Книга - Terra vergine: romanzo colombiano

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Terra vergine: romanzo colombiano
Anton Barrili




Anton Giulio Barrili

Terra vergine: romanzo colombiano





Capitolo I.

In alto mare


Quelli de' nostri lettori che mettono il venerdì tra i giorni nefasti, sono pregati a non citare tra gli esempi a conforto della loro opinione il giorno scelto, o accettato da messer Cristoforo Colombo, per dar principio al suo primo viaggio di scoperta. Diciamo la loro opinione, e non la loro superstizione; primieramente perchè non vogliamo essere scortesi con nessuno, e in secondo luogo perchè non crediamo a questa facile asseveranza moderna che gabella per superstizioni le idee di cui non può darsi una ragione. Se dunque i nostri lettori hanno di queste idee, ed amano tenersele, non saremo noi che ci proveremo a combatterle. Uomini insigni con idee di tal fatta ce ne sono stati parecchi, e ce ne saranno ancora, se Dio vuole. Il savio, che vede assumer forma di verità e grado di certezza tante cose che ieri ancora sapevano di bugia, d'invenzione, d'illusione e via discorrendo, non bolla di nomi derisorii le cose che non intende, o che gli paiono escire dalla cerchia delle verità riconosciute: per contro, diffida di queste ultime, non s'impegna a sostenere che saranno verità domani, come sembrano oggi.

Così ragionando, si può ammettere benissimo che ci siano dei giorni nefasti, o per tutti o per qualcheduno. Ma è permesso di credere che il venerdì, tanto calunniato, non sia tra quei giorni. Io, se debbo interrogare la mia particolare esperienza in proposito, ho il venerdì per un giorno buono. E per buono doveva averlo messer Cristoforo Colombo, che la mattina del 3 agosto 1492, essendo un venerdì, si avviava da Palos per il suo viaggio di scoperta, con tre caravelle, quasi con tre gusci di noce, e centoventi uomini d'equipaggio, tra marinai, soldati, ufficiali di bordo e sopraccarichi. Voi non ignorate che si chiamano sopraccarichi, in una nave, tutti i personaggi che ci sono imbarcati, senza avere un uffizio particolare, di comando o d'ubbidienza, nella nave anzidetta.

Ben altri pensieri, ben altri dubbi e timori occupavano lo spirito del navigatore Genovese, che il terrore della partenza in venerdì. Due di quei gusci di noce erano stati presi ed allestiti per ordine regio, come a dire per forza. E per forza erano stati imbarcati in gran parte i suoi marinai. Un primo esempio di sorda resistenza gli aveva dimostrato come egli potesse far poco assegnamento su quella marinaresca, allorquando era stato male aggiustato alla Pinta il timone, per modo che al primo colpo di mare dovesse spiccarsi dalla poppa, mettendo la caravella in istato di non più governare. Oramai si era in acqua, e bisognava navigare. Ma non poteva ancora il mal talento studiarne qualchedun'altra, per far ritornare indietro le navi? La paura è tanto ingegnosa! E l'almirante del mare Oceano ricordava a proposito che un'altra caravella mandata celatamente dai Portoghesi sulla rotta indicata da lui, per rubargli la gloria della scoperta, non era tornata a Lisbona per poca voglia che avesse il suo comandante di andare innanzi, ma per deliberato proposito della ciurma ribelle.

Una cosa era necessaria, perchè niente di simile accadesse a Cristoforo Colombo: che tra la sua piccola squadra navale e le famose colonne d'Ercole corressero leghe marine a parecchie centinaia. Ma come sperare che quei marinai, costretti a navigare per forza, si adattassero a fare, senza un tentativo di ribellione, parecchie centinaia di leghe? E se la ribellione ci fosse stata, e se le navi avessero dovuto dar volta, che vergogna per lui! quale impossibilità di tentare in altra occasione e con altre forze navali il viaggio! Egli, a buon conto, per non lasciare troppe armi alla resistenza della sua gente, aveva subito immaginato di non segnare sul libro di stima il numero esatto delle leghe percorse, tenendo il computo vero per sè. Ma quanti altri argomenti di rivolta alla sua autorità non avrebbe offerti la paura a quegli uomini rozzi, ignoranti, che egli aveva raccolti a furia, non scelti diligentemente tra i migliori della classe marinara?

Queste cose pensava Cristoforo Colombo; e queste cose non lo facevano lieto, non gli lasciavano gustare pienamente, come avrebbe potuto e dovuto, il gaudio onesto della sua sudata vittoria su tante contrarietà, su tanta guerra d'uomini e cose. Nè i suoi sospetti erano vani. La mattina del 6 agosto, un lunedì, terzo giorno del viaggio, la Pinta fece il segnale di non poter proseguire il cammino, avendo spezzato il timone; proprio quel timone che sulla spiaggia di Palos era stato così male aggiustato alla poppa. Gomez Rascon e Cristoval Quintero, padroni della nave, che era senza fallo la migliore delle tre, tornavano dunque alla riscossa con le loro alzate d'ingegno?

Del malvagio proposito non dubitava l'almirante, mentre governava verso la Pinta per recarle soccorso. Ma il vento soffiava gagliardo, il mare ruggiva, e con quel tempo era più facile investire la Pinta che accostarsi al suo bordo. Per fortuna, il comandante della nave era Martino Alonzo Pinzon, e questi non era della opinione dei padroni, in materia di parziali avarie.

– Almirante! – gridò egli dal capo di banda, – non temete di nulla. Leverò io la voglia a tutti di guastare un'altra volta il timone, dandone la barra sulla testa al primo che parlerà di ritornarsene indietro. Per ora il timone sarà accomodato con quattro giri di gomena; e poi si vedrà. Magari zoppicando, seguiteremo la capitana. Ma io consiglierei, salvo il parer vostro, di appoggiare alle Canarie, per provvedere un po' meglio a questa rottura. —

Non era intenzione dell'almirante di far sosta alle Canarie, come a nessun'altra isola o costa di quei paraggi. Ma bisognava chinar la testa al destino, e seguitare i consigli della prudenza. Il giorno appresso, non era più questione di prudenza, ma di assoluta necessità. La Pinta, di sicuro, era stata male raddobbata, e per il fasciame sconnesso incominciava a far acqua. La legatura del timone si era anche rallentata, e la caravella governava male da capo. La Santa Maria e la Nina dovettero diminuire la tela, per serrar meno vento, e andar di conserva con la povera zoppa. E l'almirante, non che risolversi di far sosta alle Canarie, pensò che gli sarebbe convenuto cercare laggiù un'altra caravella, per liberarsi da quella nave, che incominciava a parergli un vero castigo di Dio.

Ma perchè andare alle Canarie? Quelle isole erano ancora molto lontane. Non era meglio ritornare indietro, coi due legni che ancora reggevano al mare, e sui quali si sarebbe potuto trasbordare tutta la gente e il carico della Pinta, perchè questa seguitasse come poteva, magari presa a rimorchio? Era questo il pensiero dei marinai, confortato dalla opinione dei piloti. Alcuni di essi, come Pedro Alonzo Nino e Sancio Ruiz della Nina, stimavano sicuramente di essere molto distanti dalle Canarie. Forse meno sincero, perchè più desideroso del ritorno, era Bartolomeo Roldan, altro pilota della Nina. Ma niente affatto sincero, e più caldo sostenitore della grande distanza, era Perez Matteo Hernèa, pilota della Santa Maria. Costui incominciava ben presto a far prova del suo mal animo contro il comandante supremo, che egli non si peritava di giudicare, sebbene ancor sotto voce, un ambizioso impostore.

Ma il comandante della Pinta, della nave zoppa, aveva manifestato egli stesso il proposito di appoggiare alle Canarie, e per conseguenza di proseguire il cammino fin là. Con Martino Alonzo Pinzon, marinaio esperto e ben veduto dall'equipaggio, non si poteva lottare; specie quando minacciava di ricorrere agli argomenti ad hominem. Più calmo, ma più sicuro nella sua nautica dottrina, Cristoforo Colombo aveva detto: – V'ingannate, nella vostra stima; le isole sono anzi vicinissime. Tra domani o doman l'altro, le avvisteremo di certo. —

Il fatto seguì com'egli aveva annunziato. Sull'alba del giorno nove, si scorgevano le vette della Gran Canaria. Disgraziatamente, ora per troppo vento, ora per troppo poco, non era possibile l'approdo. Si stette due giorni in attesa di una propizia occasione, ma invano; e l'almirante, non volendo perder tempo a bordeggiare in quelle acque, si lasciò addietro la Pinta, ordinando a Martino Alonzo Pinzon di approdare quando potesse, e di cercare un'altra nave, per dare il cambio alla sua. Egli intanto andava con le altre due caravelle alla Gomera, per il medesimo intento. E giunse alla Gomera nel pomeriggio del 12 agosto udendovi con sua grande consolazione che s'aspettava di giorno in giorno una buona nave, andata per l'appunto alla Gran Canaria.

– Aspettiamo dunque con fiducia; – aveva detto l'almirante. – Se la buona nave è a quell'ancoraggio, Martino Alonzo l'ha trovata, l'ha presa, e viene con essa a raggiungermi. —

Ma lo aspettò invano. E stanco di aspettare, partì il 23 per andare incontro al compagno. Giunse il 25 alla Gran Canaria. Martino Alonzo Pinzon non v'era giunto che il giorno prima, e stentatamente; udendo da quegli abitanti che la nave c'era stata, ma che da parecchi giorni ne era partita, nè si sapeva per dove.

Bisognava rinunziare ad ogni speranza di barattare la nave, e lì per lì provvedere invece a rimettere in sesto la Pinta. Martino Alonzo Pinzon mandò a terra i mastri d'ascia per cercare il legname adatto e tagliare alla svelta un altro timone. Frattanto, poichè la sua caravella faceva acqua, i marinai si mutarono in calafati, e si diedero a fabbricare con vecchi cavi disfatti le stoppe catramate, che con scalpelli e mazzuoli dovevano poi ficcare nei comenti del fasciame, nelle ossature, nei nodi del legname, intorno ai cavicchi, e dovunque bisognasse, ricoprendo poi ogni cosa di pece.

La Nina approfittò di tutto quel tempo per cambiar velatura. Le sue vele latine si mutarono in quadre, e alle antenne, per conseguenza, furono sostituiti i pennoni. Per tal guisa, di caravella che era, e somigliante ad uno sciabecco, si trasformò in una specie di brigantino a palo. Quanto alla velatura, s'intende; non già quanto alla alberatura. Le caravelle portavano bensì tre alberi, il trinchetto, l'albero di maestra e l'albero di mezzana, ma quest'ultimo era assai più avanzato sulla poppa e più corto che non sia nei brigantini a palo d'oggidì; d'onde la conseguenza che non fosse molto larga la vela, artimone o mezzana che vi piaccia chiamarla, nella sua forma triangolare e latina, oppure randa di poppa, nella sua forma quadra.

Quando la Nina spiegò al vento la sua velatura nuova, dovette affrontare i giudizi delle altre navi, che l'aspettavano per muovere di conserva con lei. Il marinaio è criticatore per eccellenza; figuratevi se poteva essere risparmiata la Nina, il giorno che si presentò in riga così trasformata. La critica alle sue vele fu come un sorriso, il primo, in mezzo a tanti giorni di nera malinconia.

– Sarà bella, – diceva uno, – ma mi pare un po' goffa.

– Già, – soggiungeva un altro, – come un contadino di Biscaglia, quando mette un abito nuovo.

– E guardate, – entrava a dire un terzo, – tra i pennoni e gli alberi, che stonatura di tinte!

– Si capisce; i pennoni son nuovi, e gli alberi son vecchi.

– Albero vecchio… fa buon fuoco.

– E quelle trozze! dovrebbero stringere un po' meglio.

– Aspettate che bevano, e stringeranno, stringeranno anche troppo. —

Insomma, ognuno voleva dire la sua. E l'almirante, passeggiando gravemente sul ponte della Santa Maria, poteva, come suol dirsi, sentir suonare tutte le campane, ad una ad una, e magari tutte insieme.

Su tante, egli ne sentì una che lo colpì, facendolo voltare di soprassalto. Due marinai stavano appoggiati al capo di banda, un po' in disparte dai loro compagni, e ragionavano di cose vane, non tali da destare l'attenzione dell'almirante. Ma il tono è quello che fa la musica; e quei due cantavano in un tono che doveva far senso a messer Cristoforo Colombo. Parlavano, a farvela breve, in vernacolo genovese. Come mai due genovesi a bordo? Ed egli non ne sapeva nulla?

L'equipaggio delle tre caravelle non lo aveva scelto lui. Quella gente era stata presa per forza, nella maggior parte; e il resto era stato tirato dall'esempio dei fratelli Pinzon. A Palos, ad Huelva, a Moguer, erano tutti valenti marinai; si potevano prender tutti ad occhi chiusi. E un po' per una ragione, un po' per l'altra, l'almirante non aveva presieduto alla formazione della sua marinaresca. Quanto al nome di tutti, alla patria e alle altre particolarità di quella gente, erano cose che egli avrebbe conosciute via via, durante il viaggio, senza bisogno di leggere il registro, che era tenuto dal suo primo pilota.

Immaginate dunque la dolce commozione che messer Cristoforo Colombo provò in quel giorno e in quell'ora. La parlata della madre patria è sempre la più soave all'orecchio dell'uomo, quando egli si ritrova fuori paese. Egli accorre al suono conosciuto, come ad una festa dell'anima; ascolta giubilante, vorrebbe subito barattar parole anche lui, come se volesse provare a sè stesso che quell'idioma, che è senza dubbio il più bello del mondo, egli non lo ha dimenticato. E parlandolo, dopo tanti anni, in una regione lontana, egli sente in quell'idioma, in quel vernacolo natìo, un gusto, un sapore di novità, che gli è fonte di gioie inattese, rivelazione di arcane bellezze.

Ma per allora non era il caso di fermarsi a discorrere. La dignità del comando voleva che l'almirante tirasse di lungo; e il momento, poi, non era da chiacchiere. Le caravelle erano in riga, bisognava partire. La Santa Maria si mosse per la prima dall'ancoraggio della Gran Canaria, dirigendosi alla Gomera, dove aveva lasciato a terra una squadra d'uomini per far provvista di viveri. Era una domenica, il 2 di settembre, un mese dopo la partenza da Palos.

Per andare alla Gomera, si passava davanti a Teneriffa, che è l'isola centrale del gruppo delle Canarie. Il gran picco di Teneriffa era proprio allora in piena eruzione vulcanica; maraviglioso spettacolo, che per la maggior parte dei marinai di Cristoforo Colombo poteva dirsi anche nuovo. Udendo i boati della montagna, e i tuoni frequenti che facevano tremar l'aria tutto intorno, vedendo la immensa colonna di fumo che usciva a fiotti dall'alto cratere, le fiamme che guizzavano in mezzo a quel fumo, i torrenti di lava che scendevano rosseggianti nella notte lunghesso i fianchi del cono, quei poveri marinai del secolo decimoquinto provarono gli stessi timori che cinque secoli prima dell'Era volgare avevano fatto dare indietro i compagni di Annone Cartaginese.

Quella eruzione spaventosa di Teneriffa era una ammonizione ai mal capitati. Così, per terremoti e per vulcani, si era inabissata una gran terra, laggiù, di cui narravano oscure leggende; quell'istesso mare che l'aveva inghiottita, non poteva divorare da un momento all'altro anche loro?

L'arrivo alla Gomera fu occasione di altri timori, non più per i marinai, ma per il comandante supremo. Da poco erano entrati in rada, quando sopraggiunse una caravella, anch'essa spagnuola, che faceva servizio tra quelle isole. Veniva dall'isola del Ferro, la più occidentale delle Canarie, e recava notizie di una straordinaria crociera. Tre navi portoghesi avevano toccato all'isola del Ferro; dai discorsi dei marinai, dalle domande degli uffiziali, si era potuto capire che il re Giovanni II di Portogallo mandava quelle tre navi ad aspettare al varco una spedizione di scoperta, per farne prigioniero il comandante.

Cristoforo Colombo, non durò fatica ad intendere chi fosse l'aspettato. Sette anni addietro egli era fuggito dal Portogallo, non isperando più nulla da quel re, che sempre lo aveva tenuto a bada con buone parole. Richiamato da lui, che certamente si era pentito e temeva di veder la Spagna far buon viso ai disegni del navigatore Genovese, non aveva voluto a nessun patto ritornare a Lisbona. Ciò che il Portoghese temeva, era accaduto; tardi, veramente, ma in tempo per nuocere alla fortuna del Portogallo, i reali di Castiglia avevano dato a Cristoforo Colombo le navi e gli uomini per tentare l'impresa dell'Oceano. Nuove isole, fors'anche continenti, sarebbero stati dunque scoperti a profitto di Spagna. Ma non erano del Portogallo tutte le nuove terre di là dai confini d'Abila e Calpe? Già troppo era che Castiglia vantasse diritti sulle Canarie, e di tanto in tanto, dopo l'impresa del Bethencourt, vi facesse atti di padronanza. Niente altro doveva sperare, nient'altro ambire la corona di Castiglia in un campo oramai devoluto alla operosità portoghese.

Aiutavano questa pretensione, la fortificavano certamente nell'animo del re Giovanni, le scarse cognizioni geografiche e cosmografiche del tempo. Dove andava infine il navigatore Genovese? di là dalle Azzorre? di là da Madera? di là dalle isole del Capo Verde? Tutte conquiste portoghesi eran quelle; e portoghese doveva essere egualmente tutto ciò che poteva ritrovarsi più in là. Ma se una grande scoperta fosse fatta per conto della Spagna, difficilmente si sarebbe potuto contenderne alla Spagna il possesso. Con la presa di Granata e lo sterminio completo della potenza moresca, i reali di Castiglia e d'Aragona si ritrovavano forti e liberi come non erano stati mai; la riunione di tutte le Provincie spagnuole sotto un solo scettro segnava la decadenza del Portogallo. Una conquista oltre i mari, sui confini dell'Asia, di quell'Asia a cui miravano allora tutti gli sforzi della Corte di Lisbona, avrebbe dato il tracollo alla potenza portoghese. Donde la necessità urgente di mettere ostacolo all'impresa di Cristoforo Colombo, e ad ogni costo impadronirsi di lui. E perchè, dopo tutto, non si poteva tentare con forze portoghesi la medesima impresa? Tre navi allestite per catturarlo, potevano anche proseguire il viaggio di scoperta, giovandosi dei suoi disegni e della sua direzione. Comandante con le braccia legate, avrebbe ad ogni modo raggiunto il suo fine e guadagnata la sua gloria. E forse, chi sa? era meglio andar prigioniero, ma rispettato, a scoprire un nuovo mondo, in un primo viaggio, che ritornare incatenato ed umiliato dal terzo, dopo aver fatta e assicurata la conquista di quel nuovo mondo ad un monarca sconoscente ed ingrato.

Ma non è dato agli uomini di prevedere il futuro. Se anche Cristoforo Colombo avesse preveduto il suo destino, possiamo star certi che avrebbe fatto egualmente quello che fece, appena udite le notizie della crociera portoghese. Ordinò prontamente che si smettesse di far provvigioni, richiamò tutti gli uomini a bordo, e fece spiegare le vele.

