Книга - La Casa Perfetta

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La Casa Perfetta
Blake Pierce


In LA CASA PERFETTA (Libro #3), la profiler criminale Jessie Hunt, 29 anni, appena uscita dall’Accademia dell’FBI, torna a trovarsi braccata dal suo padre assassino, incastrata in un pericoloso gioco del gatto e del topo. Nel frattempo deve correre per fermare un killer in un nuovo caso che la porta nel cuore della periferia, e sull’orlo della propria salute mentale. Jessie si rende conto che la chiave per la sua sopravvivenza si trova nel decifrare il suo passato, un passato che non avrebbe mai voluto dover affrontare di nuovo.Un emozionante thriller psicologico dal ritmo incalzante, con personaggi indimenticabili e una suspense da far battere il cuore, LA CASA PERFETTA è il libro #3 di un’ammaliante nuova serie che ti costringerà a leggere fino a notte fonda.Il libro #4 della serie di Jessie Hunt sarà presto disponibile.







l a c a s a p e r f e t t a



(un emozionante thriller psicologico di jessie hunt—libro 3)



b l a k e p i e r c e



edizione italiana

a cura di



Annalisa Lovat


Blake Pierce



Blake Pierce è l’autore della serie mistery campione d’incassi RILEY PAIGE, che include quindici libri (e altri in arrivo). Blake Pierce è anche l’autore della serie mistery MACKENZIE WHITE che comprende nove libri (e altri in arrivo); della serie mistery AVERY BLACK che comprende sei libri; della serie mistery KERI LOCKE che comprende cinque libri; della serie mistery GLI INIZI DI RILEY PAIGE che comprende tre libri (e altri in arrivo); della serie mistery KATE WISE che comprende quattro libri (e altri in arrivo); dell’emozionante mistery psicologico CHLOE FINE che comprende tre libri (e altri in arrivo); e dell’emozionante serie thriller psicologico JESSE HUNT che comprende tre libri (e altri in arrivo).



Un avido lettore e da sempre amante dei generi mistery e thriller, Blake ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.blakepierceauthor.com (http://www.blakepierceauthor.com) per saperne di più e restare informati.



Copyright © 2018 by Blake Pierce. All rights reserved. Except as permitted under the U.S. Copyright Act of 1976, no part of this publication may be reproduced, distributed or transmitted in any form or by any means, or stored in a database or retrieval system, without the prior permission of the author. This ebook is licensed for your personal enjoyment only. This ebook may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this book with another person, please purchase an additional copy for each recipient. If you’re reading this book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then please return it and purchase your own copy. Thank you for respecting the hard work of this author. This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental. Jacket image Copyright hurricanehank, used under license from Shutterstock.com.


LIBRI DI BLAKE PIERCE



UN’EMOZIONANTE SERIE PSICOLOGICA DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)



L’EMOZIONANTE SERIE PSICOLOGICA DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

SUN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)



I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)



LA SERIE DEGLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)



LA SERIE DI GIALLI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITÀ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)



LA SERIE DI GIALLI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)



LA SERIE DI GIALLI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER CORRERE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)



SERIE DI GIALLI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)


INDICE



CAPITOLO UNO (#ua03c9e97-4765-54ce-95ea-fd1048c3666a)

CAPITOLO DUE (#u5117df67-49e8-5c34-ba46-0ce7abc38056)

CAPITOLO TRE (#u38b785bd-ea72-5726-82a0-11cd8ea9ce9b)

CAPITOLO QUATTRO (#u9b170c85-151a-590d-87c6-de62841c3e70)

CAPITOLO CINQUE (#ucc9bfab8-54eb-5ed7-b5cc-e18e845d5683)

CAPITOLO SEI (#u12d6a1d8-e993-5cb3-8574-7f77a324e53b)

CAPITOLO SETTE (#u12f742f1-3aac-55ac-83ee-97f2e909149e)

CAPITOLO OTTO (#ua59397f2-71a4-5e55-9a7b-bbc2eee8dbee)

CAPITOLO NOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DIECI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO UNDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DODICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TREDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUATTORDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUINDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIASSETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIANNOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIDUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTITRÉ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTICINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTINOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTADUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTATRÉ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTAQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTACINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTASEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTASETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTANOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTUNO (#litres_trial_promo)




CAPITOLO UNO


Eliza Longworth sorseggiava il suo caffè mentre guardava verso l’Oceano Pacifico, meravigliata da quel panorama a soli due passi dalla sua camera da letto. A volte doveva ricordare a se stessa quanto fosse fortunata.

