Книга - L’ignoto: Novelle

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L'ignoto: Novelle
Salvatore Di Giacomo




Salvatore Di Giacomo

L'ignoto: Novelle





L’IGNOTO





I


Sul Piazzale di Porta Roma erano poche persone. Era deserta la via del laboratorio pirotecnico, deserta la via di faccia ad essa, ove, sul principio, è la semplice e nuda fabbrica dell’Arcivescovado a cui seguono altre fabbriche basse e la Riviera Casilina, recinta da una fila di casette rossastre.

L’ora del tramonto avanzava. Un lume dorato che poc’anzi avea tutto infiammato, nel lontano, il fuggevole dosso de’ Tifati si raccoglieva in coda a’ monti, ove la terra e la collina s’univano e pareva che l’ultima arborea decorazione di quelle gobbe immani sprofondasse nell’immensa e aperta campagna, verso Roma lontana. Tutto intorno taceva di quel triste silenzio invernale che pesa su Capua, città di chiese e di caserme.

Sul ponte del Volturno, con le spalle rivolte alla Riviera Casilina, e ritta sul parapetto, si stagliava sul livido cielo la statua di S. Giovanni Nepomuceno: un rigido braccio era steso al fiume e la mano spiegata ne benediceva il queto cammino trascorrente lungo le umide rive, a occidente. Erano ancora illuminate, in quel marmo barocco, la testa del santo e il busto suo quasi tutto: le membra inferiori, già investite dall’ombra, avevano apparenza confusa. Sotto la statua, addossati al parapetto, due uomini contemplavano il tramonto, e di volta in volta accennavano a qualcosa, lontana in quel punto, nota soltanto agli occhi loro o alla loro immaginazione poi che di faccia ad essi, oltre al ponte ferroviario, parallelo a questo su cui stavano e ch’è di remota origine, nulla pareva che turbasse, lungo il fiume e nel cielo e nel piano sterminato, la silenziosa agonia del giorno. A un tratto una fuggente nuvola s’agitò e si scompose alle origini del ponte di ferro, mascherate da un breve caseggiato e dagli erici della sponda. Apparve un treno, fischiante, nero, sterminato: il treno di Roma, che per due o tre secondi fuggì su per le arcate fragorose e d’un subito sparve, come insinuandosi, rimpetto, nelle viscere della collina, alla opposta sponda del fiume. Palpitarono nell’aria, per pochi attimi, l’eco lamentosa dell’ultimo sibilo della macchina e un lieve fumo diffuso, che poi subito si sciolse. Allora i due uomini si spiccarono dal parapetto e, parlando piano, con le mani in saccoccia, col capo basso, scesero lentamente dal ponte nella piazza. Alle spalle loro cominciava a nereggiare la torre del ponte; la scaletta che va fino al sommo di essa or appena s’intravedeva. Ma un lume brillò a un tratto in cima a un palo forcuto, piantato in uno de’ balaustri del ponte e proprio dove esso quasi s’unisce alle mura della torre: e allora gli ultimi gradini biancheggiarono, mentre il soldato che aveva acceso il lume scivolava lungo il palo, saltava dal parapetto a terra e scompariva sotto l’androne abbuiato, la cui sonorità fu brevemente risvegliata da un acuto zufolìo che cessò pur subito. Si rifece il silenzio, e il vecchio ponte rimase deserto.

Chi si fosse in quell’ora, arrivando dal Corso Appio, soffermato sul Piazzale di Porta Roma, avrebbe potuto cogliere nel suo momento più penetrante lo spettacolo della caduta del giorno. Le cose più vicine allo sguardo erano il fiume, il ponte antico, le rive oscure e la torre che terminava il passo del ponte: di là dalla riva erano campagne invisibili, nascoste, e più in là finalmente apparivano monti, con interrotto disegno, coloriti d’un verde ancor fresco. Un rosso lume persisteva ov’essi inclinavano al piano. Qui l’ultima fiamma del sole v’accendeva le cime d’un bosco; ma, sotto quel dolce fuoco, il fiume, lento, quasi immoto in quel punto, non se ne colorava. Rispecchiava invece la verde collina che gli sovrastava, e le acque luccicavano verdeggiando, immobili come quelle d’un lago percosso dal placido lume della luna. Un ponte di ferro, nero e tagliente, correva su quell’acque. E sul ponte, e sul fiume, e sul tramonto era un cielo minaccioso, per ove alcune nuvole basse si rincorrevano, si gonfiavano a mano a mano e s’aggrovigliavano: le loro creste mobili e serpentine lambivano nell’alto un pezzo di cielo rimasto pallido e puro, e lentamente lo conquistavano. Fra tanto, come generata dalla lontana e invisibile campagna, una massa vaporosa, grigiastra e fitta, assorgeva rapidamente all’orizzonte. Era come una uguale cortina di fumo che si levasse da terra e cercasse di raggiungere le nuvole. Le investì, a un tratto, e con quelle si confuse e si diffuse. Nel medesimo tempo fu un borbottìo dietro quella cortina, un rombo lieve e trascorrente, che per poco parlò pur al dosso dei monti con più debole voce, e quivi si spense. Adesso il cielo s’era tutto oscurato. Tuttavia persisteva ancora, in coda a’ Tifati, il lume del sole: una fiamma sanguigna, diminuita ma tuttora viva, ardeva ancora in quel punto.




II


Un’ombra scivolò rapidamente sotto il muro dell’Arcivescovado, e a un tratto se ne spiccò e prese forma, dirizzandosi al Ponte di Annibale. Una donna. E pareva giovane, dall’agile incesso e dal disegno della persona. Pareva: da che le pieghe di uno scialle scuro, che dalla testa le ricascava sulle spalle e sul petto, le ombreggiavano la faccia. L’ora già tarda rafforzava il pallido mistero di quel volto, biancheggiante, con apparenza indefinibile, tra lo sparato dello scialle. Tuttavia, com’ella, per un momento, quasi irresoluta, s’arrestava sul piazzale, un fanciullo la riconobbe e le si fece da presso. Il fanciullo veniva dal Corso Appio, e andava verso Riva Casilina. Portava la cartella dei suoi libri attaccata al dosso con due brevi corregge che gli passavano sotto le ascelle, e in una mano aveva una riga di legno con cui, camminando e zufolando, a volta a volta si percoteva la coscia.

– Oh, Letizia! – esclamò.

E ristette davanti alla donna, interrogandola con gli azzurri occhi contenti, pieni di candido e inconscio riso infantile.

