Книга - Una Bellissima Storia Sbagliata

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Una Bellissima Storia Sbagliata
Margherita Guglielmino


Il romanzo d'esordio di una scrittrice di talento.

Luisa è una donna che all'apparenza ha tutto: bella, intelligente, di buona famiglia, aiuto primario a soli 35 anni, cos'altro chiedere alla vita? Eppure lei si sente terribilmente sbagliata! Durante una missione umanitaria in Sierra Leone, conosce Giorgio un affascinante medico, per cui perde la testa, dimenticando che lui è un uomo sposato con una famosa creatrice di gioielli non vedente. Una notte i guerriglieri arrivano in un villaggio vicino l'ospedale da campo, distruggendo e incendiando tutto ciò che incontrano. Tra il fuoco e la desolazione si fa strada una donna con una bambina in braccio, salvare quella piccola vita che la madre morente le affida, darà inizio ad una catena di eventi che la cambierà per sempre, trascinandola verso un viaggio introspettivo per domare i suoi demoni, tra un passato familiare nebuloso e dal quale non vuole più scappare, ed un futuro incerto, divisa tra un amore impossibile e la paura di aprirsi ad una nuova relazione.



Translator: Sara Elisa Frison









Margherita Guglielmino

Una bellissima storia sbagliata


romanzo

Pubblicato da Tektime




© 2021 - Margherita Guglielmino


Una bellissima storia sbagliata

Fotocomposizione: relegosplende communication



https://relegosplendecommunication.tumblr.com/

In copertina Giulia Maffei fotografata da Lorenzo Mascali



Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore



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Ringraziamenti



Ho sempre sognato di scrivere un libro e nel mio immaginario i ringraziamenti non stavano alla fine del libro, ma all’inizio, proprio per enfatizzare l’importanza che queste persone hanno avuto nella mia vita e nella genesi di questo romanzo.

I miei ringraziamenti saranno rigorosamente in ordine temporale e non d’importanza.

Grazie a mio nonno Mimmo, integerrimo uomo del sud, che faceva il bidello nel Circolo didattico che frequentavo e che il sabato mattina, quando le lezioni erano sospese mi portava con lui a scuola. Mentre lavorava io mi rintanavo nella biblioteca della scuola, annusando l’odore della carta stampata su quei classici senza tempo. Da lì credo sia nata la mia passione per la lettura.

Grazie alla professoressa Patrizia Grasso, che ha creduto in quella ragazzina tredicenne, infondendole la fiducia necessaria per emergere in un contesto difficile e grazie per non aver mai dimenticato quella ragazzina che ha ricercato quasi 30 anni dopo su Facebook.

Grazie a mia cugina Valentina, che nel momento più difficile della mia vita, mi ha aperto le porte di casa sua, proprio dalla finestra del suo terrazzo, la notte da “sira e 3” mentre vedevo i fuochi e le luci della mia Catania in festa, ho avuto l’ispirazione per scrivere.

La scrittura si è impossessata di me!

Grazie alla mia amica Anna, la mia prima lettrice, che mi ha esortato a finire ciò che avevo iniziato tre anni prima e che avevo lasciato in sospeso.






Grazie al mio amico Duilio, che oltre al punto di vista fiscale mi ha dato anche quello di un lettore maschile.

Grazie a Cristina che leggendo un mio post su Facebook, mi scrive Marghe, scrivi troppo bene, dovresti scrivere un libro! E quando le ho risposto che in realtà avevo iniziato a produrre qualcosa, mi dice bene allora poi ti presento mio cugino editore… e così ha fatto!

Grazie ad A. che nel difficile momento della quarantena mi ha fatto tornare la voglia di scrivere. Grazie a mia zia Elivia, in primis per essere il mio DNA segreto e poi per avermi suggerito il titolo.

Grazie a Tizy e Bea, che hanno letto il romanzo work in progress, incitandomi tutte le sere a finirlo, perché avevano voglia di vedere come andava a finire.

Grazie a mia figlia Valeria, la prima metà del mio cuore, suggeritrice di libri e film e perfetta correttrice di bozze!

Grazie a mia figlia Giulia, l’altra metà del mio cuore, nonché bellissima ragazza copertina.

Ed infine grazie al mio editore Antonello La Piana, che ha realizzato il mio sogno!

PS: grazie a tutti voi che mi state leggendo o mi avete letta e che mi permettete di continuare a sognare.

Margherita




1


Fuori dalla finestra iniziava ad albeggiare, un misto di nebbia copriva il nascere rossastro del sole, in quella tiepida mattinata autunnale. Bologna era così, un misto di contraddizioni, cultura e divertimento, sacro e profano, la dotta e la grassa, forse fu proprio per le sue due anime che Luisa la scelse come sua nuova dimora, perché anche lei in fondo era un po’ così, in lei conviveva un dualismo interiore fin dall’infanzia.

Lei, figlia modello di un professore universitario, appartenente alla ricca borghesia romana, sempre composta e perfetta covava dentro un fuoco che veniva puntualmente spento dalla paura di perdere tutto, soprattutto il gelido amore di sua madre; solo una volta aveva permesso a quel fuoco di bruciarle nelle vene ed era andato tutto in fumo. Così decise di lasciarsi tutto alle spalle e trasferirsi ovunque purché lontano da Giorgio e da quella insana passione.

La proposta di Anna la sua amica di sempre cadde a pennello, anni prima aveva vinto un concorso all’ospedale Maggiore di Bologna ed insieme a Fabrizio, il grande amore della sua vita, si era trasferita nella città delle torri degli asinelli. Ora si era liberato un posto in chirurgia pediatrica ed era stato facile per la stimata dottoressa Luisa Martinelli ottenerlo.

Mentre toglieva la mascherina verde e sorseggiava un caffè guardava le luci pulsanti della città lasciare il posto ai colori dell’alba.

Un'altra notte era passata, un altro bimbo era salvo e a lei andava bene così. La sua vita era tutta li, nel tragitto che faceva tutti i giorni in bicicletta da casa all’ospedale e viceversa. Quel monolocale vicino Piazza Grande era il suo rifugio. Piccolo ma efficiente, un angolo cottura con il lavello sotto il davanzale della finestra, che si affacciava su una stradina piena di negozi, panetterie, ristoranti, bar, pub, sembrava che a Bologna non si facesse altro che mangiare. Un letto a baldacchino bianco con copriletto lilla pieno di glicini al centro del loft e montagne di libri di ogni genere che dal parquet arrivavano al soffitto.

C'erano più libri che vestiti, d'altronde a differenza di Anna che era patita di moda, sfilate e accessori a Luisa bastavano i suoi immancabili jeans a zampa e i suoi maglioni extralarge unica tinta… e poi Theo, il suo inseparabile gatto nero, vero padrone di casa. Assorta nei suoi pensieri, Luisa non vide il riflesso di Mariarosa, la caposala del reparto di pediatria, che lentamente le si era avvicinata e quando le poggiò una mano sulla spalla, sobbalzò. Poi riconobbe la sua inconfondibile voce con quell’accento emiliano romagnolo che le ricordava le atmosfere felliniane:

- Dottoressa... nessuno sa meglio di lei...

- Che il caffè a digiuno… provoca buchi allo stomaco -completarono la frase insieme come sempre.

- Hai ragione Mariarosa, ma dopo una notte del genere con un intervento di sostituzione della valvola mitrale ad un bimbo così piccolo, un caffè forte ci vuole proprio!

- Mangi almeno qualcosa. Le prendo una brioches alla macchinetta?

- No grazie cara, mi cambio e vado a casa, nel tragitto passo da Nanni e faccio colazione, promesso.

Le sorrise e andò nello spogliatoio.

Era stata accolta bene a Bologna, era lì da quasi due anni ed era rispettata da tutti, certo ancora ogni tanto quando passava nel corridoio qualcuno bisbigliava e storceva il naso sulla fulminea carriera della dottoressa Martinelli.