Le tre caravelle lasciarono l'ancoraggio il giovedì 6 settembre, due ore innanzi l'alba. Allontanandosi un buon tratto verso ostro, l'almirante sperava di uscir dalla vista del nemico, caso mai questi avesse lasciati i paraggi dell'isola del Ferro per muovergli incontro. Un vento fresco che era sorto nella notte, gli dava buona speranza di riuscire nell'intento. Ma quella brezza d'improvviso cessò; e le tre caravelle dovettero restarsene tutto quel giovedì, ed anche il venerdì, con le vele penzoloni. Per fortuna, l'almirante aveva guadagnato tre ore di cammino, e non era probabile che il vento delle isole giovasse tanto alle navi portoghesi, da spingerle sulla sua strada. Neanche era probabile che esse si fossero spiccate da ponente dell'isola del Ferro, dove potevano egualmente vigilare a destra e a sinistra di quell'arcipelago. Piuttosto era da temere che toccassero alla Gomera, sapessero del passaggio di lui e muovessero a dargli caccia, appena il vento si fosse levato.

Ed egli spiava ansiosamente quel vento, che si levò soltanto sul mattino del sabato. Ma non era un buon vento; spirava da ostro, e spingeva le caravelle sull'isola del Ferro. Ore terribili furono quelle per lui. Ma anche per le navi portoghesi quel vento soffiava contrario. Non era dunque perduta ogni speranza per lui.

Sull'alba della domenica, quel vento malaugurato cambiò finalmente, e le caravelle lo ebbero in fil di ruota. Allora l'almirante rese grazie a Dio della buona ispirazione che gli aveva mandata, di far mettere le vele quadre alla Nina, che con le vele latine non avrebbe potuto camminare di conserva con le altre, nè per conseguenza sottrarsi con esse al pericolo. Messa tutta la sua tela al vento, la piccola squadra di Cristoforo Colombo, in un giorno e nella notte che seguì, si allontanò quarantadue leghe dalla isola del Ferro. E naturalmente perdette di vista quell'ultima terra occidentale del mondo antico. Che gioia, per Cristoforo Colombo, non veder più che acqua dintorno a sè, quanto andasse attorno la vista!

Ma era scritto lassù che quando egli era lieto non lo fossero egualmente i suoi marinai. Essi avevano veduto con terrore il picco di Teneriffa vomitar fumo e fiamme. Con altrettanto terrore videro quella immensa distesa d'acque, forse la prima che navigatori vedessero, senza certezza di un lido. E un lido non si aspettavano di ritrovare laggiù, sebbene l'almirante assicurasse di doverlo ritrovare a settecento leghe oltre lo stretto di Gibilterra; s'aspettavano invece di veder sorgere dagli abissi i mostri marini che avrebbero capovolte le navi e castigati i temerarii violatori dei segreti dell'Oceano. Quante volte non fu costretto Cristoforo Colombo a chetarli, a fare il suo sermoncino cosmografico a quei rozzi marinai, tentando di persuaderli della vanità delle loro paure! Lo stavano a sentire; lì per lì sembravano persuasi, pieni d'insolito ardimento; poi ricascavano nella loro viltà, tremavano, e si lagnavano peggio di prima.

Altra cagione di sgomento fu il giorno 11 di settembre, a cento cinquanta leghe dall'isola del Ferro, quando videro galleggiare sulle acque un pezzo d'albero di gabbia. Così ad occhio e croce si poteva giudicarlo appartenuto ad un naviglio di cento venti tonnellate. Ma il naviglio, dov'era? Sicuramente sprofondato negli abissi dell'Oceano. Ugual sorte non era riserbata anche a loro?

Lo sgomento si mutò in alto terrore, quando osservarono la bussola, sei giorni dopo aver trovato l'avanzo della barca naufragata. L'ago magnetico, scambio di volger la punta alla stella polare, piegava di cinque o sei gradi verso maestro. Che voleva dir ciò? Entravano essi in una regione del mondo ove le leggi di natura non valevano più? E lo sviamento dell'ago, ogni giorno osservato con ansia, si vedeva ogni giorno aumentato.

Da parecchi giorni l'almirante aveva notato il fenomeno, e temeva che lo notassero altri. Quando il guaio fu avvenuto, egli dovette inventare una spiegazione plausibile del fatto.

– Che credete? che la calamita volga la punta alla stella polare? La volge invece ad un punto fisso ed immobile. La stella polare, come ogni altro corpo celeste, fa i suoi mutamenti nello spazio, girando bensì intorno a quel punto invisibile. Ed ecco perchè qualche volta vedrete la calamita scostarsi dalla direzione della stella polare. Nel fatto è la stella polare che si scosta. —

Si persuasero i piloti, che avevano una grande opinione della dottrina astronomica di Cristoforo Colombo. Persuasi loro, si persuasero anche i marinai, che non guardavano tanto nel sottile.

Ed era tempo che una spiegazione fosse trovata, anche falsa; perchè già tra i marinai si andava ricordando la storia di un luogo lontano sul mare, dove i chiodi ed ogni altro genere di ferramenta si spiccavano dai navigli, per volarsene ad un certo promontorio incantato, lasciando che i legni si sfasciassero e colassero a fondo con le povere ciurme. Di sicuro quel promontorio esisteva, era una montagna di ferro, o d'altra diavoleria che tirasse a sè ogni specie di metalli; e quella montagna non doveva essere lontana. Già infatti l'ago calamitato della bussola si volgeva da quella parte; ancora una cinquantina di leghe, un centinaio al più, e le tre caravelle sarebbero state attirate verso quella montagna metallica, per far la fine di tante e tante altre. I marinai narravano, senza saperlo, una favola orientale, fatta correre dai novellieri arabi, per tutte le popolazioni marinaresche del Mediterraneo.

Cristoforo Colombo non si era apposto al vero, immaginando la sua famosa dichiarazione dello strano fenomeno. Ma lì per lì quella dichiarazione faceva buon giuoco; ed anche, nello stato delle cognizioni fisiche ed astronomiche del tempo suo, poteva passare per una divinazione. Oggi, con tante ipotesi sui poli magnetici, sul loro numero e sulla loro distribuzione, non ne sappiamo più di lui. Conosciamo le deviazioni dell'ago calamitato in tutte le regioni del globo, ne abbiamo anche delineate esattissime tavole; ma la causa del fenomeno costantemente ci sfugge. Per possedere il segreto di tutti i congegni che fanno muovere due sottili lancette sopra un quadrante di porcellana, un fanciullo non dubiterebbe di disfare l'orologio. Ma noi non siamo più fanciulli, pur troppo!




Capitolo II

Getta l'àncora e spera in Dio


La calma ritornava negli animi sbigottiti. Ma era la calma tenue del soldato, che tra una battaglia e l'altra gode il riposo dell'avamposto, mettendo a guadagno tutte le ore di quiete, pure avendo sempre nello spirito una vaga inquietudine, che gli leva la voglia di pensare alle cose lontane nello spazio o nel tempo. Certamente, regna la quiete intorno a lui, ma è quiete che precede la tempesta. Il sentiero è sgombro, davanti a lui, ma l'insidia è vicina; la morte può stare in agguato dietro quel canto di strada che verdeggia là in fondo. E verso quel fondo: si guarda mal volentieri, anche dai più coraggiosi. Chi è di servizio, ci pensi.

Anche laggiù, sull'Oceano, erano calme le vie. Il sole splendeva, senza arrostire i cervelli; l'aria era dolce, mitissima; un aprile di Andalusia, per usare una frase dell'Almirante, un aprile d'Andalusia, a cui non mancava che il canto del rosignuolo, per far l'illusione compiuta.

Cristoforo Colombo ebbe sempre una gran tenerezza per il canto del rosignuolo. Il ricordo del cantore dei boschi ritornava spesso nelle sue relazioni di viaggio e nel suo giornale di bordo. Ma se per allora mancava il rosignuolo, una rondinella di mare e una cingallegra erano venute a svolazzare intorno alle caravelle. Passi per la rondinella di mare; è suo uffizio di volare sulle acque. Ma la presenza di una cingallegra non s'intendeva egualmente laggiù, se non immaginando molto vicina la terra.

E terra vicina immaginavano i marinai, argomentando dalla presenza di quel grazioso uccello silvano in una così lontana latitudine marina. Ma non tutti la pensavano a quel modo; particolarmente i nostri due genovesi.

– Ahimè, povera parissòla, – diceva uno di essi al suo fedele compagno. – Bisognerebbe conoscere per quali traversie abbia dovuto sperdersi da queste parti, e che raffiche indiavolate l'abbiano gittata in alto mare. Da principio si sarà rifugiata sulla gabbia di qualche naviglio. Poi, seguitando questo vento di levante…

– Avrà perduta la tramontana; – interruppe l'altro, che era anche il più faceto dei due. – E un bel giorno, veduto questo gran verde, l'avrà scambiato per una prateria. Ci starà grassa, ci starà!

– Così noi, sperduti per il mondo! – mormorò l'altro, sospirando.

Ma al compagno non garbavano questi sospiri.

– Ohè, Cosma! – esclamò. – Vogliamo intenerirci un pochino? Bada che il tuo Damiano da quest'orecchio non ci sente, e come è vero Dio ti pianta sulla palmara. —

Voleva dire: ti pianta in asso. Palmara, dicono i genovesi quel cavo che lega i battelli alla spiaggia.

– E piantami! – rispose Cosma, sforzandosi di sorridere. – Tanto, so bene che andresti poco lontano.

– Ah bravo! – replicò Damiano. – Ho piacere che tu te ne ricordi, che siamo tutt'e due nello stesso guscio di noce. Per la vita e per la morte non abbiamo giurato di stare insieme? Tu piangi, io rido; e tra buon vento e cattivo la barca va. Tu vorresti il mondo rifatto a modo tuo, caro amico; io lo accetto com'è; per intanto andiamo tutt'e due a cercarne un altro. Ci sarà? e se c'è, sarà migliore del vecchio?

– Mistero!

– Con che aria lo dici? A me non fa nè caldo nè freddo. Mi par di giuocarla a croce e grifo; quel che sarà sarà. E spero, – soggiunse Damiano, – che tu ammirerai la mia filosofia, molto adatta per un viaggio di scoperta come questo.

– Perchè?

– Perchè si piglia il nuovo mondo come viene.

– Matto! – esclamò Cosma. – E così, tu non hai neanche bisogno di fede, per conservare il tuo buon umore!

– Chi te lo dice? Ho la mia fede ancor io; incomincio ad averne molta nell'almirante. Ed è naturale. Io vado a mano a mano raccattando quella che pèrdono gli altri. Non ti nascondo che questo nostro concittadino mi piace. Ed è nato lanaiuolo! Dunque fuori di porta Soprana, nella strada che mette al ponticello di Rivo Torbido. I lanaiuoli abitano tutti da quelle parti. E lanaiuolo com'è di origine, e marinaio di professione, ci ha un'aria di gentiluomo che consola.

– Non dei nostri, per altro.

– Ah sì, di un'altra stirpe, davvero. Ma vedi… Cosma? Io mi son fatto un giudizio tutto mio, in questa faccenda. L'uomo fa l'aspetto secondo le passioni che lo muovono. Metti per dieci, venti, cinquanta e cent'anni una famiglia contro l'altra, tutte disposte a mangiarsi il naso, e vedrai che facce ti vengon fuori. È certamente per questo che gli Adorni e i Fregosi, da un pezzo in qua, son tutte facce proibite. Anche i Fieschi, sai, anche i Fieschi; – soggiunse Damiano, ridendo. – E frattanto, che avviene? Che le facce serene e piacevoli, da veri gentiluomini, bisogna cercarsele altrove.

– Tra i lanaiuoli, allora?

– Sicuramente; e tra quelli, più facilmente che nelle altre professioni. Quelli, a buon conto, devono esser nati nel soffice. —

Il colloquio dei due marinai genovesi fu interrotto dal suono della campana, che dal castello di poppa chiamava l'equipaggio alla preghiera serale. Era quell'ora che il nostro maggior poeta ha cantata con versi tanto soavemente malinconici nelle celebri terzine del Purgatorio:

Era già l'ora che volge 'l desio
A' naviganti e 'ntenerisce il core
Lo dì ch'han detto ai dolci amici addio;
E che lo novo peregrin d'amore
Punge, se ode squilla di lontano
Che paia 'l giorno pianger che si more.

Tutti inginocchiati in coperta, e fattosi umilmente il segno della croce, i marinai della Santa Mariamormoravano con l'Almirante, che la proferiva ad alta voce, la preghiera dell'Angelus Domini, istituita nell'anno 1095 da papa Urbano II, al concilio di Clermont, pei crociati che andavano in Palestina, e rimessa in vigore un secolo dopo, da Gregorio IX, per tutto l'orbe cattolico. Mai, fino a quel giorno, squilla vespertina e preghiera di cristiani s'erano udite più lontano nell'aria. Le navi di Cristoforo Colombo erano allora a trecento leghe di là dai confini d'Europa.

La preghiera dell'Angelus era finita da poco, e tutti i marinai che non erano di guardia alle vele, in vedetta sulla gabbia, o al timone, si disponevano a scendere nei ranci sotto coperta, quando una strana luce apparì davanti a loro, quattro o cinque leghe, lontana sul mare. Una striscia luminosa e rossastra si dipingeva nel cielo, solcandolo ad arco, e facendo sentire un alto fragore, come di artiglierie sparate in distanza. Pareva di vedere una palla di ferro rovente, o parecchie, vomitate da un mortaio; le quali scoppiassero per via, andando a sprofondarsi nel mare, e lasciando dietro di sè un gran solco di fuoco. La straordinaria grossezza di quel globo luminoso non permetteva di pensare alle stelle cadenti, fenomeno abbastanza comune nelle calde regioni e in certi mesi dell'anno. Nè la più parte di quei marinai avevano veduto mai bòlidi; nessuno ne aveva mai veduto uno così fuor di misura; e del resto, ad ogni fenomeno naturale di cui non si conosce la causa, è più facile sgomentarsi che rinfrancare gli spiriti. Che cosa significava quel razzo? era esso il principio del finimondo? non prenunziava forse tutta una sequela di scoppi e di rovine?

Ma niente avvenne, di ciò che incominciavano a temere. Del solco luminoso non rimaneva più traccia nel cielo. La pace regnò quella notte e i giorni seguenti. Spirava da levante una brezza viva e costante, che teneva in continuo esercizio le vele, senza dar travaglio all'alberatura e al sartiame. Tutto andava dunque a seconda; favorevoli i segni del cielo, più favorevoli ancora i segni del mare.

Infatti, sentite: s'incominciava a vedere sulla superficie delle acque un grazioso spettacolo. Qua e là galleggianti sui flutti, o, per dir più veramente, sulla liquida lastra del mare, lievemente increspata dalla brezza, si scorgevano piccoli strati, come chiazze di verde. Entrandoci le navi per mezzo, si vedevano quegli strati esser fatti di erbe verdi, tanto verdi che parevano strappate di fresco dalle zolle natali. E le chiazze si facevano a mano a mano più larghe, più frequenti, più fitte.

Fu a tutta prima una festa degli occhi, e per conseguenza una allegrezza dei cuori. L'assenza del verde è la malattia del marinaio. Il verde è il gradito colore della terra. Dicono gli astronomi che a guardarlo dall'osservatorio degli altri pianeti, il nostro globo tramandi una luce di smeraldo, a cagione delle sue terre e della vegetazione che le ricopre. Peccato non esser là, su Marte, o su Giove, a vedere la bella figura di pietra preziosa che dobbiamo far noi, nella immensità dello spazio!

– Le isole sono vicine! – gridavano i marinai. – Vedete come son fresche, queste erbe. Sembrano staccate ieri dal suolo.

– Effetto dello stare in acqua; – notava qualcuno.

– E sia, diciamo due giorni, tre, cinque. Ma a lungo andare, marcirebbero. E poichè queste sono così fresche, siano di un giorno o di cinque, la terra dev'essere vicina.

– Mettiamo di sei, e crepi l'avarizia. Io mi contenterei di toccar terra fra sette. —

Così ridevano e scherzavano, dimenticando le recenti paure. Un marinaio si buttò in acqua per cogliere una manata di quelle erbe, e portò a bordo un granchio vivo, che fu subito presentato all'Almirante.

Quel povero crostaceo dell'Oceano non differiva punto punto dagli altri congeneri suoi delle coste d'Europa. Ma dalla sua presenza in quelle latitudini si poteva, a sentire i marinai di Moguer, grandi pescatori nel cospetto di Dio, cavare un eccellente pronostico di spiagge vicine. Essi infatti sostenevano che di granchi, a ottanta leghe da terra, non se ne ritrovano più.

– Distanza giusta per metterci casa; – bisbigliò Damiano all'orecchio di Cosma. – Non c'è più pericolo di pescarne. —

Poco dopo il granchio, indizio sicuro di terra entro le ottanta leghe di distanza, si vide uno sciame di tonni che vennero a guizzare nella scia delle navi. E poco dopo i tonni che scherzavano in acqua, venne un'altra cingallegra a svolazzare tra l'albero di maestra e il trinchetto della Santa Maria. Fors'anche era la cingallegra dei giorni scorsi, povera cingallegra sperduta, che aveva intenerito il cuore di Cosma. Ma comunque fosse, cingallegra e tonni erano altri indizi di terre vicine. Anche l'onda marina, assaggiata dal pescatore del granchio, e poi via via da altri curiosi, era meno salata in quei paraggi che non fosse nelle acque delle Canarie. E quello, per bacco, era indizio di terre vastissime, di un continente a dirittura, donde si scaricassero nell'Oceano le acque dolci di grandissimi fiumi. E il mare sempre tranquillo; e il vento sempre favorevole. Laggiù da settentrione l'atmosfera un tantino più fosca; altro indizio di terra. E poi un fitto sciame d'uccelli che passavano alti, volgendo a ponente; nuovo e prezioso indizio che da ponente o da tramontana, ma sempre là, davanti a loro, fosse vicina la meta.

La Pinta, grande veliera della squadra, si accostò al bordo della Santa Maria, chiedendo all'almirante la licenza di muovere innanzi liberamente, per iscoprire quella terra benedetta. Martino Alonzo Pinzon si struggeva d'impazienza; sicuro del fatto suo, avrebbe desiderato esser primo a dare la buona notizia. Ma l'almirante non diede la chiesta licenza. Si doveva andar tutti di conserva, per non aversi a smarrire. Ed egli, dai suoi computi, non argomentava vicina la terra. Che ostinazione era la sua? I segni crescevano ad ogni giorno, quasi ad ogni lega di cammino che le navi facevano. Due pellicani non erano proprio allora passati in aria, venendo da ponente? Ora i pellicani non sogliono andar mai lontani oltre venticinque leghe dal lido. Questo non lo dicevano i soli pescatori di Moguer; lo asserivano tutti. E quei grossi nebbioni che si levavano all'orizzonte, senza mestieri di vento, che cos'altro volevano dire se non questo, che il viaggio di scoperta toccava al suo termine?

Bene operava Cristoforo Colombo, resistendo alle domande di Martino Alonzo Pinzon. I suoi computi potevano essere errati; sicuramente lo erano, ma non in guisa da giustificare le speranze precoci della sua gente, poichè la distanza tra l'Europa e il Nuovo Mondo dovea riscontrarsi anche maggiore delle settecento leghe immaginate da lui. Per intanto egli manteneva la sua autorità; e per il giorno dei disinganni non sarebbe apparso incerto nella sua dottrina, facile ad infiammarsi per ogni nonnulla, come i suoi compagni di viaggio, vagante a caso sui mari, come un avventuriere od un pazzo.