La donna, sorpresa, si trasse addietro e si guardò attorno. Altri non era in quel luogo in fuori di lei e dello scolaretto; le loro due figure nere, vicine, differenti, si disegnavano nella vastità del piazzale su cui non ancora era scesa l’ombra. La donna tremava, borbottava parole che il fanciulletto non riesciva a comprendere. Lo guardò, a un punto, smarritamente, come se più non lo riconoscesse, e seguitò a restar muta.

– Dove vai? – disse il piccino.

E subito soggiunse:

– Io vengo dalla scuola. Oggi la scuola è finita più tardi. Ora vado a casa. Ho i guanti: guarda.

E le mostrò la mano inguantata, in cui serrava il quadrello. L’altra egli aveva ficcata nella saccoccia dei pantaloncini fino al gomito. La cavò lentamente e la levò, spiegata. Era gonfia e arrossata; l’epidermide vi si screpolava sul dosso e si rigava di piccoli solchi lividi.

– Vedi… Ho i geloni.

Ella taceva, guardandolo. Non lo ascoltava. Il piccino tornò a domandare:

– E tu dove vai, Letizia?

Ora ella, improvvisamente, si piegava su di lui, gli gettava un braccio attorno al collo, si traeva addosso il ragazzetto obbediente, sorridente ancora. E come egli credeva che gli volesse dare un bacio, atteggiò e appressò le labbra. Ella non lo baciò. Gli mormorò rapidamente, guardandolo negli occhi:

– Tu non devi dire a nessuno che m’hai vista! Hai capito? A nessuno!

E l’atto e il suono della voce furono così imperativi che il ragazzetto, istintivamente, si ritrasse, e ritorse la faccia e cercò di liberarsi. Ma Letizia gli prese il mento nella mano, costrinse più dolcemente quel piccolo volto quasi impaurito, e lo rigirò, e si chinò fino a disfiorarlo col suo. Ripetette, con voce più bassa, con un soffio di voce:

– A nessuno! Dimmi che non lo dirai a nessuno!.. Me lo prometti, Paolino? Senti, guardami! Guarda Letizia tua… Me lo prometti?..

Il piccino balbettò:

– Sì… sì… Non lo dico a nessuno.

Ora Letizia lo baciava forte sulla guancia. Egli le mormorò sulla gelida gota:

– E alla mamma tua? Neppure?..

– No! – fece Letizia, come inorridita – Vuoi dirlo a mamma!..

– No, no! – promise il piccolo.

E si chinò e raccolse il quadrello che gli era sfuggito. Ora lo brandiva nella piccola mano inguantata. Ripetette, solenne:

– A nessuno!

Si rincamminò a piccoli passi. A metà della via la infantile sua curiosità lo punse: si volse. Letizia moveva al ponte, dirittamente, e la sua figura nera si rilevava, con fine disegno, sul tramonto. Parve a un tratto, ch’ella, soffermata, incerta, facesse per tornare addietro. Subito lo scolaretto riprese la sua strada verso Riva Casilina. Ma sul punto d’arrivare a un vico verso il quale s’indirizzava egli si fermò ancora una volta, e tornò a guardare dalla parte del piazzale già lontano. Ora Letizia, immobile, in mezzo al gran ponte, contemplava il fiume dal parapetto. Il segno della sua testa liberata dallo scialle, del suo busto proteso, delle sue braccia, lungo le quali lo scialle ricascava e s’allargava a’ gomiti puntati sul parapetto, era preciso. Il fuoco del tramonto ella raggiungeva col capo eretto, immoto. Una dorata aureola s’effondeva attorno a quel capo e quasi lo penetrava e lo immaterializzava. Pareva che in quel rosso vapore esso a momenti fosse per dissolversi, mentre al vento lieve ed opposto una ciocca di capelli, a volta a volta, vi palpitava e, investito dallo stesso vento, un lembo dello scialle sbatteva i fili della sua frangia su quell’incendio lontano.




III


Due, tre volte, perdutamente Letizia s’era quasi sospinta dal parapetto sul fiume tacito e lento. Aveva chiuso gli occhi, s’era allungata sul largo parapetto col busto, col ventre, lasciando penzolare le gambe dentro del ponte; e con le braccia stese, irrigidite quasi sul vuoto, aveva aspettato che una forza misteriosa, invocata, implacabile, la sospingesse improvvisamente. Ma al senso pauroso del vuoto s’erano ritratte le sue braccia pian piano, gli occhi suoi s’erano pian piano aperti e subito rinserrati sull’acqua torbida e oscurata, e più rilassato e inerte era rimasto quel corpo senza volontà, sul parapetto. Ora ella quasi temeva di spiccarsene, anzi le pareva che nel punto in cui fosse per scivolare a terra qualcosa dovesse risospingerla e precipitarla. Rimase prona sul balaustro: poi riaperse pianamente gli occhi e riguardò il fiume, di sotto. Il Volturno trascorreva lento e silenzioso tra le quattro arcate di fabbrica imperatoria. L’acqua torva pareva, a tratti, stagnante, così tardo era il suo cammino. Ma a quando a quando dei gorghi l’agitavano, e su per la giallastra sua superficie si rincorrevano pezzi di fradicio legno e batuffoli di paglia o di fieno. S’oscuravano di qua e di là le rive. Più avanti, sotto il ponte ferroviario, al punto ove esso cominciava a far gomito, l’acqua, incorrotta, luceva come uno specchio.

La donna interrogò un’ultima volta il fiume. Ora ne saliva un alito d’umidità, e dal liquido fangoso, che alle lor basi immani lambiva i pilastri quadrati degli archi, s’esprimeva quasi un fascino freddo.

– Che morte!.. – ella mormorò.

E come, nell’atto in cui s’indugiava, le cupe acque la tentavano, l’attiravano ancora, un improvviso tremito la percorse tutta. Ritrovò a mala pena la forza di lasciarsi scivolare sul ponte, dal parapetto, e a questo addossarsi, quasi mancando. Confusamente le appariva, adesso, uno spettacolo nuovo: sulla destra l’Arcivescovado, e poi le case basse, e poi una via che procedendo lungo quelle case si restringeva e, nell’alto, ancora più in là, sul cielo bianchiccio, la cupola della chiesa della Santella: in fondo, rimpetto a lei, l’alto anfiteatro della Riviera Casilina il cui largo arco a un punto era terminato dalla fabbrica rozza e massiccia della polveriera. Le finestre di Riviera Casilina rattenevano ancora il lume del tramonto e se ne accendevano. Abbasso, quasi sull’argine del fiume, l’infame contrada Mazzamauriello infilava su d’un sentiero invisibile le sue due o tre losche casucce a un solo piano.

Con la bocca serrata, con le braccia penzoloni, voltando le spalle al tramonto, Letizia non distoglieva lo sguardo da quel gruppo di case. Di là, su pel fiume, le pareva che le arrivasse una voce, un susurro, un appello. Fascinata, immobile, ella rimase lì, ritta tra le ombre che scendevano rapidamente sul ponte.