A 35 anni aiuto del famoso prof Branciforte, chirurgo di fama mondiale al Bambin Gesù di Roma ed ora vice primario al maggiore di Bologna, certo il suo cognome pesava come un macigno per lei così schiva e riservata, ma era abituata a conviverci da sempre.

Prima era stata per anni la figlia del Rettore universitario e ora anche la nipote del segretario del partito di maggioranza al governo, nonché Presidente del consiglio. Ma a Luisa quel genere di politica fatta di bustarelle e raccomandazioni non era mai interessata.

Fu proprio per questo che, tre anni prima, quando suo padre aveva spinto per quel posto al Bambin Gesù, lei era fuggita in Africa con medici senza frontiere.

Già l’Africa, la Sierra Leone, il fuoco, la guerra civile, Giorgio e Asmait. Scacciò velocemente i ricordi che bruciavano come un marchio infuocato sulla pelle, si cambiò rapidamente e uscì dall’ospedale.

Erano più o meno le 7 del mattino, la sua bici era legata con catena e lucchetto ad un palo della luce, accanto alle fuoriserie dei colleghi, un vero paradosso, lei la raccomandata nipote del Premier girava per la città in bicicletta e i suoi colleghi comunisti poggiavano il culo su Porsche e BMW. E già, non esistevano più i comunisti di una volta pensava, come non esisteva più distinzione tra destra e sinistra. Con questo pensiero fece un timido sorriso e iniziò a pedalare. L’aria era tersa, ottobre le era sempre piaciuto, non era ancora pieno autunno e i viali alberati colmi di foglie arancioni le davano tanta pace, quell’arancio le ricordava i tramonti africani, dietro quelle dune l’orizzonte scompariva a perdita d'occhio e il silenzio l’avvolgeva.

Arrivò davanti all’ edicola di Ivan.

- Buongiorno bella dottoressa il suo malloppo culturale è già pronto.

- Grazie Ivan sei unico. C'è tutto?

- Ma certo… il resto del Carlino, la Repubblica e il Corriere. Poi un giorno mi dirà come fa a leggere tutto nel poco tempo che ha.

- Sai Ivan col tempo ho imparato che la verità è soggettiva e spesso le verità dei giornali sono bugie camuffate bene, per questo voglio avere un quadro chiaro, leggendo più fonti posso farmi un'idea obiettiva.

- Sarà come dice lei, ma con tutto il rispetto siamo stanchi di leggere in prima pagine le avventure galanti di suo zio, distolgono il popolo dai problemi veri del nostro paese.

Luisa sorrise a mezza bocca, Ivan aveva ragione, non approvava nulla di ciò che aveva fatto lo zio negli ultimi anni, né il programma politico né il comportamento privato, non l’avrebbe mai votato come figura politica ma in privato era il suo zione, quello che le faceva fare il cavalluccio da piccola e che le aveva insegnato le costellazioni. Il potere l’aveva logorato e corrotto, aveva perso il contatto con la realtà, si sentiva onnipotente, lui che essendo il fratello minore era cresciuto all’ombra del fratello maggiore il rettore Giovanni Martinelli, sposato con Bianca De Nardo, figlia di un armatore.

Che fortuna nascere in quella famiglia, Luisa se l’era sentito ripetere centinaia di volte, ma solo lei sapeva che la famiglia del “mulino bianco” non esisteva e che quel guscio era vuoto. Una volta da adolescente aveva letto "va dove ti porta il cuore" di Susanna Tamaro ed era rimasta molto colpita dal sillogismo che la scrittrice aveva fatto tra la protagonista e una pecorella del presepe che ogni anno le suore allestivano nell’atrio del collegio.

Ogni alunna era una pecorella e a seconda delle sue azioni poteva avvicinarsi alla grotta della natività o al precipizio. Luisa, esattamente come la protagonista della Tamaro, qualsiasi cosa facesse si sentiva sempre in bilico ad un passo dal baratro. Aveva amato così tanto quel romanzo e quel brano, che l’aveva letto, sottolineato e riletto centinaia di volte e anche ora che era adulta e la sua pecorella si era sfracellata al suolo, quel libro era intoccabile sul suo comodino.

La sua infanzia non era stata affatto felice come poteva apparire. Chiusa in una gabbia dorata, unica compagnia i suoi amati libri.

Suo padre sempre preso dalle apparenze e timorato di Dio, a detta di tutti era un esimio docente ma un padre assente che pretendeva sempre il massimo da Luisa.

Sua madre invece anaffettiva e ipocondriaca era sempre malata o credeva di esserlo, forse inconsciamente Luisa era diventata medico per curare le malattie immaginarie della madre, da piccola glielo ripeteva sempre: "mammina da grande ti curerò io".

Sua madre era così invisibile, evanescente perfino al tatto, mai un bacio, una carezza, una confidenza madre figlia. Per fortuna in quella grande casa sulla via Appia c'era Francesca, la sua tata, che le aveva insegnato tutto ciò che Luisa sapeva sui sentimenti, forse non molto visto il disastro amoroso che era stata la sua vita fino ad allora, ma almeno le aveva dato il calore di un bacio e di una buona cioccolata calda nelle lunghe sere invernali.

Presi i quotidiani si diresse da Nanni, entrò e subito fu investita da quell’odore di burro e vaniglia che solo i cornetti caldi (perché per lei romana quelli erano cornetti, ma al nord diventano tutte brioches ) sanno fare.

Prese il solito caffè schiumato in vetro con cannella e un cornetto vuoto. Era stanca, le notti cominciavano a pesare e nella sua posizione poteva anche rifiutarsi di farle ma in Sierra Leone aveva capito il vero significato del giuramento di Ippocrate. Pagò e uscì dalla caffetteria, ormai il brusio della città la circondava, iniziò a pedalare, arrivò in via D’Azeglio, sotto il balcone della casa che era stata di Lucio Dalla e subito nella sua mente le note di "Anna e Marco" si fecero strada, svoltò a destra, altri settecento metri e finalmente sarebbe giunta a casa.

2

Lasciò la bici davanti al portone e salì le scale a chiocciola che la conducevano nel suo piccolo regno. Aprì la porta e respirò quell’odore di agrumi sprigionato dalle tante candele sparse per casa. Theo si era impossessato del suo letto e sarebbe stata dura farlo scendere ma aveva già deciso di farsi una doccia perciò quel pigrone di un gatto poteva anche dormire un altro po’.

Si tolse i vestiti e li gettò nel cesto dei panni sporchi, rimase con gli slip e il reggiseno e mentre li sfilava passò davanti lo specchio del bagno, aveva ancora un bel fisico nonostante i suoi 37 anni, pensò a quanti uomini sarebbero stati ancora attratti da lei e all’astinenza sessuale a cui si era sottoposta. Erano ormai più di due anni che un uomo non la sfiorava e la possedeva, l’ ultima volta era stata quella maledetta notte dell’incidente di Asmait, la notte che aveva cambiato la sua vita. Con quel pensiero aprì l’acqua entrò nella doccia e mentre era avvolta in una nuvola di vapore iniziò a ricordare.

- Perché no, papà? Ma ti rendi conto del perché non voglio quell’incarico? Sono stanca di essere la figlia di..., voglio costruire qualcosa con le mie forze perciò mi dispiace tanto ma hai scomodato gli amici tuoi per nulla, io al Bambin Gesù non ci vado, anzi sappi che la settimana prossima parto per la Sierra Leone con medici senza frontiere, il tempo di ottenere i visti e di fare le vaccinazioni necessarie.

- Sei la solita ingrata anticonformista, quando la smetterai di sputare nel piatto in cui mangi? Farai venire un infarto a tua madre uno di questi giorni.

- Tanto la mamma ipocondriaca com’è un infarto se lo farà venire da sola, mi sembra un personaggio di Verdone.

