destra piega un tratto verso mezzogiorno, poi sale faticosamente la collina a San Francesco d'Albaro, per ridiscendere verso San Luca, e andarsi a ricongiungere con la sua sorella di sinistra.

Noi, con licenza dei lettori, non baderemo che a San Francesco d'Albaro, il quale, sempre topograficamente parlando, ci presenta ancora tre viottole, le quali corrono da settentrione a mezzogiorno, tutte perpendicolari alla via maggiore, che taglia la collina precisamente accanto alla villa del Paradiso. La seconda di queste viottole finisce come le altre ad un ciglione che sopraggiudica il mare; ma su questo ciglione essa ci ha il particolare ornamento dell'antica chiesuola di San Nazaro; chiesuola senza tetto e senza lastrico, non più destinata ad altro che a qualche sacrificio cruento. Ed anche questa destinazione arbitraria non doveva durare. Dopo il '60 la chiesuola è scomparsa, tramutandosi in una casa a parecchi quartieri, per uso e dilettazione estiva di villeggianti. Poesia delle rovine, addio; l'utilità ti soverchia. E infine, non ce ne addoloriamo oltre misura; l'istesso San Nazaro, che insieme col suo buon collega San Celso portò primo ai Genovesi il verbo dell'amore e della pace fraterna, non doveva essere troppo contento dei riti sanguinosi a cui le rovine della sua chiesuola erano state consacrate.

Il savio lettore ha già capito che questo era il luogo prefisso al duello del dottor Collini col marchese di Montalto. La posta delle due parti belligeranti era sul ripiano dinanzi alla chiesa; ma i padrini del Collini dovevano, come è già noto, aspettare quest'ultimo, mezz'ora prima, sotto la villa del Paradiso, per accompagnarlo poscia sul terreno.

Appunto in quel luogo la strada di San Francesco d'Albaro fa gomito, per dare agio ai carri e alle vetture d'inerpicarsi lassù. Epperò, sul ciglio della collina, dove fa capo quel giro tortuoso della salita, v'è una specie di terrazzo sporgente, il quale sopraggiudica la via sottoposta; e accanto al terrazzo una scaletta ripida, per comodo dei pedoni che vogliono prendere la scorciatoia.

Su questo terrazzo erano appostati alle quattro e mezzo del mattino tre uomini, Lorenzo Salvani, l'Assereto e il servo Michele. La vettura con la quale erano giunti, l'avevano mandata più innanzi.

Il cielo, ancora buio, stillava un po' di brina, od altro di consimile: l'aria, non ricordandosi più de' tepori del giorno innanzi, era gelida; e l'aspettare di quei tre sul terrazzo non poteva dirsi la cosa più allegra del mondo.

Lorenzo appariva tranquillo; solo l'amico Assereto si faceva lecito di scrollare il capo e di battere de' piedi sul terreno, in guisa da lasciar trapelare che non il freddo soltanto gli recasse molestia.

Così la intese il Salvani, perchè, dopo alquante battute di quella fatta, si voltò all'amico e gli disse:

– Diamine! che impazienza è la tua?..

– Di' piuttosto che disperazione; – soggiunse l'Assereto. Lorenzo non rispose altrimenti a quelle parole dell'amico che con un dispettoso crollar delle spalle.

– Sentimi, Lorenzo; – disse allora l'Assereto. – Io, già lo sai, ho accettato questa seccatura per te, non per altro riguardo al mondo. Ora ci ho in capo che questo signor Collini ce ne voglia fare una delle sue.

– Suvvia! – interruppe Lorenzo. – Tu l'hai sempre con lui, e questo non istà bene.

– Bravo! E tu vedi tutti gli uomini buoni, come un collegiale tutte le donne belle. Figliuolo mio, non si dànno di questi appuntamenti alla gente. Quando si è pronti a battersi, si dice ai padrini: venite a casa mia a svegliarmi. Quando se n'ha una voglia deliberata, si dice loro: dormite pure della grossa; io verrò a cercarvi a casa vostra. E in questo caso ci si arriva un'ora prima. Qui invece, che cosa avviene? Che si dà la posta a mezza strada, e si ritarda per giunta.

– Sia come tu vuoi; – rispose Lorenzo, – ma l'ora non è anche passata. D'altra parte, in questo negozio, siamo andati un po' tutti col capo nel sacco, senza consultare il lunario. Tu vedi che incomincia appena ad albeggiare. Gli avversarii non sono giunti ancora.

– Oh, in quanto a quelli, guardali là in capo alla strada.

– E chi ti dice che non sia invece la carrozza del Collini?

– Vuoi scommettere?

– No, Assereto; non scommetto mai. Spero che quella sia la carrozza del Collini, e non mi curo del rimanente.

– Ed io ti dico che sono gli altri.

– Vedremo.

– Sta bene, vedremo. Ma intanto, se egli non viene, che cosa si fa?

– E che cosa vorresti fare? – chiese Lorenzo. – Già, credilo, il Collini non istarà molto a giungere, e quasi mi pare di fargli villania a darti retta. Ma, dato e non concesso, come dici tu, con eleganza curiale, che egli non venisse, la cosa è chiara come un'operazione aritmetica. Si va sul terreno, e si fa testimonianza dell'accaduto.

– Profferendosi prima ai comandi della parte avversaria, – interruppe l'Assereto.

– S'intende; ma è anche debito di gentiluomini rifiutare la generosa offerta; e i poveri padrini di un vigliacco se le vanno a capo chino e con la coda tra le gambe, come cani bastonati.

– Convieni che sarebbe una brutta cosa…

– È verissimo; ma che vorresti tu farci? A certi malanni che capitano tra capo e collo non c'è rimedio che tenga. Ma ecco la carrozza che gira il gomito della salita.

– Ahimè! – esclamò l'Assereto. – Siccome io sono certo che ella porta nel suo grembo i nemici, come il famoso cavallo di Troia, ti propongo di ritirarci nella scaletta, perchè non ci abbiano a vedere in questa disgraziata postura.

– E che c'è di strano, – rispose Lorenzo, – che noi stiamo qui aspettando il Collini? Noi non dobbiamo rendere ad essi altro conto che di una assenza sul terreno, all'ora prefissa. Del resto, ci avranno già veduti. —

Intanto che questo dialogo si proseguiva tra i due, la carrozza, girato il gomito della strada, veniva al trotto verso il ciglio della collina. I due amici si fecero per moto naturale a guardarla, e per la portiera, che era aperta, videro il Montalto co' suoi padrini e il chirurgo.

Quei della vettura e quei della strada si scambiarono il saluto con molta freddezza. A Lorenzo il sorriso del marchese di Montalto parve altiero anzi che no. Tuttavia non volle dirne nulla all'Assereto, di cui temeva i commenti sarcastici. Ma all'Assereto non era sfuggito quel sorriso, e siccome egli nella furia del suo malumore non perdonava a nessuna cosa, si affrettò a dire:

– Hai veduto? Ci squadrano dal capo alle piante come bordaglia di strada. Ma riderà bene…

– Chi riderà l'ultimo! – gridò Lorenzo, levando le parole di bocca al compagno. – Hai ragione, Assereto. Ora usami questa cortesia, di aspettare un poco in santa pace. Sono le quattro e quaranta minuti, e il ritrovo davanti alla chiesa è fermo per le cinque. Il Collini non vorrà tardare più molto. Forse ha perduto tempo a trovar la carrozza. Aspettiamo dunque… fino a tanto che si può.

– In questo caso, ottimo Lorenzo, tu sveglierai me, quando l'eroe sarà giunto, o tu ti sarai stancato di attenderlo. —

Così parlò quella buona lana dell'Assereto, e ravvoltosi bene nel suo mantello si sdraiò sul sedile di lavagna che correva intorno ai murelli del terrazzo, cercando di pisolare un tantino.




VI


Nel quale si dimostra che l'Enfisema non è un personaggio greco.

L'aspettare è la più brutta, la più fastidiosa delle occupazioni, anche quando non si abbia altro da aspettare che un amico, per andar di brigata a desinare in campagna; figuriamoci poi quando sia per un così grave negozio, come quello per cui Lorenzo e l'Assereto aspettavano il dottor Collini.

I preliminari di un duello e il tempo che scorre dalla disfida ai colpi, sono la pietra di paragone del coraggio di due avversarii. Ai tempi antichi, quando i gentiluomini portavano tutti la spada al fianco, il combattimento si faceva di sovente appena avvenuta la provocazione. Oggi, in cambio, manca l'uso dell'arma e manca per conseguenza l'occasione di far subito. Bisogna anzitutto mettersi in balìa di due padrini, i quali trattano, e qualche volta anco bistrattano la faccenda. Poi si ha da dormirci su; poi bisogna svegliarsi fuor d'ora, vestirsi, uscire e andar sul terreno, aspettare che i padrini s'intendano su cento minuzie, scelgano il luogo, misurino il campo, dividano, giuochino a sorte il lato migliore, visitino il petto e le braccia, diano le armi, i segnali e via discorrendo. Di questa guisa, un uomo di poco animo ci ha tempo a pentirsi d'essere andato tanto oltre; un uomo di polso ci ha tempo a sbadigliare di molto, come un povero viaggiatore sul disagiato sedile di una carrozza. Ma il Collini non era un uomo di polso, e Lorenzo Salvani lo aspettava inutilmente da un pezzo.

Guardò l'orologio per la ventesima volta; erano le quattro e cinquanta minuti.

– Oh, insomma! – gridò egli allora, – Assereto, levati su! —

L'Assereto balzò in piedi tutto confuso, stropicciandosi gli occhi.

– Perchè svegliarmi? – esclamò egli. – Facevo un sogno così bello! Figurati; sognavo che il tuo Collini era venuto, con un cuor da leone, tutto armato di feroci propositi. Ma vedo bene che bisognerà notare di falsità il detto di Omero.

– Qual detto? – chiese Lorenzo, in quella che ambedue, seguiti dal taciturno Michele, si avviavano verso la viottola di San Nazaro.

– Non sai? nel primo libro dell'Iliade, dove Achille dice che «__da Giove anco il sogno procede__». Ora il mio è stato un sogno inspirato da Momo, il Dio dello scherno. Il Collini non è venuto; andiamo noi.

– __Tu dixisti__, – rispose il Salvani, imitando la burlesca gravità di Giorgio Assereto. – Soltanto ti prego di studiare il passo, perchè la viottola è lunga, e mancano appena otto minuti alle cinque. —

A mezza strada trovarono la loro vettura, svegliarono il loro medico, che russava beatamente nel fondo; pigliarono le spade, e poi giù a passo di corsa fino a San Nazaro.

Il sole non era anche spuntato dallo scoglio di Portofino, dove i primi Genoati credevano che stesse a dormire; ma i primi colori dell'aurora dipingevano timidamente il cielo e le digradanti costiere ligustiche. Il rancio, il rosato e il verdognolo, magnifici colori che l'alba tiene in serbo nella sua tavolozza d'estate e d'autunno, cedevano qui il luogo ad una tinta pallida, tra turchiniccia e cenerognola, unico segno della mattutina risurrezione del creato.

Sul ripiano davanti alla chiesuola stavano quattro persone aspettando. Il marchese di Montalto, con un lungo pastrano nero abbottonato fino al collo, stava con le mani in tasca appoggiato al muro. Il medico guardava il mare, dando le spalle ai nuovi arrivati. Il marchese Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, colla sua divisa di capitano e con la sua cappa cenericcia sulle spalle, guardavano verso lo sbocco della viottola.

Lorenzo e l'Assereto si fecero innanzi, salutando con molto garbo, e gli altri risposero del pari. Il Montalto non fece altro che metter la mano al cappello, e stette nella medesima postura di prima.

– Signori, – disse Lorenzo, – io spero che non ci ascriveranno a colpa lo averli fatti aspettare.

– Mai no; – rispose il Pietrasanta, – sono le cinque in punto.

– Questo so bene, signor marchese, – soggiunse il Salvani, – ma a noi duole di essere giunti dopo le Signorie loro al ritrovo. —

Gli altri si strinsero nelle spalle, quasi volessero dire: che ci abbiamo a far noi?

Lorenzo intese la mimica, ma finse di non addarsene.

– Signori, – soggiunse egli, con un sorriso malinconico, da cui trapelava l'angustia dell'animo, – aspettavamo il signor Collini. Ma, a quanto sembra, egli è stato trattenuto in città da altre faccende, che avrà reputate più urgenti. —

Un altro sorriso, ma di ineffabile disdegno, fu quello che sfiorò le labbra del marchese di Montalto. Gli altri si contentarono di tacere, aspettando la fine del discorso. Infatti Lorenzo, per nulla turbato proseguì:

– Siamo stati ad attenderlo fino all'ultimo. Egli ha mancato alla sua fede, e noi siamo venuti qua, per significare alle Signorie loro tutto il nostro rammarico. —

Il marchese di Montalto sorrise da capo. I suoi padrini si volsero a lui per vedere che cosa dicesse; ed egli allora, levatosi con piglio di noncuranza dalla sua prima postura, e cavandosi il cappello, pronunziò queste poche parole:

– Francava la spesa di alzarsi così per tempo, per riuscire a ciò!.. —

Il sangue si rimescolò tutto nelle vene al Salvani, e una vampa di fuoco gli corse alla fronte; tuttavia si contenne:

– Signori, – ripigliò a dire, – non avevo finito. Io ed il mio onorevole collega Giorgio Assereto significavamo alle Signorie loro il nostro rammarico, perchè questo era debito nostro. Siamo stati a recare un cartello di sfida al marchese Aloise di Montalto da parte del signor Ernesto Collini. Questi mancando al ritrovo, a noi correva obbligo di far loro le nostre scuse. Dopo di che, io, come primo padrino del signor Collini, mi metto a disposizione del marchese di Montalto. —

Il Pietrasanta e il Nelli, sebbene prevedessero questa fine, non poterono rattenersi da un senso di meraviglia, cagionato forse dall'accorto e cortese giro di frasi con cui il giovane Salvani l'aveva preparata. Essi lo guardarono in viso; era pallido, ma non del pallore della paura, poichè gli occhi suoi scintillavano per l'interno corruccio che egli durava fatica a frenare. L'Assereto, a cui le ultime parole del Montalto non avevano fatto minor senso, si era posto accanto all'amico, con un cipiglio da vecchio __hidalgo__ spagnuolo.

Michele, fermo a distanza legale, sorrideva ad uno de' suoi baffi, che andava tirando con molta compiacenza.

– Tanto meglio! – riprese il Montalto, rendendo con la superba esclamazione impossibile ogni mezzo di onesto componimento; poi, parlando a voce bassa coi padrini, soggiunse: – in verità, con questa gente non avrei sperato mai più di finirla così. —

Lorenzo, che aveva un udito finissimo, non perdette una sillaba di quel discorso fatto in disparte, ma stimò acconcio di tenerlo per sè.

Allora l'Assereto, il quale, per la deliberazione di Lorenzo Salvani, diventava egli il ministro plenipotenziario, fece il muso anche più arcigno di prima, ed invitò, con quella fredda cortesia che è l'arte somma dei padrini, la parte avversaria a misurare il terreno e a metter le condizioni.

Intanto Lorenzo era rimasto a guardare la marina, e si accendeva un sigaro. Aloise di Montalto, poco discosto da lui, ragionava di cose vane col suo medico.

Il terreno, dentro le mura della chiesuola fu in breve ora misurato e diviso. A Lorenzo toccava in sorte di dare le spalle all'ingresso; di guisa che, se il combattimento durava, egli avrebbe finito coll'avere il sole in faccia. Le spade, tratte a sorte, eran quelle di Lorenzo.

Furono fatti entrare i due avversarii, i quali si erano già cavati il pastrano, il soprabito e la sottoveste, rimanendo in maniche di camicia. Il conte Nelli di Rovereto prese il suo posto da un lato, e l'Assereto dall'altro, ambedue colla spada in mano. Mastro del combattimento fu nominato il Nelli, senz'altra formalità, perocchè Lorenzo aveva detto all'Assereto, che cedesse quell'ufficio, per abbondanza di cortesia, senza rimetterlo alla sorte.