Penelope Wooten, sua amica da venticinque anni, stava seduta nella chaise lounge accanto a lei sul patio che si affacciava sul Los Liones Canyon. Era una giornata di marzo relativamente serena e in lontananza si poteva vedere l’Isola di Santa Catalina. Se guardava alla sua sinistra, Eliza poteva scorgere le torri luccicanti del centro di Santa Monica.

Era metà mattina ed era lunedì. I bambini erano stati spediti all’asilo e a scuola e l’ora di punta del traffico era finita. L’unica cosa che le due amiche di lunga data avevano in programma fino all’ora di pranzo era passarsela nella villa a tre piani di Eliza che si trovava sul versante di una collina nel Pacific Palisades. Se non si fosse sentita così in estasi in quel momento, avrebbe addirittura potuto iniziare a provare un certo senso di colpa. Ma quando la sola idea le si intrufolò in testa, fu ben attenta a cacciarla via.

Avrai un sacco di tempo per stressarti più tardi. Concediti questo momento.

“Vuoi ancora un po’ di caffè?” chiese Penny. “Ho comunque bisogno di una pausa pipì.”

“No, grazie. Per adesso sono a posto,” disse Eliza, prima di aggiungere con sorriso malizioso: “Comunque sai che puoi chiamarla ‘pausa bagno’, dato che ci sono solo adulti nei paraggi, vero?”

Penny le rispose con una linguaccia mentre si alzava dalla sedia, allungando le sue gambe chilometriche, un po’ come una giraffa che si rimette in piedi dopo un pisolino. I suoi lunghi e floridi capelli biondi, molto più alla moda rispetto a quelli castano chiaro di Eliza, che li teneva tagliati sulle spalle, erano raccolti in una pratica ma elegante coda di cavallo. Aveva ancora l’aspetto da modella di passarelle, occupazione che aveva ricoperto per buona parte degli anni post-adolescenziali, prima di lasciare tutto a vantaggio di una vita che per sua stessa ammissione era sicuramente non tanto eccitante, ma di certo meno frenetica.

Entrò in casa, lasciando Eliza da sola con i suoi pensieri. Quasi subito, nonostante i suoi migliori sforzi, la sua mente tornò alla conversazione che avevano condotto solo pochi minuti prima. La lasciò scorrere in loop nella sua testa, senza riuscire a fermarla.

“Gray sembra così distante ultimamente,” aveva detto Eliza. “La nostra priorità numero uno era sempre stata quella di cenare insieme i bambini, ma da quando è diventato socio senior, ha cominciato ad avere tutte queste cene aziendali.”

“Sono sicura che sarà frustrato almeno quanto te,” l’aveva rassicurata Penny. “Non appena le cose si saranno sistemate, vedrai che tornerete alla vostra vecchia routine.”

“Posso gestire il fatto che sia meno presente. Questo lo capisco. Gli hanno dato più responsabilità nel successo dell’azienda adesso. La cosa che mi lascia interdetta è che sembra non soffrire il minimo senso di perdita. Non si è mai mostrato dispiaciuto di dover mancare. Non sono neanche certa che se ne renda conto.”

“Sono sicura che se ne rende conto benissimo,” aveva detto Penny. “Probabilmente si sente in colpa. E riconoscere quello che si sta perdendo non farebbe che peggiorare le cose. Scommetto che sta cercando di non farlo vedere. A volte anche io faccio così.”

“Cosa, esattamente?” chiese Eliza.

“Fingere che qualcosa di non particolarmente ammirevole che sto facendo nella mia vita non sia un grosso problema, perché ammetterne l’importanza mi farebbe stare molto peggio.”

“Cosa fai di così brutto?” chiese Eliza con tono di scherno.

“Proprio la scorsa settimana ho mangiato mezzo tubo di Pringles in un colpo solo, tanto per dirne una. E poi ho sgridato i bambini perché volevano il gelato come merenda del pomeriggio. Ecco.”

“Hai ragione. Sei proprio una persona orribile.”

Penny tirò fuori la lingua prima di rispondere. Penny era campionessa di linguacce.

“Quello che intendo dire è che magari non è così inconsapevole come sembra essere. Hai pensato al counseling?”

“Sai che non credo a quelle scemenze. E poi perché dovrei vedere un terapeuta quando ho te? Tra la terapia Penny e lo yoga, direi che sono emotivamente sistemata. A proposito, sempre d’accordo per domani mattina al nostro posto?”

“Assolutamente sì.”

A ripensarci adesso, messi da parte tutti gli scherzi e le battute, magari il counseling matrimoniale non era poi una così brutta idea. Eliza sapeva che Penny e Colton ci andavano a settimane alterne, e sembravano esserne rinforzati. Se ci fosse andata, almeno avrebbe saputo che la sua migliore amica non avrebbe girato il dito nella piaga.