Comunque io ho già deciso di partire, ma tranquillo papà non ti farò sfigurare davanti a nessuno, ho chiesto un aspettativa temporanea in ospedale. E ora scusami ma devo iniziare a preparare i bagagli.

È così una settimana dopo sorvolava le dune dei deserti con i suoi pantaloni color cachi e quella camicia di lino che facevano tanto "la mia Africa".

Arrivata in Sierra Leone, durante il tragitto che la portò dall’aeroporto al campo di medici senza frontiere, Luisa capì subito la drammaticità di quei luoghi.

Vedeva capanne bruciate, bambini mal nutriti sommersi da mosche e carcasse di animali ad ogni angolo. Per un attimo si chiese se era ciò che voleva ma soprattutto se era in grado di farcela, di essere utile a quella gente che non aveva nulla o se il suo era stato solo un moto di ribellione di una ragazza viziata e capricciosa. Respirò a fondo e si fece coraggio. La jeep si fermò e fu invitata a scendere. Fu accolta velocemente dai colleghi che le indicarono le procedure, il suo accampamento e la invitarono a seguirli per conoscere colui che era stato l’artefice di quella spedizione in un paese così martoriato dalla guerra civile, il dottor Giorgio Di Pietro.

Luisa lo conosceva di fama, aveva dato un esame universitario basandosi su un testo scritto da quel medico e ricordò lo stupore che ebbe appena aprì la copertina del libro. Si aspettava uno di quei luminari settantenni, invece in quella foto era ritratto un quarantenne molto affascinante ed abbronzato sulla sua barca a vela.

Biondo con dei profondi occhi azzurri, Luisa pensò... cavolo bello e intelligente un connubio molto raro.

Ed ora a qualche anno di distanza da quel pensiero eccolo davanti a lei, il dottor Di Pietro.

Sempre abbronzato, qualche ruga in più e qualche capello biondo in meno era ancora molto affascinante nei suoi 47 anni, di cui gli ultimi tre vissuti in zone martoriate del nostro pianeta.

Aveva lasciato una cattedra universitaria e un posto di rilievo al Gaslini di Genova per buttarsi in prima linea dove c'era veramente bisogno di tutto: di braccia, gambe, di cuore, anima e cervello perché lì ogni gesto ogni mossa doveva essere pensata, era una questione di vita o di morte.

- Accomodati, disse sorridendo.

Un sorriso aperto da togliere il fiato e mentre lui le sorrideva lei stranamente si sentiva sprofondare sotto la bianca camicia.

- Prima regola del campo, qui ci si dà tutti del tu, quindi accomodati Luisa, io sono Giorgio - le disse porgendole la mano che afferrò con una stretta vigorosa - e spiegami che diavolo ci fai all’inferno.

Luisa non si aspettava quell’accoglienza e quelle parole, e ora cosa avrebbe detto? Sono qui perché paparino mi ha raccomandato per un posto di prestigio ma io sono una ricca e viziata ragazza che gioca a fare l’attivista dei centri sociali? No certamente non poteva dire quello, respirò e prese fiato.

- Non so perché sono qui, ma ci sono e sono pronta a mettermi a disposizione per tutto ciò di cui avete bisogno, dimmi cosa devo fare e lo farò.

Giorgio sorrise e lei si sentì improvvisamente nuda sotto quello sguardo e iniziò a sudare freddo.

- Bene, sia ben chiaro che qui non si gioca quindi se sei qui per trovare te stessa, per scappare da una delusione amorosa o per fare un dispetto alla tua famiglia, hai sbagliato luogo, gira i tacchi e tornatene in Italia.

Se, invece sei qui perché hai ben presente che questa non è una fiction di quart’ordine e questa gente muore ogni giorno per una guerra che arricchisce sempre più i signori del potere, mentre noi non abbiamo a volte neanche i mezzi per curarli e vuoi realmente renderti utile, sbracciati le maniche, va nella tenda che ti è stata assegnata e tra 10 minuti inizia il turno, nella tendopoli che utilizziamo come ospedale da campo. Ma attenta non ti darò tregua e respiro, chi viene qui deve sapere ciò che l’aspetta e i miei occhi vigileranno sempre su di te. Buona giornata Luisa, si alzò e uscì.

Lei impietrita restò al centro della stanza, sentiva la rabbia montarle dentro.

Come si permetteva quell’arrogante, chi si credeva di essere, lei era lì per… per… fuggire da suo padre e dagli schemi prefissati dove l’aveva rinchiusa.

Touchè quell’arrogante aveva visto giusto. Stava a lei dimostrargli che si sbagliava e fargli cambiare idea con il lavoro sul campo.

I tre mesi successivi furono terribili, turni massacranti, infezioni, zanzare, caldo ustionante ma soprattutto miseria e morte. Samir fu il primo bambino a spirargli tra le braccia, era arrivato al campo in condizioni disperate, una mina antiuomo gli aveva fatto saltare gli arti inferiori, Luisa aveva fatto di tutto per salvarlo, aveva tentato l’impossibile, non l’aveva lasciato un attimo, per tre giorni e tre notti l’aveva vegliato ai piedi del letto e quando lui se n'era andato, Luisa aveva sentito per la prima volta il sapore salato delle sue lacrime in quella calda serata africana, era stato un attimo poi lo scirocco le avrebbe asciugate rapidamente. Mentre era lì davanti quel corpicino inerte sentì una voce.

-Vieni Luisa, non possiamo più fare nulla per lui e ammalarti non ti aiuterà e soprattutto non aiuterà tutti gli altri Samir che hanno bisogno di un bravo medico come te. Era la prima volta che le rivolgeva parole simili.

L’aveva chiamata bravo medico, lei si girò e tentò un mezzo sorriso. Grazie fu l’unica cosa che riuscì a dirgli.

- Devo andare in città a fare scorta di medicine, ti va di venire con me?

- Si, grazie!

- Se l'avessi scordato mi chiamo Giorgio e non grazie e allargò sul viso un sorriso che lo illuminò.

Anche Luisa sorrise e dopo cinque minuti erano insieme sulla jeep diretti a Freetown.

Durante il tragitto parlarono un po’delle loro vite o meglio Giorgio parlava, era lui l’avventuriero, aveva girato il mondo, conosciuto paesi e culture diverse ed era sposato da 6 anni con Sara, una creatrice di gioielli che viveva a Milano, non avevano figli perché lei dopo un intervento non poteva più averne.

Parlava di lei con molto entusiasmo, era una donna forte e determinata che neanche la retinite pigmentosa, che l’aveva costretta ad una quasi totale cecità fin dall’ età di 25 anni, aveva saputo domare. Si erano conosciuti sette anni prima alla fiera orafa di Vicenza, c'era una raccolta fondi di beneficenza in favore di medici senza frontiere e Giorgio era lì per ringraziare i partecipanti e ritirare le laute donazioni.

Lei era lì seduta in prima fila, bellissima, indossava un vestito porpora ed oro ed aveva i lunghi capelli castani raccolti con uno chignon, ai lobi delle orecchie due splendide foglie filigranate, una dea. Si accorse della sua cecità solo quando per consegnargli l’assegno, in qualità di presidentessa dell’Assoorafi, fu accompagnata sul palco dal suo assistente. Giorgio raccontava con dovizia di particolari gli incontri successivi con Sara e il fulmineo matrimonio su una spiaggia nelle cinque terre, che a Luisa sembrò quasi di conoscerla.

- Scusa ma se non vede come fa a creare gioielli?

- Li immagina nella sua mente e poi col tatto sviluppato che ha, riesce a ricrearli sul suo tavolo da lavoro dove ogni cosa è sistemata da lei personalmente, attrezzi, pietre, colori ecc.

Il suono prolungato del cellulare la destò dai suoi ricordi. Chiuse l’acqua, indossò in fretta e furia l’accappatoio e andò a rispondere.

- Pronto?