I medici ed il Pietrasanta, che rimaneva fuor di quistione, si piantarono sulla porta. Michele aveva dovuto ritirarsi; ma, da quell'uomo di partiti che egli era, girando attorno alle mura, aveva trovato finalmente un buco, dal quale gli veniva fatto veder dentro a suo bell'agio; e potete immaginarvi che vi si mettesse con molta curiosità.

Come il Montalto e il Salvani si trovarono l'uno al cospetto dell'altro, il conte Nelli di Rovereto prese a parlar loro in questo modo:

– Signori, abbiamo deliberato che voi combattiate fino a tanto che uno sia ferito per modo da non poter più tenere la spada. Io, mastro di combattimento, vi darò il segnale di fermarvi quando mi paia che uno di voi sia toccato dalla punta dell'avversario, e il signor Assereto, dal canto suo, potrà fare lo stesso, quando si avveda di qualche ferita, che io, stando da questo lato, non potessi vedere per bene. —

L'Assereto s'inchinò in atto di assentimento. Il Nelli proseguì:

– Quando uno di voi scivolasse sul terreno, che mi pare un po' sdrucciolo per l'umidità del mattino, e si trovasse nel caso di dover indietreggiare fino ad una di quelle due linee che abbiamo segnate da una parte e dall'altra, sarà debito del suo avversario fermarsi al nostro comando, ed ambedue smettere il combattimento, sotto pena di essere notati di slealtà. Ma noi sappiamo che ciò non farete, essendo gentiluomini. E adesso, signori, a voi! —

Dopo questa frase sacramentale, i due avversarii, salutati alla lesta i padrini, incrociarono le spade.

Sulle prime non fu altro che un giuoco di finte. I due avversarii si studiavano a vicenda, per vedere se l'accennar d'un colpo passasse senza che fosse parato dall'altro. Lorenzo Salvani stette molto a spiegare il suo giuoco; egli parava largo anzi che no, a guisa di principiante. Senonchè egli fu presto costretto a stringere, perchè il Montalto, stanco di quelle schermaglie, aveva ingaggiato un assalto, con due botte diritte molto vigorose.

Lorenzo parò facilmente col forte della lama, e con la punta minacciò gagliardamente a sua volta. A quel punto, ambedue si accorsero di avere a stare attenti. Il Montalto era un esercitato schermidore, ricco di partiti e di bella apparenza. Lorenzo era più sodo, e non faceva di molte novità; ma un avversario accorto come il Montalto non poteva negare che quello era un osso duro a rodere, assai più che non facesse a prima giunta vedere.

Alla seconda botta del Montalto, Lorenzo aveva risposto con una seconda legatura del ferro, minacciandolo così da vicino, che il marchese dovette balzare indietro e battere la lama dell'avversario con un colpo vigoroso di terza. Lorenzo sollecito avea dato innanzi di un passo, e la lama del Montalto, non potendo andare più oltre a cercargli il petto, gli offese con la punta il dosso della mano; e siccome ambedue avevano voluto tirar senza guanto, si vide sulla mano di Lorenzo qualche goccia di sangue.

Il mastro di combattimento fu sollecito a fermarli, ed egli coll'Assereto e i due medici si fecero a guardar la ferita.

– Non è nulla; – disse Lorenzo, poichè ebbero guardato. – Non è nemmeno una scalfittura. —

Si rimisero in guardia; e qui davvero cominciò il combattimento. Lorenzo incalzava cosiffattamente, che il marchese di Montalto dovette balzare indietro due volte. Ma questi, tornando all'assalto, si avvide che il Salvani si studiava di non cedere d'un passo, e non abbandonava mai il terreno guadagnato. Allora il duello fu continuato di pie fermo, e i padrini dovettero poco dopo intromettersi, che già i due avversarii stavano elsa ad elsa, guardandosi e sorridendo.

Ambedue i padrini ruppero in un grido di ammirazione.

– Bravi! bravi, perdio! – esclamò il conte Nelli, il quale, da buon gentiluomo, non faceva più da padrino, ma da giudice imparziale. – Signori, voi siete due valenti avversarii. Io, con licenza del signor Assereto, vi prego a farla finita, e chi ardirà dire che non vi siete diportati da prodi cavalieri avrà da aggiustarla con noi.

– Signor conte, – disse Lorenzo, voltando a terra la punta della sua spada, – io di buon grado ascolterei i vostri consigli e la vostra preghiera, che tanto onora il vostro carattere. Ma per quanto io senta degno di stima il mio avversario, non posso dimenticare l'asciutta accoglienza che è stata fatta testè alle nostre prime parole, quando siamo venuti, con tanta nostra confusione, ad annunziare il brutto tiro del signor Collini. Non posso dimenticar la frase del signor marchese Aloise di Montalto, nè il suo riso sardonico, nè certe parole che ho dovuto udire, sebbene pronunziate a mezza voce con voi. Ora, io ho molta stima pel marchese Montalto, e non mi farei lecito mai di pensare che egli potesse ritrattare nessuno de' suoi gesti, o nessuna delle sue parole.

– Io vi ringrazio; – disse il Montalto, con molta cortesia di gesto e di accento, – e queste vostre parole m'insegnano a stimarvi di più.

– Sicchè?.. – dimandò il mastro di combattimento.

– Sicchè, mio caro Rovereto, – rispose il Montalto, – noi ci rimetteremo in guardia, con vostra licenza.

– E Dio v'aiuti; – soggiunse il bravo capitano. – Signori a voi! —

Il duello ricominciò. Ma Aloise di Montalto fu questa volta assai più guardingo e fece a studiar molto le parate. Il giovane cominciava a sentire dentro di sè un tal poco di pentimento per certi suoi modi, e da quel leal gentiluomo ch'egli era badò più a schermirsi che a ferire l'avversario.

Ma Lorenzo Salvani non era uomo da accettare simiglianti cortesie, e appena si fu avveduto che il Montalto tirava soltanto a difesa, spiccò un salto indietro, e piegando la spada a terra, parlò in questa guisa:

– Signor marchese, o assalite voi pure, o ch'io mi metterò ad imitarvi, e tireremo innanzi di questo passo fino al dì del giudizio universale.

– Oppure a quello di San Bellino, che casca tre giorni dopo; – soggiunse tra sè il vecchio Michele, che stava dal suo buco a guardare la scena.

– Avete ragione! – esclamò Aloise di Montalto. – Volete vincermi di cortesia, e ne avete il diritto. Ecco dunque, io vi contento. —

E così dicendo, si rifece al primo giuoco. Le spade giravano, s'inseguivano, si legavano e si districavano con una rapidità meravigliosa, senza dar tregua a quell'armonico soffregamento dell'acciaio, che fa ribollire il sangue nelle vene ai più dolci di tempera. Ma ogni bel giuoco dura poco; certe battute di terza e di quarta, che erano il forte del marchese di Montalto, non furono più così aggiustate come prima, e Lorenzo, che se ne avvide, incalzò. Finse una botta al sommo del petto, appoggiandola con una forte spaccata di gambe, e poi, girando il pugno, passò incontanente al fianco. Il Montalto non fu in tempo a respingere l'assalto, e la parata bassa che egli fece, giunse a mala pena a sviare un tratto la lama dell'avversario, la quale, in cambio di andargli al petto, lo colse in quella parte del costato, dove s'incurva verso le spalle.

Lorenzo, fatto il colpo, trasse la spada a sè, rimettendosi in guardia. Ma fu inutile: il Montalto era caduto a terra, e il sangue spicciava dalla ferita.

Allora tutti quanti accorsero per rialzare il caduto, e il dottor Mattei, ottimo giovanotto che faremo conoscer meglio ai nostri lettori quando ci venga a taglio, cortesemente aiutato dal suo collega in Esculapio, si fece a visitar la ferita.

Egli alzò dapprima la camicia, e con una pezzuola inzuppata d'acqua ripulì tutt'intorno alle labbra della ferita; per la qual cosa il Montalto, che nella repentina commozione del fatto era quasi uscito di sensi, si riebbe ed aperse gli occhi, sorridendo agli astanti.

Ma a costoro il sorriso del giovine non poteva bastare. Essi stavano tutti muti, con tanto d'occhi, aspettando il responso, ed interrogando gli sguardi del Mattei, che continuava la sua esplorazione.

– Penetrante? – gli chiese il collega, in quel gergo che i profani intendono così poco.

– Probabilmente: – rispose il Mattei, – la ferita è tra la settima e l'ottava costa, e dalla natura del colpo si può argomentare che vada dal basso all'alto nella cavità toracica.

– E, – disse l'altro con esitanza, – non c'è lesione?..

– Questo vedremo ora, – soggiunse il Mattei, guardando attentamente il collega e il ferito. —

Aloise intese la mimica, e fu pronto a mettere innanzi la sua parola.

– Parlate pure, mio caro Mattei; – disse egli, – con me potete dir tutto liberamente.

– Non temete, – interruppe il chirurgo; – io non ho l'uso di tacere la verità ai malati della vostra tempra. E poi, ancorchè il polmone fosse tocco, non ci sarebbe quel gran male che il volgo crede, ogni qual volta si tratta di simili lesioni. Aspettate, ora faccio un esperimento. —

Così dicendo, il buon discepolo di Chirone cavò fuori un moccolo, lo accese e lo accostò alle labbra della ferita.

– Vedete? – disse egli allora sorridendo con aria trionfale al collega. – La fiamma non si muove, e questo è buon segno. Ora guardate i tessuti circostanti alla ferita; essi non offrono alcuna traccia di enfisema. La qual cosa significa, – proseguì egli voltandosi ai profani, – che non c'è sfogo d'aria e che il polmone non ha ricevuto la visita del ferro. E nemmeno è lesa l'arteria intercostale, come possono vedere dalla pochezza del sangue spicciato dalla ferita.

– Non è dunque altro che una ferita leggiera? – chiese il Pietrasanta.

– Leggiera! Intendiamoci; – soggiunse il chirurgo; – per me non ci sono ferite leggiere, tranne le scalfitture; ed anco queste ci hanno i loro malanni, secondo i luoghi. Questa poi è una ferita bella e buona, e se fosse consentito dalle regole d'arte esplorarla con uno specillo, mi riprometterei di misurarvela profonda di sei centimetri o sette. Il marchese di Montalto si metta in riposo, e lasci fare a me ed alla natura, quella gran medichessa che ne sa dieci volte più di noi tutti.

– Potete immaginarvi, caro dottore, – disse Aloise, – che io seguirò i vostri consigli. Io non ho nessuna voglia di morire, e sono molto lieto di non avere in corpo quel tal personaggio greco di cui parlavate poco anzi.

– Ah, volete dir l'__enfisema__? Certamente gli è un personaggio fastidioso; – rispose il Mattei, che stava molto volentieri alla celia, – ma se egli non è venuto ora, non vien più di certo. —

Le parole del medico e la buona cera di Aloise avevano rasserenato la comitiva. Ma appunto allora, e in quella che i due medici stavano intenti a riunire le labbra della ferita con alcune strisce di sparadrappo ed una acconcia fasciatura, fu notata la presenza di due personaggi, i quali assistevano in disparte alla scena.




VII


Di un'alzata d'ingegno che fece l'uomo dai capelli rossigni, e di quello che poscia ne avvenne.

Quella apparizione improvvisa scosse un tal po' la brigata; ma ebbero da strabiliare addirittura quando videro chi fosse l'uno dei due nuovi venuti.

Era il dottore Ernesto Collini, che stava sulla soglia con gli occhi bassi e le braccia penzoloni. Accanto a lui era un ignoto personaggio, vestito di nero dal capo alle piante, che non mostrava nemmeno i solini della camicia. Con aria tra l'umile e lo sfrontato, se ne stava là, a spalle un po' chine, ma con gli occhi fisi su quel crocchio di giovani, senza punto scomporsi, e quasi senza addarsi del senso d'ingrata meraviglia che la presenza del Collini e la sua avevano destato negli astanti.

Il primo a rompere il silenzio fu Lorenzo Salvani, a cui come primo padrino del Collini e per cagion sua costretto ad incrociare il ferro col marchese di Montalto, si spettava più che ad altri il parlare.

– Voi qui? – diss'egli, con accento da cui trapelava tutto lo sdegno dell'anima. – E che cosa venite a fare? —

Il Collini, di smorto che era nel viso, si fece livido senz'altro; alzò la fronte verso Lorenzo, ed al fiero corruccio balenante dagli occhi del giovine rispose con uno sguardo sottile e freddo che pareva volesse passarlo fuor fuori; ma quello sguardo fu un lampo, e gli occhi del Collini si levarono subito al cielo, con aria contrita, in quella che la voce diceva, con accento da pulpito:

– Il mio dovere!

– Il vostro dovere? È già stato fatto; – gridò il Salvani. – Guardate; per cagion vostra due galantuomini, i quali non avevano sdegno o rancore di sorta l'uno contro l'altro, sono stati ad un pelo di uccidersi.

– Il Cielo mi è testimone che io mi dolgo amaramente di quanto è avvenuto testè, – disse il Collini, alzando gli occhi al cielo, come per offrirgli il suo calice di amarezza; – credevo che tra il marchese di Montalto e i miei padrini non dovesse accader nulla. Se manca uno degli avversarii (e permettetemi di usare questa parola per farmi intendere, sebbene non sia intesa più dal mio cuore), i suoi padrini, dissi tra me, non hanno a far altro che dar atto della sua assenza, comunque ella possa venir giudicata da animi preoccupati. Io dunque sono condotto a credere che se, dopo un fatto simile, si è trovato il modo di fare un duello, ciò debba ascriversi a feroce desiderio di sparger sangue, e non ad altra cagione. —

Lorenzo era fuori di sè per lo sdegno; gli altri tutti erano meravigliati, stupefatti da tanta audacia. Pure nessuno fiatò.

– E tuttavia, – proseguì il Collini col medesimo acuto e senza guardare in volto nessuno degli astanti, – io me ne dolgo come se fosse un male avvenuto per cagion mia. Ora, o signori, lasciatemi dire il perchè non sono venuto al ritrovo, e poi mi giudicherete.

– Sono curioso davvero di saperlo; – borbottò il dottor Mattei, daccanto ad Aloise di Montalto, il quale stava ancora seduto sul terreno, aspettando il fine della fasciatura.

– Sapevo che il battermi era un male; – disse Ernesto Collini. – Son cristiano, cattolico, e me ne vanto. Cedendo la provocazione del marchese di Montalto, io ho obbedito ad un sentimento di vanità mondana, che ora detesto. E notate, o signori; io m'ero talmente ostinato in questo pericoloso sentimento, che fui per ricusare il sacrifizio di me stesso, perfino alle strazianti preghiere di un vecchio venerando…

– Che altra storiella ci racconta costui? – interruppe l'Assereto.

– Lasciatelo dire, signor Assereto; – soggiunse il capitano; – il suo racconto mi diverte non poco.

– Vi diverta, o no, – ripiccò il Collini, voltandosi improvviso e rizzando il capo come un serpe a cui sia stata calpestata la coda, – io debbo andar fino all'ultimo. Sì, o signori, quel vecchio venerando mi mandò iersera a chiamare, e mi chiese se fosse vero di quella sfida che avevo mandata al marchese di Montalto, ed io non potei nascondergli il vero, che egli del resto conosceva per filo e per segno. Egli mi pregò, mi scongiurò allora, che mi ritenessi da quella prova di sangue, e non gli valsero preghiere, nè scongiuri. La mia ostinatezza giunse a tale da consentire che egli scendesse dal letto, sul quale è inchiodato da più mesi, e trascinare sul pavimento la sua onorata canizie. Egli tremava per il grave scandalo e per me, ma più ancora per la vita del suo nipote…

– Ah! ah! mio nonno! – interruppe Aloise. – Non avrei pensato mai più che egli ci avesse un cuor così tenero.