L’ora scoccò all’Arcivescovado. Letizia si volse attorno, percossa da quel suono. Era notte. S’era spento l’incendio del bosco, il cielo s’era chiuso, un velo plumbeo subitamente era sceso sulla Riviera Casilina e la nascondeva. Nell’ombra, alcune forme confuse passavano sullo spiazzo e si disperdevano. Allora ella mosse dal ponte verso il Corso Appio. Traversò lo spiazzo con celere passo, tutta raccolta nello scialle, affrettandosi. E pure sul punto di penetrare nel Corso illuminato e popolato, per un momento ella si soffermò e parve incerta.

– Andiamo! – mormorò a un tratto – Volontà di Dio…

Rabbrividì, come se avesse bestemmiato. Si tappò la bocca con un lembo dello scialle, quasi per soffocarvi, nell’atto stesso che le pronunziava, le parole sacrileghe. Ma ora, davanti a lei, luminoso e romoroso, il Corso Appio quasi la irrideva: alcune donne ridevano forte sulla soglia d’una bottega, un cuoiaio canticchiava presso alla sua, appoggiato allo stipite, e con un cicaleccio allegro, parlando di cose vane e giovanili, sbucavano da un palazzo tre o quattro fanciulle e passavano.

– Sì, sì! – ella fece, disperatamente – È volontà di Dio!..

Entrò nel Corso Appio e andò avanti, risoluta.




IV


Procedeva, senza fermarsi, con la testa bassa. In Piazza dei Giudici, ove metteva il primo tratto Del Corso, da un globo enorme si diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d’una pioggerella fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano abbandonato la piazza; vi s’indugiavano ancora un gruppetto di soldati d’artiglieria, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni, e lo scemo di Vico Cimino, un piccolo uomo di forme e di fisonomia scimmiesche, le cui membra piteciche ora s’aggrovigliavano al palo del lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti.

Come Letizia passò davanti all’Arco Mazzocchi una folla d’operaie del laboratorio pirotecnico ne uscì con alte voci confuse, imprecanti alla pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, e trascorse verso Porta Napoli.

Letizia si mescolò a quella folla e andò avanti ancora. Di tratto in tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare, altre strade. Presso Porta Napoli la comitiva non si componeva più che di tre di quelle donne, le quali a un tratto si misero a scappare, rincorrendosi, strillando, sollevando e raccogliendo le sottane, e presto scomparendo nel buio. Letizia s’arrestò. Si guardò attorno, cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e sparì anch’ella in un palazzetto a una delle cui finestre del primo piano penzolava, sbattuta dal vento, la tarlata insegna d’una locanda.

Ascese la scala a tentoni. Non v’era lume; ma ella conosceva il numero dei gradini e il posto della porticina. A quella picchiò due volte, colla mano spiegata.

– Viene… – fece di dentro una rauca voce maschile.

S’aperse la porta e un fiotto di luce dilagò sul pianerottolo. L’uomo che l’aveva schiusa reggeva un lume nella destra e cercava di affisar bene la sconosciuta. Poi si trasse addietro per lasciarla passare.

– Be’? – disse, dopo avere cautamente rinchiuso l’uscio – In che vi devo servire?

Levò il lume fino al volto della donna e con l’altra mano fece riparo alla fiamma.

Ma ora ella si liberava dallo scialle, lo raccoglieva sul braccio e gli si rivelava, immobile, ritta di faccia a lui, e muta, e tutta illuminata dalla fronte al petto.

Allora l’uomo esclamò:

– Gue’! Letizia!.. Ah, tu sei, dunque?

E voltandosi a una porticina socchiusa, dietro la quale borbottava una vecchia voce femminile, annunziò:

– È Letizia di Riva Casilina… Letiziella… Quella del furiere…

Letizia si coperse la faccia. Cessò il borbottìo dietro l’uscio socchiuso. E la voce senile, mentre l’uomo riponeva il lume sulla mensa dalla quale s’era levato, rispose:

– Buona sera… Ora vengo.

– È Chiarina – disse l’uomo, e sedette daccapo alla tavola – Ha le gambe enfiate, con rispetto, e le unge con una pomata che si vende a Napoli. Ha un’emicrania da cavallo, per giunta…

Additò una seggiola.

– Mettiti a sedere… Vuoi crescere?

– Vi devo parlare – disse Letizia.

– Be’… Dunque siedi. Che mi dici? E il furiere che fa?

– M’ha lasciata.

– Il furiere?.. – e con la mano spiegata l’uomo percosse la tavola – Possibile? Hai sentito, Chiarina?.. – e si girò sulla seggiola, e si voltò a parlare forte all’uscio socchiuso – Dice che il furiere l’ha lasciata…

– Vengo… – ripetette la voce.

Don Placido, un tipaccio rossigno, quasi calvo, animalesco, allungò la mano a un piatto colmo di stufato d’agnello e se ne recò un pezzo alla bocca, strappandogli, co’ forti molari, fin le ultime cartilagini. Si versò del vino. Sotto il lume, agguantata al collo della bottiglia, la sua mano tremava come per impeto di sangue pulsante: sul dosso vi rigurgitavano le vene enfiate e le dita unte e vellose, terminate da unghie rose e piatte, lucevano del recente contatto della vivanda. Un alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un fiato di anime e di materie corrotte. Dal mensale insudiciato, chiazzato di larghe macchie d’unto e di vino, si sprigionava un lezzo disgustevole.

– Sentite, don Placido… – disse Letizia subitamente – Io non posso restare più, a Capua. Capite, don Placido?.. Sono rovinata, e la rovina mia non la posso nascondere più…

L’uomo la guardò fisamente. Poi, con gli occhi piccioli e vivi, percorrendolo tutto s’indugiò a interrogare quel corpo palpitante e raccolto.

Letizia arrossì. Radunò in grembo lo scialle e ve lo rattenne con le pallide mani spiegate.

– Ho capito – disse don Placido.

E si grattò il capo con l’indice della sinistra: poi con quello della destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levò la testa, e parve che interrogasse il soffitto.

Domandò, più piano:

– E a casa tua?

– Sono fuggita.

– Quando?

– Ora.

– Sei andata da lui?

– Inutile. Sono venuta qui.

– Parla più basso.

Seguì un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido moderò la fiamma del lume, si levò, fece pesantemente due o tre passi nella stanzuccia e Letizia lo udì borbottare:

– Evviva il furiere!.. E bravo!.. Evviva!..

All’improvviso le si piantò di faccia, presso alla tavola. Le chiese bruscamente, brutalmente:

– Be’?.. E ora che vuoi fare?.. La vita?