Era dagli anni della scuola elementare che si supportavano a vicenda. Ricordava ancora quella volta in cui Kelton Prew le aveva tirato i codini e Penny gli aveva dato un calcio negli stinchi. Era successo il primo giorno di terza elementare. Da allora erano state amiche per la pelle.

Si erano aiutate vicendevolmente in innumerevoli battaglie. Eliza aveva aiutato Penny quando l’amica aveva avuto il suo problema con la bulimia durante la scuola superiore. Al primo anno di college era stata Penny a convincerla che non era stato un appuntamento andato male, ma che Ray Houson l’aveva violentata.

Penny l’aveva accompagnata al commissariato del campus e si era presentata in tribunale per offrirle sostegno morale quando lei aveva testimoniato. E quando l’allenatore di tennis voleva levarla dalla squadra e toglierle la sua borsa di studio perché mesi dopo si stava ancora riprendendo dal fatto, Penny era andata da lui e l’aveva minacciato di aiutare l’amica a fare causa a quel bastardo. Eliza era rimasta in squadra e aveva vinto il titolo di giocatrice dell’anno nella categoria juniores.

Quando Eliza aveva avuto un aborto dopo aver cercato per diciotto mesi di restare incinta, Penny era venuta da lei ogni giorno fino a che non era stata finalmente capace di trascinarsi fuori dal letto. E quando il figlio più grande di Penny, Colt Jr., era stato dichiarato autistico, era stata Eliza a fare settimane di ricerche trovando alla fine la scuola che l’avrebbe aiutato nel suo percorso.

Avevano attraversato insieme così tante battaglie, che amavano definirsi le Guerriere del Westside, anche se i loro rispettivi mariti trovavano quel nome davvero ridicolo. Quindi, se Penny le stava consigliando di prendere in considerazione il counseling matrimoniale, forse Eliza avrebbe dovuto farlo.

Un piccolo trillo del telefono di Penny la riscosse dai suoi pensieri. Allungò la mano per prenderlo, intenzionata a dire all’amica che qualcuno la stava cercando. Ma quando vide il nome del mittente del messaggio, non poté non aprirlo. Era Gary Longworth, il marito di Eliza. Il messaggio diceva:

Non vedo l’ora di vederti stasera. Mi manca il tuo profumo. 3 gg senza di te sono troppi. Ho detto a Lizzie che ho una cena con un socio. Stessa ora e stesso posto, giusto?

Eliza mise giù il telefono. Si sentiva la testa improvvisamente leggera e il corpo debole. La tazza le scivolò di mano e cadde a terra andando in mille pezzi.

Penny venne fuori di corsa.

“Tutto a posto?” le chiese. “Ho sentito rompersi qualcosa.”

Guardò la tazza a terra con il caffè versato attorno e poi sollevò gli occhi sul volto sbigottito di Eliza.

“Cosa c’è?” le chiese.

Gli occhi di Eliza andarono involontariamente al telefono di Penny e anche l’amica seguì il suo sguardo. Eliza vide negli occhi di Penelope il momento in cui l’amica capì tutto, facendo due più due e capendo cosa poteva averla scossa a tal punto.

“Non è come sembra,” disse Penny con tono ansioso, cercando di negare ciò che entrambe ormai sapevano.

“Come hai potuto?” le chiese Eliza, quasi incapace di tirare fuori le parole. “Mi fidavo di te più di chiunque altro al mondo. E tu mi fai una cosa del genere?”

Si sentiva come se qualcuno avesse aperto una botola sotto di lei, facendola cadere nel nulla. Tutto ciò che aveva dato fondamento alla sua vita sembrava ora disintegrarsi davanti ai suoi stessi occhi. Aveva la sensazione di poter vomitare da un momento all’altro.

“Ti prego, Eliza,” la implorò Penny, inginocchiandosi accanto all’amica. “Lascia che ti spieghi. È successo, ma è stato un errore, uno sbaglio a cui da allora sto cercando di rimediare.”

“Uno sbaglio?” ripeté Eliza raddrizzandosi sulla sedia mentre la nausea si mescolava alla rabbia, generando un vorticante miscuglio di bile che le risaliva dallo stomaco alla gola. “Uno sbaglio è inciampare sul marciapiede e far cadere qualcun altro. Uno sbaglio è dimenticare di riportare l’uno quando fai una sottrazione. Uno sbaglio non è farsi il marito della tua migliore amica, Penny!”