– Sì, o signor marchese di Montalto. Vostro nonno vi ama, checchè possiate pensarne voi. Quel buon vecchio, al quale con le mie cure assidue vo prolungando la vita, io sono stato al punto di ucciderlo con la mia ostinazione vanitosa. E ci volle la intromissione di parecchi savi personaggi, perchè io vedessi il danno che recavo a quel povero vecchio, e l'offesa che facevo alla santità della morale. Infine, signori che vi dirò? Ho raccolto il capo nelle palme, ho pianto come un fanciullo, e in quelle lagrime tutta la mia superbia si è stemperata. E allorquando ebbi rinunziato al duello, avreste dovuto, com'io, vedere il suo giubilo. Figliuol mio, mi disse egli, io vi sarò grato di questo sacrifizio fino a tanto che io viva, ed eccovi la benedizione di un povero vecchio…

– Per ora; – interruppe da capo Aloise, – e più tardi potrà anco lasciarvi il rimanente.

– Signor marchese, potreste supporre?..

– Tutto. Non vi ha egli chiamato suo figlio? Badate a me, e consolatevi. I vecchi sono pozzi di verità.

– Insomma, signor di Montalto, comunque vogliate portar giudizio di me (e debbo fare anche questo sacrifizio) credete pure che ci vuol più coraggio a parlarvi come io vi ho parlato adesso, che ad incrociare una spada col più valente schermidore del mondo.

– Avete ragione, messer Collini; – interruppe a sua volta Lorenzo, il quale non poteva frenarsi più oltre, – e penso che ci voglia più pazienza ad ascoltar voi per dieci minuti, che a marcire nel fondo di una prigione. Colà, almeno, non si ode altro che lo strepito delle proprie catene; non si vede altro che il viso arcigno, ma non disonesto, di un carceriere. Insomma, voi siete un codardo; liberateci dalla vostra presenza, e subito!

– Ben detto! – gridarono tutti ad una voce. – Levatevi di qua! —

E uno di loro, il Nelli, aggiunse con piglio marziale: – fronte indietro, passo di carica, e __marche__!

Il Collini vibrò una bieca occhiata a Lorenzo, un'altra in giro a tutti gli astanti, e stringendo i pugni, uscì dalla chiesuola, accompagnato dal sozio vestito di nero.

Giunti che furono sul ripiano, in cambio di tirar oltre per la viottola, dove avrebbero potuto esser còlti dalla brigata che ci aveva le sue vetture ad aspettarla, voltarono a sinistra per una via scoscesa, che, praticata sul lembo dello scoglio, va giù fino ad una spiaggerella sul mare. Di là risalendo, potevano andare a passare per un'altra viottola, e la mercè di certe scorciatoie assai note ai genovesi che vanno colassù a villeggiare, riuscire a San Pietro della Foce, da dove sarebbero tornati in città alquanto più tardi delle vetture.

Era quella del resto la strada che il Collini aveva tenuta per andare alla chiesuola. Senza essere veduti da alcuno, egli e il suo taciturno compagno erano giunti fin sotto quella sporgenza del masso dove accadeva il combattimento, ed avevano potuto cogliere il momento opportuno di farsi innanzi, quando più non si udisse lo strepito delle armi.

Ridiscesi adunque su quel tratto di spiaggia, dove erano affatto celati alla vista di coloro che stavano in alto, sul ripiano della chiesuola, i due sozii si fermarono.

Il dottor Collini aveva la schiuma alla bocca, e mulinava nel capo i più feroci pensieri. La vergogna era stata grande per lui, e tutti i sarcasmi di quei giovani animosi li aveva infitti, come strali avvelenati, nel cuore. Imperocchè egli sentiva pure tutta la vigliaccheria del suo atto; ma, siccome avviene a tutti i tristi della sua fatta, che sono codardi e vanitosi ad un tempo, non sapeva patire lo scherno, e covava nell'animo la vendetta.

Nessuna parola era stata anche scambiata fra i due. Ernesto Collini, senza badar molto a quello che si facesse, si chinò sul greto a raccogliere alcuni ciottoli, e si diede a scagliarli nel mare, facendoli scivolare di rimbalzo sulle acque tranquille.

Duemila trecento e trentott'anni innanzi, un altro vanitoso crudele, sebbene assai più possente di lui, se la prendeva col mare, facendolo battere a colpi di verghe.

– Perdio! – ruppe finalmente a dire il Collini. – E non mi vendicherò di costoro? E quel Salvani, il quale mi dice occorrere più pazienza a udir me, che non a marcire nel fondo di una prigione!.. Oh, ti ci farò marcire ben io, se quello ch'io penso è vero.

– Benissimo, figliuol mio! – disse allora il compagno. – Questo si chiama ragionare. Seguite l'esempio di chi ha vissuto più di voi. Io mi sono vendicato di molti, e la buona causa se n'è avvantaggiata parecchio.

– A voi sembra un negozio molto spiccio, padre mio. Ma come fare?

– Non dubitate; da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Costoro, se voi siete prudente ed astuto, vi daranno tutti nel laccio da sè. Io li conosco, questi cervelli stemperati, i quali ardiscono fare e dire ogni cosa che loro talenti, alla luce del sole. La vendetta è un peccato, figliuol mio, quando ella non giova ad altri che a noi, quando non serve a Dio; ma la vendetta che giova alla sua causa, è buona. Non si chiama egli il Dio delle vendette? Date tempo al tempo, e vedrete come sapremo conciarli pel dì delle feste.

– Ma io ho bisogno di far presto! – rispose il Collini, digrignando i denti. – Sentite, padre mio, come il cuore mi batte. Oh certo, se non era pel vecchio Vitali, io non mi sarei lasciato persuadere a tanta debolezza.

– Che! che! – interruppe quell'altro, accompagnando le sue parole con un certo risolino sarcastico; – non vi sareste battuto neppure. Avete colorito assai bene il vostro racconto, bisogna convenirne; ora finite con aggiustargli fede voi stesso.

– Padre!.. – esclamò il Collini, provandosi a guardare in viso il suo interlocutore.

– Bando alle inutili parole, vi prego! – disse questi, senza tener conto del piglio sdegnoso del Collini. – Sapete pure che se io per avventura ammalassi, non manderei per voi, e non inghiottirei pur una delle vostre pillole. Con me i vostri corrucci non faranno mai buona prova. Siate dunque più schietto con me, poichè ci conosciamo così bene! Io poi non vi ascrivo a colpa di non essere un Rodomonte. Altri ha il coraggio di sfidare la punta di una spada, o la canna di una pistola; noi abbiamo quello del serpente, che striscia nel buio, e dal tronco di un albero agguata il leone e lo stritola. È questo, a mio credere, il coraggio più sicuro e il più profittevole. Io vi confesso schiettamente che sono contento di voi, e tutta la società, alla quale dovete gloriarvi di appartenere, non si dipartirà da questo giudizio. Al vecchio Vitali importava che voi gli uccideste il nipote, o che foste ucciso da lui (la qual cosa era molto più probabile), come a me importa di quel gabbiano laggiù, che va girando sui flutti per buscarsi un pesce a fior d'acqua. È la salute dell'anima che gli preme, a quel vecchio barattiere, e il mio consiglio soltanto gli dettò quella preghiera che egli vi fece, senza punto discendere dal letto e trascinare nel fango la sua onorata canizie, come voi dicevate testè con tanta eloquenza, quella preghiera insomma alla quale voi vi siete acconciato così di buon grado. Non è egli vero?

– È vero! – brontolò il Collini, chinando la testa.

– Il vecchio Vitali è un tristo; – riprese l'uomo vestito di nero; – le sfondate ricchezze che egli ha, non sono sue. Non vi è ignoto com'esse provengano da un nostro deposito, che egli non ha voluto restituire, e di cui si ostina anzi a negare l'esistenza. Ora i suoi milioni sono il frutto di quel deposito; son dunque nostri, e dobbiamo ad ogni costo riaverli, sia che egli faccia voi suo erede, la qual cosa mi pare molto difficile e fors'anco un tantino pericolosa, o che Aloise di Montalto diventi uno dei nostri, e si rassegni a spartire con noi. Eh, figliuol mio, non mi crollate il capo a quel modo! Se ne son vedute tante, in questo mondo. In fin dei conti, è necessario che i milioni del vecchio tornino a noi; questo è l'essenziale, e noi provvederemo ai modi. Voi siate prudente, più zelante, e soprattutto più obbediente che non foste pel passato. —

Il Collini si mordeva le labbra, e non rispondeva nulla a quel discorso del savio compagno. Ma questi non aveva anche finito.

– Badate, signorino! – aggiunse egli. – Se voi siete fino ad un certo punto utile a noi, per l'ufficio a cui v'abbiamo posto nella casa del vecchio, noi siamo padroni assoluti e dispotici della vostra persona, e, come avrete potuto già intendere da certe mie paroline, ci abbiamo in mano il bandolo di molte matasse ingarbugliate, e della vostra fra l'altre. Non ricalcitrate dunque, che potrebbe tornarvi a danno; in quella che la fedeltà e l'obbedienza vostra potranno farvi ricco, reputato e contento. State adunque di buon animo, ed accettate un giogo, che è tanto lieve e soave. Farete in questa guisa il vostro tornaconto, e vi vendicherete di tutti i vostri nemici.

– Avete ragione, padre mio! Io sono un pazzo, quest'oggi!

– Bravo! così mi piace vedervi. Suvvia, dimenticate quello che io vi ho detto, se pure non vi parrà più acconcio chiudervelo bene in mente, e andiamo in città.

– Andiamo, – rispose il Collini. – Pur che io mi vendichi!.. —

E fatto questo discorso edificante si mossero verso la salita, donde potevano recarsi a San Pietro della Foce.

Intanto che questa bieca conversazione si faceva sulla spiaggia del mare, più in alto, sulla porta della chiesuola diroccata di San Nazaro, Aloise stringeva affettuosamente la destra di Lorenzo.

– Amico vostro per tutta la vita, Salvani! Voi siete un gentiluomo, e lo avervi conosciuto mi tempera il rammarico della ferita che ho toccata da voi. Vogliate anzitutto scusare quel piglio d'alterigia e qualche brutta frase che non v'è andata a sangue, e che a me importa assaissimo di spiegarvi ora. Il Collini è un mascalzone, e a quest'ora lo sapete anche voi. Dopo aver fatto il valoroso al cospetto di una donna, egli cercò padrini, e nessuno gli volle servire. Io non conoscevo voi, e potete argomentar di leggieri che il vedervi giungere col signor Assereto, altra persona a cui profferisco la mia amicizia, mi facesse cattivo senso. Infatti io ero certo che il Collini non si sarebbe battuto. Un suo duello di due o tre anni fa, quantunque l'avversario non fosse uomo di polso, finì Dio sa come, e ci volle tutta la prudenza dei padrini per rabberciare la cosa e non farla voltare allo scandalo. Ricordandomi delle sue prodezze, io dunque pensai che volesse mettermi uno schermidore di rincontro; e tale di fatto eravate, ma non a quel modo che io argomentavo. Eccovi la ragione dei miei portamenti di questa mattina; ed ora che vi ho tutto confessato, accettate voi il mio pentimento sincero? —

Lorenzo afferrò la mano che Aloise gli offriva, e lo abbracciò con affetto.

– Vostro amico per la vita e per la morte, Aloise di Montalto. Il caso, più assai che l'arte, dirige la punta di una spada; ma non è certamente il caso quello che fa incontrare due uomini i quali debbano essere amici, come noi saremo da oggi in poi. —

Aloise e Lorenzo, il nobile e il popolano di nome, ma ambedue gentiluomini per altezza di mente e cortesia di modi, si abbracciarono da capo.

Tante e così svariate commozioni avevano stancato il ferito, che sostenuto da Lorenzo e dal dottore Mattei si recò fino alla sua carrozza, la quale stava ad aspettarlo più al largo, a metà della viottola.

Il duello di Aloise di Montalto fece chiasso, e se ne parlò per giorni parecchi in ogni ritrovo, da via Balbi a porta d'Arco, dalla piazza de' Banchi al famoso angolo della libreria Grondona; e questo per la qualità delle persone che c'entravano, e che, salvo Lorenzo, erano tutte conosciute in Genova, stiamo per dire, come Barabba a Gerusalemme, nei tempi evangelici.

Come è costume da noi in simili occasioni, furono fatte di molte ciarle su quello scontro e sulle sue conseguenze. Il Montalto era lì lì per tirare le cuoia; il polmone era stato passato fuor fuori; un'arteria era stata toccata; insomma non c'era più speranza di salvarlo. Tutti avevano parlato col medico, e vi sapevano dire perfino come il ferito avesse passato la notte. Ma più delle ciarle furono discordi i pareri sulle ragioni del duello. C'era chi dava il torto al marchese di Montalto, e chi a Lorenzo Salvani; e si trovò perfino chi desse ragione al Collini, perchè (si diceva) era tempo oramai di farla finita con quella barbara costumanza del duello.

E v'ebbe anche taluno, il quale, forse per meglio dimostrare la barbarie del duello, affermò che se a lui fosse stata recata una sfida, avrebbe risposto a pugni e mostaccioni: oppure avrebbe accettato l'invito, ma con due pistole, l'una carica e l'altra vuota; e magari con due pillole, diverse nella composizione e negli effetti; il che nel caso del signor Collini sarebbe parso più naturale.

Ma torniamo a Lorenzo, del quale ci importa per ora più che di tutti gli altri personaggi della nostra narrazione. Egli era tornato a casa, dove il veterano Michele lo aveva preceduto, dando con tutta la forza dei suoi polmoni nella tromba della fama, sebbene non ci avesse altri uditori che la signorina Maria.

La giovinetta s'era fortemente turbata a quel racconto di Michele; ma Lorenzo era giunto anche lui sano e salvo; laonde ella non seppe dolersi dell'accaduto che riusciva ad onore del fratello, e tenne bordone alle guerresche sfuriate di Michele con una frase che merita d'essere qui riferita:

– Alla perfine, un uomo deve fare il debito suo, avvenga che può; ed anco a me, se fossi un uomo, darebbe l'animo di fare lo stesso. —

Il giorno dopo, Lorenzo Salvani, tornando dalla via Balbi dove si era recato a visitare Aloise di Montalto, passò all'uffizio delle Poste, e trovò una lettera per lui, la quale veniva da Genova.

Chi mai poteva avergli scritto da Genova?

Era una letterina chiusa in una elegante sopraccarta inglese di forma quadrata, col suggello di ceralacca azzurra e una corona comitale in rilievo. Di conti, Lorenzo non conosceva altri, per allora, che il Nelli di Rovereto; ma la lettera non poteva venire da lui, che egli aveva veduto mezz'ora innanzi al capezzale di Aloise. D'altra parte la soprascritta faceva mostra di certi graziosi uncinetti, che non indicavano punto la mano di un uomo; e non veniva da un uomo quell'essenza di violetta che profumava la lettera.

Lorenzo, dopo avere almanaccato un tratto, fece quello che avreste fatto voi, o lettori, e che avremmo fatto anche noi, in un caso simigliante. L'aperse, e lesse queste poche parole:

«La contessa Matilde Cisneri prega il signor Lorenzo Salvani, a voler passare da lei, domani, per cosa urgente; e lo ringrazia in anticipazione.»

Potete immaginarvi come egli rimanesse a quella lettura. Di stucco, è forse un dir troppo. Ma che cosa voleva la contessa Cisneri da lui? Lorenzo l'aveva udita nominare come una delle più belle signore di Genova; ma, vivendo egli appartato dal mondo elegante, non aveva mai avuto occasione di conoscere quella bellezza neanche per via. Ma egli era uomo, finalmente; ed una lettera di donna doveva fargli quel senso che fanno di consueto ad un uomo gli scarabocchi di una figlia di Eva.

– Domani! – andava egli dicendo tra sè. – Da oggi a domani ci sono ventiquattr'ore da aspettare. Basta; purchè passino, vedremo.




VIII


Dove si legge vita e miracoli della signora che aveva scritto la lettera.

La contessa Matilde Cisneri, che ora è in Francia, abitava nel tempo di questa narrazione una palazzina di là dall'Acquasola. Oggi la cerchereste invano, questa palazzina, perchè ha da essere caduta nel taglio di una tra le nuove strade aperte verso la montagna, se pure non è rimasta sopraffatta tra due file di casamenti nuovi, che bene non ci ricorda.