- Salve dottoressa, scusi il disturbo, so che ha fatto il turno di notte e forse stava riposando.

Era Ester la sua segretaria e sapeva benissimo che lei non stava riposando.

- Dimmi Ester c'è qualche problema?

- No dottoressa, solo che ha appena telefonato il primario, c'è un congresso a Milano nel fine settimana organizzato da una casa farmaceutica e vuole che lei rappresenti il nostro ospedale.

- assolutamente no! Io non mi muovo da Bologna, non ho nessunissima intenzione di partecipare a questi convegni che non sono altro che uno spreco di tempo e denaro, ho altro a cui pensare.

- Mi perdoni dottoressa ma il dottor Veronelli è stato irremovibile e mi ha già fatto prenotare il volo a suo nome, anche perché a questo convegno ci sarà come relatore anche il presidente di medici senza frontiere, il dottor Di Pietro e visto che lei lo conosce personalmente ed ha lavorato con lui fianco a fianco sia a Roma che in Africa, ha pensato che nessuno meglio di lei potesse rappresentare il nostro ospedale.

Il dottor Di Pietro, il dottor Di Pietro… il cuore di Luisa si era fermato a quelle parole.

- Ok Ester parlerò io con Veronelli. Io a Milano non ci vado.

E chiuse la comunicazione.




3


Quattro giorni dopo era seduta su un boeing 747 dell’Alitalia con destinazione Milano. Era stato tutto inutile, le sue proteste, le sue rimostranze, il primario non aveva voluto sentire ragioni e lei era stata costretta a partire.

La sera prima preparando la valigia, aveva continui flashback dei giorni trascorsi in Africa con Giorgio.

Dopo quella prima chiacchierata nel tragitto per Freetown, ne erano seguite tante altre, soprattutto la sera davanti a improvvisati falò sorseggiando un buon caffè italiano che Gennaro, infermiere napoletano preparava rigorosamente con la moka che si era portato da Pozzuoli.

Fu così che Luisa entrò sempre più in confidenza con Giorgio, lui le parlava di Sara, della voglia di avere un bambino e dell’impossibilità di farlo.

Dei suoi sogni legati a medici senza frontiere e dei suoi innumerevoli progetti. Lei dal canto suo aveva pochi argomenti su cui disquisire, rispetto a Giorgio sentiva la pochezza della sua vita. Il liceo, l’università, i master a Boston, il dottorato, tutto sempre sotto la vigile ala di suo padre. Anche a livello sentimentale non se la passava meglio. Aveva avuto un solo ragazzo al liceo e ai tempi dell’università, quando insieme ad Anna si era trasferita in un appartamentino a Campo dei fiori, aveva avuto qualche breve storia con dei colleghi, nulla di più. Anna invece stava con Fabrizio dai tempi del liceo, avevano un sogno comune, laurearsi lei in medicina e lui in architettura, sposarsi ed avere dei figli, uno dei due Luca era il figlioccio di Luisa. Anna aveva realizzato il suo sogno, Giorgio lottava per realizzare il proprio ma lei cosa stava facendo per realizzare i suoi? Ma soprattutto lei aveva dei sogni?

Chiuse la valigia, si sedette sul letto e continuò a ricordare…

Era una delle sere più calde da quando era giunta in Africa, aveva il turno di notte per cui quel pomeriggio era libera, mentre girovagava si trovò a passare davanti l’alloggio di Giorgio, sentiva la sua voce al di là della tenda e una strana attrazione la calamitava verso di lui.

Non capiva perché ma quell’uomo la affascinava, ma non solo per la bellezza o il carisma che erano qualità oggettive, in lui c'era una luce speciale. Sentì il rumore dell’acqua sgorgare dalla doccia da campo e si trovò a pensare al suo corpo nudo.

Arrossendo, scacciò quel pensiero.

Cosa le stava succedendo? Perché era lì e perché desiderava essere al di là della tenda? Lui era un uomo sposato quindi inaccessibile, lui amava sua moglie si percepiva da come ne parlava, e lei era solo una collega.

E poi c'erano regole e dogmi sacri, che le avevano sempre inculcato da bambina e un uomo sposato fa parte di questa categoria, però lei non aveva mai fatto una cazzata in vita sua e lui sarebbe stata la cazzata più bella della sua vita. Mentre pensava tutto ciò non sentì più il rumore dell’acqua ma la voce di Giorgio alterata che probabilmente parlava al telefono.

Era chiaramente un litigio, ma con chi parlava così concitato? Poi sentì il nome di Sara e anziché allontanarsi com'era giusto che facesse per rispettare la privacy della coppia , si accostò ancora di più, qualcosa la spingeva ad origliare quella telefonata.

- Cazzo Sara, sono un dottore, saprò meglio di te i rischi che corri ad effettuare un altro intervento nelle tue condizioni! Una gravidanza è improbabile e ammesso che l’inseminazione abbia successo un’anestesia comprometterebbe ancora di più la tua vista.

- Che vuol dire che non ti interessa? Interessa me, lo capisci?

- Ti ho detto che non ho nessuna intenzione di rifare il protocollo e ora scusami ma sono di servizio.

E riattaccò. A quel punto Luisa si allontanò con mille pensieri nella testa.

Ma quella notte, che apparentemente sembrava come le altre era destinata a cambiare la vita di tante persone. Era da poco passata l’una, tutto sembrava tranquillo, quando all’improvviso si sprigionò l‘inferno.

Una camionetta piena di guerriglieri armati fino ai denti aveva fatto irruzione nel villaggio vicino il campo, facendo fuoco sulla popolazione disarmata, le urla di donne e bambini si udivano fino alla tendopoli, donne stuprate, bambini seviziati, uomini uccisi e infine il fuoco.

Luisa guardava impietrita il fumo che si stagliava verso il cielo, gente che scappava a destra e sinistra e si dirigeva verso di loro tendendo le mani in un disperato gesto di aiuto. Tra loro gli occhi di una donna colpirono Luisa, non aveva mai visto due occhi neri tanto profondi e scintillanti, la donna provata dalla corsa perdeva sangue, era chiaramente ferita, teneva in braccio una bambina anche lei sanguinante.

- Ti prego dottore salva lei, pietà dottore prego te, Asmait, mia piccola Asmait, padre suo italiano come te dottore, lui uomo buono, ingegnere morto qui per aiutare noi con pozzo di acqua, salva mia bambina dottore.

E mentre faceva scivolare quel corpicino privo di sensi tra le braccia di Luisa, cadde a terra e spirò.

Giorgio capì subito la gravità della situazione, la bimba aveva un foro all’altezza dell’arteria femorale, era molto grave, dovevano intervenire subito. Mandò quasi tutto il personale in aiuto dei tanti feriti che intasavano il campo, chiamò con sé solo Luisa e Claudio l’anestesista ed insieme trasportarono la bimba nella sala operatoria dell’ospedale da campo e iniziarono l’intervento.

Due ore dopo la ferita era suturata ma l’infezione era in corso e la febbre non si abbassava. Il giorno dopo l’accampamento sembrava un campo di battaglia, i feriti e i morti non si contavano, Luisa e Giorgio non riuscivano a staccarsi dal lettino di Asmait, nella borsetta che aveva attaccata ai vestiti c'era il suo documento di nascita, aveva quattro anni ed un cognome italiano.

Luisa soffriva ancora per la perdita di Samir, non voleva perdere anche lei.

- Giorgio, qui non abbiamo le attrezzature e i mezzi per salvarla, dobbiamo portarla in Italia.

- Ma che dici Luisa, non possiamo non ci saranno voli per il nostro paese per almeno una settimana dopo ciò che è successo stanotte. Ti rendi conto che un intero villaggio è stato raso al suolo? E poi non esistono malati di serie A e altri di serie B.

- Ma lei è una cittadina italiana, ha il doppio passaporto e non ha più nessuno, è sola al mondo e poi un modo per portarla in Italia c'è, lascia fare a me.