“Lo so,” disse Penny con la voce rotta dalla consapevolezza del proprio errore. “Non avrei dovuto dirlo. È stata una decisione terribile, presa in un momento di debolezza e alimentata da troppi bicchieri di Viognier. Gli ho detto che era finita.”

“Finita suggerisce che ci sia stata più di una volta,” notò Eliza alzandosi in piedi. “Da quanto esattamente vai a letto con mio marito?”

Penny rimase in silenzio, chiaramente combattuta sull’effettivo beneficio o ulteriore danno che avrebbe arrecato se fosse stata onesta.

“Da circa un mese,” ammise alla fine.

All’improvviso tutto il tempo in cui suo marito era stato assente dalla famiglia ebbe più senso. Ogni nuova scoperta sembrava aggredirla come un pugno nello stomaco. Eliza sentiva che l’unica cosa che le impedisse di cadere era in quel momento il suo sento di legittima rabbia.

“Buffo,” sottolineò amaramente. “È proprio il periodo di tempo in cui Gary ha avuto quelle riunioni fino a tardi per cui dicevi che probabilmente si sentiva in colpa. Ma guarda che coincidenza.”

“Pensavo di poter avere controllo sulla cosa…” iniziò a dire Penny.

“Non farlo,” disse Eliza interrompendola. “Sappiamo tutte e due che a volte sei irrequieta. Ma è così che hai gestito la cosa?”

“So che non è di aiuto,” insistette Penny, “ma avevo intenzione di rompere. Sono tre giorni che non gli parlo. Stavo solo cercando un modo per farla finita con lui senza distruggere tutto con te.”

“A quanto pare avrai bisogno di un altro piano,” disse Eliza con tono secco, respingendo l’urgenza di dare un calcio ai cocci della tazza. Solo i piedi scalzi la trattennero dal farlo. Si tenne aggrappata alla sua rabbia, sapendo che era l’unica cosa che le avrebbe impedito di crollare del tutto.

“Ti prego, lascia che trovi un modo per sistemare le cose. Deve esserci qualcosa che posso fare.”

“Sì,” le assicurò Eliza. “Vattene. Subito.”

L’amica la fissò per un momento, ma probabilmente percepì la serietà di Eliza, perché la sua esitazione non durò molto.

“Va bene,” disse Penny prendendo le sue cose e andando frettolosamente verso la porta. “Me ne vado. Ma parliamone più tardi. Ne abbiamo passate tante insieme, Lizzie. Non lasciamo che questo rovini tutto.”

Eliza si sforzò di non gridarle contro in malo modo. Quella sarebbe stata probabilmente l’ultima volta in cui vedeva la sua migliore ‘amica’, e voleva che comprendesse l’enormità della situazione. “Questo è diverso,” disse lentamente, ponendo enfasi su ogni singola parola. “Tutte le altre volte siamo state noi due contro il mondo, attente a coprirci le spalle. Questa volta tu mi hai pugnalato alla schiena. La nostra amicizia è finita.”

Poi le sbatté la porta in faccia.




CAPITOLO DUE


Jessie Hunt si svegliò di soprassalto, per un momento incerta su dove si trovasse. Le ci volle qualche secondo per ricordare che era lunedì mattina e si trovava su un volo di ritorno da Washington DC a Los Angeles. Guardò l’orologio e vide che le mancavano ancora due ore prima di atterrare.

Cercando di non appisolarsi di nuovo, prese un sorso d’acqua dalla bottiglietta che teneva nella tasca del sedile davanti a lei. Fece girare l’acqua in bocca nel tentativo di eliminare quella strana sensazione di torpore che le avvolgeva la lingua.

Aveva delle buone ragioni per aver preso sonno. Le ultime dieci settimane erano state tra le più stancanti di tutta la sua vita. Aveva appena concluso l’Accademia Nazionale dell’FBI, un intenso programma di addestramento per personale del corpo di polizia locale, mirato a far prendere loro confidenza con le tecniche investigative dell’FBI.

Il programma era esclusivo e disponibile solo per coloro che venivano scelti dai loro supervisori per frequentarlo. A meno che non accettasse di andare a Quantico per diventare formalmente un agente dell’FBI, questo corso intensivo era la seconda migliore opzione.

In circostanze normali, Jessie non sarebbe stata ritenuta idonea. Fino a poco tempo fa era stata una semplice consulente junior provvisoria di profiling criminale per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Ma dopo aver risolto un caso importante, le sue quotazioni erano rapidamente cresciute.