Era una donna celebre, la contessa Matilde; una delle dieci o dodici apostolesse della moda, le quali si contendono, o si spartiscono il dominio dei cuori; regine elette per suffragio universale, ma che ripetono tuttavia il loro diritto divino dalla bellezza e dal censo; le quali, se vanno a spasso, ci hanno il corteggio di parecchi cavalieri, e in teatro vedono aprire e chiudere di continuo l'uscio dei loro palchetti, per la ressa dei visitatori; talune buone e talaltre cattive secondo la loro natura e quella di chi le attornia; donne che tutti saettano dei loro sguardi e assediano dei loro sospiri; delle quali ognuno vi racconta la vita, o si argomenta di raccontarvela, perchè essendo esse più in mostra di tante altre, ogni loro parola, ogni gesto, sono interpetrati per diritto e per rovescio, epperò ad un terzo di vero si appiccicano molto agevolmente due terzi di falso.

La contessa di cui parliamo, nata col titolo, avrebbe dovuto perderlo andando sposa ad un ricco intraprenditore di opere pubbliche; ma questi era morto, lasciando lei erede usufruttuaria. Non aveva carrozza; ma a Genova la mancanza di una carrozza non è poi molto grave. Per contro aveva un palchetto in prima fila al teatro Carlo Felice, e ci andava con una sua vecchia amica, la quale, non sapendo staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto, avendo poi l'aria di tenere la vedovella in quasi materna custodia. Da qualche tempo la contessa era infastidita dei suoi adoratori consueti. A Genova, come in ogni altra città, v'è uno stuolo vagabondo di questi personaggi, i quali fanno in una sola sera, e nel tempo di una sola rappresentazione di teatro, più giri che uno sciame di pecchie. Altri direbbe calabroni, ma noi ci atteniamo alla immagine più graziosa. Ora alla contessa Matilde questo farfalleggiare non andava molto a genio, nè più le garbava quello scambiare di futilissimi discorsi, o il dover nutrire la conversazione di ciò che faceva l'Erminia, l'Amalia, la Fanny, od altra delle dive, semidive e ninfe della giornata.

D'altra parte (e forse qui era da trovarsi la vera ragione) da qualche tempo ella non risplendeva più nel «ligustico cielo» come una stella di prima grandezza. Al suo entrare in teatro, ella non vedeva più, come prima, voltarsi le teste di tutti gli Adoni, con quel piglio di curiosa attenzione che sembra dimandarne altrettanta. Gli astronomi del teatro guardavano qualche regina di più fresca consecrazione, o qualche sposina, o qualche bella fuggitiva d'altra città, regina forestiera, venuta a rivaleggiare di pompa e di leggiadria con le padrone del campo.

Ella insomma non era più nel novero delle prime, sebbene il suo specchio non avesse punto smesso dal dirle, e con ragione, che la bellezza le fioriva sempre le guance. Vanità delle cose umane! Neppur la bellezza bastava a combattere gli effetti della consuetudine; e quel che era peggio, molte delle nuove venute erano più belle di lei, nè i giovinetti, nè i vecchi che la pretendevano a giovinotti, quando si recavano a farle la visita d'uso, rifinivano mai dal tenerle discorso di questa o di quella delle sue fortunate rivali.

Il tedio della contessa Matilde era grande, anzi sterminato a dirittura. Già due volte aveva parlato, così tra un nastro e un ventaglio, di voler morire, perchè a questo mondo non si era compresi mai, e faceva delle elegie alla luna, ma avendo tuttavia il buon gusto di non metterle in versi. Anche qualche gita al camposanto non sarebbe stata male; ma quella mancanza d'alberi per incorniciare le tombe l'aveva subito distolta dal malinconico pellegrinaggio, e dai pensieri che vi fanno capo. Anche laggiù regnava la menzogna, e, peggio assai che detta a fior di labbro, scolpita nel marmo.

Gli amici di casa, vogliamo dire i più intimi, non la riconoscevano più. Nessuna cosa poteva rallegrarle lo spirito. Era ella in uno di que' tali momenti in cui si piglia un amante, se si riesce a trovarlo autentico; uno di quelli amanti teneri e feroci ad un tempo, i quali si fanno della donna amata una divinità ed una vittima, e mettono un pizzico di pepe nelle sciocca monotonia della vita.

Aloise di Montalto, con la sua svelta persona, ed il viso improntato di nobile alterezza, che ricordava il verso di Dante __Biondo era e bello e di gentile aspetto__, sarebbe stato l'uomo adatto a temperarle quella mestizia profonda, a farle parere ancor bella la vita, e soprattutto a far crepare di rabbia tutte le rivali sullodate, e di gelosia mista a rimorso tutti i pianeti che s'erano lasciati attrarre nell'orbita di quelle nuove stelle, o comete che fossero.

Ma ella aveva fatto i conti senza Aloise. Il giovine Montalto amava, e non era lei la donna che lo faceva sospirare. Ora, con tutto il suo accorgimento femmineo, la contessa non aveva indovinato ciò; aveva creduto che Aloise fosse un uomo come tutti gli altri, ai quali basta una languida occhiata per farli girare, come le banderuole dei tetti, al più lieve soffio di vento. Per sua maggiore disdetta, la prima parola che ella aveva detto ad Aloise, nella veglia delle maschere al teatro Carlo Felice, lo aveva punto sul vivo.

– Che cosa vai tu a fare ogni giorno sul belvedere dei Giardinetti, accanto alla villa Di Negro? – gli aveva sussurrato ella all'orecchio, ripetendo una frase udita da altri.

Aloise andava appunto colassù ogni giorno e ci passava le ore intiere; ma c'era un grosso perchè, una viva debolezza del suo cuore. Egli infatti non andava a nessun ritrovo di amore, su quel belvedere dei Giardini pubblici, e non istava a guardar altro che un comignolo di tetto.

Già da parecchi mesi egli faceva quel pellegrinaggio ogni giorno; ma nessuno sapeva che cosa guardasse, perchè egli non se n'era aperto mai con alcuno, nemmeno col Pietrasanta che gli era amicissimo. Laonde, non è a dire come gli recasse molestia sentirsi toccare quel tasto da una maschera che egli aveva facilmente conosciuta per la contessa Matilde.

Tutti sanno che al tempo di questa narrazione, le veglie del teatro Carlo Felice si tenevano soltanto nelle sale del Ridotto. Le signore eleganti salivano in pompa magna a darvi una scorsa, o mettevano una mascheretta al viso, e un domino di seta sulla loro abbigliatura da teatro, onde era facile il riconoscerle, come se fossero andate a fronte scoperta.

Aloise dunque aveva arrossito a quella dimanda pungente della contessa Matilde, e tremando in cuor suo che ella avesse potuto indovinare un segreto non confidato da lui ad anima viva, rispose asciutto alla contessa Cisneri:

– Che cosa t'importa? Vo a studiare filosofia.

– Tu, filosofia! E su quale problema di grazia?

– Sulla curiosità di voi altre donne.

Allora venne la risposta della contessa: «non sei gentile» e tutto il rimanente, di cui ebbe a scontar la pena il Collini, che accompagnava la signora mascherata.

Il dialogo avvenuto fra i due era per la contessa il pizzico di pepe che abbiamo accennato più sopra. Aloise era uno scortese superbo, di cui avrebbe saputo vendicarsi in ogni occasione; il Collini, fino a quel giorno non avvertito da lei, s'era ingrandito di schianto fino alla misura di un eroe.

Ma quella era stata una meteora. Quarantott'ore dopo, ella sapeva della viltà di Ernesto Collini, e di Aloise gravemente ferito per mano di un cavaliere incognito (stile da romanzo storico) che il capitano Nelli di Rovereto andava dipingendo alle signore, gentile come una fanciulla e prode come Ettore Fieramosca.

La contessa Matilde non istette molto a pensare, e fattasi raccontare ogni cosa a puntino dagli amici del Nelli e del Pietrasanta, formò nella mente il più audace disegno che donna concepisse mai per vincere il tedio della vita. Il giorno dopo, una letterina profumata era già alla posta, coll'invito a Lorenzo Salvani di recarsi da lei, per cose d'urgenza.

Lorenzo era dunque aspettato nella mattina del giovedì, e c'era avviso ai servi che, entrato il signor Salvani, la contessa non era in casa per altri.

Adesso il cortese lettore si prenda l'incomodo di venire con noi nella palazzina Cisneri, e senza farci annunziare dal servitore in livrea di panno nero coi bottoni dorati e la lettera C sormontata da una corona comitale, passeremo per un androne lastricato a quadretti bianchi e neri, saliremo una breve scala di marmo, ed entreremo senza chiedere licenza in una spaziosa anticamera, tutta adorna di quadri a olio, paesi e marine di dugent'anni fa, che si potevano guardare ed anco trovar belli in una pinacoteca, ma che in quella sala non erano guardati da nessuno, sopraffatti per giunta da quattro tele più grandi, che rappresentavano gli antenati della contessa.

Uno di questi era un omaccione, grasso, rubicondo, con gli occhi sgusciati a guisa delle tartarughe; ed era il bisavolo, come ragionevolmente appariva dall'abito di velluto, tagliato alla foggia del settecento e dalla parrucca incipriata con la coda a sacchetto. L'altro era il trisavolo, magnifica arigusta avviluppata in un robone di velluto cremisino che aveva dovuto sostenere importanti uffici, non sappiamo dove, ma in qualche luogo di certo.

Mancava l'avolo, perchè (diceva la contessa) egli non aveva mai voluto farsi fare il ritratto. Il conte Cesare era un benedetto uomo, pieno di stravaganze, che non c'era verso di cavargliele dal capo. Aveva il temperamento sanguigno, il conte Cesare! Del resto, gran soldato; e Napoleone I, che s'intendeva d'uomini, avrebbe dato un occhio del capo per averlo dalla sua; ma lui duro. Il conte Cesare, che non voleva farsi fare il ritratto, era morto di un colpo apopletico. Bella morte, per un gentiluomo!

Come ognuno vede, se mancava il ritratto a olio, suppliva il bozzetto a voce. Il Cigàla, quel faceto giovinotto che molti dei nostri lettori si ricorderanno di aver conosciuto, e che è morto da valoroso nella giornata di Montebello, sospettava fortemente della autenticità di quei ritratti, e sosteneva di averli veduti nel fondo di una bottega da rigattiere. In quanto al conte Cesare, lo diceva un ritratto di fantasia, per meglio colorire i due accennati.

Gli altri due erano ritratti di donne. Una era la moglie del conte Cesare, la quale non partecipava punto alla ripugnanza del marito per la pittura. L'altra era una gentildonna della famiglia, andata a nozze, non si sapeva più bene se con un Pallavicino di Parma o con un Visconti di Milano.

Il prete di casa le sapeva a menadito, tutte quelle storie; ma il poveraccio era morto! La contessa Matilde ne aveva sentito parlare, quand'era piccina, ma non le aveva tenute a mente. Della qual cosa non è a dire quanto le dolesse; perchè le ricordanze di famiglia sono una seconda religione, e bisogna tenersele care.

Il padre della contessa, l'unico ritratto di cui il faceto Cigàla non avesse mai dubitato, era in miniatura, e si poteva vederlo nel salotto verde, sopra la spalliera del gran canapè, sul quale la contessa era usa sedersi, quando non le tornasse meglio sdraiarsi su d'un piccolo sofà, accanto alla finestra, per leggiucchiare i giornali.

Faremo un breve ritratto dell'ultima discendente di tanti egregi personaggi, dicendovi che era bionda, bianca nel viso come tutte le bionde, ed amava portare i capelli tirati indietro, ma con una fila ordinata di ricciolini minuti sulla fronte, come una dama francese del Seicento. Ella poi, bionda com'era, reputava ottima la tappezzeria verde, le cortine verdi, che facevano risaltare assai bene la sua bianca figura.

Siamo dunque entrati nel salotto verde, e non ci ha neppur visti dal vano di un uscio socchiuso, o dal buco di una toppa, la vispa Cecchina, una cameriera che sa tutto, che vede tutto, vero ministro degli affari interni in gonnella di lana, a scacchi rossi e neri, e grembiale di seta.

Invisibili come un eroe di poema epico, a cui un Nume benigno ha concesso l'accappatoio di una nuvola, possiamo guardare a nostro bell'agio la bionda contessa, che è appunto sdraiata sul piccolo sofà daccanto alla finestra, con un tavolincino di lacca giapponese posto lì presso, che la mano della signora possa giungervi senza incomodo, a scegliere tra una rivista francese, due giornali di mode, uno di politica, e un volume del Leopardi.

Il qual volume, sia detto ad onor del vero, stava aperto sulla lastra verniciata, parendo rimasto a bocca aperta per la meraviglia del trovarsi in quella compagnia.

La contessa Matilde non leggeva. Appunto pochi momenti innanzi aveva deposto il libro, aperto alla pagina di Consalvo, a cui consola la triste agonia il primo bacio di Elvira. Col capo arrovesciato sulla soffice spalliera tondeggiante del sofà, gli occhi socchiusi in atto di meditazione profonda, una mano raccolta al seno e l'altra mollemente abbandonata lungo le pieghe di una veste di color pavonazzo, stretta alla vita e stretta al collo, dov'era terminata da una gorgieretta a cannoncini insaldati, l'avreste detta una bella figura del Vandyck, spiccatasi dalla sua tela, e diventata di carne, d'ossa e di seta, per far grazia a voi, prelibati lettori.

Qual era l'argomento delle sue meditazioni? Ecco qua: la contessa Matilde pensava che era prossimo il tocco, e che, seguendo la consuetudine delle visite, l'ignoto ed affettato Lorenzo Salvani, non avrebbe tardato molto a giungere.

E infatti, il tocco era passato di poco, che un giovanotto chiuso in una specie di cappa che portava allora il nome di lord Raglan, commetteva i suoi stivalini inverniciati su per la salita della palazzina Cisneri. Giunto lassù, detto il suo nome, e gettato il __raglan__ sulle braccia del domestico, salì nell'anticamera che il lettore conosce. Lo stesso domestico, passatogli innanzi, e alzata la portiera del salotto, annunziò alla contessa la venuta del signor Lorenzo Salvani.

– Fatelo entrare! – disse ella con una voce che noi non chiameremo argentina, a cagione dell'abuso che si è fatto ormai di simili aggettivi.

A Lorenzo il cuore «balzava in petto» davvero, e non già per far servizio alla rima come nei melodrammi, Il giovinotto era intrepido, anzi audace ai pericoli, ma pur sempre timido come un adolescente, al cospetto di una donna, e più d'una donna veduta per la prima volta. Ma bisognava farsi innanzi, ed egli entrò nel salotto, a fronte alta, per isforzo di volontà, impacciato nondimeno e confuso. Il verde di quel salotto gli aveva ferito lo sguardo; il viso di quella bionda creatura seduta lo aveva abbagliato.

La contessa era rimasta nella sua prima postura fino al comparire di Lorenzo sulla soglia; ma, vedutolo appena, con sapiente magistero aveva sollevata la testa e sporgeva la mano come per accennargli la via che egli aveva a tenere per giungere a lei.

Il salotto di una bella signora che non si è mai veduta, a cui non si è mai parlato, è infatti come una lunga strada, anzi come una distesa di mare, su cui c'è grande bisogno della bussola: ed anche allorquando si vede il porto, bisogna studiare il modo di giungervi, senza dar nelle secche.

– Signore, – disse la contessa al giovine, come fu giunto vicino a lei, – ho ardito chiamarvi da me come si usa con un vecchio amico. È però giusto che, come ad un vecchio amico, vi stringa la mano, mentre vi ringrazio della vostra sollecitudine. —

Che cosa rispose Lorenzo Salvani a quelle cortesie, a quella stretta di mano e a quel lungo sorriso che accompagnava gli atti e le parole? Qualche cosa egli balbettò di certo; ma nè ella l'intese, nè egli avrebbe saputo ripetere. Questo avviene pur sempre nei primi incontri, ed ognuno dei nostri lettori lo saprà per sua particolare esperienza.

Comunque sia, non è qui il caso di stare a cercare che cosa avesse detto. Egli strinse, o piuttosto si lasciò stringere la mano dalla contessa, arrossì un pochino e prese il posto che la signora gli offriva su d'una sedia a bracciuoli, accanto al sofà. Quell'atmosfera (se la donna è un corpo celeste, perchè non avrebb'ella pure la sua atmosfera?) quell'atmosfera, pregna di tutti i profumi della bellezza, lo aveva inebbriato.