– Stiamo tutti in riga, Martino Alonzo; – gridò egli al comandante della Pinta; – ci sarà gloria per tutti. Gli indizi che osserviamo sono certamente notevoli. Forse ci dimostrano l'esistenza di qualche isola sulla nostra diritta. Ma non mette conto per ora di cercar piccole cose. Vedremo al ritorno. Approfittiamo ora di questo buon vento, e facciamoci avanti verso ponente. Desidero di toccar terra al pari di voi; ma penso che ne siamo ancora distanti un bel tratto. —

E si apponeva al vero. La spedizione era appena a metà strada. Ma non aveva arcipelaghi sulla diritta, nè sulla manca; e i pellicani, le cingallegre, i granchi, i tonni, l'acqua meno salata, i nebbioni, il mare erboso, non significavano niente di ciò che gli altri speravano.

E andavano, frattanto, procedevano fidenti tra quelle chiazze di verde vivo. Ma a grado a grado quelle chiazze crescevano, si allargavano, e presto non si vide che una chiazza sola; tutto il mare, intorno alle navi, era verde per quello strato di erbe, come è verde un palude, un serbatoio di acque stagnanti. E ad un certo punto, quello strato d'erbe era così fitto da impedire il corso alle caravelle, obbligando i marinai a spenzolarsi dalla prora coi lunghi aldighieri in pugno, per rompere e allontanare l'ostacolo.

Era la prima volta che i marinai della vecchia Europa vedevano quelle praterie galleggianti. Ignoravano perciò che il mar di Sargasso, come fu chiamato di poi dalle alghe di cui è formato, occupa nel mezzo dell'Atlantico uno spazio otto volte più vasto della penisola Iberica. La formazione di quello strato verde non è più un mistero per la scienza, dopo la scoperta del gulf stream, ossia della corrente del golfo, il gran fiume oceanico che si parte dal polo antartico rimontando fino all'artico, ma partendosi a mezzo il suo corso in due correnti, una delle quali costeggia l'Africa e l'altra va a far gomito nel golfo del Messico, lasciando nel centro un vasto campo di mare più tranquillo e più freddo, nel cui fondo vanno a finire tutti i tronchi di alberi, carcami di navigli, ed ogni materia pesante travolta dalle acque, mentre alla sua superficie si raccolgono e galleggiano tranquille come in uno stagno tutte le erbe marine, strappate dagli abissi dell'Oceano.

I marinai si erano rallegrati da principio alla vista del verde. Avevano anche riso, vedendosi costretti a far piazza pulita con gli aldighieri. Ma non si può rider sempre; e dopo aver riso, incominciarono a seccarsi; dopo essersi seccati, tornarono a sgomentarsi da capo. Quegli strati d'erbe non si sarebbero fatti a mano a mano più profondi, tanto da imprigionare a dirittura le navi? Non era possibile che i mostri temuti fossero per l'appunto in agguato dietro a quei monti di viscida verzura? E se non erano mostri, non potevano essere bassi fondi, secche e frangenti, in cui dovessero incagliare le caravelle? Dei mostri non temeva l'almirante; ma bene incominciò a temere anch'egli delle secche. A lui, memore di tutti i testi delle antiche scritture, ritornava in mente l'Atlantide di Platone, quell'Atlantide inabissata, i cui resti potevano benissimo essere rimasti a fior d'acqua, o alti tanto sott'acqua da cagionar gravi danni alle carene delle navi. Ma questi timori erano presto dissipati dallo scandaglio, che fu gittato più volte e non trovò mai fondo, neanche con dugento braccia di sagola.

– Animo, dunque! – diss'egli, dopo parecchie di quelle prove convincenti. – Abbiamo varcati oramai gli strati più fitti, e il pericolo dei frangenti e delle secche è passato, se pure c'è stato mai. Vedete poi come è costantemente favorevole il vento.

– Sì, ben dite, signore, costantemente! – rispose per tutti il pilota Perez Matheo Hernèa. – Soffia sempre da levante, questo vento benedetto!

– Non sempre; – disse l'almirante. – Qualche volta è caduto; e abbiamo avuto un po' di brezza da ponente. Rara, se vogliamo; ma basta a dimostrarci che anche qui comanda la legge della varietà.

– Con questo particolare, per altro; – replicò il pilota; – che quando soffia il vento da levante si fa molto cammino, e quando soffia da ponente non ha nemmeno la forza di sbatacchiar le vele contro gli alberi.

– Orbene, che volete voi dir con ciò, Perez Hernèa?

– Che per andare all'incerto, il vento aiuta; ma che, se dovessimo dar volta, per ritornarcene a casa, il vento non ci aiuterebbe più. Ecco, signore, con vostra licenza, e col debito rispetto, quello che voglio dir io. —

L'almirante aggrottò le ciglia, alle parole dell'Hernèa. Ma si contenne, e, per non averlo a riprendere prima del tempo, si provò perfino a scherzare.

– Bravo il mio pilota! – diss'egli. – Uomo di provato coraggio com'è, penserebbe egli a ritornare? proprio ora, che siamo tanto vicini alla meta?

– Eh, vicini!.. vicini!.. – brontolò il pilota. – Qui non si capisce più nulla. Ma la vostra esperienza, signore, che cosa può dirmi, intorno a questo vento di ponente che non ha forza di muovere una vela?

– Che cosa posso dirvene io, Perez Hernèa? Sa il marinaio perchè il vento spiri tanti giorni da un lato, e poi d'improvviso si volti? Verrà giorno, io spero, che questo ed altri segreti dell'ordine naturale saranno conosciuti. Per ora governiamoci con la pratica nostra. Ci sono venti di mare e di terra, di golfi e di canali, ed alti e bassi, e forti e deboli. Per prevederne l'andamento bisognerebbe conoscere i paraggi. Voi conoscete benissimo ogni particolarità dei venti che soffiano nel canale del Rio Tinto, e in quello dell'Odiel; non è vero?

– Certamente. Poveri a noi, se non avessimo pratica dei brontoloni di casa nostra.

– Ebbene, qui sono altri brontoloni; – replicò l'almirante. – E siamo in casa d'altri, e non li conosciamo ancora. Ma non sarà sempre così. Quando ci avremo fatta la mano, sapremo come governarci con loro. Per ora, osserviamo e studiamo. A me intanto par di capire una cosa: che qui, come altrove, certi venti sono proprii di certe stagioni. Qui, ora, è la stagione in cui regna il levante; approfittiamone. Verrà la stagione in cui soffierà il suo contrario, e un po' più forte che non abbia fatto finora. Anche debole, lo abbiamo sentito; ne conosciamo dunque l'esistenza. E forse ci ha dato questo indizio di sè, per levare ogni dubbio a voi, sospettoso uomo. A me dice ancora che una terra è laggiù, donde egli viene a battaglia, ma finora con poca forza di resistenza. Ed è meglio così, per la nostra navigazione; non pare anche a voi? —

Perez Hernèa si acquetò, per allora. L'almirante aveva ragioni per tutti i dubbi, per tutti gli argomenti in contrario. Ma egli non era da per tutto, e non poteva vincere ugualmente tutti i pregiudizi di una gente ignorante e ostinata. Quella lunga navigazione dove gli indizi favorevoli non conducevano a nulla, quel verde che non finiva mai, quel vento sopra tutto, quel vento che soffiava costantemente da una parte, come per portarli ferocemente a capitar male dall'altra, mettevano tutti in apprensione; e urtava i nervi la inflessibilità dell'almirante, di quello straniero che voleva condurre tanti poveri figliuoli d'Andalusia alla morte, per un suo puntiglio, per una sua stravaganza.

Molti erano stati incerti fino allora se egli fosse un impostore od un pazzo. Incominciavano a creder tutti che gli avesse dato volta il cervello. Queste fissazioni, che mostrano tanta imperturbabile serenità, son veramente proprie dei pazzi.

E non si chiedeva più nulla a lui. Si obbediva ai suoi ordini, materialmente, macchinalmente, senza metterci punto di quell'ardore, di quella buona volontà che fa della obbedienza una cooperazione intelligente.

Per contro, incominciavano da prora i crocchi, i capannelli, quei borbottamenti, quelle mormorazioni, che non sono ancora il principio della rivolta, ma ne accennano l'intenzione. Le povere caravelle malconce; i viveri scarsi; l'acqua fradicia; i venti contrari al ritorno; di coste all'orizzonte neppur l'ombra; mare, sempre mare, nient'altro che mare; quella era la prospettiva. E quanto sarebbe durata?

Indizi di terre ne erano venuti… Sì, anche troppi, ed era il caso di richiamarsene, come della famosa sua grazia a sant'Antonio di Lisbona. Quei pellicani, quelle cingallegre, tutti quelli uccelli di passo che erano trascorsi a squadre, a sciami, a nembi, sul capo dei naviganti, ora venendo da prora via, ora da poppavia, non indicavano essi, nella capricciosa direzione del volo, che qualche spirito maligno si prendeva giuoco di loro? E qui taluni notavano che quei negri volatori, passando sulle caravelle, avevano fatto sentire un acuto stridìo. Sì, certamente, era uno scherno di potenze invisibili; le quali infondevano con vane immagini le speranze nei cuori, e si beffavano ancora dei troppo creduli marinai. E quegli uccelli, quei tonni, quelle nebbie basse all'orizzonte, non erano che apparizioni diaboliche. I mostri non sorgevano ancora dalle acque, dond'erano aspettati; si mostravano invece all'orizzonte, brulicavano in aria.

Questa spiegazione degli indizi ingannatori apparve così chiara, che fu creduta a breve andare da tutti. No, non più avanti, per contentare il capriccio dell'avventuriere, del pazzo. Quell'uomo voleva trovar terra a ponente, o morire; proposito da disperati! Ma egli poteva farlo, egli che non aveva famiglia; non potevano essi, che a Palos, a Huelva, a Moguer, lasciavano occhi per piangerli. Bisognava dunque ricusargli obbedienza, forzarlo a ritornare indietro. Chi li avrebbe biasimati? chi li avrebbe accusati di viltà? Si erano spinti quattrocento e più leghe sull'Oceano, sul mare tenebroso, spavento di tutti i naviganti del mondo. Che si voleva di più? che morissero tutti di fame, errando inutilmente sopra un mare senza sponde? o che nei gorghi di quel mare trovassero il sepolcro?

Le coscienze più timorate si davano pensiero di ciò che avrebbero detto i sovrani, vedendo ritornare le caravelle in Europa. Ma che cosa potevano dire i sovrani? Essi medesimi non si erano risoluti di concedere al marinaio genovese gli uomini e le navi, se non per levarsi d'attorno quel molesto supplicante, e a loro malgrado, come in troppe occasioni era stato dimostrato. Vedendo ritornare uomini e navi, la regina, forse, si sarebbe addolorata, poichè il Genovese aveva saputo ammaliarla col suoi racconti del Cataio e di Ofir; ma poi avrebbe capito che quel cercare il levante a ponente era una stravaganza, una pazzia; e buona com'era avrebbe finito con rallegrarsi di veder salve tante vite di bravi spagnuoli. Quanto al re Ferdinando, egli aveva detto di sì per contentare la moglie; ma che fosse contrario nel profondo dell'anima alla impresa di Cristoforo Colombo non era mai stato un mistero per nessuno. Il ritorno della spedizione, senza aver nulla ritrovato della terra promessa, neanche uno scoglio fuor d'acqua, sarebbe stato un vero trionfo per lui.

Sì, dunque, ritornare indietro, ricusando obbedienza all'almirante, obbligandolo ad accettare la legge da loro. Ma se non avesse voluto persuadersi con le buone, era egli conveniente di passare alle cattive? Non sarebbe sempre rimasto a carico loro il fatto della disobbedienza e delle conseguenti offese alla sua persona? Da senno, o da burla, era almirante, era vicerè, era governatore; e tutto ciò per decreto reale.

Il modo di superare quella piccola difficoltà alcuni dei più audaci lo avevano trovato, e ne avevano già discorso lungamente tra loro. Ma non se ne aprivano ancora liberamente nei crocchi più numerosi; stavano a bocca chiusa, o parlavano a monosillabi, a interiezioni, quando erano presenti marinai di altre nazioni; specie quando c'erano i due genovesi. E i due genovesi avevano capito; e si erano lungamente consultati tra di loro, per venire ad una risoluzione che di giorno in giorno si faceva più urgente. Finalmente uno di quei capiscarichi che quando è stato lor confidato un segreto, credono di averlo colto a volo, non istanno più nella pelle se non lo consegnano altrui, si lasciò sfuggire qualche parola coi due.

– Ah sì? il vostro Genovese non vuol saperne di tornare indietro? – aveva egli detto. – Ebbene, ci resti lui, a naufragare per tutti. Un'ondata che spazzi la coperta, e si prenda quel matto ostinato, non è poi tanto difficile a trovare.

– Trovare… sinonimo d'inventare, non è vero? – aveva risposto Damiano.

– Eh sicuramente! Capirete bene, voi altri, che quando la pazienza scappa… E il vostro Genovese la farebbe perdere ai santi. —

Damiano non volle sentirne più altro. Quella sera dormì male. A mezzanotte doveva andar egli di guardia alla vela, e Cosma gli teneva compagnia. Era l'uso, tra loro, di non separarsi mai; tanto che i piloti avevano finito col mandarli sempre insieme a far le quattro ore di guardia.

– Senti; – disse Damiano al compagno, quando furono soli sul ponte; – io, per me, non ho più pace, fino a tanto che non ho detto ogni cosa all'almirante. E tu, che cosa ne pensi?

– Io penso, – rispose Cosma, – che avremmo fatto bene a parlare anche prima. Finalmente, qui non si tratta di riferire i discorsi della gente; si tratta d'impedire un delitto. L'almirante dev'essere posto in grado di custodirsi da un colpo di mano.

– Giustissimo! – ripigliò Damiano. – Eccolo là, per esempio, che esce dal gavone di poppa, come fa tutte le notti, per invigilare la guardia. Egli infatti non dorme che da un occhio. Ma per la sua persona egli non ha nessuna vigilanza. Due uomini risoluti potrebbero gittarglisi addosso, afferrarlo per la vita, levarlo di peso, e una, due, tre, buttarmelo a mare come un sacco di cenci.

– Che infamia! e sarebbero capaci di farlo.

– Dunque, si dice tutto?

– Si dica. —

Mentre i due si confortavano scambievolmente a parlare, l'almirante veniva a passo lento da poppa, per vigilare le guardie, che non si lasciassero prendere dal sonno.

– Buona notte, signor almirante; – disse Cosma, appena quell'altro gli fu vicino. – Iddio vi guardi.

– Ed anche voi, ragazzi; – rispose a bassa voce Cristoforo Colombo. – Buona guardia.

– E san Giorgio valente vi conceda vittoria sui vostri nemici; – disse Damiano, parlando nel vernacolo della sua città natale.

– Ah! – esclamò l'almirante, fermandosi. – I miei genovesi?

– Sì, messere, e desiderosi di parlarvi. Se non era questa occasione, avremmo chiesto domattina di essere ammessi alla vostra presenza.

– Cose gravi, dunque? e da non potersi confidare al pilota?

– Gravissime, e vorremmo che non le sapesse neanche l'aria. Guardatevi, messere! C'è del torbido, a bordo.

– Lo so, ragazzi, lo so. Da più giorni ho dovuto avvedermene. Gente ignorante ed ingrata! che ci volete fare? Un giorno i più lievi segni del mare e del cielo, segni che non persuadono me, offrono a loro una certezza maravigliosa di approdo imminente. Un altro giorno una cosa da nulla, mettete anche la costanza del buon tempo, me li sbigottisce come i bambini un racconto della balia, quando non ardiscono più spiccarsi dalle sue ginocchia per andare nel fondo della stanza. In verità, figliuoli miei, non avrei mai creduto così debole la fibra umana. E voi, come fate a non seguire l'esempio degli altri?

– Noi? noi… è un'altra cosa! – rispose Damiano. – Noi abbiamo fede nel nostro Genovese.

– Abbiatela in Dio; – rispose l'almirante. – Da lui vengono le grandi idee alla mente; da lui i forti propositi al cuore dell'uomo.

– E dal demonio i cattivi, signor almirante; – rispose Cosma. – Si guardi, Vostra Eccellenza. Da certe parole che abbiamo colte per aria, alcuni tristi avrebbero intenzione…

– Di che cosa?

– Veramente… – balbettò Cosma. – È così nero, il disegno!..

– Di uccidermi, non è vero?

– No, mio signore… o piuttosto, sì, perchè infatti, uccidere e far sparire è tutt'uno.

– Già! – soggiunse Damiano, venendo in aiuto al compagno. – Si comincia a parlare di un'ondata furiosa, che spazzi opportunamente la coperta, trascinando con sè fuori del capo di banda il comandante supremo. —

L'almirante rimase alquanto sovra pensiero.

– Si pensa a questo? – diss'egli poscia. – Per fortuna non c'è l'occasione. Il mare è così costantemente tranquillo!

– Certo, ed è ciò che li annoia. Questi marinai son venuti a desiderar le burrasche, e mi fanno ricordare quel che si dice dei nostri villani del Bisagno e della Polcevera, che si scorticano i polpacci con le calze di seta. Ma Vostra Eccellenza capirà che non c'è bisogno di un temporale, per fare un colpo di mano. L'essenziale è d'inventarne la notizia, per quando si sarà ritornati in Ispagna, e bisognerà render conto della vostra sparizione al governo.

– È un disegno infernale! – esclamò l'almirante, più inorridito che spaventato dall'annunzio. – E siete certi che abbiano pensato di giungere a tanto?

– Oh, per questo, non dubiti Vostra Eccellenza; coi nostri orecchi medesimi abbiamo sentito il discorso.

– Pazienza! – replicò l'almirante. – Sebbene questo non dovessi aspettarmi, vedrò di fare buona guardia.

– E la faremo anche noi; – disse Cosma. – Così conoscessimo i buoni, quelli in cui confidate di più, per metterci d'accordo, e vegliar tutti sulla vostra preziosa persona!

– Amici miei, – rispose Cristoforo Colombo, traendo un sospiro, – conosco voi… da pochi momenti. Quanto agli altri, non so nulla di loro. Eravate a Palos; potete ricordare in che modo si è formato il nostro equipaggio.

– Pur troppo, mio signore! Metà per forza, l'altra metà per caso; tutta gente raccogliticcia. I buoni ci saranno di sicuro, e si vedranno alla prova. Per intanto…

– Per intanto, è buio pesto; – conchiuse Damiano. – Ma Vostra Eccellenza potrà confidarsi di queste cose co' suoi ufficiali.

– Sì, sì, figliuoli, lo farò; – rispose l'almirante. – Ma non è questo, che importa. La mia speranza è altrove. Siete voi marinai?

– Noi? sì, come vede Vostra Eccellenza.

– Infatti, la vostra condizione è tale, per ora. Ma dal primo momento che ho dovuto guardarvi in faccia, mi è parso… che non ne aveste l'aria.