Col senno di poi, Jessie capiva perché l’accademia preferisse agenti più esperti. Per le prime due settimane di corso, si era sentita completamente travolta dal volume di informazioni che le erano state gettate addosso. Aveva seguito lezioni di scienza forense, legge, mentalità terroristica, oltre che della sua sfera di interesse – la scienza comportamentale – che enfatizzava l’addentrarsi nelle menti degli assassini per comprendere meglio i loro moventi. E niente di tutto questo comprendeva l’irrefrenabile allenamento fisico che le rendeva tutti i muscoli doloranti.

Alla fine si era adeguata. I corsi, che le ricordavano il suo recente lavoro universitario in psicologia criminale, iniziarono ad avere senso. Dopo circa un mese, il suo corpo non era più dilaniato dal dolore quando si alzava la mattina. E meglio di tutto, tutto il tempo che passava nell’Unità di Scienze Comportamentali le permetteva di interagire con i migliori esperti al mondo di omicidi seriali. Sperava di diventare un giorno una di loro.

Oltre a tutto ciò, c’era un altro beneficio. Dato che lavorava sodo, sia fisicamente che mentalmente, in quasi ogni momento di veglia, non aveva quasi mai sognato. O almeno non aveva avuto incubi.

Quando stava a casa si era spesso svegliata gridando e madida di sudore, perseguitata dai ricordi della sua infanzia o dei più recenti traumi che si riproponevano nel suo inconscio. Ricordava ancora la sua più recente fonte di ansia. Era stata la sua ultima conversazione con il serial killer detenuto Bolton Crutchfield, quando lui le aveva detto che avrebbe presto fatto una chiacchierata con il padre di Jessie, lui stesso un assassino ancora in libertà.

Se nelle ultime dieci settimane fosse stata a Los Angeles, avrebbe passato la maggior parte del tempo ad ossessionarsi e arrovellarsi nel decidere se Crutchfield avesse detto la verità o stesse solo cercando di farla andare di matto. E se fosse stato effettivamente onesto, come sarebbe riuscito a coordinare una discussione con un killer in fuga, mentre lui stesso era sotto custodia in un ospedale mentale di assoluta sicurezza?

Ma dato che si era trovata a migliaia di chilometri di distanza, concentrata senza tregua su compiti impegnativi per quasi ogni secondo di veglia, non aveva avuto la possibilità di fissarsi sulle affermazioni di Crutchfield. Probabilmente l’avrebbe fatto presto, ma non ancora. In quel momento era semplicemente troppo stanca perché il suo cervello potesse essere in grado di darle problemi.

Sistemandosi comoda sul suo sedile, mentre permetteva al sonno di avvolgerla di nuovo, le venne in mente un altro pensiero.

Quindi tutto quello che devo fare per poter dormire bene per il resto della mia vita è passare tutte le mattine a fare allenamento fino al punto di vomitare, per poi proseguire con dieci ore ininterrotte di istruzioni professionali. Mi pare un buon piano.

Prima di poter sorridere della propria battuta, si era già addormentata.



*



Quel senso di piacevole agio scomparve nel preciso momento in cui mise piede fuori dal LAX subito dopo mezzogiorno. Da quell’istante in poi avrebbe dovuto stare costantemente allerta. Dopotutto, prima di partire per Quantico era venuta a sapere che un serial killer mai catturato era sulle sue tracce. Xander Thurman la cercava da mesi. E si dava il caso che Thurman fosse anche suo padre.

Prese un car pooling dall’aeroporto al lavoro, che era la Stazione Centrale della Polizia di Prossimità nel centro di Los Angeles. Non avrebbe ricominciato formalmente a lavorare fino al giorno dopo, e non era dell’umore giusto per chiacchierare, quindi non entrò neanche nell’ufficio principale della stazione.

Andò invece alla sua cassetta assegnata e raccolse la posta, che era stata inoltrata lì da una casella postale. Nessuno – né colleghi, né amici e neppure i suoi genitori adottivi – sapeva quale fosse il suo effettivo indirizzo. Aveva affittato l’appartamento tramite una società di leasing, il suo nome non era presente da nessuna parte sul contratto e non c’era nessun documento che la riconducesse a quell’edificio.

Una volta presa la posta, percorse un corridoio laterale che portava al parco macchine, dove c’erano sempre dei taxi in attesa nei vicoli collegati. Salì in uno di questi e lo indirizzò verso il centro commerciale che si trovava vicino al complesso in cui viveva, a circa tre chilometri di distanza.

Uno dei motivi per cui aveva scelto di andare a vivere in questo posto, dopo che la sua amica Lacy aveva insistito perché se ne andasse, era che era difficile da trovare, e risultava ancora più difficile accedervi senza permesso. Prima di tutto, la sua struttura di parcheggio era sotto l’adiacente centro commerciale nel medesimo edificio, quindi chiunque l’avesse seguita avrebbe avuto difficoltà a capire dove stesse andando.