Il giorno dopo un aereo di Stato messo a disposizione dal Premier Francesco Martinelli riportava in Italia, Luisa, Giorgio e la piccola Asmait.

4

Trascorse una settimana da quella tragica notte, Luisa ospitò Giorgio nella villa dei suoi genitori, ma entrambi passavano quasi tutto il loro tempo al capezzale della bambina, che nonostante le cure non sembrava migliorare.

Nel frattempo Giorgio allertò i servizi sociali per trovare qualche parente del padre che era un ingegnere edile di Vercelli, ma non trovarono nessuno, a quel punto se la bambina fosse sopravvissuta sarebbe stata dichiarata adottabile. Fu il dodicesimo giorno dall’attentato che avvenne il miracolo.

Luisa si era assopita tenendo la mano della bambina, mentre Giorgio era seduto accanto a lei, all’improvviso la bimba aprì gli occhi e disse qualcosa, prima in una lingua incomprensibile e poi in italiano: acqua, mama acqua.

La gioia di Giorgio e Luisa fu tale che si abbracciarono, in quell’ abbraccio c'era tutto il loro mondo, la fatica, il dolore, la disperazione, la speranza e finalmente la gioia.

Chiamarono i colleghi, che dopo i primi accertamenti dichiararono la bimba fuori pericolo.

Dopo tutti quei giorni angoscianti potevano andare a casa a riposare, Asmait era salva e in buone mani. Fecero il tragitto dall’ospedale alla villa in silenzio, erano esausti.

La lancia Y di Luisa costeggiava il lungo Tevere, la calura di luglio si faceva sentire e anche se loro erano abituati al caldo africano, l’umidità della notte romana era asfissiante. Luisa era un bagno di sudore, la tensione degli ultimi giorni si era allentata ma si sentiva sfinita. Giorgio l'aveva intuito e prima di rientrare le propose di bere una birra per festeggiare il risveglio di Asmait.

Si fermarono allo Zodiaco a quell’ora tarda c'erano solo delle coppiette appartate al Pincio. Bevvero qualche birra, erano mesi che non toccavano l’alcool. In Africa era un lusso; mentre si avvicinavano alla macchina, complice le birre i due si sfiorarono fino a fare aderire perfettamente i loro corpi e iniziarono a baciarsi, uno, due , tre, mille baci di passione, passione che avevano represso per troppo tempo e che ora complice il sollievo per le condizioni della bambina, potevano far sprigionare.

Salirono in macchina e fecero l’ amore lì come due ragazzini alle prime armi. Non ancora sazi l’uno dell’altra tornarono alla villa, i genitori di Luisa erano in vacanza nella casa al mare al Circeo dove si trasferivano nei mesi estivi, e soli consumarono quella passione per tutta la notte.

Si svegliarono avvinghiati nel letto di Luisa, lei istintivamente si ritrasse e si coprì col lenzuolo, lui fissava il soffitto.

- Scusami, non dovevamo, tu sei un uomo sposato, sarà stato l’effetto delle birre o il sollievo per la bambina, perdonami non accadrà mai più.

- Invece si che accadrà ancora, perché lo vuoi tu e lo voglio io e non c'entra né l’alcool nè la bambina, io ti ho desiderata dal primo momento che ti ho vista al campo con quei ridicoli pantaloni color cachi, non mi era mai successo prima e ho cercato di controllare i miei istinti parlandoti di mia moglie proprio per mettere un muro tra di noi, ma non ci sono riuscito, quindi scusami tu. Se non vuoi che accada più lo capirei, basta tu lo dica e sparirò dalla tua vita…

Per tutta risposta Luisa lo tirò a se e fecero nuovamente l’amore.

Furono giorni di una gioia quasi infantile, Asmait stava recuperando le forze, conosceva abbastanza bene l’italiano e lei e Luisa avevano stretto un vero legame affettivo.

La psicologa dell’ospedale la stava aiutando a superare il trauma per la perdita della madre e l’assistente sociale sbrigava le pratiche per ospitare la bimba in una casa famiglia dopo che l’ avessero dimessa dall’ospedale, in attesa che una famiglia si facesse avanti per adottarla. La sua storia con Giorgio andava a gonfie vele, quell’uomo era meraviglioso, aveva tutto ciò che una donna potesse desiderare, bello, intelligente, simpatico, avevano le stesse passioni, amavano gli stessi libri, gli stessi film e spesso completavano le frasi l’uno dell’altra. Era tutto troppo perfetto per poter durare... ed infatti la realtà la destò da quel sogno ad occhi aperti troppo presto. Quella mattina Giorgio si era alzato presto e Luisa svegliandosi al posto suo aveva trovato Theo. Scese di fretta le scale e lo trovò a torso nudo in cucina ad armeggiare col tostapane, la barba incolta che gli dava un tocco di selvaggio e trasandato la faceva impazzire, gli si avvicinò da dietro e gli cinse il torace.

- Buongiorno amore! Ti sei alzato all’alba…

- Ciao piccola…

Luisa adorava quel nomignolo con cui Giorgio soleva chiamarla.

Appena si girò, capì subito che qualcosa non andava.

-Ehi cos'è quel muso? È successo qualcosa ad Asmait? Disse allarmata.

- No tranquilla, ho chiamato stamattina in reparto ed è tutto a posto.

- E allora cos’hai?

- Luisa siediti, devo parlarti.

- Siamo qui da quasi un mese e non sono ancora andato a trovare Sara a Milano. Le ho detto di Asmait, che non mi sentivo di lasciarla, perché a parte te e me non ha nessuno e lei ha deciso di venire a trovarmi a Roma e conoscere la bambina. Sa che le assistenti sociali le stanno cercando una famiglia e mi ha proposto di presentare la domanda di affidamento. Tu sai che lei non può avere figli e ha pensato che sia stato il destino a mettere Asmait sulla nostra strada.

Luisa ascoltava impietrita.

Non conosceva Sara, stranamente non era gelosa di lei, forse perché non l’aveva mai incontrata, lei era solo un ologramma tra lei e Giorgio, ma ora si sarebbe materializzata lì nella sua città, nel suo ospedale, nella sua vita e non solo si sarebbe ripresa l’uomo che amava, ma le avrebbe portato via la sua bambina. Si perché Asmait era la sua bambina, la madre morente l’aveva affidata tra le sue braccia. E ora Luisa avrebbe perso tutto. Lei come donna single non avrebbe potuto chiedere l’affidamento della bimba, trovava assurdo che nel XXI secolo in un paese civile ed industrializzato come l’ Italia mancassero ancora i diritti civili fondamentali per le donne single, i padri separati o gli omosessuali. Non riuscì a dire nulla, alzò lo sguardo sui suoi occhi di ghiaccio e alla fine con un filo di voce gli disse:

- Forse è meglio che porti via da qui la tua roba. Si girò e andò via.

Giorgio mise tutti i suoi effetti personali nel grande borsone beige che aveva portato con sé dalla Sierra Leone, le camicie, i pantaloni, il dopobarba, il rasoio, tutto meticolosamente riposto con cura, in primis perché lui era un uomo ordinato e poi forse per restare cinque minuti in più in quella casa, la casa di Luisa e nella sua vita.




5


Seduta accanto a quella valigia ingoiava le sue stesse lacrime, forse era colpa di quei ricordi che in fondo era lei stessa a ricercare in una sorta di masochismo.

Si avviò verso l’angolo cottura, preparò una tisana e mentre la beveva si sentiva terribilmente sola. Nel pomeriggio era passata Anna con i bambini a prendere Theo, avrebbe trascorso con la famiglia Marchese i pochi giorni in cui Luisa sarebbe stata a Milano.

Ad Anna era bastato uno sguardo per capire lo stato d’animo della sua amica. Sapeva che non era il viaggio nel capoluogo lombardo a turbarla ma l’idea di rivedere Giorgio. Anna era stata testimone e complice di quella folle storia durata lo spazio di un fotogramma.