– Le nostre mani, signore…

– Sì, capisco, le vostre mani saranno tinte di pece. Ma non è la pece che fa il marinaio, come non è l'abito che fa il monaco. Le mani del marinaio possono essere anche pulite, ma si riconoscono egualmente; specie nella palma, che par foderata con pelle di squalo. Ora, le vostre mani, che sono lieto di stringere…

– Si faranno ruvide quanto è necessario; – rispose Cosma, inorgoglito da quella dimostrazione di benevolenza, ma anche un pochettino turbato.

– Sta bene; – disse l'almirante, sorridendo. – Quantunque, io non domandi ciò come una qualità necessaria… a mani di cavalieri.

– Messere… – mormorò quell'altro, più turbato che mai.

– Oh, non temete, non voglio andare più in là, – rispose l'almirante. – I vostri nomi, se ben ricordo, sono…

– Cosma e Damiano; – si affrettò a rispondere Cosma.

– E Cosma è lui, e Damiano son io; – soggiunse Damiano.

– Benissimo. Due nomi di fratelli!

– Noi non siamo che amici; ma come fratelli ci amiamo.

– E perciò avete preso il nome da due santi fratelli, che erano anche colleghi di professione; – replicò l'almirante. – Erano infatti due medici, e del primo di loro mi pare di aver letto in un certo libro, che si conservi ancora una ricetta.

– Sono anche i santi protettori dei pellegrini; – disse Cosma, che pareva poco desideroso di stare sull'argomento della medicina.

– Siano dei pellegrini o dei medici, son sempre due benefattori; – conchiuse l'almirante. – E voi certamente avete assunti i lor nomi per adempimento di un voto.

– Vostra Eccellenza legge nei cuori come nei libri; – disse Damiano. – Siamo infatti legati da un voto.

– Per il quale, probabilmente, avrete lasciati gli agi della vita, venendo partecipi alle fatiche, ai pericoli di questo viaggio: non è così? —

I due marinai non risposero parola. Ma per essi rispondeva la sapienza dei popoli, stillata in proverbi: chi tace acconsente.

– Non voglio chiedervi ciò che non potete dirmi; – riprese Cristoforo Colombo. – Siete genovesi, e basta ciò, perchè io v'abbia in conto di fratelli. Ricordate soltanto che bisogna amarla, amarla molto, la terra dove si è nati; amarla tanto più, quanto essa è più sventurata. Sapete quanto abbiano fatta dolente la nostra povera patria, le discordie maledette dei suoi figliuoli!..

– Voi dite bene, messere, – rispose Cosma. – E noi lo abbiamo ricordato già molte volte, pensando a voi.

– A me?

– Certamente. Ecco un uomo insigne, dicevamo tra noi, un uomo che ha fatto un disegno sublime, e potrebbe e vorrebbe darne la gloria e il profitto alla patria; ma perchè la patria non è in condizione d'intenderlo, egli deve rivolgersi ad altre nazioni, dando ad altri il profitto e la gloria delle opere sue.

– Ah! – gridò l'almirante. – Lo intendete anche voi che dolore sia questo? e come profondo? Io non lo dico a nessuno, perchè nessuno lo intenderebbe. Pazienza, miei giovani amici! E lasciamo questo argomento tristissimo. Intanto, le vostre parole mi han detto assai più che non dicessero le vostre mani. Vorrei fare qualche cosa per voi; chiamarvi almeno tra i miei ufficiali. Ma quante invidie si desterebbero! Non per ora, adunque. Il giorno che avremo toccata la terra promessa, io sarò davvero vicerè e governatore; e quel giorno, vedremo.

– Guardatevi intanto, messere. Noi non abbiamo mestieri che di una cosa: di vedervi incolume, trionfante su tutti i vostri nemici. Laggiù avete avuto da lottare coll'invidia; qui avete da lottare coll'ignoranza.

– E sempre con la malvagità; – conchiuse Cristoforo Colombo. – Ma le vostre parole mi fanno ricordare ciò che volevo dire poc'anzi. Vi chiedevo se eravate marinai, per raccontarvi del primo capitano con cui ho imparata l'arte del navigare. Eravamo nelle acque dell'antica Cartagine, atterrati, con un vento che non si potrebbe immaginare di peggio. Non si poteva reggere al mare, bisognava ormeggiarsi e tener fermo ad ogni costo. Ma le áncore aravano, per la forza della corrente, e si temeva di andare da un momento all'altro a battere negli scogli.

– Un guaio; dei grossi – esclamò Damiano.

– Certamente; – rispose Cristoforo Colombo – e non c'era tempo da perdere. Il comandante ordinò di mettere mano all'áncora della speranza. «Credete – diss'io – che ci farà buon servizio?» Domandavo troppo, più ch'egli non potesse sapere. Ma ad ogni modo, me la trovò lui, la risposta: «Getta l'áncora e spera in Dio!» E così, come mi fu consigliato nella mia prima navigazione, ho fatto io in tutte le altre che seguirono.

– Confidiamo nel suo alto volere; – disse Cosma, inchinandosi.

– Ma pensiamo ancora, – soggiunse Damiano, – che chi s'aiuta Iddio l'aiuta.

– Oh, sicuramente! – rispose Cristoforo Colombo, non potendo trattenersi dal ridere, alla pratica ammonizione. – Vi ho già detto che farò buona guardia alla mia vita, se occorrerà; non aspetterò che mi assalgano; andrò io contro ai loro disegni. Non si compiace di sfidare i bassi pericoli, chi ha cuor d'affrontare i maggiori. Ma se è necessario di entrare in lizza coi rivoltosi, anche questo farò. Voi, frattanto abbiate per certa una cosa: che presto, con l'aiuto di Dio, saluteremo la terra.

– Con questa fede siamo venuti; – disse Cosma.

– E ci sia pure da navigare altrettanto, non ci lagneremo, noi altri; – soggiunse Damiano. – Voi dite, messere, che si serve a Dio, con questo viaggio.

– È la mia opinione.

– E bisogna dunque servirlo allegramente. Lo raccomanda perfino il Salmista. —

L'almirante sorrise e battè amorevolmente della destra sulla spalla di Damiano.

– Ottimamente, giovanotto! – esclamò. – E che Iddio vi guardi ambedue. Ma domandiamogli ancora una grazia; – soggiunse. – A persuadere questa gente che ha il furore della paura, un buon vento gagliardo, e da ponente, farebbe meglio di tutti i nostri discorsi. —




Capitolo III.

Di una bella sconosciuta che mandò a Cristoforo Colombo un ramo di spino fiorito


Cristoforo Colombo era stimato un gran dotto in materia geografica, cosmografica ed astronomica, quando non era stimato un impostore, od un pazzo. Per lui, si sa, erano stranamente mutevoli i giudizi del volgo, nobile o plebeo che si fosse; e saltavano da un estremo all'altro, come qualche volta usano saltare i venti, dal primo al terzo, o dal secondo al quarto quadrante. Si può dire, dopo aver letto attentamente la storia della sua vita fortunosa, che gli storti giudizi, i sospetti, le animosità contro di lui non posassero mai intieramente finchè egli visse, da prima volendo regalare per forza un nuovo mondo alla Spagna, poi disputando ai suoi grandi una corona di vicerè nelle terre scoperte, e da ultimo combattendo virilmente per la propria fama, per il proprio onore, per il proprio decoro, contro le invidie e le ingratitudini congiurate. Ma ci furono anche nella sua vita, e frequenti, i giorni della lode e della reverenza universale. Ci furono anche i giorni in cui egli era tenuto per un gran mago, padrone di alti segreti naturali, e capace di comandare agli elementi coll'autorità di misteriose parole. E per un negromante, di sicuro, lo avrebbero tenuto i marinai della Santa Maria, il giorno 22 settembre del 1492, se dieci o dodici ore prima, cioè nel cuor della notte che fu sopra a quel giorno, lo avessero udito domandare al cielo un vento gagliardo di ponente.

Quel vento si levò per l'appunto nella giornata, fortissimo, teso, dritto da prora; tanto che fu necessario serrare i velacci e le basse vele, prendendo i terzaruoli alle gabbie ed anche alla mezzana, per mettersi alla cappa serrata. Non si navigava più, con quel vento indiavolato al traverso; ma ne avevano anche una patente mentita le sciocche paure dei marinai.

– Ed ora direte ancora che in questi paraggi il vento fresco soffia soltanto da levante! – esclamò l'almirante, volgendosi a Perez Matteo Hernea, suo pilota.

– Non lo dirò più, ve lo giuro; – rispose umiliato l'Hernea.

Il giorno seguente, le cose mutarono. Pareva proprio che quel vento da ponente si fosse levato solamente per dar ragione a Cristoforo Colombo, contro il suo equipaggio, e che, dopo aver fatto quella buona testimonianza per lui, non avesse più motivo di soffiare. Cadde, infatti, e il 23 ripigliò la brezza di levante, con cui si poteva andare a gonfie vele per la rotta stabilita.

La Santa Maria aveva dato gloriosamente tutta la sua tela al vento. Ma non durò a lungo con quella velatura di buon tempo. L'almirante, a un certo punto della giornata, comandò di serrar fiocchi, velacci, vela di maestra e mezzana, contentandosi di navigare con la gabbia, il trinchetto e la trinchettina. Certi punti neri all'orizzonte, diventati presto nuvoloni, l'aria più fresca, un color di piombo sulle acque, gli avevano annunziato imminente un temporale.

Non si era ingannato. Il temporale si avanzò minaccioso, oscurando il cielo e sollevando il mare a tempesta. Le navi balenarono un poco, indi presero a menar la ridda sui flutti, ora balzando sulle creste spumanti che il vento incalzava, ora ascondendosi a mezzo nei profondi intervalli, per cui pareva che volesse ad ogni tratto scoprirsi il fondo degli abissi.

La tela al vento era ancor troppa; e l'almirante comandò di prendere i terzaruoli alle gabbie. Poi, rinforzando il vento, le fece serrare a dirittura, ed egualmente il trinchetto, di guisa che la nave prese a correre con la sola trinchettina.

– Che mare, Santa Vergine! – disse Damiano al compagno, mentre scendevano da serrare le gabbie. – Par quello che ha inghiottiti gli Egiziani, quando volevano dar la caccia agli Ebrei.

– E quello fu per miracolo; – rispose l'almirante, davanti a cui passavano i suoi due Genovesi. – Così credo che sia anche questo. Ci vogliono dei miracoli, per ischiodare il cervello a questa gente. Del resto, – soggiunse, – le ondate propizie al gran salto son qua; e i miei nemici hanno già troppo da fare per sè, aggrappandosi al capo di banda, o alle sartie. —

La burrasca non si chetò che verso il mattino del 24. Col sole ritornò la calma sul mare. Le caravelle, così duramente travagliate da quella collera d'elementi, ripresero la loro velatura ordinaria, e col vento più maneggevole si fecero a navigare di conserva. La Pinta, anzi, venne accostandosi quanto più poteva alla Santa Maria.

– Ecco Martino Alonzo che ha qualche cosa da dirmi; – pensò l'almirante.

Difatti il comandante della Pinta voleva parlare a Cristoforo Colombo. Questi, alcuni giorni prima, gli aveva fatta passare la carta nautica, a lui mandata da Paolo Toscanelli: una carta sulla quale era segnata la famosa isola di Cipango, ad una distanza che oramai doveva essere stata oltrepassata da loro. E di questo dubbio, che glie ne era venuto, voleva intrattenersi Martino Alonzo Pinzon coll'almirante.

– Pare anche a me, che abbiamo fatto un cammino più lungo; – gridò Cristoforo Colombo al Pinzon. – Ma forse il Toscanelli ha fallato il punto, collocando la grande isola sulla carta, o noi, ingannati dalle correnti che ci han fatto derivare, abbiamo fallata la stima.

– Potrebbe anche darsi, – ripigliò il Pinzon, – che noi ci fossimo tenuti troppo a ponente. Non credete opportuno di appoggiare un poco a garbino?

– Non credo; – disse l'almirante. – Del resto, fatemi passare la carta, e osserverò meglio ancor io. Intanto non cangiate di rombo; mi raccomando. —

La carta arrotolata e raccomandata ad una sagola fu scagliata a bordo della Santa Maria. Cristoforo Colombo la portò allora nella sua cameretta, la spiegò sul deschetto, e si fece ad osservare, insieme coi più sperimentati dei suoi ufficiali, quale potesse per allora essere la posizione delle navi.

Il lettore si maraviglierà che Cristoforo Colombo volesse rilevare il punto di stima sopra una carta fatta di suo capo da un fisico fiorentino, e nella quale era segnata l'isola di Cipango ad una distanza immaginaria. Ma pensi il lettore che quella carta, fatta avanti la scoperta delle così dette Indie occidentali, era tuttavia condotta secondo due norme, che parevano sicure a que' tempi: la divisione della circonferenza del globo terrestre in ventiquattro zone, di quindici gradi ciascuna, che formavano in tutto trecentosessanta gradi, e il passo biblico di Esdra, ov'era detto che, diviso il nostro globo in sette parti, sei sono terra, e la settima è ricoperta dalle acque. Messe a riscontro queste due nozioni, aggiunta la notizia delle parti della terra già scoperte al tempo di Tolomeo, aggiunto finalmente tutto quel tratto che Marco Polo aveva visitato ad oriente, e i Genovesi scoperto ad occidente, non era difficile tracciare lo spazio di mare che doveva intercedere fra le Azzorre, estremità occidentale di Europa, e Cipango, estremità orientale dell'Asia. Il difficile sarebbe ora di credere a quella sistematica fabbricazione di carte nautiche; ma non era difficile allora. E ad ogni modo si può considerare con benevolenza un errore, il quale, rasentando la verità, condusse un uomo ardito e intelligente a scoprirla.

Lo studio di Cristoforo Colombo e de' suoi piloti fu repentinamente interrotto da un grido d'allegrezza. Quel grido, ripetuto e rinforzato da molte voci, veniva dalla Pinta. L'almirante uscì tosto in coperta, e vide Martino Alonzo Pinzon, ritto sul castello di poppa della sua caravella, che alzava le mani al cielo, in atto di giubilo, gridando a squarciagola: terra! terra!

– Che è ciò che voi dite, Martino Alonzo? – gridò l'almirante a sua volta.

– Terra, terra! – ripetè il Pinzon. – Signor almirante, io chieggo la mia ricompensa. —

Martino Alonzo Pinzon alludeva al premio che i reali di Castiglia avevano stabilito per colui che primo scoprisse la terra. Il premio consisteva in una rendita di trenta corone, un poco più di seicento lire della nostra moneta d'oggidì.

E con la mano distesa, il comandante della Pinta accennava verso garbino, o libeccio, se meglio vi piace, dove infatti appariva una lingua di terra all'orizzonte, forse venticinque leghe distante dalle navi. I marinai della Pinta si erano lanciati come scoiattoli su per le sartie; così fecero i marinai della Santa Maria e quelli della Nina; tutti vedevano la terra, tutti confermavano con liete grida l'annuncio di Martino Alonzo Pinzon.

Cristoforo Colombo non era intimamente persuaso; ma lo scuoteva la sicurezza universale. Commosso, si buttò ginocchioni, rendendo grazie a Dio. Martino Alonzo Pinzon fece di più: intuonò ad alta voce il Gloria in excelsis, a cui tosto risposero gli equipaggi delle tre caravelle.

La terra si vedeva così chiaramente, e così vivo era l'entusiasmo di tutti, che l'almirante stimò necessario di lasciare il suo rombo, che era stato sempre il ponente, governando per tutta la notte a garbino. Ma giunse l'aurora gran dissipatrice di sogni; e dissipò anche le speranze di ricompensa che Martino Alonzo Pinzon aveva così facilmente nutrite. La terra che avevano creduto di veder tutti con lui, non era che nebbia vespertina; i primi chiarori del giorno avevano disperso il fantasma.

Alla speranza, alla fede, doveva tener dietro lo scoramento. E avevano creduto di vedere la terra! E quella immagine di terra altro non era che un inganno degli occhi, un miraggio, una fata Morgana, il solito scherno delle potenze invisibili. Costernati, abbattuti, gli equipaggi obbedirono tacitamente al comando dell'almirante, che ordinava di riprender la via di ponente; quella via ch'egli non avrebbe mai abbandonata, senza i lor chiassi importuni.

Per molti giorni si procedette al solito, con buon vento, mare tranquillo, cielo sereno e dolce temperatura. Le acque erano così chete, che parevano di lago, e i marinai, riavutisi alquanto delle loro malinconie, si pigliavano spasso a nuotare intorno al bordo. Nuovi indizi di terra si offrivano, aiutando a calmare le loro segrete inquietudini; incominciavano a mostrarsi a sciami i delfini; i pesci volanti, scagliandosi in aria sulle pinne spiegate, ricadevano a bordo delle navi.

Si giunse così fino al primo di ottobre. Quel giorno, secondo la stima di Perez Matteo Hernea, la spedizione navale del mare Oceano doveva aver compiute le sue cinquecento ottanta leghe di navigazione, a ponente dalle isole Canarie. Ma questa era la stima fatta secondo i computi apparenti di Cristoforo Colombo. L'almirante faceva una stima tutta sua, tenuta gelosamente segreta: e questa ascendeva a settecento sette leghe. Nel fatto, adunque, s'era oltrepassata di molto la distanza assegnata dal fisico Toscanelli a quella benedetta isola di Cipango.

Le mormorazioni erano ricominciate tra i marinai; e con le mormorazioni le congiure. Sarebbero trascorse un giorno o l'altro ad aperta ribellione, se di tanto in tanto qualche nuovo inganno degli occhi non avesse fatto intravvedere la terra all'orizzonte. Ma anche queste vane visioni, salutate da grida di giubilo, e seguite sempre da imprecazioni di gente disperata, annoiavano l'almirante. Il quale risolutamente dichiarò, e fece bandire su tutte le navi a suon di tromba, che chiunque gridasse terra, senza che questa si scoprisse nei tre giorni susseguenti, dovesse perdere ogni diritto di ricompensa, quand'anche un'altra volta scoprisse terra per davvero.

E terra non gridò più Martino Alonzo Pinzon. Il comandante della Pinta non credeva più alla esistenza della terra, nel rombo seguito da Cristoforo Colombo. Questa sua sfiducia crebbe tanto, che nella sera del 6 ottobre, Martino Alonzo Pinzon si fece ardito a proporre di piegare risolutamente a sinistra, cercando terra verso mezzogiorno. Inutile il dire che l'almirante non reputò conveniente di appagare il desiderio di Martino Alonzo Pinzon.

La mattina del 7 ottobre, allo spuntar del sole, molti marinai della Santa Maria credettero di veder terra a ponente. Ma temevano anche d'ingannarsi, e non dissero parola, per non avere a perdere la speranza del premio. Non furono così prudenti sulla Nina, che quel giorno veleggiava innanzi alle altre caravelle. Credette Vincenzo Yanez di veder terra, e gli parve di vederla così chiaramente, da non consentire alcun dubbio. Perciò fece innalzare lo stendardo sull'albero di maestra, e sparare un colpo di cannone. Erano quelli i segnali stabiliti, per chi primo scoprisse il lido sospirato. Fu grande la gioia su tutte le navi; ma fu anche breve. La nuova lingua di terra, comparsa all'orizzonte, svanì come quella dei giorni andati; e ripreso l'abbattimento, ricominciarono i lagni.