E anche se qualcuno l’avesse intuito, l’edificio aveva un portiere e una guardia di sicurezza. La porta d’accesso e gli ascensori richiedevano carte d’accesso. E nessuno degli appartamenti aveva numeri civici riportati all’esterno. I residenti dovevano solo ricordare qual era la loro porta.

Ad ogni modo Jessie aveva comunque preso delle precauzioni in più. Quando scese dal taxi – che pagò in contanti – andò dritta al centro commerciale. Prima passò rapidamente per una caffetteria, girovagando tra la folla prima di prendere un’uscita secondaria.

Poi, tirandosi il cappuccio della maglietta sulla testa e coprendo i capelli castani che le arrivavano alle spalle, passò attraverso una zona ristoranti arrivando a un corridoio che aveva dei bagni vicino a una porta contrassegnata dalla scritta “Riservato al personale”. Spinse la porta del bagno delle donne in modo che chiunque la stesse potenzialmente seguendo la vedesse chiudersi e pensasse che lei vi era entrata. Invece, senza guardarsi alle spalle, passò per l’ingresso dipendenti, che era un lungo corridoio con ingressi secondari per ciascun esercizio commerciale.

Percorse in leggera corsa il corridoio curvo fino a che trovò la rampa di scale contrassegnata dalla scritta “Manutenzione”. Scendendo di corsa i gradini il più silenziosamente possibile, usò la carta che le aveva dato il direttore dell’edificio per aprire anche quella porta. Aveva negoziato un’autorizzazione speciale per accedere a quell’area sulla base del suo collegamento con il Dipartimento di Polizia di Los Angeles, piuttosto che tentando di spiegare che le sue precauzioni erano dovute al fatto che suo padre era un serial killer a piede libero.

La porta della manutenzione si chiuse a chiave alle sue spalle mentre lei già percorreva uno stretto passaggio con tubi in vista che spuntavano da tutti gli angoli e griglie di metallo che contenevano attrezzature che lei non conosceva. Dopo diversi minuti di intricato percorso a ostacoli, raggiunse una piccola nicchia vicino a un grosso boiler.

A metà strada lungo il passaggio, l’area era poco illuminata e facile da non notare. Avevano dovuto indicargliela la prima volta che erano scesi là sotto. Entrò nella nicchia mentre tirava fuori la vecchia chiave che le avevano dato. La serratura della porta era quella classica, alla vecchia maniera. Jessie la aprì e spinse la pesante porta, che poi richiuse rapidamente a chiave alle sue spalle.

Ora si trovava nella stanza magazzino del piano interrato del suo edificio ed era quindi passata ufficialmente dalla proprietà del centro commerciale al complesso di appartamenti. Attraversò rapidamente la stanza buia, quasi inciampando su un flacone di candeggina che era stato abbandonato sul pavimento. Aprì la porta, passò attraverso l’ufficio vuoto del direttore della manutenzione e salì la stretta scala che si apriva su un corridoio di servizio del piano principale del condominio.

Svoltò l’angolo dell’atrio dove si trovava il blocco di ascensori, dove poté sentire il portinaio Jimmy e la guardia per la sicurezza Fred che chiacchieravano amabilmente con un residente nella lobby d’ingresso. Non aveva tempo per fermarsi a fare due chiacchiere con loro adesso, ma si promise di farlo in un secondo momento.

Erano entrambi dei tipi simpatici. Fred era un ex poliziotto stradale che era andato in pensione in anticipo dopo un brutto incidente in motocicletta durante il turno di lavoro. Era rimasto con un’evidente zoppia e una grossa cicatrice sulla guancia sinistra, ma questo non gli aveva impedito di essere sempre scherzoso e di buon umore. Jimmy, un ragazzo sui venticinque anni, era un ragazzo dolce e sincero che usava quel lavoro per mantenersi al college.

Jessie passò oltre l’atrio portandosi all’ascensore di servizio, che non era visibile dalla lobby. Strisciò la carta e aspettò con ansia di vedere se qualcuno l’aveva seguita. Sapeva che non c’erano molte possibilità, ma questo non le impedì di spostarsi nervosamente da un piede all’altro mentre aspettava l’arrivo dell’ascensore.

Quando l’ascensore arrivò, Jessie vi entrò, premette il pulsante per il quarto piano e poi quello per chiudere la porta. Una volta riaperte le porte, si lanciò rapida nel corridoio e arrivò al suo appartamento. Si concesse un momento per prendere fiato e osservò la porta.