Appoggiò la tazza della tisana nel lavello e si diresse verso il frigo. Lì in bella mostra attaccata con quattro calamite c'era una copia della lettera che aveva lasciato sulla scrivania di Giorgio il giorno che era sparita dalla sua vita. La prese in mano e iniziò a leggerla.

Ricordava ogni sillaba, ogni frase le era costata cara, ma era l’unica soluzione per liberarsi di lui e permettergli di tornare a sorridere con la sua famiglia. Tanto lei era abituata al niente, Giorgio era stato una parentesi arcobaleno nel buio della sua esistenza.

Caro Giorgio,

il nostro incontro è stato come l’incontro tra il fuoco e la paglia, in un attimo è andato tutto in fumo, lasciando dietro di sé macerie e dolore.

È finita! Addio Luisa

Ogni riga l’aveva scritta di getto col cuore, amava troppo Giorgio per poterlo guardare negli occhi e rinunciare a lui e così quella mattina prima di salire su quell’aereo per Bologna, gli aveva lasciato quelle poche righe, una metafora della loro storia, era un gioco che facevano spesso tra di loro… e una copia della sua lettera di trasferimento con scritto "non cercarmi mai più".

Il tempo dei ricordi era ormai finito, il giorno dopo aveva il volo alle sette quindi doveva andare a dormire.

Ripose la lettera sotto la calamita di Stoccolma e con il suo camicione slabbrato, andò a letto accucciata al cuscino. Sarà stato l’ effetto della tisana ma quella mattina si svegliò particolarmente riposata.

Il volo era stato la solita routine e all’aeroporto una macchina della Stillfarma era venuta a prenderla. Salì col suo bagaglio a mano che conteneva il necessario per i pochi giorni che sarebbe dovuta rimanere a Milano, era atterrata da poco più di un’ora e già voleva tornare nel suo rifugio bolognese. L’auto si fermò davanti l’hotel che costeggiava piazza Duomo con la Madonnina che si stagliava in alto a proteggere la città meneghina.

Prese possesso della sua stanza, fece una doccia veloce ed era pronta per la prima giornata di fuoco.

Secondo il programma avrebbe incontrato Giorgio solo il giorno dopo. Aveva ancora 24 ore per prepararsi psicologicamente. Entrò in ascensore e mentre le porte si stavano per chiudere sentì una voce pregarla di aspettare, istintivamente premette il tasto con le due frecce e le porte si riaprirono. Apparvero due occhi verdi sotto una montatura alla Harry Potter e un sorriso smagliante.

- Grazie dottoressa Martinelli.

- Scusi ci conosciamo?

- Non ancora, ma io conosco lei, l’ho voluta a questo congresso con tutte le mie forze.

- Sono Andrea Conti, il direttore marketing della casa farmaceutica che ha organizzato il congresso.

L’ascensore era arrivato al piano terra.

- Ho letto tanto su di lei e sui suoi interventi innovativi eseguiti in neonatologia e morivo dalla voglia di conoscerla e di complimentarmi con lei.

- Quindi se sono qui è colpa sua?

- Prego? Colpa?

- Pensavo le facesse piacere relazionare il suo lavoro e collaborare con noi per la commercializzazione di un nuovo farmaco che possa essere di prevenzione durante la gravidanza per evitare il sorgere di alcune patologie sul feto…

- Vede signor Conti…

- Speravo potessimo darci del tu, io sono Andrea.

- Ok Andrea, dicevo che a dispetto del mio cognome io sono una persona schiva e riservata. Preferisco fare il mio lavoro in sala operatoria, queste piazzate pubbliche le lascio fare al mio staff.

- Mi dispiace molto se ti ho fatto fare un viaggio controvoglia, speravo fossi felice di tornare a collaborare col dottor Di Pietro, ma forse non è così quindi per farmi perdonare oggi posso invitarti a pranzo?

- Veramente pensavo di rientrare in hotel dopo il briefing di stamattina.

- Si ma anche in albergo dovrai pur mangiare?

Avrebbe voluto obiettare qualcosa ma il suo sorriso la spiazzò.

- Va bene.

- Grande! Allora appena finiamo ti porto a mangiare il miglior risotto alla milanese che tu abbia mai gustato.

- Mi porti da Bice?

- No da Betty

- Betty? È un nuovo locale?

- No è mia madre, milanese doc da generazioni e ti stupirà.

- Cosa? Mi porti a pranzo da tua madre?

- Certo! Tranquilla non le dirò che sei la mia fidanzata ma un medico geniale e lei capirà che stiamo insieme.

Dopo quella frase fece una fragorosa risata che fu contagiosa per Luisa. Era da tanto che non rideva, di solito abbozzava mezzo sorriso ma ridere era una cosa che non faceva da mesi e ora con quello sconosciuto un po’ bizzarro lo stava facendo.

Arrivati a destinazione si presentarono alla riunione che durò il tempo di tracciare le linee guida dei prossimi incontri.

Usciti dalla palazzina non c'era l’auto che li aveva condotti lì, Luisa si guardò intorno e Andrea l’afferrò per una mano e la condusse alla sua 500 rossa fiammante e insieme si diressero nella zona dei navigli dove viveva la sciura Elisabetta, Betty per tutti.

Una bella donna in carne, sulla sessantina con lo stesso sorriso aperto del figlio. Luisa non capiva come in poche ore dalla telefonata di Andrea, che l’avvertiva che avrebbe portato un’ospite a pranzo, la Betty avesse potuto preparare tutte quelle pietanze.

Com'era diversa da sua madre.

Non l’ aveva mai vista cucinare e non l’aveva mai vista ridere. A pensarci bene non l’aveva mai vista fuori da quella stanza nella quale aveva chiuso il suo mondo e dal quale aveva lasciato tutti fuori, lei compresa. Sua madre era mancata sette mesi prima. Alla fine l’infarto se l’era fatto venire. Luisa era scesa a Roma per tre giorni, alla stregua dei parenti lontani, aveva assistito al funerale, alla sepoltura e alla lettura del testamento.

Non aveva versato una lacrima, lei sua madre sentiva di averla persa tanti anni prima. Oltre ai gioielli, ai terreni, agli appartamenti e alla villa a Sabaudia, Luisa aveva ereditato il diario di sua madre e in quelle pagine aveva finalmente conosciuto Bianca De Nardo, aveva capito il perché di tanto dolore nella sua anima, e il perché di tanta freddezza nei suoi confronti.

Prima di sposare suo padre aveva avuto una relazione con l’autista della sua famiglia ed era rimasta incinta.

I suoi avevano fatto sparire il ragazzo e l’avevano costretta ad abortire. Bianca non aveva mai perdonato se stessa per non aver protetto quella creatura innocente che portava in grembo e aveva paura ad avvicinarsi a Luisa perché pensava di non essere una buona madre. Suo padre l’aveva conosciuta in una clinica in Svizzera, dove la famiglia l’aveva mandata per curare la sua fragile mente.

Giovanni Martinelli era lì per visitare un lontano parente e aveva perso la testa per quella donnina minuta e fragile, l’aveva fatta uscire dalla clinica, le aveva chiesto di sposarlo pur sapendo che lei non lo amava e l’aveva protetta fino all’ultimo. Solo dopo aver letto il diario di sua madre, Luisa pianse la perdita di quella madre che non aveva mai conosciuto. E pianse per suo padre, per quell’uomo che aveva scelto l’infelicità; come sarebbe stata diversa la sua vita se avesse scelto di vivere a colori e di non affogare nel grigiore di quell’amore impossibile.

Dopo pranzo Andrea si offrì di farle da Cicerone portandola a visitare la sua Milano, non quella turistica ma quella vera e genuina, lontana dagli happy hour e vicina alla gente.

La fioraia all’angolo dei navigli, il madonnaro nella piazza, l’ambulante di palloncini, la giostra per bambini.