Ella aperse le braccia e chinò la testa.

Don Placido, dopo un poco soggiunse:

– E a Napoli ci andresti?

– A Napoli?.. – balbettò Letizia.

– Vi ho un amico. Ti raccomanderò… La città è grande, vedrai… E qualche altra vi ha fatto fortuna…

Lo interruppe un colpo di tosse che arrivava da un’altra camera la cui porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa.

Letizia trasalì e l’uomo si mise a ridere.

– È la bionda – disse, con una occhiata a quell’uscio – È una di Caserta. Parte a momenti per Napoli e io l’accompagno alla stazione.

La breve tossicina si fece udire un’altra volta, ma ora don Placido non vi badò.

– Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace allora… vedi… puoi dirti fortunata, vi andrete assieme… Con la bionda. Ora deciditi. Hai capito? Grande città, gran gente, gran rumore, gran vita. Mica questi sordomuti di Capua, angiolo mio…

Tese l’orecchio. Pioveva ancora: il borbottìo della grondaia era superato dal crepitare della pioggia che percoteva il cortile.

– Se vuoi vedere la bionda è di là, in cucina. Si chiacchierava, appunto, quando sei arrivata. E s’è voluta nascondere: si vergogna. Be’, se vuoi vederla… Intanto io vado per un affare mio, fino all’Annunziata. E parla pure con Chiarina: tra femmine vi intenderete meglio…

A voce alta, mentre cercava il mantello e il cappello, annunziò:

– Vado fino all’Annunziata, Chiarí…

La voce rispose dall’oscurità:

– E il treno?..

– Parte alle dieci… – E don Placido, aperse la porta delle scale – V’è il tempo. Torno subito.

Sulla soglia si voltò a Letizia:

– La casa la conosci: accomodati pure. Aggiustati con Chiarina…

Uscì. La porta si richiuse e Letizia rimase sola.

Si guardò attorno, guardò l’uscio piccolo dietro del quale ella indovinava donna Chiara, l’orribile vecchia, gigantesca come il marito, quasi calva, dall’occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di carne molle, e ondeggiante dal petto enorme e floscio sul ventre…

Si levò in piedi. S’era mossa quella porta. Ma era il gatto. Apparve sbadigliando, un gatto grigiastro e avanzò, lentamente. Vide Letizia: si fermò, la guardò, poi, rincamminandosi, scomparve nella penombra.

Letizia sospinse la porta della cucina.




V


La bionda era seduta a una tavola, presso al focolare. Poggiava le mani aperte e la faccia su qualcosa che pareva un fagotto. Un lieve soffio inclinava accanto a lei la fiammella d’un lume a olio piantato sulla tavola tra le bucce d’un’arancia.

Letizia urlò:

– Marta!..

Ma come? Oh, Dio! Dio! Quella che il furiere aveva presa dopo di lei, quella per la quale l’aveva lasciata! Marta, Marta, là dentro! Nella casa di don Placido!..

La bionda, come istupidita, la bocca schiusa, gli occhi incertamente affisati, allungava la testa nell’ombra. Poi congiunse le mani, come accordandole a una muta implorazione. E Letizia, che s’appressava, la udì infine mormorare con voce quasi di pianto:

– Tu si’ Letizia d’ ’a Riva Casilina…

E a un tratto si sentì afferrare le mani, se le sentì avvincere ai polsi e piegò, e quasi s’abbandonò su quel corpo palpitante e un po’ molle da cui, nell’ombra afosa della stanzuccia, vaporava un alito tepido di gioventù e di salute.

La bionda balbettava:

– Mbe’, perdòname, perdòname!..

Ora piangevano, piano, sedute vicino, così vicino che i loro ginocchi si toccavano e la scarsa fiamma della lampa, di volta in volta investita e piegata dal soffio esterno, stentava a disegnare e a separare que’ due corpi quasi immoti…




VI


– Avanti, avanti! – urlava don Placido, nella notte, correndo lungo la Via della Stazione – Ora ci verrà addosso tutta l’acqua del santissimo cielo! Ah, Corpo di Cristo! Avanti!..

L’ombra sua nera e veloce scivolava e fuggiva su’ muri. Le donne lo seguivano, tenendosi per mano, chiuse ne’ loro scialli pesanti, inciampando, di tratto in tratto, ove si faceva più fitta l’oscurità. Così passarono per via Gran Quartiere, poi davanti alla Villa Ferdinandea le cui statue impallidivano confusamente, poi davanti al teatro. Adesso arrivavano alla porta vecchia della città. Sotto l’androne si scaldavano a una grande fiammata di fascine due guardie di finanza, e quella di piantone canticchiava, con le mani in saccoccia, addossata a uno stipite.

– Salute! – le gridò don Placido, seguitando a correre.

– Salute e bene! – gridò la guardia.

Adesso le loro ombre s’inseguivano sul ponte delle fortificazioni: sotto gli stivaloni di don Placido l’acciottolato crepitava. Sui fossati, sulla vallata di Capua era sceso un velario oscuro.

– Avanti! Siamo arrivati! – egli urlò ancora – Io vado pe’ biglietti. Prendo la terza! Passate per l’ultima porta a destra e aspettatemi sul marciapiedi…

Bruscamente apparve la fabbrica della Stazione. Letizia si volse. Tutto era scomparso nella notte, dietro di lei: la città, la campagna, i bastioni. Nessuna luce brillava quasi più in quel lontano. Tutto finiva. Allora stese le braccia verso Capua e singhiozzò perdutamente:

– Addio! Addio! Addio!..

Poi si sentì trascinare dalla bionda, che quasi la sollevava, e si ritrovò sul marciapiedi, davanti al treno nero, interminabile. La macchina sbuffava. Un vento umido e freddo la percosse in faccia. Udì confuse voci e a un tratto urlare:

– In vettura! In vettura!

Uno sportello si spalancò. La bionda salì per la prima, stese le braccia, afferrò Letizia e se la trasse dentro. Lo sportello si chiuse sbatacchiando. L’impeto del treno che s’avviava le gettò l’una addosso all’altra.

Lo scompartimento era quasi deserto. Due fattori fumavano sul sedile opposto, e subito si misero a parlare di derrate, d’olio, di vino, a voce alta. La pioggia sferzava i vetri dei finestrini.




VII


– Arriviamo… – le mormorò Marta, a un tratto.

Per più d’un’ora, senza parlare, senza neppure guardarla, se l’era tenuta a fianco, stretta, avvinghiandola quasi, rinserrando la stretta a ogni scossone del treno. Ora le parlava sottovoce, rapidamente, quasi all’orecchio.