Per altro, i buoni indizi non facevano difetto. Numerosi stormi di passeri campagnuoli trascorrevano alti sopra le navi, spiegando il volo verso libeccio. Era dunque di là che bisognava cercare il nuovo continente? Cristoforo Colombo incominciò a dubitare di aver commesso qualche errore di latitudine; e perciò, nella sera del 7, si risolse di piegare alquanto verso la parte a cui aveva veduto avviarsi i passeri campagnuoli.

Tre giorni di seguito veleggiò verso libeccio, e crescevano sempre gl'indizi di terra. Sciami di uccelli di svariati colori svolazzavano intorno alle navi; i tonni scherzavano numerosi a fior d'acqua; passarono a breve distanza un airone, un pellicano ed un'anitra; erbe fresche e verdi galleggiavano intorno alla Santa Maria, che parevano staccate quel giorno istesso dal lido.

Ma quante volte non si erano già veduti questi segni ingannatori? Le ciurme non potevano più pascersi di quelle illusioni. Domandarono ad alta voce di ritornare indietro.

Proprio allora? C'era da perdere il lume degli occhi. Cristoforo Colombo affrontò quel giorno risolutamente la sua marinaresca. Lo facessero pure a pezzi, ma egli avrebbe resistito fino all'ultimo. La spedizione era destinata dal re e dalla regina alla scoperta delle Indie; qualunque cosa accadesse, egli, non nato Castigliano, avrebbe serbato obbedienza ai reali di Castiglia; sarebbe andato avanti nella sua intrapresa, fino a che, per grazia di Dio, non giungesse a compirla.

Cosma e Damiano si erano piantati in prima fila, non per tener bordone ai rivoltosi, intendiamoci, ma per consentire con le parole e con gli atti ad ogni frase dell'almirante, e preparati, caso mai, a menar le mani in sua difesa. Ma per allora non fu mestieri; i rivoltosi non erano andati più avanti; la fermezza di Cristoforo Colombo da un lato, l'accenno alla lealtà castigliana dall'altro, fors'anche il dubbio di non esser tutti d'accordo nel proposito di ribellarsi alla volontà dell'almirante, li rimandò indietro come un'onda di mar lungo; che si ritragga spumeggiando e brontolando da un ostacolo che non ha potuto rovesciare.

Nondimeno, la condizione di Cristoforo Colombo si faceva sempre più difficile e pericolosa. Si poteva egli durare in quello stato di contrasto, non più sordo, ma palese e a volte clamoroso, tra lui e la sua marinaresca? Per fortuna, il giorno dopo quella scena di rivolta, si fecero più frequenti e più notevoli gli indizi della terra vicina. Oltre una quantità di erbe fresche, e di quelle che nascono lungo le rive dei fiumi (e c'erano persino dei giunchi), fu colto un pesce verdognolo, di quelli che vivono solamente tra gli scogli. Su quella erba, su quei giunchi, sul pesce verdognolo, stavano almanaccando i marinai, quando ad uno dei due genovesi, a Cosma, che stava guardando sul mare, venne veduto qualche cosa, che lo persuase a spogliarsi in fretta e a tuffarsi nell'acqua.

Damiano aveva fatto voto di non spiccarsi mai dal fianco di Cosma. Si spogliò in fretta anche lui, e tenne dietro al compagno.

– Dove andate, voi altri? – chiese l'almirante, maravigliato di tanta, fretta dei due genovesi.

– Ma!.. Io non lo so; – rispose Damiano nell'atto di tuffarsi a sua volta. – Cosma va in acqua, ed io lo seguo. Egli ha un occhio di lince e l'altro di falco; due animali che vedono molto lontano. Ma io ho due braccia e due gambe che vanno più svelte delle sue. —

Cosma, per altro, aveva otto o dieci bracciate di vantaggio sull'amico, e Damiano lo raggiunse quando egli aveva già afferrato l'oggetto per cui si era tuffato nell'acqua.

– Oh bello! – gridò Damiano, vedendo la preda che Cosma teneva sollevata fuor d'acqua. – E per me nulla?

– Vedi? C'è dell'altro laggiù; – rispose Cosma. – Mi pare una canna.

– Ah, si! ed anche qualcos'altro di più nero, – disse Damiano, nuotando verso il punto che gli era stato indicato da Cosma.

Questi, frattanto, ritornava verso il bordo della Santa Maria, nuotando sul fianco destro, per poter tenere in alto, agitandola davanti agli occhi dell'equipaggio, la sua bellissima preda.

– Non è alga, per bacco! – gridò, come fu sotto al capo di banda. – Non è neanche erba, che si possa scambiare per alga. Gettatemi un cavo, da poter tirarmi a bordo, senza guastare questo raro presente. È destinato al signor almirante.

– E a me, perdiana! un cavo anche a me; – gridò Damiano, a cinque o sei braccia più indietro, – non vengo neppur io con le mani vuote. —

Il cavo era stato gittato, Cosma vi si era aggrappato, anzi attorcigliato con tutta la persona, ed era stato issato a bordo. Con la stessa manovra, fu pronto a seguirlo Damiano.

– Ebbene, che cos'è? – disse Cristoforo Colombo, verso di cui s'inoltrava Cosma, tutto grondante d'acqua salata.

– Signor almirante, – gridò Cosma, levando nel pugno un bel ramo di spino fiorito, – questo è il presente che manda a voi una bella sconosciuta. —

Cristoforo Colombo prese il ramo di spino fiorito dalle mani di Cosma, ammirò i bei fiori del color dell'oro che ne adornavano le vette, e sorridendo rispose:

– Conosco la bella dama, quantunque non abbia ancora avuto l'onore di vederla.

– Ma ella, signor almirante, – replicò prontamente Cosma, – vi dice con questo ramo fiorito che voi la scoprirete fra poco. Fregiatevi intanto dei colori di lei, come suo cavaliere.

– Così farò; – rispose Cristoforo Colombo. – Ma ecco dell'altro; – soggiunse, vedendo Damiano, che si avanzava anch'egli col suo donativo. – Questo non è un presente della dama. Potrebb'essere del marito, figliuoli miei, ed ammonir tutti noi a guardarci ben bene. —

Damiano, infatti, oltre una canna verde, offriva un lungo bastone di legno, di colore tra il rosso e il nero, tutto tagliato a rozzi disegni geometrici. Cristoforo Colombo osservò lungamente anche questo, e poi lo concesse alla curiosità de' suoi ufficiali di bordo.

– La terra è vicina, signori; – diss'egli poscia. – Con un ramo di spino ella si annunzia; ma con questi altri segni ci ammonisce che dove ella è, possono anche trovarsi i frangenti. Non ci stanchiamo di gettar lo scandaglio, per conoscere quando saremo finalmente atterrati; ma sopra tutto raddoppiamo di vigilanza nella notte. —

Piloti e gentiluomini di poppa risposero con vivi segni di approvazione; i marinai, grandemente mutati da quelli dei giorni innanzi, batterono le mani.

L'almirante si ritirò nella sua cameretta; e là, deposto il ramo di spino fiorito a piè d'una immagine di Maria Vergine, che pendeva dell'assito, stette lungamente raccolto nella muta preghiera dell'anima.

Quella sera, in coperta, dopo che fu recitata la Salve Regina, l'almirante fece il gesto di voler parlare, e trattenne tutta la sua marinaresca davanti al castello di poppa. Fecero cerchio intorno a lui, religiosamente silenziosi ed intenti, tutti quegli uomini che pochi giorni addietro avevano fatto il proposito di buttarlo a mare, e ancora un giorno prima s'erano levati contro di lui a tumulto.

Ma egli non ricordava più quelle brutte scene, e generoso le aveva perdonate. Parlò con semplice dignità, come uomo di alti spiriti, che non ha nulla a temere dagli altri uomini, neanche la loro invidia, nulla a sperare, neanche il loro amore, tutto avendo il suo conforto in sè stesso ed aspettando il suo giudizio da ben altro giudice che non sia la moltitudine sciocca.

Notò, incominciando, come la bontà divina, scortandoli con dolci e propizi venti sovra il mare tenebroso, da lei fatto limpido e cheto, avesse ad ogni tratto con nuovi indizi ravvivato il loro coraggio, moltiplicando quei segni in proporzione dei folli terrori da cui erano così spesso agitati, e conducendoli quasi per mano in una nuova terra promessa. Rammentò l'ordine da lui dato alle navi, prima di salpare dalle Canarie, di mettere in panna alla notte, dopo che avessero fatto il cammino di settecento leghe a ponente. Le recenti apparenze comandavano di attenersi oramai a quella precauzione, essendo probabile che in quella notte medesima si ritrovassero in vista di quella terra sospirata. Conchiudeva raccomandando di stare attentamente alle vedette sull'alto del gavone di prora, promettendo a chiunque scoprisse primo la terra, non solo la pensione assicurata dai Reali di Castiglia, ma ancora una cappa di velluto, ch'egli avrebbe pagata del suo.

Il vento aveva soffiato abbastanza fresco per tutto quel giorno. Anche il mare si vedeva più mosso. Le caravelle fendevano i flutti con una rapidità meravigliosa, veleggiando al gran largo, e precedendo al solito la Pinta, miglior veliera di tutte. Regnava a bordo della Santa Maria una animazione straordinaria: nessuno chiuse occhio per tutta la notte; ognuno aspettando di vedere la terra.

Verso le dieci di sera, Cristoforo Colombo stava sul cassero di poppa, esplorando ancora con gli occhi fissi il buio orizzonte. Tutto ad un tratto, gli parve di vedere in lontananza risplendere un lume. Era piccino e tremolante, come il lumicino della favola; e l'almirante credette a tutta prima di aver traveduto.

– Gutierrez! – gridò egli, volgendosi a quello dei gentiluomini di poppa, che era rimasto ultimo a vegliare con lui.

Pedro Gutierrez, gentiluomo di camera del re, e ragionier generale della spedizione, si avvicinò prontamente.

– Signor almirante, son qua; – rispose egli, facendosi al fianco di lui. – Che cosa volete da me?

– Dite, Gutierrez; non vedete voi laggiù, sulla nostra sinistra, un lumicino che sembra danzare sulle acque? —

Pedro Gutierrez si fece a guardare laggiù, dove l'almirante accennava; stette un poco in silenzio, aguzzando gli occhi nel buio, per rintracciare quel lume; finalmente esclamò, con accento di convinzione profonda:

– Ah, sì, eccolo là. Avete ragione, mio signore. E si muove, difatti. Pare il lume di una barca peschereccia.

– O una fiaccola di viandanti, lungo la costiera d'un monte; – rispose l'almirante. – Ma vi prego, don Pedro, chiamate qualchedun altro. Non vorrei che c'ingannassimo in due.

– Chiamo don Rodrigo Sanchez? – domandò Pedro Gutierrez. – Poc'anzi, per l'appunto, egli passeggiava con me; non può essersi già addormentato.

– Sì, chiamate don Rodrigo; – rispose Cristoforo Colombo. – È il nostro ispettore d'armamento, uomo di buon giudizio, e non facile a travedere. —

Pedro Gutierrez discese dal cassero ed entrò nel gavone di poppa. Cristoforo Colombo rimase solo al suo posto, non potendo spiccar gli occhi dalla fiamma lontana, che brillava veramente a guisa di fiaccola, agitata da persona che corresse. Ma tutto ad un tratto la fiamma disparve, e il mare e l'orizzonte non furono più che tenebre fitte davanti agli occhi di lui.

Rodrigo Sanchez di Segovia, capitano generale d'armamento della spedizione Oceanica, giungeva allora sul cassero, insieme con Pedro Gutierrez.

– Troppo tardi, ahimè! – disse l'almirante, con accento di tristezza. – Il nostro bel lume è sparito.

– Sparito! – esclamò Pedro Gutierrez. – Ma io spero che ricomparirà, e don Rodrigo potrà goderne anche lui.

– Voglia il cielo! – disse Cristoforo Colombo. – Ma noi certamente lo abbiamo veduto; non è vero, Gutierrez?

– Sul mio onore; – rispose Gutierrez. – E non mi sono neanche fidato dalla prima apparenza; ho voluto distinguerlo bene, averlo bene negli occhi. Ma pensate, signore, che quel lume, se è d'una barca peschereccia, può esserci nascosto ora da un cambiamento momentaneo di direzione della barca. Se poi è una fiaccola a terra, può esserci nascosta la fiamma da qualche fitto di piante; ricomparirà alla prima radura del bosco. —

Pedro Gutierrez non aveva ancor finito di parlare, che il lume ricomparve difatti.

– Ah, eccolo nuovamente! – gridò l'almirante, che non aveva perduto di vista quel punto dello spazio donde gli era apparso la prima volta il lume.

– Guardate, don Rodrigo, laggiù, sulla nostra sinistra; per ritrovarlo, non avete che da calare una linea perpendicolare dalla cima del pennone di maestra. Ci siete?

– Sì, sì, ho veduto; – disse Rodrigo Sanchez. – Lo distinguo benissimo. E non è un fuoco fatuo, per sant'Jago, quantunque saltelli la sua parte anche lui. Ma è vivissimo, veramente di fiaccola, come di legno resinoso, o d'altra materia combustibile di quella specie.

– Magari d'olio d'oliva, non è vero? – disse ridendo il Gutierrez.

– Eh, che cosa ne so io? – rispose il Sanchez. – Per essere olio d'oliva veramente, domanderebbe un lucignolo enorme, a giustificare una luce così viva. Sia quel che vuol essere, voi siete fortunato, signor almirante. Oggi la bella sconosciuta vi manda il ramo di spino fiorito; questa notte vi mette il lumicino sul davanzale. Bisogna andare, da buon cavaliere; anzi, bisogna correre, come un paggio innamorato.

– E si corre, come vedete; – disse l'almirante. – Le vele portano tutte maravigliosamente. Incomincio a temere che siamo già troppo vicini alla meta. —

Il lume frattanto era sparito da capo, e per non ricomparir più nel corso della notte. Dopo qualche altra celia sul fare di quelle che abbiamo udite, don Rodrigo Sanchez se ne ritornò nel suo covo; e poco stante gli tenne dietro il Gutierrez. Ma non si mosse Cristoforo Colombo dal suo osservatorio. Vegliava sempre, nella notte, e quasi quasi non si sapeva dire, a bordo, quando trovasse l'ora per chiudere un occhio: ma quella volta doveva vegliar più che mai.

Immaginate, del resto, con quale ansia egli aspettasse il mattino. Ma erano a mala pena le undici di sera, e l'alba doveva farsi aspettare un bel pezzo. L'almirante passeggiava convulso in quel piccolo spazio del cassero di poppa; ma ad ogni tanto si fermava, aguzzando lo sguardo verso l'orizzonte, immerso tuttavia nelle tenebre.

Intanto la Santa Maria procedeva gloriosa, fendendo i flutti, col vento in fil di ruota, e al fioco lume delle stelle baluginavano nell'ombra tutte le sue vele gonfiate. Veniva di conserva la Nina, che le sue vele quadre, sostituite alle latine nel forzato soggiorno alle Canarie, avevano resa più svelta. Precedeva di buon tratto la Pinta, la gran veliera della spedizione, a cui questa sua qualità e l'umore del suo comandante Martino Alonzo Pinzon avevano fatto dare i soprannomi d'impaziente e di smaniosa. «Sì, dite, dite quel che vi pare» rispondeva Martino Alonzo Pinzon, quando sentiva celiare sulla andatura frettolosa della sua caravella. «Se la Pintamangia più leghe di voi altri, ogni giorno, è segno che ci ha buono lo stomaco. E senza bere; notate, senza bere! quantunque il suo nome gliene darebbe quasi il diritto.»

Erano le due dopo la mezzanotte, e Cristoforo Colombo passeggiava ancora sul cassero, quando da prora via gli venne un lampo negli occhi, e dopo il lampo negli occhi uno scoppio rumoroso, uno schianto agli orecchi. Era la Pinta, la precorritrice della squadra, che traeva un colpo di cannone, il lieto segnale della terra veduta.

Un'altra volta la Pinta aveva fatto quel colpo di cannone, e di testa. Se n'era pentita, e non c'era più ricascata. Se questa volta si arrisicava a sparare, doveva averlo fatto con buon fondamento.

Tutta la marinaresca della Santa Maria, tutti gli ufficiali di poppa, saltarono dai ranci e furono tosto in coperta.

I marinai di guardia alle vele avevano già data la voce, da prora e dalle gabbie. Era la Pinta che aveva sparato; la Pinta che aveva scoperta la terra. Infatti, dopo quel colpo di cannone, imbrogliava le vele, rallentava il suo corso. Così almeno pareva di vedere, nella penombra della notte stellata.

La Santa Maria proseguiva intanto il suo cammino. Raggiunse la Pinta, mentre questa compieva la manovra per mettersi in panna.

– Terra! terra! – gridò Martino Alonzo Pinzon, appena vide accostarsi la Santa Maria, – La terra, signor almirante, la terra! —

E tutti, dal bordo della Pinta, ripetevano il grido. Tutti lo ripetevano con eco formidabile, dalla Santa Maria e dalla Nina, che si avanzava a gonfie vele pur essa.

Cristoforo Colombo aspettò che si chetasse il clamore; poi ad alta voce domandò:

– Chi è stato che l'ha scoperta?

– Un marinaio di guardia, Rodrigo di Triana.

– A che ora?

– Un'ora fa; subito abbiamo sparato il cannone, per darvene l'avviso.

– Anche il signor almirante l'ha scoperta, e quattro ore prima; – gridò a sua volta Pedro Gutierrez. – Erano le dieci di sera, quando egli ha veduto un lume che brillava alla spiaggia. —

Così ricambiate le notizie tra le due caravelle, tutti si diedero ad osservare la lingua di terra, che incominciava a vedersi distintamente, come una massa nera, sulla superficie del mare, a due leghe di distanza.

– Lesti a serrar le vele; – gridò l'almirante.

Le vele furono prontamente serrate, sulla Santa Maria. La Nina non fu lenta a seguitare l'esempio. Bisognava mettersi tutti in panna, per evitare il pericolo, dato che ci fossero frangenti, o bassi fondi, in prossimità della riva. Per muoversi da capo, per accostarsi all'approdo, si aspettava il sorger dell'alba.

Cristoforo Colombo era profondamente agitato. Avrebbe voluto pregare, ma non poteva; il turbamento dello spirito, oppresso da mille pensieri affollati, il tremito di tutte le fibre convulse, gli negavano, oltre l'uso della parola, l'ordinata connessione delle idee. Temendo di dare spettacolo della sua commozione, discese dal cassero; discese a stento, sentendo che male lo reggevano le gambe; rientrò nella sua cameretta, e là finalmente, gittatosi con le braccia in croce sulla sponda del suo giaciglio, davanti allo spino fiorito e all'immagine di Maria, non pregò, non ringraziò, diede in uno scoppio di pianto. E furono molte le lagrime, prima che si sciogliesse il nodo che i singhiozzi gli facevano alla gola, come i pensieri alla mente. Tutti gli affanni sostenuti, gli stenti fisici, i patimenti morali, i dubbi, le delusioni, le paure di tanti anni infelici, si sfogavano in quella abbondanza di lagrime, che occhio umano non doveva vedere. Che sollievo, quel pianto! e quante cose diceva, che la lingua non avrebbe mai saputo ripetere! che elevazione di spirito, in quella prostrazione di nervi! che effusione riconoscente di un cuore onesto, che amava confessare la sua pochezza, ripetendo intieramente dal cielo quella fortunata virtù, per cui egli, oscuro marinaio, deriso e disprezzato, era fatto ministro di una grande opera, della più grande a cui creatura umana potesse raccomandare il suo nome nel tempo!