Ahimè, povero uomo! Egli è sempre così che tu cominci i tuoi romanzi, senza sapere dove ti condurrà la catastrofe!

Cionondimeno, se Lorenzo Salvani avesse vissuto un po' meno tra i libri e alquanto più nel consorzio dei vivi, egli non sarebbe rimasto sopraffatto a quel modo, e in quella atmosfera ci avrebbe trovato più quintessenza di violette, che non arcano profumo di donna gentile. Ma che farci oramai? Era quello di Lorenzo Salvani il primo segno, il barlume de' suoi primi ardori per una donna vera. Egli non aveva fino a quel punto messo il suo cuore fuor che in quelli amori di sedici anni, così candidi, così vaporosi, per una donna di cui non s'è mai udita la voce; che si vede soltanto per le vie a diporto, e nemmeno tutti i giorni; della quale si vorrebbe essere casigliani, entrare in dimestichezza coi parenti, e financo, Dio ci perdoni, col ciabattino che le adorna il portone di casa; e alla quale nondimeno non si sente la fiera bramosia di stringere la persona tra le braccia, per ricevere la scossa elettrica di quel condensatore vivente.

Lorenzo non aveva ancora amato davvero. Non erano certo mancate le follie della prima giovinezza; ma le ali del pensiero non v'erano punto rimaste impaniate. Però quella entrata nel salotto della contessa Matilde era come l'apparizione di un nuovo mondo per lui; era il pianeta di Venere, nel quale egli si vedeva sbalzato, come per effetto d'incantesimo. Era egli Astolfo nella Luna, o Rinaldo nella dimora di Alcina, o Ruggero nei giardini d'Armida? Tutti questi eroi avevano perduta in ugual modo la bussola; però il lettore può scegliere.

A Lorenzo mille pensieri ed immagini di questa fatta passarono, come un baleno, nella mente, e insieme un desiderio prepotente di essere amato da quella graziosa donna dai capelli biondi e dalla lunga veste di color pavonazzo, che gli stava mollemente seduta di rincontro.

Era quella forse la donna della veglia mascherata, alla quale il marchese di Montalto aveva detto parole scortesi? Era quella la signora di cui si parlava tanto, per le sue acconciature, per le sue fogge di vestire, per la sua vita brillante? Era un angelo, o una sirena? Poteva amarlo, lo amava di già, o non l'avrebbe amato mai? Tutti questi pensieri erano e ad un tempo non erano nell'animo suo; si aggirava in una regione fantastica, e gli mancava il tempo di coglierne distintamente i contorni.

– Signor Salvani, – diss'ella, – voi dunque mi perdonate il fastidio che ho dovuto recarvi?

– Che dite mai, signora contessa? – rispose Lorenzo. – Io ringrazio anzitutto la buona ventura che mi ha fatto salire in questo paradiso. —

Per un esordio di conversazione non c'era male. La contessa fece un grazioso cenno del capo, e giovandosi dell'ultima parola di Lorenzo, proseguì:

– Un paradiso, dite benissimo, quantunque non vi siano angeli, nè santi. —

Lorenzo aveva già fatto il gesto di chi vuole rispondere qualche cosa; ma la contessa non gliene diede il tempo.

– Oh, non mi state a dir altro in contrario! – soggiunse ella. – Io so bene che voi, signori, non patite penuria di complimenti.

– Complimenti, signora contessa! È una brutta sentenza, e soprattutto pronunziata senza ascoltare le parti, quella che voi infliggete ad un uomo il quale non si disponeva a dir altro che la verità. A me infatti sembra che gli angioli almeno ci siano.

– E questo, – ripiccò sorridendo la contessa Matilde, – non è forse un complimento? —

Lorenzo stette un tratto silenzioso e raccolto in sè medesimo, a guisa di chi vuole si ascolti attentamente quello che sta per dire; quindi si fece a parlare in tal modo:

– Signora contessa, abbiatemi per iscusato, ve ne prego, se appunto la prima volta che ho la fortuna di parlare con voi, comincio a disputare come un accanito dialettico. Ma che cos'è infine un complimento?

– Voi saprete assai meglio di me la definizione del vocabolo, signor Salvani; ma qualunque cosa esso sia, non potrete levargli il carattere di una frase esagerata.

– E sia pure; – proseguì Lorenzo, – ma perchè si dice, questa frase esagerata? Una cagione riposta ci ha pure da essere. E che cosa sono, di grazia, le immagini e le metafore nello scrivere, se non modi svariati ed efficaci a colorire meglio un pensiero? Certamente non si potrà dir bella ad una brutta; ma si dicesse pure, non sarebbe esorbitanza di frase, sibbene una bugia addirittura, e l'uomo che la dicesse dovrebbe arrossire, temendo che fosse giustamente tolta in mala parte. Ora ditemi, signora contessa, arrossisco io forse per timore, nel dirvi, come faccio, che gli angioli ci sono, in questo vostro paradiso? —

Qui cominciò tra quelle due persone che non si erano mai vedute, l'una delle quali non sapeva ancora per qual ragione fosse chiamata al cospetto dell'altra, una di quelle conversazioni, tessute a ghirigori fantastici, nelle quali non si dice nulla, o quasi, e tuttavia si lasciano intendere tante cose.

Matilde ragionò di molto con lui; della sua solitaria dimora, fino a cui non giungeva il frastuono della città; del Leopardi, che ella leggeva con affetto indicibile, e di cui ella intendeva i concetti assai meglio che pel passato, quando l'animo suo non s'era anche educato alla scuola dei patimenti; del vivere ristretto e fastidioso di Genova; dei sereni piaceri della campagna, e di mille altre cose, vere o false, ma dette sempre con molta grazia e con un'aria di schietta semplicità da innamorare ognuno che fosse stato a sentirla.

Potete dunque argomentare quale prova facesse sull'animo di Lorenzo. Assorto come era in una ebbrezza profonda, non le chiese, anzi dimenticò affatto di chiederle la cagione per cui essa lo aveva chiamato in casa sua, e si lasciava andare a discorrere di mille cose, come il marinaio addormentato che sogna la sua innamorata si lascia cullare nel suo burchiello, confidato alla cura delle onde tranquille.

La contessa poi sapeva toccar quelle corde che gli andassero più a genio, e, come è virtù di molte donne, s'innalzava agevolmente al pari di lui, faceva suoi i pensieri del giovine e li metteva fuori in tal modo da far sembrare che ella non avesse mai pensato diverso.

Erano le quattro dopo il meriggio, e quella benedetta conversazione non era anche finita. I quattro tocchi della campana si fecero udire in mezzo ad una di quelle tali pause che si riscontrano nel dialogo più vivo, come una radura che lascia veder l'orizzonte, nel fitto di una boscaglia.

– Dio mio! le quattro! – esclamò la contessa. – Si dimentica il tempo in vostra compagnia, signor Salvani; e veramente mi duole di non avervi ancora parlato di quella tal faccenda per la quale vi avevo pregato di venire da me. Oggi intanto non sarebbe più tempo. Venite domani?

– Se così vi aggrada, – rispose Lorenzo sollecito.

– E se così aggrada a voi, – soggiunse la contessa.

– Oh, di questo potete esser certa, signora. Non si parte da casa vostra senza portar via qualche cosa…

– Qualche cosa?

– Eh, sicuro; il desiderio di ritornarvi.

– Se è così, tanto meglio; portatene via molto, signor Salvani; io non me ne lagnerò certamente. —

Il nostro Lorenzo se ne tornò a casa col cervello scombussolato, senza pensare, senza intendere cosa alcuna, ma leggiero, leggiero come un uomo felice. I tristi pensieri lo assalsero dopo l'arco dell'Acquasola, quando fu per discendere in città. Gli risovvenne allora della sua vita senza speranza, della povertà che lo stringeva ai lati, cose tutte che egli sentiva doppiamente acerbe, poichè egli aveva veduto la donna da cui gli sarebbe stato dolce l'essere amato.




IX


Come Ercole filasse alla conocchia di Onfale, e come tutti gli uomini possono somigliare ad Ercole.

La dimane il giovine fu puntuale al ritrovo, come potete argomentar di leggieri. Nella notte il suo letto solitario era stato visitato dagli alati messaggeri di Morfeo, i quali erano tutti intenti a raffigurargli una bionda, con la veste di color pavonazzo e la gorgieretta di mussolina a cannoncini insaldati. Il più bizzarro ricambio di pensieri, il più veloce viaggio nei giardini di Amatunta era stato fatto dal dormente, in compagnia della bionda consolatrice del suo sogno. Però non è a dire con quanta sollecitudine ansiosa egli facesse, all'ora istessa del giorno innanzi, la salita della palazzina Cisneri.

Allorquando egli entrò nel salotto verde, vide la contessa Matilde seduta presso la finestra, con la matita tra le mani, che stava disegnando un fiore sopra un foglio di carta. Ella non indossava più la veste di color pavonazzo, ma un'altra di seta nera, con la vita foggiata per modo da lasciar le spalle nude ed il sommo del petto, su cui scendeva un camicino di mussolina ugualmente nera, lieve impedimento agli occhi di un profano riguardante. Intorno al collo si ravvolgeva, venendo ad incrociarsi sul petto, uno di que' tali arnesi di pelo di martora che hanno pigliato presso le donne il nome pauroso di un serpente, forse in omaggio a quella bestia che venne a capo di infinocchiare la loro progenitrice degnissima.

La contessa poteva rimanere scollata, perchè il fuoco acceso nel camino manteneva nel salotto una tiepida temperatura. Acconciata in quel modo, aspettava la seconda visita di Lorenzo Salvani.

Appena egli comparve, la contessa alzò il capo, piegandolo leggiadramente verso la spalla in modo da saettare il giovine con uno sguardo ad occhi semichiusi, e, con la muta eloquenza del più cortese sorriso, gli porse la mano.

Lorenzo corse a stringere quella mano, e non contento di stringerla, chinò il capo a baciarla.

Ella non fece alcun atto di meraviglia. È così poca cosa, ed ha una scusa così ragionevole nelle antiche consuetudini il baciare una mano, che la contessa Matilde poteva lasciarlo fare a suo modo, senza mestieri di simulare un atto di corruccio.

– Siete venuto! – diss'ella, così per cominciare il discorso.

– Potevate credere, signora contessa, – rispose Lorenzo, – che avessi tardato pure di un minuto?

– Oh no! Voi siete un cortese cavaliere, e questo si sa. Pensavo anzitutto che le vostre faccende avrebbero potuto forse trattenervi, e quasi mi doleva di avervi costretto a regalarmi un'altra delle vostre ore preziose. —

Un'ora! La contessa avrebbe potuto dir tre o quattro a dirittura, chè tante ne aveva passato accanto a lei, il giorno innanzi, il nostro Lorenzo. Ma questo era forse un modo di dire della contessa Matilde.

– Non v'è negozio che tenga, – rispose il giovine, – innanzi ad un vostro invito, e mi pare di avervi già detto con che animo si parta da casa vostra. Ma che cosa stavate voi facendo, signora?

– Oh, una cosa da nulla. Mio Dio! Temo che non m'abbiate a trovare un po' troppo leggiera, con queste frivolezze.

– Che dite, signora? Per me non è nulla di frivolo in quello che fate, sia pure un ricamo.

– Ed è appunto un disegno per ricamo; – disse la contessa. – L'ultimo venuto da Parigi non mi garbava molto, e volevo farne uno di mio capo per metterlo sul telaio. Sapete pure, signor Salvani, che lunghe ore di tedio passiamo noi in casa, quando manchi l'argomento affettuoso delle cure domestiche. Un ricamo, od altra cosa qualsiasi, che a prima giunta pare, e considerata in se stessa è certamente assai frivola, ci offre una occupazione materiale in cui riposare la mente, per farci poi cavar più diletto da una bella lettura, o da una passeggiata all'aperto.

– Non vi scusate, signora contessa! – soggiunse Lorenzo. – Voi disegnate un fiore, e sta bene. Il fiore non è egli forse una delle più belle opere di Dio? Anzi, per dimostrarvi che siffatte occupazioni si addicono agli uomini come alle donne, con vostra licenza, voglio metterci anch'io queste mani profane.

– Fate pure, signor Salvani, e il mio fiore riuscirà certamente più bello. —

Lorenzo prese con fanciullesca sollecitudine, il posto della contessa Matilde, e tolta in mano la matita, si diede con artistica gravità ad abbozzare un elegante mazzolino di que' fiori che nascono soltanto negli orti della fantasia cinese. Imperocchè l'uomo si è fitto in capo di abbellir la natura, e dove non si mette a dirigere e ad educare gli amori delle piante per mutarne le forme e temperarne a sua posta i colori, inventa nuove fogge senz'altro; queste però sulla carta, perchè la natura non è disposta a seguirlo in tutti i suoi capricciosi vaneggiamenti.

Non faccia le meraviglie il lettore se Lorenzo Salvani, il giovine severo, il soldato di Roma, s'è posto a disegnare un mazzolino di fiori pel telaio della bionda contessa. Gli antichi, nostri maestri in tante cose, non isdegnarono rappresentarci Ercole, il figlio di Giove e il domatore dell'idra di Lerna, seduto presso ad Onfale, in quella positura che finse più tardi lo Shakespeare per il suo Amleto a' piedi di Ofelia (leggete a questo proposito il testo inglese), e intento a trarre il filo dalla conocchia di lei. Ora tutti gli uomini sono figli in cotesto del dio della Forza, che lo imitano a puntino nelle sue debolezze.

Che faceva intanto la contessa Matilde? Con una mano poggiata sulla spalliera della scranna, e la testa curva accanto a Lorenzo, ella stava seguendo degli occhi i giri della matita che egli maneggiava con facile sprezzatura. Le guance della donna erano presso alle sue, e i segni della sua ammirazione, tradotti in parole, gli accarezzavano il volto, chiamando il sangue in tutti i meati più sottili di quella superficie, di consueto così pallida.

Lorenzo disegnava, ma il suo sangue ardeva; e in quella guisa che un terreno arsiccio beve avidamente uno spruzzo d'acqua e ne fa sparire in breve ogni traccia, il suo sangue si beveva quel soffio delicato, e riardeva sempre più forte. Ma presto venne il punto che egli non potè più durarla, e alzando il capo verso la contessa, ne disse una delle sue, la più grossa che le avesse ancor detta.

– Oh perchè non posso io dar loro la vita, a questi poveri fiori, e inspirar loro nelle aperte corolle quel dolce effluvio che si spande dalla vostra persona! —

Non era questa la prima avvisaglia, ma certamente la più forte, e la contessa non potè simulare di non averla notata. Risollevò il capo con aria turbata, si volse indietro due passi e si lasciò cadere sul sofà, dove stette silenziosa col viso nascosto nelle palme.

Era graziosa, molto graziosa in quella postura, la contessa Matilde. Le sue mani sottili e delicate che il Bartolini, adoratore di belle mani, avrebbe modellate assai volentieri, non giungevano a coprirle tutto il viso; però la fronte e una parte delle guance lasciavano scorgere quel leggiero incarnato che si dipinge così facilmente sul volto delle donne, quando mette loro più conto.

Più turbato a gran pezza di lei, Lorenzo si alzò e si fece presso alla contessa.

– Signora, – le disse egli con voce tremante, – che cosa ho detto io mai, che abbia potuto spiacervi tanto? Io sarei il più tristo degli uomini se avessi, con animo deliberato, a dirvi cosa che potesse offendere la vostra dignità, o fallire al rispetto che meritate.

– Oh no, signor Salvani; non si tratta di tanto; – rispose la contessa Matilde, in quella che si affrettava a stendergli la mano. – Voi ricadete nella malattia dei complimenti, e ne avete fatto uno testè, il quale, non mi offende già, mi addolora. —

Lorenzo non sapeva che rispondere. Che questa donna non m'intenda? pensò egli tra sè. Che essa non si avveda di ciò che gli occhi miei le dimostrano?