– Ascolta… Napoli non la so, non ci sono mai stata. Dicono ch’è una città grande, immensa, pericolosa, un inferno… M’ascolti?..

Letizia assentì con un moto del capo.

Marta continuò:

– Ci ha perdute lo stesso uomo. Bene, non importa… Senti… Siamo come due sorelle, ci siamo conosciute da tanto tempo… Pensa così, come penso io. E tu ora mi vuoi bene, e io ti voglio bene… Senti…

E la voce s’inteneriva sempre più, maternamente, e tutte e due quelle donne palpitavano. I fattori seguitavano a parlare, più basso.

– Io non ti lascerò mai! – balbettò ancora la bionda. E in quel patto cercò le mani di Letizia e le strinse – E tu giurami lo stesso! Tu non mi devi lasciare!.. Ho paura di Napoli… Senti… Dimmi che m’aiuterai, che mi difenderai… Letizia, giuralo! Giuralo a Marta, a questa povera disgraziata!..

Letizia rispose, con un soffio di voce:

– Sì, sì… giuro…

Il treno entrò sotto la tettoia e passò sugli scambii con un fragore assordante. I fattori si levarono e agguantarono le loro valigie. Una voce, due, tre urlarono nell’oscurità:

– Napoli! Napoli! Napoli!..

Marta si buttò giù e stese le braccia alla compagna. Si spalancarono in quel punto gli sportelli di tutte le vetture e vomitarono sul marciapiedi un’ondata di soldati. Il ventottesimo d’artiglieria, il reggimento del furiere, era partito con loro da Capua. Ora i primi ranghi si formavano in fretta, sotto la tettoia, e confusamente s’udivano altre voci, e lampeggiavano altre armi laggiù in coda al treno.

Gli ufficiali gridavano i loro ordini e correvano qua e là lungo il treno.

– Vieni! – disse Marta, trascinando la compagna.

Sorpassarono i cancelli, s’arrestarono per un momento, ignare, indecise, sotto le arcate dell’uscita sulla piazza.

Era quasi la mezzanotte. La pioggia batteva sul selciato. Migliaia di lumi, alti, bassi, ora bianchicci, ora rossastri occhieggiavano nella vasta piazza e dalle vie circostanti, ove le case apparivano e sparivano in una nebbia nera che a volte pareva che le dissolvesse.

Le due donne, attonite, irresolute, scesero dal marciapiedi. Ma quel fiume di soldati che le aveva rincorso fu sopra di loro d’un subito, e le sospinse, e le separò. Passò tutto il reggimento, quasi fuggendo, sotto la pioggia. Letizia fu ricacciata sotto i giardini, dalla parte del Vasto. Ella sbarrò nell’oscurità i suoi grandi occhi azzurri pieni d’orrore.

E urlò:

– Marta!.. Marta!

Nessuno le rispose.

Letizia si sentì mancare. S’addossò a un fanale. Raccolse la voce e con uno sforzo supremo chiamò ancora:

– Marta!.. Marta!.. Marta!..

Nessuno, nessuno…

Ora ella era a fronte dell’ignoto, nella misteriosa notte del suo destino.

Sola.




PESCI FUOR D’ACQUA





I


– Son deciso, ecco! – ripetette seduto di faccia a me alla medesima tavola, il mio compagno d’ufficio de Laurenzi – Ormai son deciso a resistere! E staremo a vedere! L’ufficio? I doveri dell’ufficio? L’orario? Ma l’ufficio non conta nulla, mio caro, a fronte di tutta una vita, di tutti i ricordi che v’inchiodano al posto ov’è stato il padre. Il padre, capisci? E io dunque dovrei rinunziare alla scrivania di mio padre, alla stanza dov’è stato mio padre, all’aria che ha respirato mio padre! Ah, sì per esempio! Ma voglio vederlo, perdio!

S’interruppe. Il cameriere, uno de’ più anziani di quella ignobile gargotte ove s’andava a far colazione tra preti, avvocati, studenti e cantanti del teatro vicino, ora gli poneva davanti un piatto di baccalà alla livornese fumigante in una brodaglia rossastra. Gli occhi miopi del de Laurenzi s’appressarono al piatto e vi si sprofondarono e lo interrogarono avidamente: tra quel vapore succulento le nari di un lungo naso floscio palpitarono e si dilatarono.

– Alla livornese, professore – disse il cameriere – Poi me ne parlerà. E appresso ha ordinato?

– Un formaggio e un finocchio.

– Il vino solito?

– Solito.

Si mise a mangiare, voracemente. E io, che avevo terminato il mio modesto asciolvere, sorseggiando un caffè e fumando mezzo toscano mi misi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.

Alto, magro, con le spalle incurvate, con una gran barba grigiastra e incolta pel cui pelo intricato or si disseminavano le briciole del pane e le gocce del brodo untuoso, con orribili mani dalle dita nodose e lunghe che parevano artigli, mal vestito, tutto chiuso in un vecchio cappotto stinto e rattoppato il cui bavero che un tempo era stato ornato di pelo marrone or ne serbava solo quattro o cinque ignobili ciuffetti, il mio compagno di ufficio de Laurenzi, un uomo sui sessanta anni suonati, incarnava pittorescamente la pietosa straccioneria del travettismo. Ammogliato, carico di figliuoli e di piccoli debiti pe’ quali il suo stipendio era strappato a brani e giorno per giorno alla cassa dell’economo, egli era un di quelli sciagurati il cui contatto uggioso ve ne sollecita quasi a non indulgere alle volgari abitudini e a’ miserabili vizii, ma ch’io m’inducevo a creder degno, il più delle volte, della più malinconica commiserazione.

Era stato – raccontava – giornalista di grido, nell’Alta Italia, a’ suoi be’ tempi: lo era ancora qui, adesso, in una gazzetta quotidiana che stentava parecchio la vita e nelle cui trascurate colonne il de Laurenzi poneva, di volta in volta, certe sue rievocative narrazioni partenopee scialbe e sciatte, disseminate di ampollosi rimpianti e miserabilmente intessute sulle cronache de’ giornali del tempo, in cui frugava tutta la santa giornata.

Nella biblioteca governativa, ov’ero anch’io, il de Laurenzi era entrato quando essa aveva a capo un prelato di cui bastava soltanto soddisfare l’olimpica vanità per guadagnare, se non la stima, la indifferente acquiescenza. Morto costui la biblioteca non aveva più potuto offerire alle gratuite libertà che l’ex giornalista vi s’era conquistate un comodo asilo remuneratore. Ora bisognava lavorare e frequentare l’ufficio. Il nuovo bibliotecario era severissimo: guardava nel registro d’ingresso degl’impiegati, segnava le ore e i minuti a’ tardi arrivati, mandava in giro, di volta in volta, ordini del giorno in cui si raccomandavano lo zelo, l’ossequenza all’orario, la diligenza ne’ compiti, e pretendeva che tutti firmassero quelli ukase in segno di rispettosa adesione.