Piangeva, e piangendo si addormentò. Sono dei più robusti organismi, queste debolezze improvvise. Essi hanno vegliato tanto nello spasimo del desiderio, nella agonia dell'aspettazione, che alfine, come corda di arco troppo teso, si rallentano le fibre. E dormendo, egli sognò di fantastici regni che offriva ai sovrani di Castiglia; sognò di luminose regioni, a lui additate da una donna d'insigne bellezza, che teneva in mano, accostandolo al seno palpitante, un ramo di spino fiorito. Ma quella donna non era la sconosciuta dei mari. Egli aveva già veduto quel volto, dai delicati e nobili contorni; non gli erano nuove quelle ciglia lunghe, che ombreggiavano, senza nasconderle, due pupille scintillanti di vivissima luce; nè il bianco incarnato delle guance fiorenti, nè i bei capegli neri, nè l'alterezza della elegante e flessuosa persona. La vide egli, e mormorò nel sogno il suo nome: Beatrice di Bovadilla. Era per lei, protettrice generosa e costante, era per lei il ramo di spino fiorito. Ma anch'essa non lo aveva accettato in presente, che per farne omaggio alla Vergine, alla madre di tutti i dolori, ed anche di tutte le consolazioni. E deponeva l'offerta, ma ancora la tratteneva, come per dimostrare a lui di non avere sgradito il dono. Frattanto, volgeva a lui uno sguardo, lampeggiante di passione, illanguidito nella espressione dell'annientamento supremo; con lo sguardo un sorriso, un palpito, un bacio, mandato lentamente col sommo delle dita; e spariva. L'angiolo dei casti pensieri, che tutti abbiamo immaginato e intravveduto, amoroso custode dell'uomo, di questo inesperto Tobiolo del viaggio terrestre, non aveva a turbarsi di quel bacio, che la visione del sogno offriva al povero almirante del mare Oceano. Era un bacio, poi? o non piuttosto un pensiero compassionevole, un saluto, un addio?

Si destò finalmente. Quanto era durato il suo sonno? Era balzato in piedi, ritornando alla coscienza di sè medesimo. Non aveva sicuramente dormito molto, perchè nella cameretta era buio ancora. E poi, egli sentiva le guance ancor molli di pianto. Rasciugò le sue lagrime, si scosse, ed uscì nuovamente in coperta.

L'alba non era spuntata ancora; ma già, all'orizzonte, si distingueva meglio quella lingua di terra, isola, o promontorio di continente avanzato sul mare. Per quella volta, non era più da temere una delusione mattutina; i contorni non erano di nube, nereggiavano come dorsi di colline sull'azzurro cupo del cielo. Ed era la terra desiderata; finalmente, era quella. Come si sarebbe mostrata ai suoi occhi? Somigliante, nella vegetazione, alle terre d'Europa? Da qual gente abitata? Ultimo confine del mal conosciuto Cattaio? Isola solitaria sul mare, e lontana ancora di molto dalla ricca Cipango? Quali domande, a quell'ora! Il giorno era imminente, i dubbi si sarebbero chiariti, le curiosità pienamente appagate. Per intanto, era la terra.

A questa conclusione erano venuti più facilmente i marinai, che non sentivano il bisogno di saper tante cose, e ballavano la ridda sulla coperta, accompagnando i salti e le capriole con liete canzoni paesane.

L'alba sospirata imbiancò l'orizzonte, diffondendosi via via per la volta del cielo. Col suo mite chiarore, un fremito gaio corse sull'acque. La terra nereggiava ancora; ma a grado a grado si fece turchina, azzurra, violetta, e da ultimo, spuntando dal lontano orizzonte marino i primi raggi rossastri del sole, mostrò le sue vette dorate, mentre le coste si andavano tingendo di verde.

La bella sconosciuta del mar tenebroso, la donatrice del ramo di spino fiorito, era dunque là, manifesta allo sguardo di tutti. E tutti la divoravano con gli occhi. Fu necessario che l'almirante ripetesse l'ordine un paio di volte, perchè i piloti lasciassero di contemplarla, e attendessero alla manovra delle vele, che volevano essere nuovamente distese.

Si procedeva, sempre aiutando il buon vento di levante, che aveva assistite le caravelle per quasi tutto il viaggio. E l'isola, scambio di essere accostata dalle navi, pareva venir loro incontro sulle acque d'argento. Perchè era un'isola veramente: l'occhio esperto del marinaio non aveva durato fatica a riconoscerla per tale. S'indovinava estesa di molte leghe; si vedeva tutta sparsa d'alberi come un giardino, ed era, come un giardino, tutta fresca e ridente, sebbene non offrisse allo sguardo che le silvestri bellezze di una incolta natura.

– A te, Cosma! – disse Damiano al compagno. – A te che hai un occhio di lince e l'altro di falco, spetta di farti onore, questa mattina. Vedi tu case? palazzi? tugurii? e cittadini che aspettino sulla calata del porto?

– Finiscila, matto! – rispose Cosma. – Io non vedo tugurii, nè palazzi, nè case. Ma qualche cosa vedo brulicare alla riva, e sbucare fra i tronchi degli alberi. Dovrebbero essere creature umane, poco vestite, assai poco vestite.

– Ho capito; – disse Damiano; – tutta gente svegliata di soprassalto; molto curiosa per giunta; e non avranno avuto tempo a vestirsi. —

Damiano interruppe a questo punto la sua chiacchiera, sentendo una mano che dimesticamente si posava sulle sue spalle. Si volse, e vide l'almirante; lui, proprio, il signor almirante del mare Oceano, ilare in volto, radioso nello sguardo, nobilmente vestito di una cappa scarlatta.

– I miei Genovesi sono di buon umore, stamane? – diss'egli amorevole.

– Io, sì, mio signore; – rispose Damiano. – Il mio compagno, invece, non tanto. Vedremo se le bellezze di… come si chiamerà poi quella benedetta città, che non si vede?.. Vedremo, dico, se riusciranno a scaldarmelo un poco. —

Cristoforo Colombo sorrise, e passò. Ai due concittadini aveva rivolto il discorso nel vernacolo genovese. Quella mattina, felice com'era, trovò modo di parlare con tutti i marinai della Santa Marianella lingua di ciascheduno: in castigliano ai Castigliani, che formavano per la massima parte il suo equipaggio; in portoghese ai due Portoghesi, che v'erano associati, quasi per ragione di buon vicinato; in inglese e in irlandese all'unico Inglese e all'unico Irlandese, che c'erano come sperduti. Per costoro furono poche frasi, le sue, delle più comuni, di quelle che ogni marinaio intelligente può subito imparare in un porto straniero, come per prendere il verso della nuova lingua, e stabilire le sue prime relazioni, nei più urgenti bisogni della vita. Ed anche avrebbe potuto parlare islandese, se avesse avuto un Islandese a bordo; poichè, nella sua vita di marinaio, aveva anche approdato in Islanda, nell'ultima Thule degli antichi.




Capitolo IV.

Le maraviglie della terra promessa


In un venerdì, che fu il 3 agosto del 1492, Cristoforo Colombo era partito dall'isolotto di Saltes, sulla costa occidentale d'Europa, per muovere alla ricerca del Nuovo Mondo. In un venerdì, che fu il 12 ottobre del medesimo anno, doveva egli approdare alla prima terra scoperta di là dall'Atlantico, dal terribile mar tenebroso. Ed ora seguitate a dir male del venerdì, gabellandolo sempre per un giorno nefasto, se ne avete il coraggio.

Il disco del sole era già intieramente fuori delle acque, allorquando il signor almirante del mare Oceano diede il comando di gettare le áncore e di mettere in mare i palischermi. Il doppio lavoro fu compiuto alla svelta, da una marinaresca giubilante. Nella barca, come più capace, Cristoforo Colombo volle compagni i primari ufficiali della spedizione, Diego di Arana, grande alguazil, o capo di giustizia, Pietro Gutierrez, gentiluomo di camera, anzi cantiniere del re, diventato ragionier generale della squadra, Rodrigo Sanchez, ispettore d'armamento e revisore dei conti, Rodrigo d'Escovedo, regio notaio, Bernardino di Tapia, istoriografo, e Luigi de Torres, ebreo convertito ed interpetre per le lingue orientali, che si supponevano parlate laggiù. Seguivano i piloti, o luogotenenti di bordo, Pedro Alonzo Nino, Bartolomeo Roldan, Sancio Ruiz, Giovanni di Cosa. Il quinto, Perez Matteo Hernea, restava di guardia a bordo. Il ringhioso uomo non aveva creduto alla terra; lo puniva la sorte, non lasciandogli toccare fra i primi la terra.

Nel bargio, che era il palischermo minore, l'almirante fece discendere i tre scudieri, addetti alla sua persona: Diego Mendez, il fedelissimo, Francisco Ximenes Roldan, il futuro ingrato, e Diego di Salcedo. Con essi, tra i marinai, diede posto a Cosma e a Damiano; segno di particolare cortesia per i suoi due genovesi. E non vorrete mica imputarlo di parzialità, per aver egli pensato in quella occasione ai suoi concittadini. Erano stati due marinai esemplari per tutto il viaggio; l'obbedienza, la prontezza al lavoro, meritavano un premio. Egli, del resto, quantunque li sospettasse di condizione superiore a quella che dalla loro scelta appariva, non mostrava di distinguerli dagli altri marinai, poichè li chiamava appunto tra i rematori.

Ed egli, nella barca, ritto sulla poppa, dirigendo la voga, torreggiava su tutti i suoi ufficiali. Stringeva nel pugno l'asta dello stendardo; lo stendardo della capitana, quello che portava il gran crocifisso in campo bianco; mentre gli altri comandanti, Martino Alonzo Pinzon, della Pinta, e Vincenzo Yanez, della Nina, discesi anch'essi nei loro palischermi, impugnavano gli stendardi delle loro navi; di bianco, alla gran croce di verde, accostata dalle iniziali del re Ferdinando e della regina Isabella, sormontate dalla corona reale.

I sei palischermi mossero a voga arrancata verso la riva, andando primo fra tutti quello che portava l'almirante. Questi e i compagni suoi erano presi d'ammirazione alla vista delle ampie foreste che vestivano le basse colline dell'isola, e dei frutti di specie sconosciute, che pendevano dagli alberi, fin sopra alle sponde. Il cielo era puro, le acque trasparenti come cristallo, l'aria tiepida e fragrante di profumi silvestri; tutto ciò che vedevano, tutto ciò che sentivano, era un incantesimo lieto.

In prossimità del lido i vogatori presero a sciare coi remi, facendo girar destramente sul proprio asse la barca, affinchè presentasse la poppa alla spiaggia. Cristoforo Colombo fu il primo a balzar sulla rena, e i suoi ufficiali lo seguirono, ma a rispettosa distanza, reverenti e commossi, vedendo com'egli, toccato a mala pena il lido, cadesse ginocchioni, baciando tre volte la terra. In questo atto di omaggio a Dio lo imitarono tutti; ma forse nessuno versò le calde lagrime che un vivo sentimento di profonda gratitudine gli strappava dagli occhi.

Alzatosi poscia da quella adorazione, Cristoforo Colombo sguainò la spada, dispiegò lo stendardo reale, e chiamati al suo fianco i comandanti della Pinta e della Nina, mentre facevano ala tutti gli altri ufficiali, recitò la preghiera latina che egli stesso aveva composta in viaggio, per quella circostanza:

– Signore Iddio eterno ed onnipotente, che col sacro tuo verbo creasti il cielo, la terra ed il mare; sia benedetto e glorificato il tuo nome, sia lodata la tua maestà, che si è degnata di fare, per opera di questo umile servo, che il tuo sacro nome sia conosciuto e predicato in quest'altra parte del mondo[1 - In latino (e merita di essere riferito testualmente, poichè è composizione di Cristoforo Colombo): «Domine Deus æterne et omnipotens, qui sacro tuo verbo cœlum et terram et mare creasti; benedicatur et glorificetur nomen tuum, laudetur tua majestas quæ dignata est per humilem servum tuum efficere ut ejus sacrum nomen agnoscatur et prædicetur in hoc altera mundi parte.» La preghiera di Cristoforo Colombo, per ordine dei reali di Castiglia, fu usata in simili circostanze dagli altri scopritori spagnuoli, come Bilbao, Cortes e Pizzarro.].

– Amen!– risposero divotamente gli astanti.

Finita la preghiera, l'almirante piantò lo stendardo, levò la spada, e battendone la punta sul terreno, prese solenne possesso dell'isola in nome del re e della regina di Castiglia, imponendole il nome di San Salvatore.

Rodrigo di Escovedo, regio notaio, mise mano alla carta e stese l'atto, che Cristoforo Colombo firmò, e dopo di lui gli altri ufficiali. In quella occasione egli assumeva, firmando, i titoli di almirante, vicerè e governatore. E gli ufficiali, innanzi di firmare a lor volta, gli giurarono tutti obbedienza.

Le cerimonie erano finalmente adempiute. Ufficiali e marinai potevano abbandonarsi alla gioia di quelle ore stupende, indimenticabili, che seguivano a tanti giorni, a tante settimane di stenti e di terrori. A tutti gli equipaggi fu data licenza di scendere a terra; armati, per altro, e con ordine di non allontanarsi dalla spiaggia, dove potevano preparare il loro pasto quotidiano.

L'arrivo di quei marinai a terra fu la scena più graziosa, nel suo gaio disordine, che si potesse immaginare. Barcollavano tutti, come ubbriachi, un po' perchè disusati da tanto tempo al saldo terreno, un po' perchè la commozione era forte, e si reggevano male. Nell'eccesso della loro allegrezza, preferivano saltare. Giunti alla presenza dell'almirante, che ritto a' piè di un albero li stava contemplando, gli si strinsero attorno, quale baciandogli le mani, quale abbracciandogli le ginocchia, e tutti gridando i più sperticati evviva al grand'uomo, al protettore, al dio della gente di mare. Ed erano gli uomini che una settimana prima volevano disfarsi di lui, buttandolo a mare!

E frattanto, le creature umane poco vestite, anzi punto vestite, a cui aveva accennato Cosma, dov'erano? Sulla riva, affollate, al primo apparir delle navi, di quei mostri ignoti, che fendevano coi negri corpi le onde marine, spiegando in aria lunghissime ali di cigno. Ma ben presto avevano veduto ripiegarsi quelle ali, i mostri fermarsi a mezzo il loro cammino, cavandosi dal seno due mostricini per ciascheduno, e quei mostricini affrettarsi alla spiaggia. Tanto era bastato perchè quelle povere creature umane si allontanassero in fretta dalla spiaggia, andando a nascondersi nelle vicine boscaglie. Da principio non avevano ardito neanche di ricogliere il fiato, tanta era la furia del correre in salvo; poi, dalla vetta di un palmizio su cui qualcheduno dei più audaci si era arrampicato, giungeva l'annunzio che i piccoli mostri toccavano terra, balzandone fuori uomini stranamente fatti, coperti di vivi colori, e taluni di essi con la persona vestita di squamma lucente alla guisa dei pesci. Quegli uomini strani si erano fermati, non mostravano intenzione d'inseguire i poveri abitanti dell'isola. I piccoli mostri si erano allontanati dalla riva, per ritornarsene là, d'onde erano venuti, presso i mostri maggiori; e ai più savi uomini della tribù non era stato troppo difficile argomentare che si trattasse di piroghe, ma più grandi e più capaci delle loro, tanto sottili e così poco sicure, scavate com'erano grossamente nei tronchi degli alberi.

Che cosa facevano quegli esseri maravigliosi, rimasti soli sul lido? che riti compievano, agitando quelle aste, da cui pendevano quei pezzi di tela? Perchè si buttavano alle ginocchia di uno tra loro, notevole per la statura elevata e per quello splendore di rosso scarlatto? Perchè alzavano le mani al cielo? Invocavano in quella maniera i loro spiriti tutelari? Ma quell'uomo alto, dai lunghi capelli d'oro, non era egli stesso uno spirito buono, disceso per essi, o con essi, dal cielo?

La curiosità aveva vinto il timore. I più giovani ed animosi incominciarono a farsi avanti tra gli alberi, venendo fino al limite estremo del bosco. Gli esseri strani avevano l'aria di non avvedersi neanche della loro presenza; se pure accadeva che volgessero gli occhi da quella parte, non si trattenevano mai a guardare, e tranquilli attendevano ai loro discorsi. Taluni, anzi, andando attorno per la spiaggia, raccoglievano stipa e rami secchi, che portavano a certi focolari improvvisati, per accendervi il fuoco e preparare il pasto all'aperto. Non avevano dunque cattive intenzioni; erano esseri buoni, discesi a quella spiaggia per riposarsi, non per nuocere ai tranquilli abitanti dell'isola. E allora i selvaggi osservatori prendevano animo, si facevano sempre più avanti; qualcuno di essi era già uscito dalla macchia, e, mettendo piccole grida, cercava di destar l'attenzione dei nuovi venuti. I quali, finalmente, incominciavano a voltarsi, a guardare, e, senza muoversi dal posto che s'erano scelto sulla riva, invitavano coi gesti la timida gente ad accostarsi. Ma ancora non si fidavano, i naturali del luogo; stavano là sospesi, continuando a mettere le loro piccole grida, quasi volessero invitare quegli esseri strani a far sentire anch'essi il suono della lor voce, che ancora non avevano udita.

Cristoforo Colombo si era avanzato lentamente di pochi passi verso la macchia. Col gesto cortese, e col tono di voce più soave che seppe, chiamò quella gente a sè, esortandola a non aver paura degli stranieri. Egli bene intendeva che le sue parole non sarebbero state capite; ma parlava ad ogni modo, perchè le frasi giustificassero il gesto.

Una donna era in quella piccola schiera di selvaggi. Fu essa la prima a farsi più avanti, rassicurata dagli atti amorevoli, e dal nobile aspetto dell'uomo dai capelli d'oro. Poveri capelli d'oro, in mezzo a cui erano già tanti i fili d'argento! La donna, a mala pena coperta d'una fascia di stoia raccomandata sul fianco, aveva due bambini con sè, due putti a cui non toglieva grazia il color di rame della carnagione. E parlava loro, incitandoli con gli atti; e uno di loro finalmente si mosse, facendo alcuni passi verso l'almirante, che ne aveva fatti altrettanti verso di lui, mandandogli un sorriso e un gesto di carezza. Così, a poco a poco, vinto il sospetto e la ritrosia dei bambini, l'almirante si ritrovò tanto vicino ad essi, da poter porre la mano sulle lor brune testine; poi, tratti fuori due sonagliuzzi di metallo, li fece tintinnare al loro orecchio, destando in essi un senso di curiosità e di grata maraviglia.

– Prendete, – diss'egli allora, – son vostri. —

E col gesto dichiarando le parole, diede i due sonagliuzzi ai bambini.

La donna si avanzò per abbracciare i figliuoli, fors'anche per incuorarli a dir grazie. Ed ella pure ebbe un dono dal nobile uomo dei capelli d'oro: un sottil vezzo di perline di vetro. Il gesto dell'almirante, nell'offrirle quel dono, significava, che ella poteva adornarsene, mettendolo al collo.