La mano della contessa era ancora nelle sue, e non dava segno di volersi ritrarre. Non era dunque una donna sdegnata che gli aveva parlato a quel modo; e questa considerazione gli diede animo a rispondere, ma senza accorti rigiri, aperto come egli sentiva.

– Signora contessa, mi accusate forse di un lieve fallo, per delicato intendimento di non avermi a rimproverare una colpa più grave, e non farmene arrossire?

– No, vi dico quel che penso; perchè?

– Perchè se voi mi reputaste capace di avervi recato offesa, ve ne recherei scusa e uscirei subito dalla vostra casa. Se in quella vece, come cortesemente mi dite ora, mi accusate di far complimenti, di non dirvi schietta la verità, io vi prego di concedermi libertà di parola, per difendermi da un'accusa che so di non meritare.

– Che aria grave assumete voi, signor Salvani! Parlate pure; io so bene che non potrete dir cosa mai, la quale mi offenda.

– Orbene, signora, vi parlerò schiettamente, checchè possa costarmi. Sono un povero giovine, ma sono altresì un onest'uomo. Questo povero giovine, che vedete dinanzi a voi, è rimasto inebriato dalla vostra bellezza, dalle grazie del vostro spirito. E non istate a dirmi che esco dai confini del vero. In un cuore come il mio l'affetto nasce e germoglia sollecito, e voi siete fornita di così sottile accorgimento da intendere come l'esser vicino a voi abbia potuto turbarmi. Questa è la verità, o signora, e l'onest'uomo, che vedete del pari, sente il debito di dirvela tutta quanta. Se anco questa vi spiace, il povero giovine, l'onest'uomo, se ne andrà; sebbene combattuto dal più fiero desiderio di rimanere, dal più acerbo dolore di non aver meritato una migliore accoglienza, se ne andrà, ve lo giuro, se ne andrà.

– Dio mio! – esclamò la contessa, che era stata ad ascoltarlo in atteggiamento di mestizia. – È egli dunque vero che un uomo ed una donna non possano stare l'uno accanto dell'altra ed essere amici, null'altro che amici? —

Qui la contessa raccolse di bel nuovo la sua bionda testa nelle palme, e stette un tratto a pensare. Lorenzo non rispose, e ricadde sulla scranna, con le mani sulle ginocchia e il capo chino.

– E perchè mai, – proseguì la contessa, come se ragionasse con se medesima, – tutti gli uomini hanno a dire le stesse parole? —

Lorenzo allora sollevò la fronte, e dopo una breve pausa si fece a rispondere:

– Le stesse parole, forse; ma non tutti a questo modo, signora, nè con tanta verità di pensiero. Vi diranno di amarvi; ma nessuno ve lo dirà così presto come io ve l'ho detto, la seconda volta che vi vedo, pronto a soffrire quella pena che voi potreste infliggermi maggiore, negandomi di poter ritornare da voi. Signora, non perdonerete voi dunque a chi vi ha detta la verità? —

E così dicendo, Lorenzo Salvani si alzò, aspettando la sua sentenza.

La contessa alzò la fronte a guardarlo. Il giovane aveva pallido il viso e impresso di una severa mestizia; nè ella seppe tener fermo, senza un poco di turbamento, innanzi allo sguardo profondamente pietoso, ma altero ad un tempo, di Lorenzo Salvani.

– Perdonarvi! – disse ella con voce fioca. – È cosa fatta. Una donna non ha ragione a dolersi se un uomo pari vostro le parla di amore. Taluna forse, più sofistica delle altre, noterebbe che simili parole, perchè s'abbia a ritenerle in ogni loro parte sincere, son forse dette troppo presto.

– Ma io vi ho già detto, o signora, come la penso in materia di amore. Io non pratico, nè conosco la ipocrisia del cavaliere galante, il quale vi s'insinua dolcemente nel cuore, vi signoreggia superbamente quando sia giunto a persuadervi con la sua lunga umiltà. Con me, signora contessa, voi siete padrona di voi medesima; io non aspetto a cogliervi alla sprovveduta; vi amo, e ve lo dico schiettamente con le labbra, poichè mi è dato parlarvi, in quella stessa guisa che ve lo avrei detto e seguiterei a dirvelo con gli occhi, se non avessi altro modo.

– Ma sapete, signor Lorenzo, – (la contessa Matilde disse proprio: Lorenzo) – che queste vostre parole mi mettono in pensiero? Sedetevi qui, accanto a me, e vediamo di poter discorrere tranquillamente. Ho da dirvi anzitutto perchè io v'abbia pregato a venir qua. —

Lorenzo si assise. Il cuore del giovine s'era inondato di gioia, all'udire che la contessa per la prima volta lo chiamava col suo nome di battesimo.

– Parlate, parlate, signora! – esclamò Lorenzo. – Voi sapete pure la mia vita esser vostra, e non essere cosa ai mondo la quale io non fossi lieto di fare per obbedirvi. —

Una stretta di mano lo ricompensò di quelle parole, e se una mano ardeva, l'altra non era fredda di certo.

– Voi siete un uomo d'onore; – incominciò a dire la contessa, con un tal poco di solennità nello accento, – lo so; e appunto per questo ho amato meglio volgermi dirittamente a voi. So che vi siete diportato da prode gentiluomo in un duello, nel quale avevate a contendere con uno dei più valenti schermidori della città, e me ne congratulo con voi, non già in quel modo e per quella costumanza volgare di una persona che s'incontra per via, ma con affetto sincero, ed anco, se non vi è discaro saperlo, con gratitudine, perchè c'era di mezzo una dama, e questa dama voi l'avete difesa, in vece del suo cavaliere che si dimostrava un codardo.

– Come, signora? Voi sapete…

– Sì, so tutto, e non mi riterrò neppure dal dirvi che quella dama… ero io.

– Voi, signora contessa! —

E così dicendo, Lorenzo Salvani la guardò trasognato, come per nuova che giunga inaspettata, sebbene egli stesso, fin da principio, avesse argomentato che l'invito della contessa Cisneri potesse avere qualche addentellato col suo duello di San Nazaro.

– Non vi faccia stupore! – proseguì rapidamente la contessa Matilde. – Se sapeste il fatto, non vi sarebbe difficile intendere quanto poca parte ci avessi. Ero nel mio palchetto in teatro, sul finire dello spettacolo, e mi aveva preso desiderio di salire nel Ridotto a vedere le maschere. Il dottor Collini era nel palchetto, come ci sono tanti altri, – (queste parole, in forma di parentesi, furono accompagnate da un sospiro) – ed egli mi si profferse per cavaliere. Detto, fatto; entrai mascherata nel ridotto, e fu allora che mi avvenne di dire al marchese di Montalto quelle innocenti parole che voi sapete…

– Io! non so nulla, signora contessa; – interruppe candidamente Lorenzo Salvani. – Il nome della signora mascherata non fu pronunziato da alcuno, ed io non chiesi nemmeno quali parole avessero dato appiglio alla contesa tra il Collini e Aloise di Montalto.

– Oh, mi fate respirare! – soggiunse la contessa. – Appunto a voi, cortese e leale come oggi vi conosco, ma come fin dall'altro giorno vi avevano decantato i padrini del vostro avversario, volevo chiedere se il mio nome fosse stato messo fuori. A voi, Salvani, – (la contessa qui disse proprio Salvani, tralasciando il titolo di cerimonia) – a voi non sarà ignoto che noi, povere donne, siamo come le nostre vesti di seta o di raso; una macchiuzza, e che sarebbe invisibile sulla vostra giubba di panno nero, le guasta per modo che non hanno più nessun pregio. Ora il solo avermi nominata, sebbene io sappia di non aver detto o fatto cosa biasimevole, l'esser posto il mio nome in mezzo ad una contesa di quella fatta, che fu sciolta per giunta col sangue, mi avrebbe cagionato un rammarico da non dirsi. —

Questo discorso fu fatto con piglio modesto dalla contessa, in quella che i suoi occhi non si dipartivano dal volto di Lorenzo, quasi interrogando i pensieri che gli passavano per la mente. Ed ebbe a rallegrarsi della sua attenzione, perchè Lorenzo aveva seguito con manifesta ansietà il racconto e si leggeva ne' suoi occhi come fosse contento di sapere che il Collini era per lei un semplice conoscente, e null'altro.

Quello di Lorenzo Salvani era un sentimento che tutti gli uomini conosceranno a prova. La donna che noi incominciamo ad amare non ha da essere sospettata, nè d'opere, nè di pensieri; non ha da aver fatto mai l'occhiolino ad un altro, sotto pena di scomunica. Ed ecco in qual modo si può diventar gelosi perfino del passato.

– Ora, – proseguì la contessa Matilde, – poichè ho cominciato, vi dirò tutto. Non vi annoio, già?

– Signora, – esclamò Lorenzo, con aria di dolce rimprovero.

– Eh, gli è che questi discorsi non mi paiono tali da premervi molto. Comunque sia, lasciatemi dire, e ci guadagnerete questo, che mi conoscerete un po' meglio. —

Il giovane rispose a queste parole afferrando per la seconda volta la mano della contessa, e stampandovi un bacio. Questo almeno era un modo di parlare che non si poteva togliere per un complimento, e non domandava nemmeno risposta. Matilde arrossì, sorrise malinconicamente, e senza ritrarre la mano da quelle di Lorenzo che la tenevano prigione, proseguì:

– Al marchese di Montalto, che conoscevo come tanti altri per averlo veduto in qualche veglia, dissi poche e cortesi parole. Ma, che volete? senza badarci, anzi senza saperlo, io debbo aver toccato un tasto delicato, e me ne duole, poichè un cuore di donna intende come pungano certi dolori; e sebbene egli non s'è mostrato molto cortese nel rispondermi, io lo stimo come un giovine abbastanza diverso da tanti e tanti altri.

– Avete ragione, – esclamò Lorenzo. – Aloise di Montalto è un vero gentiluomo. Egli a quest'ora sarà dolentissimo di essersi mostrato scortese con voi, quantunque io penso che non vi avesse conosciuta, e soltanto la presenza del Collini gli avesse inasprite le parole. Ma io lo conosco già tanto da potervi quasi affermare che, appena risanato, egli mi seguirebbe fin qui, per iscusarsi con voi.

– No, no, Salvani! Non ve ne date pensiero; – interruppe la contessa, ridendo. – Che importa a me, finalmente? Io stimo quel signore, ed oggi anche più di prima, poichè vedo che lo stimate voi: ma in verità non reputo necessario di conoscerlo più da vicino. —

Anche questo era un tocco maestro, e Lorenzo lo sentì, senza darsene ragione.

Egli stette silenzioso, ed ella egualmente; ma egli, se taceva, non rifiniva però dal guardarla con que' suoi occhi languidi.

– Or bene, – gli disse ella dopo un tratto, – che fate?

– Signora, adesso tocca a me. Il mio discorso era rimasto a mezzo; lasciatemelo dunque finire. Mi crederete voi se vi dirò che vi amo? Mi perdonerete voi se ardirò dirvelo?

– Signor Salvani!.. – esclamò la contessa, adombrando nella sua reticenza un timido rimprovero.

– Signora! – ripetè egli. – Poc'anzi avevate messa da parte questa inutile parola.

– Davvero? Ah, mi avvedo che perdiamo il capo ambedue. Siatemi invece cortese di finir l'opera vostra. Il mio disegno vi attende, perchè gli diate l'ultima mano.

– Debbo finirlo? Vi preme tanto?

– O che, non mi avrebbe a premere? Qual conto fate di me? Suvvia, da bravo, venite. —

Ciò detto, la contessa Matilde si alzò e condusse Lorenzo al tavolino.

– Ma non son buono a far nulla, – diss'egli, poichè si fu seduto dinanzi al suo bozzetto, – se voi non vi mettete da capo ad ispirarmi.

– Intendiamoci, anzitutto! – rispose la contessa alzando l'indice con gesto leggiadro; – voi non mi direte più nulla?

– Ve lo prometto, ma, ve ne prego, ripigliate il posto di prima. —

La bionda contessa sorrise, e posta la mano sulla spalliera della scranna chinò il capo fin presso alla guancia del giovine, in atto di guardare i segni che gli uscivano dalla matita.

E noi in questa positura li lasceremo ambedue, poichè ci stanno benissimo, e non si annoieranno di certo.




X


Di un ghiotto discorso che facevano insieme Aloise di Montalto e il Pietrasanta, innanzi di mettersi in carrozza.

Il dottor Mattei aveva dato nel segno, commettendo la guarigione di Aloise di Montalto a quella gran medichessa che è la natura. Quindici giorni dopo il duello, Aloise era già fuori dal letto; e non solo poteva uscir di casa, ma il savio discepolo di Esculapio glielo aveva raccomandato, perchè rinfrescasse le forze all'aria aperta, usando tuttavia la precauzione di andare per le prime volte in carrozza.

Quindici giorni in casa sono peggio che la morte, per un giovanotto; ma il poter uscire, dopo quei quindici giorni, gli è come una risurrezione.

Il ferito aveva ricevuto in quelle due settimane moltissime visite; ma quel via vai di persone, le quali facevano tutte la stessa dimanda, non aveva certamente potuto divertirlo molto. Soltanto il Pietrasanta, co' suoi sproloquii di capo scarico, e Lorenzo Salvani, co' suoi modi schiettamente amorevoli, consolavano all'ammalato taluna di quelle lunghe ore che il tedio gli faceva centellare minuto per minuto.

Il Salvani gli era andato proprio a' versi, tra perchè era stato suo avversario (la qual ragione parrà strana e non è) e perchè, così alla gagliarda prova dei fatti come nel tranquillo ricambio di affettuosi pensieri, ci aveva avuto agio di conoscerne i pregi. Egli pensava spesso a quel baldo giovinotto, e quasi non sapeva capacitarsi che fosse nato senza titoli di nobiltà.

Perchè, bisogna confessare un difetto di Aloise, e i lettori non gliene facciano gran carico, essendo l'unico che avesse, e mal digesto avanzo di educazione aristocratica, anzi che matura convinzione dell'intelletto. Egli credeva ancora che i titoli natali dessero ogni maniera di virtù, come quei tali sacramenti che imprimono carattere ai buoni cattolici.

Qual è l'uomo tra noi, il quale non abbia una o due di queste fisime in capo, mai discusse a mente tranquilla e sempre citate a guisa di assiomi! E non è a dire che manchi lo ingegno per discernere l'errore; ma gli è che certe cose, succhiate, stiamo per dire, col latte, rimangono nel cervello, come fondo di bottega, e l'occhio, avvezzo a vederle, non si ferma a discuterne il pregio.

Ora nessuno può fare ad Aloise il torto di credere che egli, con quello ingegno che aveva, se si fosse posto a meditare un tratto su quel dirizzone, non avrebbe durato fatica a scorgere le corna del pregiudizio. Per giungere a ciò sarebbe bastato il guardarsi d'attorno, nella gente del suo ceto, e considerare se tutti i suoi pari avevano quella scienza infusa, o quella innata nobiltà di sentire che gli pareva privilegio del nome patrizio.

Ma in fin dei conti, come si sarebbe potuto ragionevolmente domandare che Aloise facesse queste considerazioni, se lo storto concetto dell'universale non fa che aiutare a questa illusione? A Genova, come in molti luoghi, si fa di cappello ai milioni, anche quando non abbiano altre virtù che li rincalzino; ma a Genova, più che altrove, si fa di cappello al titolo di marchese, e a tutti i privilegi della nascita, non badando se siano posti su d'un uomo da nulla, come il mantello o la giubba sulle smilze grucce d'un attaccapanni.

Maniere di adorazione storte ambedue; laonde si può dire che se in altri luoghi il concetto della rivoluzione è stato volto a profitto dei ricchi, della gente nuova e dei subiti guadagni (per dirla con Dante), qui a Genova non ne è pur giunto un soffio, ed abbiamo accettato due maniere di aristocrazia, in cambio d'una.