Una schiavitù, sissignori: una soppressione spietata, implacabile, dell’ingegno e della personalità, una scettica considerazione dell’io pensante e creante, degli altrui nervi, dell’altrui cultura quando non fosse quella delle scienze naturali e delle matematiche, nelle quali quel nuovo direttore era spaventosamente agguerrito.

Ah, sì: portate in questi polverosi e silenziosi antri, foderati della storia cartacea del pensiero umano, portatevi, se vi riesce, la giovialità, l’arditezza, il libero arbitrio, la poesia, l’indipendenza: portatevi il vostro talento, la vostra modernità, le vostre abitudini sincere e svegliate, se vi vorrete vedere a mano a mano sfiorire tutta codesta ancor viva giovinezza dell’animo vostro! Mio Dio, che aridità e che tristezza tra queste mute pareti, gravi d’in folio e d’enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così impregnate de’ pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che costituiscono il tessuto connettivo della vita degl’impiegati, il continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l’alimentazione quotidiana dell’ozio e dell’ignoranza del loro pensiero!

Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi e ammettere tra il baccalà alla livornese e l’evocazione paterna alcuna tollerabile analogia. Quest’uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della loro espressione dissimile le sensazioni della psiche e la più brutale delle soddisfazioni fisiologiche?

– Comprenderai – disse lui, quasi come per rispondere al mio pensiero, e dopo aver vuotato il suo terzo bicchiere di vino bianco siciliano – comprenderai ch’io mi trovo nelle biblioteche non per le mie aspirazioni, non per elezione mia. Ti pare? Un impiego governativo! Cioè una sgobbatura! Una servitù! Ma, poi che là dentro mio padre, ch’era uno studioso, è stato impiegato anche lui e ha vissuto metà della sua vita io vi ho voluto iniziare come una tradizione metodica ed esemplare nella storia di queste successioni familiari. Usciamo?

– Usciamo. Bada ch’è ora di tornare lassù.

De Laurenzi afferrò un tovagliolo e si forbì le labbra, in fretta, e poi lo buttò sulla tavola tutto insudiciato, come uno straccio. Si levò: cacciò la mano nella profondità d’una delle saccocce del suo cappotto, vi pescò e ripescò per buon tratto, e infine cavò fuori quell’artiglio armato d’un mozzicone di sigaro.

– Andiamo – mi fece, dopo avere acceso il mozzicone.

Sulla soglia della trattoria s’arrestò, per ricominciare il discorso.

– E così eccomi in guerra aperta col signor direttore. Si capisce: io sono uno straordinario, pel momento: io sono entrato nel sancta sanctorum senza i titoli che ci vogliono. Titoli? E il mio ingegno, il mio passato? Questi signori non vedono che bibliografia, schedatura, inventarii. E guai a chi è qualcuno o qualcosa! E poi sotterfugi, rapporti segreti, denunzie: ecco la loro maniera di battagliare. Ora, come l’hanno insegnato anche a me, loro mandano ufficii – e io mi dò per malato e vado a Roma.

Si scappellò, con un saluto profondo.

Colui ch’egli aveva salutato gli fece pur di cappello e passò via, in mezzo a quattro o cinque altri che lo accompagnavano e con cui discuteva calorosamente.

– Lupus in fabula– disse de Laurenzi – L’onorevole Maliberti. Non lo conosci?

– No.

– Vuoi che ti presenti, un’altra volta?

– Ma no!..

– Fai male. Una potenza, sai. È lui che m’ha presentato al ministro. Ed è così che sono a posto, adesso.

Riaccese il suo mozzicone di sigaro, che s’era spento. E soggiunse:

– Vedrai, mio caro. S’è battagliato, a Roma, giorni addietro. Ma l’ho spuntata, questa volta. Francamente, se io fossi te, cercherei di conoscere l’onorevole. Non sei elettore, tu? No? Come, non sei elettore, non ti sei fatto inscrivere?..

Affrettavo il passo. Egli s’accorse della poca attenzione onde accoglievo le sue parole e s’arrestò, a un tratto.

– Tu dunque rientri in ufficio?

– E tu non ci vieni?

– Io no. Vado al giornale. Ho un articolo da correggere in bozze di stampa. E mi preme più quello, naturalmente.

Feci l’atto di rincamminarmi.

– Se domandano di me…

– Ho capito…

– Ecco… Si potrebbe inventare una frottola. Un figlio malato, per esempio. L’influenza. Si può dire che mi sono venuti a chiamare da casa mia, d’urgenza. Una malattia a tua scelta. E poi mi telefoni al giornale. D’accordo?

– Sì – mormorai – d’accordo.

Egli s’era già allontanato, a gran passi, trascinando pel fango di via Costantinopoli le sue scarpacce inzaccherate sulle quali sbattevano, molli e intrise di mota, le bocche larghe e logore de’ suoi pantaloni.

Ora passava un carro funebre, di quelli che fanno continuamente la via di Foria e s’avviano al cimitero. Il de Laurenzi, curvo, con la mano alla falda del cappello, scivolò accanto all’enorme e nero carrozzone dalla cui cimasa dorata pareva che volessero spiccare il volo, ad ali spiegate, quattro polisarcici angioli di legno. La via, su quel transito, s’era fatta silenziosa, a un tratto. E a me parve che tanto da quel lento carro come da quell’uomo pur funebre si sprigionasse in quel punto una medesima espressione mortuaria il cui senso mi durò dentro per qualche secondo. Poi tutto si tolse dalla mia vista. Ma sopra di me e sull’animo mio, mentre m’avviavo alla porta del mio ufficio, pesava ancora, come l’ultimo segno di tanta malinconia, un cielo invernale plumbeo e greve. L’aria mi pareva satura d’una umidità uggiosa, e associata a tutta quella tristezza, a tutta quella miseria.

– Spero che non mi chieggano di costui! – m’auguravo, salendo le scale della biblioteca.

Come mi seccava di dover mentire, se mai! Una collera sorda, commista d’insofferenza e di sprezzo, mi sommoveva contro quest’uomo che intendeva piegarmi a una ripugnante complicità. Lui tenero dell’ufficio, della stanza paterna, della vita di quel luogo severo e nobile – lui, così svogliato, così cinico, così pronto a barattare la sua dignità e il suo amor proprio con una menzogna da scolare?

Un uomo di quasi sessant’anni!




II


– Stazza l’aspetta – mi disse l’usciere di guardia alla porta, come mi vide – Ha domandato di lei più volte.

– Stazza? E che vuole? Dov’è?