Donna e bambini ritornarono verso la macchia, saltellando e gridando in segno di allegrezza. E il vezzo di perline e i piccoli sonagli furono argomenti di ammirazione per tutti quei selvaggi affollati. Il ghiaccio era rotto. Anche gli uomini, poichè ebbero ammirati i donativi, si avanzarono verso il donatore, lo attorniarono, riguardosi da prima, quindi a mano a mano più familiari, cedendo agli impulsi della loro curiosità. Maravigliavano della sua vantaggiosa statura, fors'anche del suo nobile aspetto; contemplavano le sue mani bianche, paragonandole subito con le loro, del color di rame. Fu quello il primo gesto parlante, il primo scambio d'idee tra i naturali dell'isola e l'essere sovrumano sbarcato sulla loro spiaggia tranquilla. Il secondo gesto fu ancora il paragone. Contemplavano i fili d'oro che ornavano le guance e il mento dello straniero (immaginate, di fatti, che egli da più settimane non avesse pensato nè a radere nè a scorciare la barba) e dopo aver toccato quei fili d'oro, toccavano le loro facce che n'erano prive.

Cristoforo Colombo sostenne placidamente l'esame; sorridendo sempre, lasciò toccare la barba, i capegli, le mani, le ricche stoffe di cui era vestito, e gli elsi della spada che gli pendeva dal fianco. Cessarono finalmente di toccare, e, fatto un po' di cerchio intorno a lui, gli chiesero nella loro lingua qualche cosa, aiutandosi anch'essi col gesto. Intese che gli domandavano donde venisse. E rispose con le parole e col gesto che veniva dalla parte di levante. Ma essi non parvero aggiustargli fede; indicavano il cielo come patria di lui, e, additando le navi ancorate alla costa, imitavano con le braccia il batter delle ali, con cui egli sicuramente era calato tra loro. Sicuramente per ali avevano scambiate le vele.

Anch'essi erano molto osservati, non solo dall'almirante, ma da tutti gli uomini della spedizione, che a manipoli via via si erano avvicinati. Damiano, che era capitato dei primi, potè riconoscere che il suo amico e fratello Cosma non aveva traveduto. I naturali dell'isola erano poco, anzi punto vestiti; non potendo passare per abiti i segni di rosso, di nero e di giallo, onde avevano rigata e picchiettata la pelle di rame. Non tutti, per altro, erano così dipinti con l'ocra, sulle braccia e sul petto; ma tutti avevano segnata di rosso la punta del naso, e di rosso avevano cerchiate le occhiaie.

– Strano modo di farsi belli! – diceva Damiano. – E quella donna là, che mi pare abbastanza belloccia, gradirà così impiastricciato il naso del suo dolce marito? Ma già, paese che vai, usanza che trovi. E siccome egli si tingerà a quel modo per piacere a lei, è da credere che essa gliene serbi riconoscenza. —

Altra particolarità degna di nota erano i capelli di quei naturali; capelli di colore tra il fulvo e il nero, ma corti, non riccioluti, lisciati all'ingiù, fatti untuosi e lucenti con l'olio di qualche frutto del luogo. Se non fossero stati quei cerchi alle occhiaie, che in molti di loro guastavano, si sarebbe potuto dire che tutti avessero gli occhi assai belli ed espressivi. E avevano alta la fronte, regolari i lineamenti, ben proporzionate le membra, non alta la statura, ma neanche sotto il mediocre. A quella latitudine, che egli giustamente immaginava esser quella dell'Africa, e sotto il capo Bojador, Cristoforo Colombo pensava di trovare un tipo diverso, quello dei negri, per esempio; e non fu poca la sua maraviglia, vedendo una specie così nuova. Il lettore si riconduca col pensiero ai tempi del grande navigatore. Le carnagioni color di rame si vedevano allora per la primissima volta.

L'almirante aveva osservate le persone; osservò anche le armi di quel popolo nuovo. E potè farlo, perchè qualcheduno dei naturali era venuto armato alla spiaggia. Povere armi, in verità! archi con le corde di liana, e frecce di canna, con la punta di osso di pesce; lance, o, a dir più veramente, lunghi e sottili bastoni di legno, la cui punta era indurita al fuoco, oppure formata di una cuspide di selce, o d'un dente, o di un osso acuminato di squalo. Quella povertà d'armi offensive, il difetto di armi difensive, dicevano chiaramente la semplicità dei costumi e la mitezza d'indole dei pacifici abitanti dell'isola. Che vivessero allegri lo diceva abbastanza l'umor gaio di cui avevano fatto prova recente: che non avessero da stentare la vita, era dimostrato dalla ricchezza vegetale del terreno e dalla varietà, dalla abbondanza dei frutti: che godessero anche di un certo ozio quotidiano, si poteva riconoscere dal fatto che molti di essi erano venuti alla spiaggia tenendo sul pugno pappagalli addomesticati, brave bestie chiacchierine, le quali andavano ripetendo a perdifiato intiere frasi della lingua dei loro padroni; una lingua per cui messer Luigi De Torres, interpetre della spedizione, era venuto invano; così poco ella somigliava a quelle del ceppo Arameo, che dovevano essere il suo forte!

Il pasto era imbandito, e l'almirante ne offerse ai naturali, specie ai vecchi e ai bambini. Non si è detto ancora, ma facilmente s'indovina che tutti gli abitanti del villaggio stessero a godersi la novità della scena, seduti sulle calcagna, secondo il costume di tutti i selvaggi. Qualcheduno dei vecchi accettò, per atto evidentissimo di cortesia; qualcun altro per curiosità, non riuscendo per altro a maneggiare convenientemente cucchiai e forchette; ma subito smessero, o fosse perchè non volevano mostrarsi ghiottoni, o perchè non gradivano la cucina dei figli del cielo.

Ma quando, per una delle solite disgrazie di tavola, che addolorano profondamente ogni buona massaia, cadde ad un cuoco e si ruppe in molti pezzi un gran piatto di maiolica, tutti quegli spettatori del primo ordine, giovani e vecchi, si buttarono avanti, per dividersi la preda. Era lucente la vernice di quei cocci, e chi poteva abbrancarne uno si stimava felice.

La giornata passò in quel dolce riposo. I naturali volevano condurre i figli del cielo a visitare i loro modesti tugurî; e qualche visita, alle capanne più vicine, fu consentita dall'almirante, a cui premeva di conoscere come vivessero, quali fossero i loro utensili domestici, e sopra tutto a che grado fosse giunta la loro agricoltura. Del resto, egli aveva già capito che non c'era da aspettare grandi cose. I regni di Cipango, del Cattaio, del prete Janni, erano ancora molto distanti; quell'isola non era forse che il più lontano avamposto delle Indie sospirate e sognate.

Sull'ora del tramonto, fu risoluto il ritorno alle navi. I naturali stettero estatici sulla rena a vedere i loro ospiti che montavano nei palischermi; ed anche aiutarono con le loro braccia a spingere in mare quelle massiccie piroghe. Ma quando videro allontanarsi l'uomo dai capelli d'oro, il padre, il dio di tutti quegli esseri sovrumani che erano scesi a visitarli, gettarono altissime strida, si sciolsero in pianti e lamentazioni senza fine.

– Ritorneremo, buona gente, non piangete, ritorneremo domattina; – andava gridando Damiano.

E col gesto li esortava ad avere un po' di pazienza. Poi, additando il sole, che tramontava da una parte, lo indicava rinascente dall'altra. Alcuni lo capirono, perchè si messero a ridere, battendo allegramente le palme.

La mattina seguente, come aveva promesso Damiano, i figli del cielo dovevano ridiscendere a terra. Ma assai prima che i marinai pensassero a calumarsi nei palischermi, il lido echeggiava di grida festose; molti naturali nuotavano allegramente intorno alle navi; e le lunghe piroghe, scavate nei tronchi degli alberi, guizzavano agilmente da poppa e da prora, portando fino a cinquanta selvaggi. Erano lunghe e sottili, le piroghe di quegli isolani; ma la loro snellezza era tutta a danno dell'equilibrio. Spesso accadeva che per un'ondata più forte delle altre, o per un tracollo improvviso, andasse capovolta la barca. Ma non si spaventavano per così poco, i naturali dell'isola; dato quel tuffo, erano subito a galla, e con certe zucche lunghe, tagliate di sbieco e usate a mo' di gottazze, svuotavano prontamente le loro saettìe d'un sol pezzo.

Coloro che avevano assaggiata il giorno innanzi la sbroscia dei marinai e provato il dente nel loro biscotto, portavano in iscambio le loro provvigioni di frutta e di pane. Avevano infatti una specie di pane, detto cassava, tratto dalle radici di una jucca, coltivata a bella posta nei campi, come da noi il frumento. La radice era fatta in minutissimi pezzi, tritata e ridotta in focacce, che disseccavano al sole; e poi, quando volevano mangiarne, la mettevano in molle. Quell'alimento era insipido parecchio, ma sano e nutritivo.

Non mancavano altri donativi: il cotone, ad esempio, di cui davano fino a venticinque libbre in cambio d'un pugno di perline di vetro. Alcuni, poi, avevano le nari bucate, e a quel forellino portavano appeso un pezzetto d'oro nativo. Barattavano volentieri quell'ornamento con un sonagliuzzo di bronzo. Ma di quei baratti si fece subito arbitro l'almirante, perchè l'oro doveva appartenere alla corona di Castiglia, e non dovevano farne incetta i marinai. Egli domandava ai naturali donde provenisse quell'oro; ed essi accennavano ad un luogo lontano sul mare, dalla parte di ponente, e frattanto rispondevano: Cibào.

Cibào! Non forse Cipango? E il pensiero di Cristoforo Colombo naturalmente correva alle ricchezze di quell'isola, che Marco Polo aveva descritta con sì vivi colori. Ed egli seguitava a segnare laggiù da ponente, dopo aver mostrato ad essi quell'oro; e proferiva il nome di Cipango; ma sempre i naturali seguitavano a rispondere Cibào. Cibào era dunque una corruzione di Cipango; facile corruzione, ad una distanza di due secoli. Cibào, dunque, laggiù. E l'isola in cui vivevano? Guanahani, rispondevano essi, Guanahani. Che cosa volesse poi dire Guanahani, era difficile sapere, essendo difficile il domandarlo. Ma questo importava assai meno. L'isola, visitata alla svelta, non aveva tracce di metalli preziosi. I suoi abitanti, poveri e semplici, vivevano di agricoltura e di pesca; poche ed infrequenti erano le loro relazioni coi naturali delle isole vicine, talune delle quali si scorgevano distintamente sull'orizzonte, a destra e a manca di Guanahani.

La giornata del 13 era trascorsa in queste visite, in questi scambi, in questi discorsi. La mattina del 14, l'almirante partì coi palischermi, per fare il giro dell'isola, tutta sparsa di lieta verzura, con qualche poco di terra coltivata, e capanne qua e là, presso le rive. La voce dell'arrivo degli ospiti celesti a Guanahani era corsa tutta intorno, anche nelle isolette vicine; e da ogni lido, al passaggio dei palischermi, erano frotte di naturali che innalzavano grida di festa e d'invito. Molti si gittavano a nuoto; erano tirati a bordo, regalati di perline di vetro, e rimandati contenti.

Ma niente era che trattenesse più oltre il signor almirante nelle acque di Guanahani. Gli si offrivano allo sguardo molte isole verdeggianti, che tutte parevano invitarlo. Scelse a occhio la più grande, che sembrava cinque leghe distante, e a quella drizzò il corso della sua squadra, nella mattina del 15; ma non potè, a cagione delle correnti contrarie, approdarvi che al tramonto del sole. Aveva intitolata la prima isola al Santo Salvatore; intitolò la seconda a Santa Maria della Concezione. V'ebbe, nella mattina del 16, le stesse accoglienze di Guanahani; ci ritrovò gli stessi costumi, la stessa nudità, la stessa età dell'oro in azione, ma senza alcuna abbondanza di quel prezioso metallo. A Guanahani aveva preso sette naturali, che gli erano parsi di più svegliato ingegno, e più pronti a formarsi un vocabolario spagnuolo per i primi usi della conversazione. E i sette naturali erano andati contenti fino all'isola vicina. Quando videro che l'almirante non voleva trattenercisi, ma salpava nello stesso giorno per andare più oltre, verso ponente, donde appariva un'altra isola più ragguardevole, incominciarono a dolersi, come tanti Melibei, di dover lasciare «il confin della patria e i dolci campi». Uno di essi, che era imbarcato sulla Nina, non stette lungamente a piangere; si tuffò in mare e a nuoto raggiunse una piroga di suoi connaturali, che passava da quelle parti.

Fu l'unico episodio spiacevole di quei primi giorni vissuti tra le isole. Alla terza di queste Cristoforo Colombo impose il nome di Fernandina, in onore del re di Castiglia, disegnando in cuor suo di chiamare la quarta col nome della sua regal protettrice, Isabella.

Gli abitanti dell'isola Fernandina somigliavano in tutto a quelli delle prime due isole; ma parevano più ingegnosi e più scaltri. Alcune tra le donne avevano dei piccoli grembiali di cotone; alcune altre giungevano al lusso d'una specie di mantello. Le abitazioni, costrutte di rami, di canne, di foglie di palmizio, avevano forma di padiglioni; grande pulizia e decenza ci regnava per entro; i letti erano stoie di cotone, sospese, chiamate dai naturali col nome di hamac. E il nome e la cosa dovevano incontrar favore in Europa.

Nella quarta isola, che fu chiamata Isabella, Cristoforo Colombo trovò bei laghi d'acqua dolce, e frutti svariatissimi, e sciami di pappagalli «che oscuravano il sole»; molte lucertole, dei cani che non abbaiavano, niente spezierie, niente oro, ma molti indizi di una grande isola verso mezzogiorno, che i naturali dicevano ricca di ogni ben di Dio. S'intende che i naturali parlavano agli interpetri, e questi riferivano, servendosi di quel numero ancora troppo ristretto di parole castigliane, delle quali avevano inteso, e fors'anche frainteso il vero significato.

Una grande isola! e ricca! Era dunque Cipango? Bisognava lasciare al più presto quell'arcipelago di isolette, così belle, ma povere, e andare alla scoperta della terra maravigliosa. Venti contrarii, bonacce, piogge frequenti, impedirono per molti giorni la partenza, o ritardarono il corso. Finalmente la squadra salpò alla mezzanotte sopra il 24 di ottobre, e costeggiate alcune isolette a cui l'almirante impose il nome di Islas de Arena, giunse la mattina del 28 all'approdo di una grande isola, le cui alte montagne gli ricordarono quelle a lui note della Sicilia. Posto piede a terra, ne prese possesso nelle forme consuete, imponendo a quell'isola il nome di Giovanna, in onore del principe Giovanni, il piccolo Infante di Castiglia.

Era destino che tutti quei nomi dovessero perire. San Salvatore diventò l'isola del Gatto; Fernandina, l'Esuma; Isabella, l'Esumeta; le isole de Arena, Mucaras; Giovanna riprese il nome che aveva dai suoi naturali, il nome di Cuba.

Un fiumicello metteva pure nel golfo a cui approdava Cristoforo Colombo. Quel fiumicello prese e ritenne il nome di San Salvatore. Entrandovi col palischermo, per iscandagliarne la profondità, gli Spagnuoli posero in fuga due piroghe, le quali si erano poc'anzi staccate dalla riva. Ed anche posero in fuga gli abitanti della costa, nelle cui capanne non erano che stoie, tessute di filamenti di palma, uncini, fiocine d'osso, ed altri arnesi da pesca. Si incominciava male, per ritrovare i tesori di Cipango. Rimontato in nave, l'almirante si accinse a scorrer la costa verso ponente, e in quella esplorazione scese parecchie volte a terra, visitando villaggi, donde gli abitanti costantemente fuggivano ai boschi. Le case erano meglio fabbricate, la pulitezza notevole; non mancavano indizi d'una civiltà più inoltrata; ad esempio, certe statue d'idoli, rozzamente intagliati, ma con certa vivezza di espressione, nel legno.

Sicuramente, le maraviglie descritte da Marco Polo non avrebbero indugiato a mostrarsi. E questa non era solamente la speranza di Cristoforo Colombo, ma anche quella di Martino Alonzo Pinzon. Tre naturali di Guanahani, imbarcati sulla Pinta, dicevano che dietro ad un promontorio, poc'anzi denominato delle Palme, era un grosso fiume, rimontando il quale, si poteva andare in quattro giorni a Cubanacan!

– Cubanacan! – ripeteva Martino Alonzo. – Cubanacan! Non è corruzione, questa, del regno di Kublai-kan? Siamo sull'orma, signor almirante, siamo sull'orma.

– Vediamo di non far confusioni; – rispondeva l'almirante. – Se questa è l'isola di Cipango, come potrebb'essere il regno di Kublai-kan, che Marco Polo ha collocato in terraferma? Notate, Martino Alonzo, che questa è un'isola; ce l'hanno annunziata per tale gl'interpetri, indicandola a noi, verso mezzogiorno, quando eravamo all'áncora nelle acque dell'Isabella.

– Avremo capito male, – replicava Martino Alonzo Pinzon. – Per intanto, i miei tre selvaggi dicono che questa non è un'isola. E la chiamano Cuba, e dicono che Cubanacan si ritrova a quattro giornate dentro terra; soggiungono che c'è oro in abbondanza; che cosa si vuole di più?

– La scoperta del gran fiume, donde si avrebbero a prender le mosse; – rispose placidamente Cristoforo Colombo. – Cerchiamo dunque il gran fiume. —

Ma girato il capo delle Palme, non si trovò punto il gran fiume. Altri promontorii furono veduti e girati via via; ma senza ritrovare, non che il gran fiume, un sorgitore in cui gettar l'áncora. Il vento soffiava al traverso; l'infoscarsi del cielo faceva prevedere un grosso temporale. L'almirante pensò giustamente che fosse atto di prudenza ritornare indietro, per ormeggiarsi alla foce di un altro fiume, già veduto tre giorni prima; al quale, per l'ampiezza della sua foce, aveva imposto il nome di Rio de los mares.

Così erano giunti all'ultimo giorno di ottobre. La mattina seguente, al primo spuntar del sole, l'almirante mandò i palischermi alla riva, perchè un drappello dei suoi marinai visitasse un villaggio, le cui capanne si vedevano biancheggiare tra gli alberi. Andarono i marinai e scesero a terra; ma al loro apparire, gli abitanti spaventati presero la via dei boschi, nè ci fu verso, con parole o con segni, di farli ritornare alla spiaggia.




Capitolo V.

Il sogno di Damiano


È lecito di sorridere delle illusioni di Cristoforo Colombo, partecipate ed accresciute da Martino Alonzo Pinzon; ma non è altrimenti lecito di riderne. Il sorriso è sempre benevolo: significa qualche volta la condiscendenza; qualche altra è un giudizio pietoso che facciamo di noi medesimi, stimandoci pienamente capaci, nelle stesse condizioni, di cadere negli stessi errori. Ridere, per contro, è da orgogliosi che si credono infallibili ed impeccabili; significa l'ironia, il sarcasmo, lo scherno; abbonda di solito nella bocca degli sciocchi, e in quella degli ignoranti, loro amici e compari. Vogliate, di grazia, considerare una cosa, anzi due. Prima di tutto, bene aveva potuto Cristoforo Colombo argomentare l'esistenza di un continente di là dall'Atlantico, avendo egli presupposta la sfericità della terra. Ma posta la fede sua, come quella di tutto il mondo cristiano, nella autorità scientifica delle Sacre Carte, che quasi gli misuravano a palmi la superficie del globo; e ammessa la veracità delle relazioni di Marco Polo e di Ser Giovanni Maundeville intorno alle regioni estreme dell'Asia; di che avrebbe colmato il poco spazio che gli rimaneva ignoto a ponente, se non delle zone ultimissime dell'Asia, che il Veneziano e l'Inglese non avevano intieramente visitate? La vera trovata del navigatore Genovese, quello che si chiamerebbe oggi il lampo del genio, consisteva nel cercare quei confini orientali dell'Asia per la via di ponente. In tutto il resto, lo stringevano d'ogni parte le autorità, lo incatenavano i pregiudizi del volgo.