E poi la mescolanza di razze e dialetti. Milano era questa e anche se la Lega la ostentava come simbolo della razza padana, quanti padani altri non erano che figli di immigrati siciliani, calabresi o campani. E oggi era il frutto di una globalizzazione maggiore.

Adesso i figli dei siciliani, dei calabresi o dei campani erano lombardi di seconda generazione e magari sposavano indiane, filippine o nigeriane.

C'erano cinesi con l’accento milanese e milanesi con l’accento pugliese. Milano era l’ ombelico del mondo. Lo stesso Andrea aveva sangue siciliano, suo padre era un tipografo palermitano immigrato con le valigie di cartone alla fine degli anni ‘70.

Luisa era affascinata dalla dialettica di Andrea.

Lo conosceva da poche ore ma sentiva di potersi fidare di lui e così quando gli chiese se per lei era un problema rivedere il dottor Di Pietro, se avessero avuto screzi sul lavoro, come un fiume in piena raccontò la sua storia.

6

Fin dall’inizio, dal loro primo incontro in Sierra Leone, alla mattina in cui uscì da casa sua col borsone beige e all’incontro con Sara.

Erano passati due giorni da quando Giorgio le aveva parlato quella mattina in cucina, due lunghissimi giorni in cui aveva fatto di tutto per evitare di incontrarlo.

Quella sera andò in ospedale a trovare Asmait ma non la trovò. Un sussulto al cuore, pensò al peggio, poi capì…

La bambina era stata dimessa e Giorgio e Sara l’avevano portata con loro in hotel.

Chiamò l’assistente sociale con cui ormai era entrata in confidenza e si fece dire il nome dell’hotel. Arrivò in cinque minuti, non aveva mai guidato così. Alla reception disse di voler parlare col dottor Di Pietro e pochi istanti dopo Giorgio era lì davanti a lei. Parlarono cercando di evitare di guardarsi negli occhi, lei voleva vedere Asmait, era l’unica persona con cui aveva legato dopo il risveglio e anche l’assistente sociale era d'accordo.

Giorgio non fece alcuna obiezione, anzi disse che anche secondo lui era un bene per tutti. Così salirono insieme al quarto piano suite 401.

Dietro la porta chiusa Luisa riconobbe il suono della voce di Asmait. Appena Giorgio aprì la porta e la bimba la vide, nonostante la vistosa fasciatura alla gamba le corse incontro. Si strinsero forte per un po’, poi Luisa reclinò la testa e la vide.

Era bellissima, indossava una tuta intera giallo ocra con un cinturone di cuoio uguale agli stivaletti di pelle, aveva vistosi gioielli con pietre viola, un viso angelico e i capelli raccolti nell’immancabile chignon. Era poggiata all’enorme specchio dove Luisa poteva vedere se stessa riflessa.

Com'era diversa da Sara, il giorno e la notte.

Accanto a quella donna bella e sofisticata, la sua immagine si perdeva.

I suoi capelli biondo cenere perennemente legati con una coda di cavallo, il maglioncino di filet azzurro, fatto a mano da Francesca per il suo compleanno, i jeans blu scoloriti e le scarpe da ginnastica. Il viso acqua e sapone senza un filo di trucco, con l’immancabile burro cacao alla pesca e gli occhiali quadrati sul naso, nessun gioiello, nessun vezzo, come poteva competere con lei, come poteva anche solo immaginare che Giorgio scegliesse lei.

Sara, con un passo sicuro che la spiazzò le si avvicinò, le sorrise e mise una mano davanti a lei dicendole che era felice di conoscerla.

Luisa la strinse confusa, dentro di sé si sentiva un verme, ma continuava a stringere la mano di quella donna per la quale non sapeva bene che sentimenti provare.

Mentre dava da mangiare ai piccioni, raccontava a quello sconosciuto pezzi della sua vita, seduta su quella panchina del parco, Luisa evitava di guardarlo negli occhi.

Era confusa non riusciva a smettere di raccontare, eppure non era da lei, non sapeva nulla di lui, fino a quella mattina Andrea Conti non sapeva neanche chi fosse.

Tuttavia parlare con quello sconosciuto la faceva sentire bene, le dava pace, come quando dopo la confessione il prete dava l’assoluzione, non temeva nessun giudizio, su quella panchina non era la dottoressa Martinelli, non era la figlia del rettore, non era la nipote del premier, era semplicemente Luisa, una donna terribilmente fragile che era cresciuta senza amore e che si era innamorata dell’uomo sbagliato.

Dopo quei due giorni sarebbe tornata a Bologna, avrebbe ripreso la sua vita, ma il suo bagaglio sarebbe stato più leggero perché l’aveva condiviso con un’altra persona. Non era come parlare con Anna o Fabrizio, loro le volevano bene, la giustificavano, la compativano, ma lei aveva bisogno di sentirsi dire in faccia che era una stronza, che aveva fatto una cosa bruttissima, non solo era stata l’amante di un uomo sposato ma per giunta era diventata amica della moglie, ne aveva carpito la fiducia e l’aveva pugnalata alle spalle. Era stanca di commiserarsi, di piangersi addosso per aver perso Giorgio, lei non era la vittima ma era il carnefice di sé stessa e degli altri.

Raccontò di come Sara le chiese di aiutarla con Asmait, di come lei e Giorgio non tornarono più in Sierra Leone ma si trovarono a lavorare fianco a fianco al Bambin Gesù, di come ogni sera uscendo dall’ospedale li andava a trovare nell’ appartamento che Sara aveva trovato per la sua nuova famiglia, di come Asmait sembrasse felice con lei e di come ne fosse terribilmente gelosa.

Di come una sera seduti sul divano mentre Asmait dormiva rannicchiata accanto a sé, Giorgio approfittando della cecità della moglie iniziò ad accarezzarla, di come lei non seppe resistere e di come da quel giorno i due tornarono ad essere amanti.

Ogni scusa era buona per fare il turno in ospedale insieme, ogni scusa era buona per intrecciarsi le mani sotto il tavolo o baciarsi all’improvviso con la scusa di prendere il vino in cantina. Era uno strano equilibrio, un cerchio che si incastrava a pennello: Luisa aiutava Sara con Asmait, Sara era completamente presa dalla bambina e Luisa poteva al tempo stesso stare con Giorgio e con la piccolina. A volte quando rientrava nella grande casa sull’Appia dopo aver fatto l’amore con Giorgio si sentiva terribilmente in colpa ed aveva paura che quella felicità sporca e rubata avrebbe avuto un prezzo e che il destino prima o poi sarebbe passato a battere cassa.

Erano trascorsi alcuni mesi da quando tutto era iniziato, Natale era alle porte, il primo Natale di Asmait in Italia.

La bimba era emozionata, nel suo paese non esisteva nulla di tutto ciò, non c'era la neve, l’ albero, il presepe, i regali e l’atmosfera di festa.

Quella mattina il telefono suonò di buon’ora.

Era Sara, aveva accompagnato Asmait alla scuola dell’infanzia internazionale e voleva andare in giro per Roma a fare shopping, voleva regalare ad Asmait il suo primo albero di Natale e voleva che Luisa, la sua amica Luisa le facesse compagnia.

Sara era un’iniezione di energia, nonostante la sua disabilità era una forza della natura.

Dopo i numerosi acquisti, chiese a Luisa di andare in un bar a bere un buon caffè. Erano a Trinità dei Monti e la scalinata di piazza di Spagna era bella da togliere il fiato ma Sara non poteva vederla, questo pensiero balenò per un attimo nella mente di Luisa, l’amica come se l’avesse intuito, le disse:

- Ehi tutto ok? Ti sei zittita all’ improvviso.

- Si, certo - rispose Luisa mascherando un certo imbarazzo.