Noi ripeteremo una cosa detta fin dal principio di questo racconto: amiamo i bei nomi quando sono ben portati, e null'altro. La nobiltà che noi intendiamo, è privilegio sempre difficile ad ottenersi; ma si ottiene per fermo con la mistura di questi tre ingredienti: onestà, ingegno e generosità di propositi. Sia patrizio o plebeo l'uomo posto in alto dalla riverenza dell'universale, se quelle virtù non soccorrono, povero a lui! nè le ricchezze sfondate, nè il fasto della cieca liberalità, possono farci dimenticare la sua pochezza d'intelletto e di cuore. E allora la carrozza stemmata, la coppia di leardi, o di sauri, superbamente attaccata, e la poveraglia più superbamente tenuta ad ornamento del portone di casa, ci fanno sorridere malinconicamente, come avviene per tant'altre miserie del mondo.

Questi pensieri abbiamo voluto dirveli, perchè li mettiate insieme con altri parecchi, e a noi si tolga il fastidio di doverci spiegare per lungo e per largo, sì quando avremo aria di lodare la nobiltà e la ricchezza, sì quando avremo aria di buttarle tra le ciarpe dei ferravecchi.

Ora torniamo ad Aloise. Le ricchezze del giovine marchese di Montalto erano più che modeste, e forse in questo senso il dottor Collini intendeva la frase detta a Lorenzo: «un tale che non ha il becco di un quattrino». Il fitto di alcune case poste in città gli dava un'entrata di forse ottomila lire. Palazzo non ne aveva, essendo la dimora cittadina de' suoi vecchi già da lunga pezza andata in mano d'altri, e gli rimaneva soltanto, inutile arnese, il palazzotto campestre della sua famiglia, posto in cima ad una di quelle tante gole di monti che fiancheggiano la Polcevera.

Si possono fare di molte cose, con otto mila lire, in una città come Genova. Si può, verbigrazia, avere una bella casetta, arredata con elegante semplicità, tenere due persone di servizio ed anche la balia in casa, se si è ammogliati e consolati di prole; ma in questo caso non c'è da pensare a sciali, bisognando stare per molt'altre cose a stecchetto. Ma si possono fare altresì poche cose con ottomila lire, quando non si abbia il conforto e le modeste costumanze della vita domestica. Abbiate un appartamento pulito in una delle vie principali; contentatevi di un solo servitore; andate a desinare alla Concordia; tenete uno scanno a teatro; fatevi vestire, o spogliare da un sarto di grido; siate socio al Casino, anche senza far altro che una partita a biliardo; rendete a tempo e luogo servizio ad un amico, e poi mi saprete dire dove si arrivi con ottomila lire d'entrata. All'uscita, non è vero? e senza troppo aspettare.

La casa di Aloise, in via Balbi, non era grande, ma bella e bene arredata. Il buon gusto del giovine si faceva notare in ogni cosa, e perfino nella disposizione delle suppellettili. Nella sala d'entrata erano pochi gli arredi, ottenendovi lo spazio maggiore una pedana per assalti di scherma, e tutti gli altri arnesi pertinenti a quell'uso. Da un lato, fermata alla parete, vedevasi una lavagna quadrata ed incorniciata, dove gli amici che venivano a cercar di Aloise e non lo trovavano in casa, potessero scrivere il nome o quello che loro piacesse meglio.

Da quella stanza si entrava in un salottino, vero esemplare di eleganza, parato di seta azzurrognola, coi mobili tutti dorati. Sulla spalliera del lettuccio da sedere e di tutte le seggiole, come sull'alto della cornice di uno specchio inclinato, era intagliato lo stemma dei Montalto, un leone coronato, rampante su d'uno scoglio, con la breve leggenda «__Altius__», ossia, per dirla in volgare, «più alto». Quegli arredi eleganti, e una Madonna attribuita al pennello del Dolci, che si vedeva di rincontro allo specchio, decoravano un tempo il salotto della madre di Aloise, e il giovinotto le serbava gelosamente come preziose reliquie di un caro passato.

Nella sala da studio, a sinistra del salotto, gli occhi erano abbarbagliati e rallegrati ad un tempo dal più pittoresco guazzabuglio. Anzitutto avevate a cansare una gran tavola rotonda, coperta con superba sprezzatura da un magnifico sciallo persiano, sulla quale erano posti, apparentemente a rinfusa, libri dalle carte dorate, sfere, mappamondi di porcellana, portasigari ed altri graziosi nonnulla, in mezzo ai quali regnava un telescopio, il quale, posto com'era, non aspettava altro che la notte e l'apertura della finestra, per ispecolare le stelle.

Più oltre, dopo la tavola, un pianoforte verticale, che mostrava le spalle al mezzo della camera e ad un divano turchesco, appoggiato alla parete di rincontro. A sinistra dell'uscio, tra la tavola rotonda e il divano, uno scrittoio, con tutto il bisognevole, e due statuette di porcellana del Giappone, le quali sorridevano allo scrittore, e in mancanza dello scrittore, alla seggiola sulla quale avrebbe potuto sedersi. Tutt'intorno poi, incisioni, mensole che sostenevano statuette di gesso, pipe con la canna di gelsomino, e via discorrendo.

Dall'altro lato del salotto, sollevando la portiera di seta, si vedeva la camera da letto; ma in questa non metteremo piede, contentandoci di restare, con maggior profitto per il nostro racconto, nella sala da studio, a sentire che cosa dicesse Aloise col marchesino Pietrasanta, aspettando che il servitore andasse a cercare una carrozza da nolo, per condurli a diporto.

Su quel divano turchesco, che abbiamo accennato, era seduto, anzi mezzo sdraiato il Pietrasanta, facendosi puntello del gomito alla persona, e chiudendo beatamente gli occhi ad ogni boccata di fumo che mandava fuori. Perchè, voi già l'avete indovinato, o lettori che indovinate ogni cosa, egli fumava; e noi vi aggiungeremo che fumava i due terzi del giorno, e un terzo delle seimila lire che gli dava il marchese padre per le sue male spese. Il che è quanto dire che fumava molto; non sigari di Avana, che si fabbricano a Malta, nè di Manilla, che si fabbricano ad Amburgo, ma sigarette turche, ed autentiche.

Enrico Pietrasanta era un buon giovine; in fondo nè carne, nè pesce, ma di ottima pasta. Non aveva mai fatto male ad alcuno; a parecchi aveva anzi reso servigio; amava il suo cavallo e si lasciava amare da una ballerina, aspettando che i suoi parenti gli scegliessero quella donna che avrebbe dovuto amare per tutta la vita; andava spesso a ragionare col sarto intorno alle nuove fogge della quindicina; non s'impacciava di politica, ma non poteva patire la compagnia del prete di casa e non parlava mai con irriverenza della rivoluzione, del progresso e degli uomini più chiari per le opere della penna o della spada a servizio della patria. Uomo insomma, che, con altro indirizzo, avrebbe potuto diventar utile alla sua terra, ma che, stretto d'ogni parte dalle consuetudini de' suoi pari, nè forte tanto da rompere il freno, si rassegnava a vivere inoperoso.

Era però naturale che tra lui ed Aloise di Montalto corresse una maggiore dimestichezza, sebbene non fosse pari la tempra dell'animo. Nella cerchia de' suoi pari ognuno si legge quel compagno che gli sembra più di suo gusto; Aloise aveva accettato, come suo Pilade, il marchesino Pietrasanta, nobile come lui, sebbene a gran pezza più ricco, generoso di sensi come lui, sebbene alquanto più fiacco.

Il Pietrasanta, che ci siamo studiati di far conoscere un poco, era sdraiato sul divano, Aloise era seduto al pianoforte e per la prima volta dopo la sua malattia stava suonando qualche melodia, così per rifarsi la mano.

– Dunque tu dici, – esclamò egli, poichè fu giunto agli ultimi accordi di una di quelle geniali romanze che andava appunto allora mettendo fuori il Mariani, – che mi avevano già bello e spacciato, in casa Pedralbes?

– Eh davvero! Non ti mancava più altro che il becchino per darti quattro martellate sulla cassa. Figurati! In un momento di pazzia, o di tedio andato in cancrena (che bene non si sapeva dire), tu avevi voluto scendere dal letto. La ferita appena rimarginata si era aperta da capo; d'onde il sangue a rigagnoli, lo svenimento, una febbre da cani, il dottore Mattei con le mani nei capelli… e tante altre novelle di questa fatta.

– Ma chi le ha spacciate, queste frottole? – chiese Aloise, che non poteva tenersi dalle risa.

– Credo il piccolo Riario, il quale a sua volta le aveva pescate sulla piazza delle Fontane Amorose, nella fermata delle quattro. Insomma, mio povero Aloise, tu eri morto, e in casa Pedralbes ti facevano l'orazione funebre. C'era la Clelia, col marito, la Isabella, la Clarice, e tutta la gente solita che t'ha imbalsamato di finissimi unguenti come si usava nell'antico Egitto coi morti più illustri. E sai? La signora Violante, quella stecchita padrona di casa che dice una parola ogni mezz'ora, a guisa degli orologi da camera, si è degnata di sentenziare che i Montalto erano una buona casata, e che le doleva di vederla cadere a quel modo, per la tua fine immatura.

– E tu non hai risposto nulla?

– Io? bravo! e come vuoi che facessi, se non c'ero? Questa parte della conversazione io l'ho dal Cigàla, che era presente, e sapeva benissimo che quella era una frottola raccolta in piazza, ma voleva godersi la scena, il manigoldo! Quando giunsi io, puoi immaginarti come tutti mi si stringessero ai panni, per sapere se eri morto, o se ti disponevi a morire da buon cristiano. – Non dubitate, – m'affrettai a rispondere, – quello è un uomo che, messo al punto, non fallirà alla fede de' suoi padri; ma fino ad ora, grazie a Dio, egli non è al punto di tirare le cuoia. L'ho lasciato poc'anzi, vivo e fuori del letto, con licenza del medico, e se non è morto per avventura dacchè sono uscito di casa, io credo che egli terrà la promessa di venir domattina a fare una gita in carrozza fino a Nervi. —

Qui il Pietrasanta buttò la sigaretta, che gli si era spenta nella furia del discorso, ne prese un'altra, l'accese e continuò:

– Il piccolo Riario divenne rosso come una ciliegia, e dalle parole che balbettò intesi che lo spacciatore di quella panzana era stato lui. La signora Violante e tutte l'altre persone si rallegrarono, e fu una festa da non dirsi a parole, come nel fine di tutte le favole che mi raccontava la balia quand'ero piccino.

– Sei un bel pazzo! – soggiunse Aloise a mo' di commento.

– Ah, dimenticavo la più bella. Sai tu, Aloise, chi si cura molto di te e della tua salute? Te la potrei dare alle cento, e non l'indovineresti. Il taciturno tiranno di Quinto. —

All'udire quel nome, del quale daremo a suo luogo la spiegazione, Aloise rizzò il capo, ed era lì lì per balzar dal sedile; ma si contenne, pensando che l'amico avrebbe potuto farne le meraviglie e cavarne appiglio a qualche arrisicata congettura.

– Il signor Antoniotto? – chiese egli allora con una cert'aria di candore che pareva tolta a prestanza.

– Sì, – rispose il Pietrasanta, – il signor Antoniotto Torre Vivaldi, tiranno di Quinto e dei paesi circostanti, schiuma di __paolotto__ e assiduo ascoltatore di messe nella chiesa della Maddalena.

– Sta bene; ma che cosa ti ha detto egli?

– «Caro Pietrasanta, mi ha detto, non potete credere come mi prema di quel giovine. Ho conosciuto molto suo padre, e ricordo __eziandio__ che ai tempi antichi i Montalto erano scritti nel nostro albergo». – Avrebbe potuto dire nell'albergo di sua moglie, poichè da lei prende il nome di Vivaldi; ma già tu sai che il marchese Antoniotto si crede anco lui un discendente di quel navigatore… aiutami tu a dire il nome, e la terra che avrà sicuramente scoperto.

– Voi dire Ugolino Vivaldi. E aggiungi il fratello Vadino. Ma anche in due, non scopersero nulla, poveracci, e pare che naufragassero alle coste della Guinea, dove un secolo e mezzo più tardi credette di riconoscerne i discendenti un altro Antoniotto, del casato Usodimare.

– Vedi che combinazione! L'Antoniotto moderno se l'è proprio dimenticata. Ma che i tuoi antenati fossero scritti nel suo albergo, lo ha ben voluto ricordare. Ringrazialo della sua degnazione, come io l'ho ringraziato in tuo nome della sua sollecitudine per te.

– Hai fatto benissimo; – rispose Aloise. – Ma come poteva trovarsi iersera in casa Pedralbes, egli che non esce mai di casa senza… sua moglie? —

Queste ultime parole duravano fatica ad uscirgli di bocca; pure, gli bisognava dirle, se voleva farsi intendere dal Pietrasanta.

– To', – rispose questi, – egli non ha mica il torto! Sua moglie è, per tutti gli Dei, la più bella donna di Genova, e potrei aggiungere anco di altri luoghi parecchi. Hai tu mai notato, Aloise, che grandi occhi verdi?

– Verdi! Questa è nuova di zecca.

– Verdi, sì, verdi; e perchè no? Una volta mi erano parsi neri, un'altra volta azzurri; e siccome io non amo vivere nel dubbio, ho colto il destro di guardarli bene una mattina, alla luce del sole, e ti asserisco che sono verdi, del più bel verde marino, come quelli di Gulnara, la regina del mare, nelle __Mille e una notte__. Io son venuto allora a capo d'intendere come il riflesso della luce o dell'ombra, li possa far parere a volte azzurri, a volte neri. E che magnifici capelli castagni! Tu sai, Aloise, che io non ho mai avuto una gran tenerezza pei capelli castagni; ma quelli della marchesa Ginevra, così fini, così abbondanti e lievemente increspati, meriterebbero di essere posti nel firmamento, invece della chioma di Berenice, se, a dir vero, non istessero meglio su quella testa meravigliosa. E sono poi castagni? Chi lo sa? Sono neri… sono biondi…

– E dàlli con le stravaganze! Perchè non aggiungi che son bianchi?

– Eh, secondo il riflesso, perchè no? – rispose l'impertinente sragionatore. – A me poi la marchesa Ginevra fa questo senso; che cosa ne posso? E la persona! Come è svelta, senza dare nello scarno! Come è piccino quel piede, e come è sottile quella mano! Io non so, Aloise, se tu abbia mai considerato quel naso di purissima forma greca, le grandi sopracciglia, e quei candidi denti e le labbra che paiono di corallo tenero… —

Aloise, in quella che l'amico passava cosiffattamente in rassegna tutte le bellezze della marchesa Ginevra, era rimasto assorto in certi suoi pensieri; ma finalmente, veduto che il ritratto andava un po' per le lunghe, disse al Pietrasanta:

– Ma tu non hai risposto alla dimanda che io ti avevo fatta.

– Ah, è vero, scusami. Ma tu potevi del resto argomentare che se c'era il marchese Antoniotto, c'era anche la signora la quale era bella sai, bella come se il marito fosse stato mille miglia lontano.

– Che altra novità è questa tua?

– Eh, lo sai pure! Un marito ai fianchi, è come una brutta veste od un acconciatura disdicevole, che la più graziosa tra le donne ci scapita a portarla.

– Pazzo! – esclamò un'altra volta Aloise, a cui gli sproloquii del Pietrasanta avevano la virtù di rallegrar sempre lo spirito. – E come accomodi tu tanta ammirazione per la marchesa Ginevra co' tuoi amori da palco scenico?

– Ih, come corri! La mia ammirazione per lei è affetto legittimo del senso artistico, e non altro. Che vuoi si faccia ella di me? Ed io in fin dei conti che potrei farmene di lei? Io penso che sia la donna più fredda del mondo. Già, non potrebbe essere diverso. Dio le fa belle, e poi leva loro l'anima, perchè si conservino meglio, come gli uccelli impagliati.

– Pietrasanta! Tu non sei giusto…

– Bravo, e che cosa ti ho da dire? A me fa questo senso. E poi… e poi…

– E poi, che cos'altro?

– E poi, mi paiono donne da lasciarle dove sono.

– Qui, forse, hai ragione; – disse, aggrottando le ciglia, Aloise.




XI


Dove si viene in chiaro del segreto di Aloise.