E poi, e poi, contemporanei dell'anima mia, che avete a buon mercato i manuali e gli atlanti, le carte murali sotto gli occhi e il maestrino in cattedra, pensate che pericoli, che stenti e sopra tutto che costanza c'è voluta, per imbandire a noi un così lauto pasto di dottrina. Possiamo sorridere, non abbiamo il diritto di ridere. Del resto, si è riso tanto a Salamanca, da tutti quei sapientoni, che ben possiamo astenercene noi altri.

Ammettiamo invece, sorridendo, come e perchè i racconti di Marco Polo comandassero allo spirito del grande navigatore Genovese. Lo vediamo ora, alla foce del Rio de los mares, risoluto di trovare quel benedetto Cubanacan, in cui Martino Alonzo, il comandante della Pinta, vedeva una semplice corruzione di Kublai-kan. Ignoravano ambedue una cosa risaputa più tardi: che i naturali di quei luoghi dicevano nacan come noi diciamo il «mezzo»; donde la conseguenza che Cubanacan significasse il mezzo, il centro di Cuba. Il Pinzon, che ci vedeva una corruzione di Kublai-kan, avrebbe potuto con ugual fondamento vederci un Cipang, che era il nome riferito da Marco Polo per il regno insulare del Giappone. Del resto, il desiderio di associare le nuove scoperte ai vecchi nomi, era proprio nel sangue. Cuba, quando si perdette ogni speranza di farne tutt'uno con l'isola di Cipango, fu ascritta all'arcipelago delle Antille; un nome opportunamente svecchiato dalla famosa Antilla di Aristotele, cavata ad orecchio dalla non meno famosa Atlantide di Solone, e del suo pronipote Platone.

Ma è tempo che ritorniamo al racconto. Fuggiti dalla riva i selvaggi al primo entrare dei palischermi nella foce del Rio de los mares, l'almirante lasciò riposare qualche ora la sua marinaresca, volendo anche persuadere a quei sospettosi naturali che egli non aveva alcuna intenzione ostile. Nel pomeriggio mandò solo, nel bargio, uno dei suoi interpetri di Guanahani.

Gli abitanti del villaggio erano ritornati alle loro capanne; ma stavano sempre all'erta, pronti a fuggire da capo. Videro accostarsi il bargio, ravvisarono nel vogatore un selvaggio della loro specie, e stettero ad aspettarlo. L'interpetre, come fu giunto in vicinanza del lido, tanto da poter essere udito da terra, si rizzò sulla prora della piccola barca, e rivolse il discorso a quei popoli, dipingendo loro gli stranieri come esseri sovrumani, venuti dal cielo, bianchi nel volto, amici degli uomini rossi, ai quali facevano molti bei donativi, simili a quello che egli agitava a braccio teso davanti a loro, facendolo risuonare piacevolmente agli orecchi. Finito il suo discorsetto, l'indiano si buttò in acqua risoluto e volse nuotando alla spiaggia.

Era solo; fu accolto senza sospetto. La sua parlata, veramente, era un pochino diversa da quella di Cuba; ma come può essere diversa tra popoli del medesimo sangue, vissuti a lungo divisi. Stentarono alquanto a capirlo, ma lo capirono finalmente, e si persuasero che gli stranieri erano venuti da amici. E poi quel sonaglio che il messaggiero faceva tintinnire al loro orecchio, che musica!

Subito fecero scivolare dalla spiaggia le loro svelte piroghe; ci posero dentro cotone, frutti e cassava; con quei presenti mossero incontro alle navi degli uomini bianchi.

L'almirante li accolse con dimostrazioni di giubilo; gradì i presenti, e li ricambiò, al solito, con piccoli campanelli di bronzo e perline di vetro. Quei naturali non portavano pezzi d'oro nativo sospesi alle nari; ma pezzi d'argento. Metallo anche questo, e di maggior valore che non dovesse averne venti o trent'anni più tardi, quando da Cuba, per l'appunto, e da tutte le altre terre scoperte, se ne rovesciò tanta abbondanza in Europa.

Anche l'argento aveva dunque il suo pregio, e la sua apparizione fu salutata con gioia. Ma più lieta suonò all'orecchio degli uomini bianchi la notizia (così almeno parve loro d'intendere) che nell'interno dell'isola, a quattro giornate di cammino, era il soggiorno di un re potente e ricchissimo. I naturali della costa gli avevano già mandati messaggeri, per avvertirlo dell'arrivo di quelle tre smisurate piroghe con le ali. Se gli uomini bianchi restavano ancora sei giorni, li avrebbero visti ritornare, e molto probabilmente con messaggeri del re.

Cristoforo Colombo poteva aspettare sei giorni, ed anche di più; ma voleva esser sicuro di entrare in relazione con quel re, in cui era lecito di immaginare il gran Cane. Perciò, scambio di aspettare i messaggeri del re, risolse di mandare i suoi nell'interno dell'isola, chiamando per tale Ufficio Rodrigo di Xeres e Luigi di Torres.

Ah, finalmente il grande interpetre avrebbe potuto sfoderare la sua dottrina poliglotta? Egli conosceva e parlava l'ebraico, il caldaico, il siriaco, e cincischiava anche l'arabo. O l'una o l'altra di quelle lingue avrebbe intesa il gran Cane. Ma se non ne avesse intesa nessuna fra tante?

Ad ogni buon fine Cristoforo Colombo mandò compagni all'interpetre poliglotta due naturali, uno di Guanahani, il quale già conosceva quel po' di spagnuolo che si è detto, e un altro della medesima spiaggia di Cuba, il quale, trattandosi di non uscire dall'isola materna, volentieri accettò.

Ma non dovevano andar soli quei quattro. Non lo voleva quello spirito bizzarro di Damiano. Indettatosi brevemente col suo compagno Cosma, si presentò all'almirante per dirgli:

– E due genovesi, per caso, non potrebbero andare a Cubanacan?

– Per che fare? domandò l'almirante.

– Ma che so io! quello che faranno Rodrigo Xeres e Luigi di Torres. Questo bravo Giudeo venuto alla fede, sa la sua lingua madre, la caldaica, la siriaca, e un pochettino anche l'araba; ma poi…

– Orbene? che cosa vorreste voi dire?

– Vorrei dire che non sa il genovese, che è lingua madre, assai più dell'ebraico. —

Sorrise l'almirante, e notò con accento di arguta bontà:

– Voi due, Cosma e Damiano, mi sembrate uomini da conoscere ben altro che la sola lingua madre dei Liguri.

– Metta pure Vostra Eccellenza che conosciamo il latino; – replicò arditamente Damiano. – Se si dovesse incontrare sulla strada il Prete Janni, ci vorrebbe qualcheduno che potesse parlargli in latino, io m'immagino. Come prete, infatti, leggerà il suo breviario ogni giorno. —

A quella trovata del bizzarro Genovese non si poteva che ridere. E ridendo, Cristoforo Colombo diede licenzia ai due concittadini di seguire la spedizione entro terra. Damiano saltò dalla gioia, e subito corse ad avvisare il compagno.

– Si parte, sai? L'almirante manda anche noi a riverire il gran Cane. Mi sa mill'anni di vederlo.

– Chi? – disse Cosma.

– Il gran Cane, perbacco. Mi preme di sapere se è muto anche lui, come tutti i cani che abbiamo trovati finora. —

La mattina seguente, ai primi chiarori del giorno, si pose l'ambasceria in cammino. Apriva la marcia il naturale di Cuba, che aveva pratica dei luoghi; seguiva Rodrigo di Xeres, accompagnato da Luigi di Torres. Chiudevano la marcia i due Genovesi. Il naturale di Guanahani andava un po' avanti, un po' indietro, per servire, nella sua qualità d'interpetre, al bisogno di tutti, quando volevano intendere i discorsi del condottiero, o farsi intendere da lui. Ma molto più spesso era al fianco di Damiano, che diceva di volergli insegnare il genovese, ma nel fatto cercava d'imparare quanto più poteva della lingua selvaggia.

Si erano avviati per un'erta verdeggiante, dove non appariva traccia di sentiero. Felicità dei selvaggi e dei cacciatori, di non conoscere le strade battute. E giunti al colmo dell'erta, penetrarono in una macchia che pareva di lentischi; donde, per vallette e colline alternate, entrarono in una valle più grande, fuor dalla vista del mare. Passarono accanto a certi laghetti d'acqua dolce, i cui margini erano vestiti di borraccina, e su cui gittavano ombre amiche certi grandi alberi di specie ignote, dal largo fogliame, quali vestiti di fiori, quali carichi di frutti, quali ancora di fiori e di frutti ad un tempo: primavera ed autunno associati in una sola verzura. Tutto rideva, in quel paradiso, e tutto anche cinguettava, poichè c'erano gli uccelli a migliaia, svolazzanti di fiore in fiore come i piccolissimi còlibri, rampicanti di ramo in ramo come i pappagalli, trasvolanti da un albero all'altro come le gazze, variopinte e loquaci non meno dei loro parenti rampichini.

La varietà dei frutti, la bellezza dei lor colori, e la stranezza delle loro forme, destavano la curiosità e l'ammirazione degli ambasciatori. E di molti assaggiarono, senza verun timore di avvelenarsi, poichè ne mangiavano ghiottamente gli uccelli, questi primi conoscitori della gastronomia vegetale. Del resto, anche i due naturali intendevano il fatto loro, e andavano essi medesimi a spiccar dai rami i frutti più squisiti, scegliendoli al punto loro di maturità, che gli Europei non avrebbero potuto a tutta prima conoscere.

Era la festa del verde e dell'azzurro; del verde che splendeva con cento gradazioni diverse intorno ai viandanti ammirati, dell'azzurro che si stendeva, profondamente sereno, sulle vette degli alberi giganteschi. Tra il verde e l'azzurro correva un'aria fresca e purissima, aggraziata dall'effluvio di mille fiori, ravvivata dal predominio delle fragranze resinose, che giungevano gradite alle nari, dando un senso di salute alle fibre del cervello, e di vigore alle facoltà dello spirito. Per far l'illusione compiuta, per lasciar credere che fosse quello un altro paradiso terrestre, la creatura umana era assente da quei luoghi. C'erano bensì i viaggiatori; ma è dell'animo nostro, davanti ai grandi spettacoli della natura, il fare astrazione da noi medesimi, non vedendo e non considerando che quelli. Nella gran solitudine erano voce unica i contrasti della luce e dell'ombra; unica varietà i colori del quadro; mancava la nota umana, così spesso stridente, che reca qualche volta l'immagine e il senso della vita, ma guasta sempre la calma e riconduce alla terra il vagabondo pensiero. Ad un certo momento, davanti ad una radura della foresta, dove ad un lago seguiva una lunga e vasta prateria, i nostri messaggeri avevano veduto bensì in lontananza un drappello allineato di uomini, sicuramente guerrieri, immobili al posto loro, e custoditi sul fianco dalle loro sentinelle, pronte a dare il sognale di ogni imminente pericolo. Strana cosa, in terra di uomini ignudi: quei guerrieri apparivano tutti vestiti di rosso. Ma la visione non era durata che il tempo di avvicinarla ad un tiro di balestra. Le sentinelle avevano dato un grido; e guerrieri e sentinelle avevano allargati i rossi mantelli, spiccando il volo verso più lontane regioni. Erano i rossi fenicotteri, allora così numerosi nell'isola di Cuba.

Un altro spettacolo incantevole era la notte; la notte, sempre così bella sotto i tropici, rischiarata dal lume delle stelle scintillanti dalla volta del cielo, mentre al mite chiaror della luna le cose tutte sembrano avvicinarsi a voi nella trasparenza dell'aria, e le stesse ombre della foresta, rotte dal balenio continuo di maravigliosi insetti, simulanti la luce del rubino, dello zaffiro, del diamante, si lasciano penetrare dallo sguardo, recandovi la immagine, quasi la sensazione, di un letto morbido e dolce, su cui, più del dormire, è certo e promettente il sognare.

Non pensò tutte queste cose il nostro Damiano, la prima notte del viaggio a Cubanacan. Gli davano noia, forse, o turbavano la sua dottrina in materia di storia naturale, gli uccelli dell'isola, che seguitavano a cinguettare, a trillare, a gorgheggiare, come se fosse di giorno.

– Ma che hanno questi diavoli? – esclamò. – Non dormono, dunque?

– Sognano; – rispose Cosma, che qualche volta si adattava a parlare.

– Ah sì; e non hanno mica il torto! – riprese Damiano. – In quest'isola benedetta, potrebb'essere un sogno continuo. Io, per me, ti voglio dire quel che ne penso: ci vivrei volentieri per tutto il resto dei miei giorni.

– Tu? – disse Cosma.

– Certamente, io. E nota che il più l'ho da vivere ancora, se la Parca mi fila giustamente la mia parte di lino.

– Ma che faresti tu qui? Dormiresti sempre?

– Oh questo poi no. Vorrei anzi vegliare, vegliar molto, al fianco d'una bella castellana…

– Che non hai pensato a condurre con te.

– Nella speranza di trovarla sulla faccia del luogo; – rispose Damiano. – Che pensi? che ci siano donne solamente nel vecchio mondo?

– Io non pretendo questo.

– Ah, volevo dire! Mi potresti invece osservare, e con più ragione, che non c'è da sperar castellane, in questi luoghi, perchè non ci sono castelli. Ma un castello me lo fabbrico io tutte le volte che mi pare, e una volta sempre meglio dell'altra. Del resto, dove andiamo noi, di questo passo? Cioè, mi spiego, dove ripiglieremo ad andare, quando spunterà l'alba dai lidi Eòi… che per noi sono le acque dell'Oceano? Alla corte del gran Cane, io m'immagino. Il gran Cane, per far che faccia, non sarà così cane da ricusarmi la mano di sua figlia. Mi dirai che potremmo dar del capo alla corte del Prete Janni: la qual cosa mi piacerebbe meno, perchè i preti non fanno famiglia. Ma egli, per bacco, vorrà avere un ministro, dei gran signori, dei principi assistenti al soglio. Vedrai, Cosma; figlia di re, o figlia di principe, la prima bellezza che mi capita tra i piedi paga il tributo del Nuovo Mondo al tuo amico Damiano.

– Uomo volubile! – esclamò Cosma.

– Caro mio, – rispose Damiano, – sai che non voglio morir di crepacuore, io? Se la bella Ca…

– Zitto, Bar… – interruppe Cosma.

– E zitto tu, ora! – interruppe a sua volta Damiano. – Vedo che commettiamo un'imprudenza per uno. Fortuna che qui nessuno capisce la lingua madre; altrimenti, il segreto sarebbe custodito per benino! —

La chiacchiera allegra di Damiano durò ancora un bel pezzo. Ma Cosma, che la inframmezzava di poche parole, diradò anche quelle poche, lasciando tutto il carico della conversazione all'amico.

– Ho capito; – disse ad un certo punto Damiano. – La notte è alta, suadentque cadentia sidera sonnos. Vediamo dunque di dormire. —

E sdraiatosi sul fianco, si tirò sugli occhi il cappuccio della sua veste catalana. Pochi minuti dopo, era profondamente addormentato.

– Felice amico! – mormorò Cosma, che stava ancora appoggiato al gomito, contemplando le stelle. – Egli ha lasciato i tristi pensieri di là dall'Oceano; e i miei frattanto… —

E i suoi frattanto li lasceremo lavorare a lor posta, nel silenzio della notte serena. La gente malinconica, si sa, è amante del proprio dolore, e non vuol essere molestata.

Del resto, anche Cosma si addormentò, un'ora dopo i suoi compagni di viaggio. Per compenso (diciamo così) fu anche il primo a svegliarsi, e balzò in piedi senza farsi pregare, al primo cenno delle guide, che annunziavano il sorger dell'alba.

La comitiva si rimise in cammino; attraversò nuove valli e nuove colline, salutò nuovi orizzonti, ammirò nuove scene pittoresche, e ricevette il saluto di nuovi sciami d'insetti, di nuovi stormi di pappagalli. Finalmente, poco dopo il meriggio, appena fornite dodici leghe di cammino da che aveva lasciata la costa, vide aprirsi davanti a' suoi occhi una gran valle, e nel centro di quella valle apparire una lunga lista di terreni coltivati.

– Cubanacan? – domandò Damiano al selvaggio della costa.

– Cubanacan; – rispose quell'altro.

– Ma le case? dove sono le case? —

A questa domanda, fatta in lingua spagnuola, non poteva rispondere il selvaggio della costa. Per rispondere, gli sarebbe bisognato capir la domanda.

Rispose invece, o parve rispondere per lui, il selvaggio di Guanahani.

– Bohio; – diss'egli, accennando verso il fondo della valle; —Bohio!

– E Bohio sia; – rispose Damiano. – Io speravo che fossimo giunti alla capitale del gran Cane; invece, a quanto pare, non c'è neanche il sobborgo. —

Per altro, seguitando a guardare, incominciò a distinguere qualche cosa. Si vedevano dei tetti di paglia, d'una forma conica, come quelli che già avevano veduti nelle isole dianzi scoperte. E dopo una mezz'ora di cammino, alla svolta di un poggio, si vide un intiero villaggio; non più di cinquanta capanne, ma tutte assai grandi, fatte di legno, esagone, ottagone, tondeggianti, a forma di padiglioni. Non era la capitale del gran Cane, no certo; non risplendeva di metalli preziosi; ma era sempre un villaggio abbastanza pittoresco, ed era dopo tutto il primo centro popoloso un po' fitto, che fosse dato di scoprire, in quelle isole, dal 12 ottobre al 2 novembre dell'anno di grazia 1492.

– Bohio? – domandò Damiano al selvaggio della costa.

– Bohio; – rispose gravemente quell'altro.

– Ed ora, caro mio, – ripigliò Damiano, – ne so come prima. Amo per altro illudermi colla opinione che sia il nome di quella città minuscola, che apparterrà benissimo al gran Cane, ma donde non esce un cane per venirci a ricevere. —





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notes



1


In latino (e merita di essere riferito testualmente, poichè è composizione di Cristoforo Colombo): «Domine Deus æterne et omnipotens, qui sacro tuo verbo cœlum et terram et mare creasti; benedicatur et glorificetur nomen tuum, laudetur tua majestas quæ dignata est per humilem servum tuum efficere ut ejus sacrum nomen agnoscatur et prædicetur in hoc altera mundi parte.» La preghiera di Cristoforo Colombo, per ordine dei reali di Castiglia, fu usata in simili circostanze dagli altri scopritori spagnuoli, come Bilbao, Cortes e Pizzarro.



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    3★
    21.08.2023
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    11.08.2023
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