- Meglio così, perché davanti a questa meraviglia non si può essere giù. Sai da piccola venivo spesso a Roma con i miei genitori e a 25 anni ho sfilato con i miei gioielli proprio su questa scalinata. Ho un immagine nitida di ognuno dei 136 gradini - disse sorridendo.

E poi continuò:

- Luisa devo parlarti. Ormai sono qui da 5 mesi, amo Roma ma la mia vita è a Milano, lì ho il mio lavoro, le mie abitudini, il mio ambiente e tu capisci bene che nella mia condizione non è una cosa da poco.

A casa mia so muovermi con una certa destrezza, qui è difficile, devo costantemente contare i passi che dividono il bagno dalla cucina o dalla stanza di Asmait.

Quindi ho parlato con le assistenti sociali, le pratiche di adozione sono a buon punto e Asmait ormai ci considera la sua famiglia, perciò ho deciso che è giusto tornare a casa.

Stasera ne parlerò con Giorgio, volevo prima che lo sapessi tu perché so quanto ami quella bambina, ma ovviamente casa nostra per te sarà sempre aperta.

Quelle parole furono un pugno nello stomaco per Luisa. Avrebbe nuovamente perso Giorgio e la sua piccolina con quei ricci ribelli e quegli occhioni neri e profondi come l’ebano, gli stessi occhi di sua madre, che Luisa aveva scolpiti nei suoi ricordi, ma non voleva che quel dolore prendesse il sopravvento quindi disse semplicemente:

- Quando partirete?

- Pensavo dopo Natale. Era già previsto che trascorressimo il capodanno su dai miei, ma dopo le vacanze resteremo a Milano.

Il giorno dopo nello sguardo di Giorgio c'era tutto il dispiacere per quella nuova piega che avrebbe preso la sua storia con Luisa.

Si capirono all’istante , le parole erano superflue tra di loro, loro parlavano con gli occhi, con le mani e col cuore.

La vigilia di Natale arrivò, erano tutti nel salone della grande casa di Luisa, ospiti del professore Martinelli.

Asmait sgranava i grandi occhi neri, era uno stupore continuo, l’albero, i regali, Babbo Natale e le luci colorate che con un pulsante cambiavano intensità. Fu una cena formale come quelle che di solito davano in quella casa ma Asmait aveva portato un pizzico di allegria e perfino donna Bianca sembrava più umana del solito, tanto da lasciare la sua stanza e cenare con loro nel grande salone vittoriano.

Pochi minuti dopo la mezzanotte squillò il cerca persone di Luisa. Era l’ospedale, c'era un’emergenza e lei quella notte era reperibile.

Lo stupido rituale dei botti di Capodanno adesso aveva contagiato anche il Natale, un bimbo aveva perso una mano con un petardo inesploso. Luisa si scusò, salì in camera sua, tolse il tubino nero che si era concessa per quella sera di gala, forse inconsciamente voleva competere con Sara, ma nonostante il vestito, i tacchi ed il trucco, Sara era irraggiungibile, aveva un abito rosso Valentino strepitoso, gioielli di perla e stranamente i lunghi capelli sciolti. Asmait ogni tanto le prendeva una ciocca e ci giocava, lei sorrideva mostrando tutto l’amore del mondo per quella creatura.

Appena fu pronta scese le scale di corsa per dirigersi in ospedale, a quel punto Giorgio decise di andare con lei per darle una mano.

Il prof Martinelli lo rassicurò, dicendo che avrebbe fatto riaccompagnare la signora e la piccola a casa.

Sara non era tranquilla, pregò il marito di non andare se non fosse proprio necessario, avevano la casa piena di scatoloni con tutti gli oggetti di Asmait pronti per il 27 per essere mandati a Milano e non era certa di riuscire a muoversi in perfetta autonomia, anche perché gli operai del trasloco erano andati a casa quando lei era dal parrucchiere con la piccola, poi Giorgio era passato a prenderle ed erano andate a villa Martinelli.

Giorgio la tranquillizzò, avrebbe accompagnato Luisa e se il suo intervento non fosse stato necessario sarebbe tornato subito a casa. Ma non fu così. Appena Luisa uscì dal plesso operatorio Giorgio l’aspettava nel suo ufficio dove i due medici consumavano i loro incontri clandestini. Luisa gli disse di andare a casa dalla sua famiglia ma lui non volle sentire ragione, erano gli ultimi giorni che avrebbero potuto trascorrere insieme e anziché andare la prese in braccio, la poggiò sulla sua scrivania e iniziò a toglierle il camice di dosso.

Travolti dalla loro passione, vivevano quegli attimi in un mondo tutto loro, nella loro bolla di sapone, dove ogni respiro, ogni gemito era amplificato e nulla poteva distrarli dal darsi l’uno all’altra, neanche la vibrazione insistente del cellulare di Giorgio che era finito a terra dentro le tasche dei suoi pantaloni. Perché mentre loro erano una fusione di corpo e anima a pochi passi la tragedia si stava consumando.

L’autista dei Martinelli aveva riaccompagnato Sara e la piccola a casa.

Salirono in ascensore ed entrarono nell'appartamento al settimo piano in un percorso che Sara conosceva bene, la bimba la guidava attraverso il salone dove c'erano gli scatoloni e un grande albero pieno di luci intermittenti.

Andarono a dormire abbracciate e Sara prese subito sonno. Asmait era troppo eccitata dal suo primo Natale italiano, così sgattaiolò dal letto e si diresse nel salone.

Restò li qualche oretta a giocare con il telecomando delle luci, poi vide che in cima la stella che faceva da puntale all’albero era storta ma era troppo in alto per lei che nonostante fosse abbastanza sviluppata per i suoi quattro anni era pur sempre un soldo di cacio.

Allora avvicinò gli scatoloni all’abete e poggiò quelli più leggeri uno sull’ altro creando una rudimentale scala e vi si arrampicò ma le sue gambette erano ancora troppo fragili per reggere su quell’appoggio di fortuna così precipitò trascinandosi dietro l’albero che le cadde addosso imprigionandola tra gli aghi di pino e gli scatoloni.

Impaurita e impossibilitata a muoversi iniziò ad urlare mamma mamma.

Sara svegliata dalle urla si precipitò a tentoni nell’altra stanza dove improvvisamente la presa alla quale era attaccata la spina delle luci, che era fuoriuscita dal pozzetto per l’impatto della caduta, iniziò a fare scintille e a prendere fuoco.

Furono attimi di terrore, Asmait immobilizzata urlava impaurita dal fuoco, un’altra volta il fuoco come un dejavu della sua vita in Sierra Leone, quella sera in cui i guerriglieri avevano dato fuoco alla sua capanna e le avevano ucciso la mamma e Sara che cadeva ad ogni passo perché ostacolata dagli scatoloni non riusciva a raggiungere la piccola.

Iniziarono ad urlare finché persero entrambe i sensi.





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Il romanzo d'esordio di una scrittrice di talento.

Luisa è una donna che all'apparenza ha tutto: bella, intelligente, di buona famiglia, aiuto primario a soli 35 anni, cos'altro chiedere alla vita? Eppure lei si sente terribilmente sbagliata! Durante una missione umanitaria in Sierra Leone, conosce Giorgio un affascinante medico, per cui perde la testa, dimenticando che lui è un uomo sposato con una famosa creatrice di gioielli non vedente. Una notte i guerriglieri arrivano in un villaggio vicino l'ospedale da campo, distruggendo e incendiando tutto ciò che incontrano. Tra il fuoco e la desolazione si fa strada una donna con una bambina in braccio, salvare quella piccola vita che la madre morente le affida, darà inizio ad una catena di eventi che la cambierà per sempre, trascinandola verso un viaggio introspettivo per domare i suoi demoni, tra un passato familiare nebuloso e dal quale non vuole più scappare, ed un futuro incerto, divisa tra un amore impossibile e la paura di aprirsi ad una nuova relazione.

Translator: Sara Elisa Frison

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