A primo colpo d’occhio, sembrava una comunissima porta come tutte le altre del piano. Ma lei aveva fatto aggiungere diverse ulteriori misure di sicurezza quando si era trasferita. Prima si fece indietro in modo da trovarsi a circa tre passi di distanza dall’uscio e direttamente in linea con lo spioncino. Dal bordo del forellino si vedeva un leggero bagliore verde invisibile da ogni altra angolazione, un indicatore che l’unità non aveva subito nessun accesso forzato. Se fosse successo, il bordo attorno allo spioncino sarebbe stato rosso.

In aggiunta al campanello con videocamera Nest che aveva fatto installare, c’erano anche numerose videocamere nascoste nel corridoio. Una di esse era puntata direttamente sulla porta. Un’altra mirava il corridoio, rivolta verso l’ascensore e l’attigua rampa di scale. Una terza era puntata verso la direzione opposta, mirando alla seconda scala. Le aveva controllate tutte mentre era in taxi e non aveva individuato nessun movimento sospetto nel corso di quella giornata.

Il passo successivo era l’ingresso. Usò una chiave tradizionale per aprire un lucchetto, poi strisciò la carta e sentì aprirsi anche l’altra serratura. Entrò mentre l’allarme a sensore di movimento si spegneva, lasciò cadere lo zaino sul pavimento e ignorò l’allarme mentre richiudeva entrambe le porte e faceva scorrere anche la sbarra di sicurezza. Solo a quel punto inserì il codice a otto cifre.

Dopodiché prese il manganello che teneva vicino alla porta e andò diretta verso la camera da letto. Sollevò la cornice rimovibile accanto all’interruttore della luce, mettendo in mostra il pannello di sicurezza e digitò il codice a quattro cifre per il secondo allarme silenzioso, quello che andava dritto alla stazione di polizia se non l’avesse disattivato nel giro di quaranta secondi.

Solo allora si concesse di respirare. Mentre inspirava ed espirava lentamente, camminò per il piccolo appartamento, manganello alla mano, pronta a qualsiasi cosa. Per perquisire l’intero appartamento, inclusi gli armadi, la doccia e il ripostiglio le ci volle meno di un minuto.

Quando fu certa di essere da sola e al sicuro, controllò la mezza dozzina di piccole videocamere che aveva disposto nell’appartamento. Poi valutò i lucchetti alle finestre. Tutto era in perfetta funzione. Le restava solo un posto da controllare.

Entrò nel bagno e aprì lo stretto armadietto con all’interno mensole per scorte come carta igienica, uno sturalavandino, alcune saponette, spugne e detergente per specchi. C’era un piccolo gancio sul lato sinistro dell’armadietto, quasi invisibile, a meno che uno non sapesse dove guardare. La piegò e tirò, sentendo la piccola molla nascosta.

La paretina si aprì, rivelando una sbarra estremamente stretta dietro ad essa, con una scala di corda attaccata al muro di mattoni. Il tubo e la scala scendevano dal quarto piano fino allo spazio della lavanderia al piano interrato. Era stata progettata come uscita di emergenza estrema se tutte le altre misure di sicurezza avessero fallito. Jessie sperava di non doverne mai fare uso.

Rimise a posto la mensola e stava per tornare in salotto quando scorse la propria immagine riflessa nello specchio del bagno. Era la prima volta che si guardava davvero da vicino da quando era partita. Quello che vide le piacque.

In superficie non sembrava poi tanto diversa da prima. Aveva compiuto gli anni mentre si trovava all’FBI e ora aveva ventinove anni, ma non le sembrava di avere un aspetto più vecchio. A dirla tutta, le pareva di essere meglio di quando era partita.

I capelli erano ancora castani, ma in qualche modo sembravano più elastici, meno flosci rispetto a quando era stata a Los Angeles tutte quelle settimane fa. Nonostante i lunghi giorni passati all’FBI, i suoi occhi verdi sprizzavano energia e non avevano più quelle ombre scure sotto, che le erano diventate tanto familiari prima. Era sempre alta quasi un metro e ottanta, ma si sentiva più forte e salda di prima. Le braccia erano più toniche e il busto era sodo per gli innumerevoli addominali e flessioni. Si sentiva… preparata.

Portandosi in salotto, finalmente accese le luci. Le ci vollero un paio di secondi per ricordare che tutti i mobili in quello spazio erano suoi. Ne aveva comprati la maggior parte subito prima di partire per Quantico. Non aveva avuto molta scelta. Aveva venduto tutta la roba della casa di cui era stata proprietaria insieme al suo ex marito Kyle, sociopatico e attualmente incarcerato. Per un poco era rimasta nell’appartamento della vecchia amica del college Lacy Cartwright, ma dopo che qualcuno vi aveva fatto irruzione inviando a Jessie un messaggio per conto di Bolton Crutchfield, Lacy aveva giustamente preferito che lei se ne andasse.