– Nella stanza del direttore.

Era uno degl’impiegati più anziani, un uomo eccellente, nel cui bonario sorriso io m’abbattevo ogni mattina, da quattro o cinque anni che frequentavo l’ufficio: il solo sincero sorriso che ritrovassi là dentro. Nella biblioteca Stazza era entrato a trent’anni; ora ne aveva sessantacinque suonati. Era ancora un colosso: nelle sue larghe mani poderose s’ammucchiavano pile enormi di libri, ed egli le reggeva e le portava qua e là senza alcuno sforzo visibile, con le braccia tese, lento, paziente, tranquillo. E come la pratica scienza del luogo ove quasi aveva vissuto tutta la sua vita ve lo ritrovava acconcio e disposto alle fatiche più improbe, egli non se ne stancava. Si conosceva illetterato, sapeva la insufficienza della sua cultura, meno che mediocre e null’affatto accresciuta neppure dalle più immediate e continue comunioni co’ sapienti compagni locali e con i lettori – e però badava, offerendo e adoperando come un valore succedaneo la forza delle sue membra poderose, a compensare questa sua grande pochezza spirituale.

Di volta in volta, quando per cercare qualche libro mi capitava di entrare nella sua stanza – ov’egli non s’era fatto portare che una delle più vecchie e più umili scrivanie e due seggiole, una delle quali per riporvi il cappello – la bonaria semplicità di quell’uomo mi vi tratteneva per un pezzo. Era la mezz’ora in cui Stazza si concedeva un breve riposo. Facevamo quattro chiacchiere: io addossato a uno scaffale, con tra le mani il libro che mi occorreva, lui seduto alla sua scrivania, coi gomiti sulla tavola.

Una volta, non so come, non ricordo più perchè, gli chiesi, sorridendo:

– E lei crede che si possa aver passione per la biblioteca, noialtri?

Stazza, serio, socchiuse gli occhi, con quel suo solito vezzo di quando voleva dir cose gravi.

– Si possa? Si deve, caro collega. Guardi, io non ho moglie, non genitori, non fratelli. E per me la biblioteca è la moglie, è la madre, qualcosa come una famiglia. Penso, talvolta, che avrei avuto quasi il diritto di nascere qui, in una di queste stanze. Lei ride?

– No, anzi, trovo naturale. S’intende, naturale per lei che non fa altro, che non conosce altro, perdoni.

– Già, lei fa un’altra vita. E poi…

Rimase in forse un momento. Poi soggiunse, con aria di sincera umiliazione:

– E poi lei sa tante cose ch’io non so. E poi è giovane, e ha da pensare a tante altre cose.

– No, non è questo. Dica che ciascuno non comprende se non quel che ritrova in se stesso.

– Sarà. Ma glie ne voglio dire una: stanotte, per esempio, sa lei che cosa ho sognato? Il nostro gatto rosso che scorrazzava nella sala degl’incunaboli.

Sorrideva, candidamente. In quel punto mi sentii quasi intenerito da quella innocenza pacata e soddisfatta, illuminata, come da un dolce riverbero dell’anima, da due limpidi occhi azzurrini. No, non ponevo, è vero, quell’inconscia virtù in relazione con tante altre della vita, più stimabili, più alte, e non mi pareva di doverne cavare ammaestramento: quella era una forma nulla, una espressione quasi brutale di accontentamento, l’indizio ignaro e pietoso d’una natura inferiore, tranquillamente passiva. Tuttavia quella felicità fortificante, d’un tonico effetto morale, pareva che mi volesse ammonire sulle cose della vita.

O non avevo davanti a me un essere ch’io forse giudicavo troppo frettolosamente? La mia fantasia, disposta ad architettare, ora mi offeriva un più sottile giudizio intorno ad esso: io gli supponevo, adesso, una rinunzia progressiva, una riduzione continuata delle sue pretensioni, delle sue speranze, della sua libertà, e tutto questo mi sembrava mascherato da quel faccione rosso e pletorico, traspirante una giovialità e una contentezza fanciullesche e rischiarato da un sorriso perenne.

Così, talvolta, quando potevo coglierlo in qualche momento in cui mi si mettesse tutto quanto sott’occhi, io facevo scorrere sulla superficie di quest’uomo il mio sguardo investigatore, e tentavo di penetrarla. Sapevo ch’egli era solo, che in casa non aveva che una vecchia serva, che l’abito suo di trovarsi sempre pel primo in ufficio e d’uscirne sempre l’ultimo – urtante metodicità per gli apprezzamenti d’un malato di nervi com’io sono – non s’era mutato una sola volta da quando Stazza era entrato in biblioteca. Costui dunque non aveva avuto gioventù, passioni, disillusioni, scoraggiamenti? Che cosa era nel passato di questo gigante rubicondo che violentava e superava tutte le leggi impulsive alle quali tre quarti dell’umanità va soggetta?

Finii per arrendermi a quella impenetrabilità pacifica e indifferente. Ma un senso di tedio e di stanchezza mi allontanò dal mio compagno. Lo incontravo, ci salutavamo freddamente, ed io gli sfuggivo, accrescendo così, senza forse desiderarlo, il numero delle persone la cui comunione mi diventava, là dentro, ogni giorno più insopportabile.




III


Entrai nella stanza del direttore.

Stazza, impiedi davanti alla costui scrivania, si voltò. Mi venne incontro e mi tese le mani.

– Mille scuse! Ma io non potevo andarmene senza averla salutato. Addio, caro signore… Io me ne vado.

Interrogavo con gli occhi il direttore e gli altri miei compagni, che circondavano Stazza, silenziosi.

– Un fatto deplorevole – disse il direttore, rompendo il silenzio – L’ottimo nostro Stazza è stato collocato a riposo. Ci lascia.

– Come! – esclamai – Così! Di punto in bianco?

Stazza chinò la testa.

Il direttore con la punta del tagliacarte additò un foglio sulla sua tavola.

– M’arriva ora la comunicazione ministeriale. Le solite sorprese. Ma, Dio mio, non avrei mai immaginato!..

Le mani di Stazza mi si protendevano, tremanti. Lasciai cadere in quelle le mie, e le strinsi, due, tre volte. Guardai in faccia il colosso: era turbato, ma si sforzava di parer tranquillo. Soltanto s’era arrossato un poco più agli zigomi. Si passò una mano sulla fronte, si guardò intorno, tornò a voltarsi verso la tavola del direttore, smarritamente.

– Dunque… – gli balbettò – Se lei mi permette… Vado. Spero bene di rivederla, qualche volta…

– Macché! Ma vuole andarsene proprio adesso? Ma v’è tempo. Guardi, faccia come se il decreto non glie l’avessi comunicato ancora…

– No, no! – disse lui – Mi permetta, mi scusi. Voglio essere ossequente…

– Peccato! – esclamò il direttore, come lo vide uscire e scomparire dietro l’uscio – Dopo trent’anni!