In quel mentre, giunse il servo ad annunziare che la carrozza era innanzi all'uscio di strada. La qual nuova, com'è agevole il credere, interruppe il dialogo dei due amici; e il lettore, a cui ne dolesse, non ce l'apponga a noi, sibbene al servitore, che è venuto in mal punto.

Due minuti dopo, Aloise e Pietrasanta salivano in quella vettura di rimessa, fatta venire dal servo, e i due cavalli che v'erano attaccati partivano al trotto verso la Nunziata. Il Montalto era rimasto sovra pensieri, e non badava nemmeno alla lunga e popolosa strada che percorreva, la quale è l'arteria principale, l'arteria aorta di Genova, e piglia tanti nomi diversi ad ogni suo gomito, da via Balbi fino a piazza San Domenico, e di là fino alle porte della Pila.

Giunti all'aperto, il Pietrasanta cominciò uno dei soliti discorsi bizzarri, ai quali Aloise stava attento, secondo l'umore, e rispondeva o non rispondeva, secondo la voglia.

Il discorso importante, quello al quale Aloise di Montalto aveva a stare più attento che mai, cominciò dopo il paese di Quarto, allorquando al girare di una piccola lingua di terra che s'inoltra sul mare, videro un palazzo di campagna, di forme magnifiche e di stile severo, murato sul pendio di un colle, poco lontano dalla strada maestra.

– Ecco là; – disse il Pietrasanta, accennando del dito, – quella è la dimora estiva del tiranno di Quinto.

– È davvero un bel luogo di villeggiatura! – rispose Aloise.

– Che te ne pare, Aloise? – esclamò l'altro. – Oggi siamo proprio perseguitati dai Torre Vivaldi.

– Oh bella! Se veniamo noi stessi a passare dinanzi a casa loro!..

– Orbene! La montagna che si muove verso Maometto; Maometto che si muove verso la montagna; il miracolo non è sempre lo stesso? Vuoi che andiamo a vederla, questa villa Vivaldi?

– E a Nervi? – chiese Aloise, così __pro forma__.

– A Nervi ci andremo poi per riposare i muscoli. E poi, che cosa c'importa di vedere, colà? Abbiamo detto a Nervi, come avremmo detto al Giappone, per fare una passeggiata, e siamo padroni di mutare l'itinerario. E poi, sentimi, due passi a piedi ti faranno anche bene.

– Sei tu mai stato alla villa Vivaldi?

– Io no; ma che importa? Ci aprirà il giardiniere.

– Andiamo dunque.

– Andiamo. Ehi, cocchiere! – gridò il Pietrasanta. – Lasciate la strada maestra e prendete quell'altra a sinistra. Vogliamo andare alla villa Vivaldi, là da quel cancello verde che vedete. —

Il cocchiere obbedì e la carrozza fu in breve davanti al cancello di ferro fuso, sormontato da uno stemma partito di rosso e d'argento, col capo d'oro all'aquila nascente di nero, coronata e rostrata d'oro.

Due forti scampanellate chiamarono il giardiniere, il quale, veduti i due signori, e indovinandoli d'alto bordo, si affrettò ad aprire, e a riceverli col cappello in mano, dinanzi allo smontatoio della carrozza.

– Amico, – disse il Pietrasanta, – vorremmo entrare, con vostra licenza, a vedere un poco questa magnifica villa.

– Oh, sono padroni! – rispose l'altro con due inchini; e fattili entrare davanti a sè, richiuse il cancello.

Il palazzo Vivaldi era superbamente piantato sul colmo d'un poggiuolo, e vi si andava per un lungo e spazioso viale a dolcissimo pendio, chiuso ai lati da due file di rosai e di tamerici. L'architettura esterna era la consueta di quasi tutti i palazzi delle nostre campagne: soltanto si notava che quattro finestre del piano nobile, le ultime a manca, si allargavano a forma di loggia, custodita da grandi vetrate che s'intelaiavano nei colonnati; e le ultime quattro a destra cadevano entro le linee perpendicolari di una torre che usciva da quella parte del palazzo, rompendo ad angolo due acque del tetto.

Il piazzale dinanzi al gran portone arcato era coperto di ghiaia; i viali ai due lati andavano a dare in un muro che serviva di riparo a due di quelle belle spalliere di aranci e di limoni, che hanno fatto dire al Goethe il famoso verso: «Kennst du das Land wo die Citronen blühen?» Alle spalle del palazzo correva una stradicciuola campestre; laonde, per collegarlo col prato e col bosco della villa, scendeva dal pian nobile dell'edifizio un cavalcavia, fatto a foggia di gradinata, con le sue sontuose balaustrate di marmo.

Un gigantesco platano sorgeva a fianco della gradinata, ombreggiando quella specie di terrazzo per cui si entrava nella gran sala del pian nobile. In mezzo al prato, che era vastissimo, rallegrava gli occhi del riguardante un laghetto di forma ovale, coi margini di marmo bianco, entro il quale cresceva la ninféa, spandendo le sue larghe foglie vellutate a fior d'acqua, e navigavano a loro posta due cigni. L'orizzonte era precluso da ogni parte da filari di querci, sotto i quali correvano a cerchio spaziosi ed ombreggiati sentieri.

Tutte queste cose, sul finir di febbraio, sebbene mancassero i colori smaglianti della vegetazione primaverile, davano immagine di magnificenza principesca, e lasciavano argomentare che paradiso terrestre fosse la villa Vivaldi nei mesi di estate.

Il Pietrasanta, in quella che andavano girando per ogni luogo, aveva fatto amicizia col giardiniere, e ragionava con lui di tutte le belle cose che si presentavano alla loro ammirazione.

– Veda! – gli diceva il giardiniere, fermandosi presso una specie di querce e facendone notare la corteccia cedevole ma tenace, questo è l'albero del sughero, che è così raro dalle nostre parti.

– Buono per far turaccioli! – notò giudiziosamente il Pietrasanta. – E i sedili, che gli adornano il tronco, accanto a questa gran tavola rustica, che cosa significano?

– Ah! – rispose il giardiniere, con un piglio dottoresco, – questa è la __Corte d'Amore__.

– La Corte d'Amore! Che diamine di Corte è ella?

– È il luogo dove la signora marchesa viene a sedersi. Tutte le Vivaldi hanno sempre avuto il costume di venire a passare sotto quest'albero le ore calde della giornata. I miei vecchi hanno sempre veduto la medesima cosa; ed anche adesso, quando la signora marchesa è in campagna, ci sta tre o quattr'ore ogni giorno.

– Scusatemi, Giacomino, – disse il Pietrasanta, che già sapeva il nome del giardiniere, – ma non mi sembra poi una gran cosa da meritare un nome così bello e una così nobile preferenza.

– Oh, perchè lo vede così nudo. Ma nella buona stagione c'è tutto il verde dintorno; la signora marchesa poi fa rimettere a posto tanti altri sedili di maiolica, stendere un gran tappeto su questa tavola di lavagna, e una bella tenda fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole. Io poi ci porto dei fiori; la cameriera ci porta dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi per tutti i signori che vengono qui a far conversazione con Sua Eccellenza.

– Ah! mi ricordo, – disse Pietrasanta, volgendosi ad Aloise, – che il piccolo Riario mi parlava di un certo ritrovo, dove si faceva crocchio intorno alla bella marchesa. La Corte di Amore! Il nome è bello, e probabilmente la presenza della signora farà bello anche il luogo.

– Ora, se le loro Signorie vogliono vedere la grotta…

– La grotta! C'è una grotta? Sicuro che vogliamo vederla.

– Va pure; – disse Aloise, – io non ti seguo.

– Perchè? Sei forse stanco?

– Sì, un po'; ma non te ne dar pensiero. Ti aspetterò qui seduto sull'erba, e tu mi porterai le novelle dell'antro muscoso.

– E delle stalattiti. Perchè, – soggiunse il Pietrasanta, volgendosi al giardiniere, – ci saranno anche le stalattiti; non è egli vero, Giacomino?

– L'ha da vedere, Vossignoria, che grotta! – rispose questi. – Non se ne trova una così bella, anco a farsela naturale.

– E voi dovete esserne tanto più superbo, – disse il Pietrasanta, – in quanto che nemmeno il Creatore, l'unico che se le possa far naturali, potrà superarvela. —

Il giardiniere si accorse di averla detta grossa, ma non sapeva come rimediarci. Però, tutto confuso, chiese perdono a Dio di quell'atto di superbia, e precedette il Pietrasanta nel fitto delle piante, per dove si andava alla grotta. Era un uomo dabbene e timorato di coscienza, il giardiniere dei Torre Vivaldi, e pensava con raccapriccio a quello che gli avrebbe potuto dire il padrone, se lo avesse inteso bestemmiare a quel modo.

Intanto Aloise, appena i due furono scomparsi, in cambio di sedersi sull'erba, siccome aveva detto di voler fare, andò a posarsi su d'uno di que' sedili di sasso, e precisamente su quello che era a' pie' dell'albero presso la tavola, piantando i gomiti sulla lavagna e rimanendo col capo chino tra le palme.

Il giovine stette in quella postura un bel tratto, pensando e sospirando; poi, come uomo che ha preso una deliberazione, si alzò ed andò per ogni lato a cercare. Che cosa cercava? Un coccio di maiolica, un mozzicone di lavagna, qualche arnese, insomma, da potergli servire per iscrivere su quella superficie levigata della tavola.

Trovò finalmente il fatto suo, e si pose con fanciullesca gravità a segnare un nome a lettere maiuscole, sulla lavagna. Il filo del coccio si corrodeva nello sfregamento, ma Aloise calcava sempre più forte, e tornava sulle lettere per modo da scavarle più profonde, sicchè non potessero più cancellarsi.

Il nome che egli andava cosiffattamente incidendo (i lettori si saranno già apposti) era quello di «Ginevra», della bella marchesa di Torre Vivaldi.

Ecco dunque posto in chiaro il segreto di Aloise. Il giovine marchese di Montalto amava quella gentildonna che nostri lettori non conoscono ancora se non per la bizzarra dipintura che ce ne ha fatto quel capo scarico del Pietrasanta.

Raccontiamo una cosa che parrà strana a molti, ma che è vera come l'istessa verità, e che taluni conosceranno a prova. L'amore di Aloise per la bella marchesa di Torre Vivaldi contava già sei anni di vita, e l'innamorato non aveva detta anche una parola alla donna de' suoi pensieri.

Appena sei anni innanzi Antoniotto Della Torre aveva tolto in moglie la bella Ginevra, ultimo rampollo dell'antica casata dei Vivaldi. Insieme con la mano della fanciulla, che era in un monastero a compiere la sua educazione, c'erano cinque o sei milioni di sostanza, e il patto che il marito assumesse il nome della famiglia, che si sarebbe estinto colla persona di Ginevra.

La giovinetta andò sposa al Della Torre, senza pure averlo veduto; ma lo aveva veduto il tutore, e bastava. Sono questi i matrimoni che da noi si dicono di __convenienza__, parola che vorrebbe dissimulare il tornaconto, e non ne viene a capo. Antoniotto era ricco; la Vivaldi era ricchissima, nobilissima e bellissima per giunta; laonde non è a dire se il tornaconto c'era, e perciò il matrimonio fu combinato alla spiccia, e la fanciulla uscì dalla cella solitaria del monastero per andar difilata alla stanza nuziale.

Per tutta Genova s'era fatto un gran ragionare di queste nozze, Antoniotto Della Torre era uomo di mezza età, di umor cupo ed ambizioso; ma in fin dei conti era nobile e ricco, e nessuno trovò a ridire sulla deliberazione del tutore, il quale, a dirvela in confidenza, in quella che concedeva la mano della sua pupilla ad uno de' suoi consorti, acconciava le sue faccende particolari, e tra l'altre, dando il capitale, non rendeva strettissimo conto dei frutti. Dice l'adagio che una mano lava l'altra, e tuttedue lavano il viso.

E bisognava aver veduto che nozze! Canzoni e sonetti ne furono scritti e stampati a dozzine. V'ebbe tra gli altri un poeta il quale, pigliando l'inspirazione dagli stemmi delle due famiglie, scrisse che un più ragionevole nodo non si sarebbe potuto stringere mai, trattandosi di un'aquila che ne «impalmava» un'altra. Immaginate che aquilotto avrebbe dovuto nascere da quelle __auspicatissime nozze__! E tuttavia non era nato un bel nulla, e i voti del poeta erano rimasti più sterili della sua fantasia, la quale almeno, se non de' suoi parti, poteva insuperbire delle sue sconciature.

Appena celebrate le nozze, gli sposi erano partiti per un lungo viaggio, siccome è debito di persone le quali intendono la dignità del loro stato, e possono mettere la loro ambizione nell'appendere il nido dei loro amori eterni all'alcova di un albergo parigino. Gran dolcezza di ricordi vuol essere, pei giorni futuri! Ma infine, perchè no? Se non dolci, saporiti di certo. – «Angelo mio, ti rammenti di quella __sôle à la Normande__?» – «Sì, amico mio, era eccellente; e quella __bisque aux crevettes__?» – «Adorabile, hai ragione, adorabile! Me ne viene ancora l'acquolina alla bocca.»

Il ritorno dei Torre Vivaldi a Genova fu salutato come un fatto di rilievo. La donna, vissuta nella solitudine del convento, era a mala pena conosciuta di nome; però la sua sfolgorante bellezza, circondata da tutti gli agi del suo grande stato, destò l'ammirazione universale, nè più nè manco di una cometa sopraggiunta d'improvviso nel nostro sistema planetario. Tutti fecero a gara per avvicinarsi alla bella Giunone dell'Olimpo ligustico, e beati gli Dei e semidei, ai quali lo stato loro, i titoli sonanti e la larghezza del censo, consentivano di starle vicini ed entrare in dimestichezza col fortunato Giove. Il quale lasciava ammirare, lasciava corrersi la gente dattorno; accoglieva tutti, faceva buon viso ai giovani, come ai maturi. Più tardi ci occorrerà il dire quel che egli fosse, quali i suoi pensieri e i disegni. Basti per ora il sapere che egli, sempre un po' chiuso nel segreto della propria ambizione, usava tener corte bandita e regnare su tutta la gente che lo sfarzo del suo vivere e la superba bellezza della moglie gli tiravano in casa.

Quando la marchesa Torre Vivaldi comparve per la prima volta nel teatro Carlo Felice, fu una meraviglia universale. I re franchi non furono mai levati sugli scudi con tanto entusiasmo, quanto ne fu posto da quella curiosa e volubile assemblea a salutarla regina. Ella sì, poteva dire come Cesare, «__veni, vidi, vici__»; perchè tutti gli sguardi si volsero a lei, e non se ne distolsero per tutta la sera, sebbene ci fossero, di là dai lumi della ribalta, una bella cantante ed una ballerina fatta a pennello.

Aloise di Montalto era quella sera in teatro, e stava appunto in platea, dando le spalle a quel palchetto di prima fila dov'era comparsa la splendida gentildonna, con una veste scollata di stoffa azzurrina, che lasciava scorgere i purissimi contorni del collo e degli òmeri, e le braccia ignude. Una luna falcata le ornava i capelli, pettinati alla foggia di Diana; il collo e i polsi scintillavano lontano per una magnifica collana e per due braccialetti di brillanti; ma gli occhi della marchesa, ombreggiati dall'arco superbo delle ciglia, scintillavano d'una luce più vivida, e l'alabastro delle carni abbacinava gli occhi dei riguardanti, assai più dell'oro e dei brillanti, sebbene questi rifrangessero per tutte le loro faccette e con tutti i bagliori colorati dell'iride, la luce di cento doppieri.

– Come è bella! – dicevano tutti. Ma più delle labbra parlavano gli occhi estatici, un mormorio di universale ammirazione e i cannocchiali puntati a gara su quel palchetto di prima fila. Diana non guardava nessuno; pareva quasi non avvedersi di tutte quelle lenti ustorie rivolte sulla sua persona, e non distoglieva lo sguardo dalla scena se non per ricambiare una parola col marito e coi tre o quattro amici che si davano lo scambio nel palchetto, come i soldati in sentinella; tutti ragguardevoli personaggi, ai quali si leggeva in volto la vanità dello stare e del farsi vedere accanto a quella regina, eletta così prontamente dal suffragio universale.





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