Si levò, s’incamminò fino alla porta, si arrestò sulla soglia. Di fuori s’udivano le voci degl’impiegati, la voce di Stazza che si licenziava, confuse.

Il direttore rientrò. Andò al balcone, guardò nella via, senza badarvi.

Eravamo rimasti soli. Egli tornò addietro, s’appressò alla scrivania, vi cercò qualche carta, la lesse e la buttò lì, sulla tavola, con un moto sdegnoso.

– Mi permette? – chiedevo.

– Guardi, guardi! – esclamò – Guardi un po’ con chi mi sostituiscono quel disgraziato. Aspetti un momento… Legga pure.

Mi pose quella carta sotto gli occhi.

– Come! De Laurenzi!

– Già, s’intende. Ha brigato e v’è riescito. Entra in organico e prende il posto di Stazza.

Soggiunse, dopo un momento, rimettendosi a sedere alla sua scrivania:

– S’accomodi pure.




IV


Passò un mese. In questo tempo gli studenti fecero chiasso, al solito, e ruppero vetri e banchi: l’Università fu chiusa e il numero de’ lettori, nella nostra biblioteca, s’accrebbe del doppio. Vi fu un gran da fare e Stazza fu dimenticato. Soltanto qualche volta, in un momento di tregua, il suo nome ricorreva nel vaniloquio degl’impiegati raccolti nella sala della distribuzione intorno all’ultimo bollettino del ministero, ove apparivano – già indicati, con una crocetta, da qualche necrologo de’ nostri compagni – i nomi di coloro che o eran morti o erano stati collocati a riposo. La constatazione de’ decessi e de’ ritiri– un refrigerio per i superstiti – occupava quelle constatazioni e quelle conversazioni fredde e indifferenti; per lo più si discuteva sugli anni di servizio del croce segnato o sulla somma della sua pensione. Ma la psicologia di queste sparizioni – un legame di troppo sottili e pietose induzioni che in altri spiriti potevano forse rampollare dall’esame di casi somiglianti – non veniva certo a turbare l’animo de’ miei compagni. Stazza, dopo tutto, sottobibliotecario a tremila, liquidava, come si dice, quasi dugento lire al mese. Una fortuna per un illetterato, una tabula rasa come lui, che la doveva a quei benedetti tempi borbonici ne’ quali era così facile di entrare, senza le qualità di cultura che vi occorrono, in un instituto scientifico come di mettersi a tavola in una pubblica taverna.

– Vuol vedere Stazza? – mi fece un di que’ giorni l’usciere addetto alla spolveratura della mia camera.

Con uno strofinaccio tra le mani s’era avvicinato al balcone chiuso e guardava nella via, attraverso a’ vetri.

– Venga, venga! Eccolo lì…

Mi levai e corsi al balcone.

– Lo vede?

– Dov’è?

– Non lo vede? Lì, seduto fuori al caffè di rimpetto. Lo vede? A quel tavolo a sinistra della porta. Eccolo che leva gli occhi. Guarda quassù, guarda i nostri balconi.

– Difatti.

Il colosso era lì, seduto a un tavolinetto tondo sul quale stavano il vassoio e la chicchera del caffè. Posava le mani sulle ginocchia e di volta in volta alzava gli occhi e li faceva trascorrere sulla facciata della biblioteca, lentamente.

– Così fa ogni giorno, da un mese – disse l’usciere.

E ripassò il panno sui vetri perchè vedessi meglio.

– Arriva al caffè sulle nove ore, si mette a sedere lì fuori, e vi resta fino a mezzodì. Poi torna dopo pranzo e si rimette allo stesso tavolino e non se ne leva che alle quindici.

– E tu come fai a saper tutto questo?

– Me l’ha detto il caffettiere. Il signor Stazza gli dà una lira al giorno, per l’incomodo.

Mi rimisi a sedere, pensoso. L’usciere, che non si partiva dal balcone, rideva e continuava a guardare rimpetto. E come l’alito suo tepido appannava la vetrata di volta in volta, egli tornava a soffregarla con lo straccio.

– Insomma, – seguitava – la biblioteca non se la vuol proprio scordare. Se n’è dovuto andare e nemmeno la lascia in pace. Adesso ci fa all’amore da lontano, tutti i giorni.

Non risposi. Ordinavo macchinalmente un mucchio di schede ed aspettavo, con una certa nervosità, che l’inserviente smettesse e se ne andasse.

– Ecco che s’addormenta… Venga a vedere. S’è addormentato…

Tornai a levarmi e mi accostai daccapo alla vetrata. Stazza aveva allungato un braccio sul tavolino e reclinata la testa sul braccio. Il cappello di paglia gli era scivolato di su le ginocchia a terra. Un lustrascarpe, che aveva posta la sua cassetta all’ombra, a pochi passi, glie lo raccoglieva e lo posava sul tavolino, accanto al vassoio.

L’ora meridiana avanzava: il sole batteva su’ muri. Uscì, a un tratto, dalla bottega il garzone del caffettiere e si mise a girar la manovella per fare abbassare la tenda, che scese, lenta. Sul deserto e largo marciapiedi, su’ tavoli, su Stazza si diffuse un’ombra uguale, per buon tratto.

Mancava qualche diecina di minuti alla chiusura della biblioteca. E svogliatamente, aspettando che trascorressero, ricominciavo a ordinare le mie schede. L’inserviente se n’era andato: le vaste sale, fino a poco prima turbate dal molesto vocio de’ distributori, s’acchetavano, adesso, in una pace profonda.

Improvvisamente – mi dimenticavo nella mia bisogna – il grande orologio della stanza de’ manoscritti suonò le quattro. Vibrò quel suono nel silenzio, con un tintinno allegro, come di cristalli percossi. Era l’ora. M’avviai alla porta.

Ma, sulla soglia, uscendo, m’arrestai, sorpreso. Lì sulla soglia, sul ballatoio, su per le scale vedevo agitarsi una folla attonita, mormorante, che quasi m’impediva il passo.

Risaliva le scale, di furia, Pandolfelli, un distributore.

Una voce gli chiese, dal balaustro del ballatoio:

– Di’, è vero? È vero?..

Pandolfelli rispose, alto:

– Sì, è morto.

Mi vidi di faccia l’inserviente, in quel punto. Apriva le braccia, smarrito.

– Stazza! – mi fece.

E battè palma a palma, convulso:

– Lì davanti al caffè, poco prima. Un colpo. Si ricorda? Quando pareva addormentato.





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