Quindi lei aveva fatto proprio così, abitando in un hotel per un poco, fino a che aveva trovato un posto – questo posto – che fosse adatto per le sue necessità di sicurezza. Ma non era arredato, quindi aveva bruciato una parte del capitale che aveva ottenuto dal divorzio per arredamento ed elettrodomestici. Dato che era dovuta partire per l’Accademia Nazionale subito dopo l’acquisto, non aveva avuto la possibilità di apprezzare per bene il tutto.

Ora sperava di poterlo fare. Si sedette sulla poltroncina e si appoggiò allo schienale mettendosi il più comoda possibile. C’era una scatola di cartone con scritto “roba da controllare” sul pavimento accanto a lei. La raccolse e iniziò a rovistarci dentro. Per lo più erano scartoffie che non aveva voglia di guardare adesso. In fondo alla scatola c’era una foto 8x10 del matrimonio di lei e Kyle.

La fissò quasi senza capire, stupita che la persona che aveva avuto quella vita fosse la stessa donna seduta lì desso. Quasi dieci anni prima, durante il loro ultimo anno alla USC, Jessie aveva iniziato a uscire con Kyle Voss. Erano andati a vivere insieme subito dopo la laurea e si erano sposati tre anni fa.

Per un lungo periodo le cose erano sembrate fantastiche. Vivevano in un bell’appartamento poco distante da lì, nel centro di Los Angeles, o Downtown, come veniva spesso chiamato. Kyle aveva un lavoro nella finanza e Jessie stava prendendo la laurea specialistica. Avevano una vita agiata. Andavano spesso a provare nuovi ristoranti e nei migliori bar. Lei era felice e probabilmente sarebbe potuta rimanere in quella condizione per parecchio tempo.

Ma poi Kyle aveva avuto una promozione ed era stato trasferito nell’ufficio che la sua società aveva nella Contea di Orange, e aveva insistito perché si trasferissero in una mega villa lì. Jessie aveva acconsentito, nonostante la sua apprensione. Solo allora la vera natura di Kyle era venuta in superficie. Era diventato ossessionato dall’idea di diventare membro di un club segreto che si era rivelato essere la facciata di copertura per una cerchia legata alla prostituzione. Aveva intrapreso una relazione con una delle donne del posto, e quando le cose erano andate storte, l’aveva uccisa cercando di far ricadere la colpa su Jessie. Ciliegina sulla torta: quando Jessie aveva scoperto il suo intrigo, aveva tentato di uccidere anche lei.

Ma anche adesso, mentre osservava attentamente la foto del matrimonio, non c’era traccia di ciò che suo marito era capace di fare. Sembrava un uomo bello e amabile, pronto a diventare il padrone dell’universo. Jessie accartocciò la foto e la gettò verso il cestino dell’immondizia in cucina. Cadde dritta al centro, dandole un inaspettato senso di catartica soddisfazione.

Canestro! Deve pur significare qualcosa.

C’era un qualcosa di liberatorio in questo posto. Tutto – l’arredamento nuovo, la mancanza di ricordi personali, addirittura le misure di sicurezza al limite della paranoia – appartenevano a lei. Era davvero un nuovo inizio.

Jessie si stiracchiò, permettendo ai suoi muscoli di rilassarsi dopo il lungo volo sull’aereo pieno zeppo di gente. Questo appartamento era suo, il primo posto dopo cinque o sei anni che poteva definire veramente tale. Poteva mangiare pizza sul divano e lasciare lì l’incarto senza doversi preoccupare che qualcuno se ne lamentasse. Non che fosse il tipo da fare una cosa così. Il punto era che poteva.

Il pensiero della pizza le fece venire improvvisamente fame. Si alzò e andò a dare un’occhiata al frigorifero. Non solo era vuoto, ma non era neppure acceso. Solo allora si ricordò di averlo lasciato così, non vedendo alcun motivo per dover pagare l’elettricità dato sarebbe mancata di casa per due mesi e mezzo.

Lo collegò e, sentendosi inquieta, decise di fare un salto al supermercato. Poi le venne un’altra idea. Dato che non avrebbe iniziato a lavorare fino al giorno dopo, e non era troppo tardi nel pomeriggio, c’era un’altra fermata che poteva fare: un posto – e una persona – che conosceva e che alla fine doveva andare a trovare.

Era riuscita a levarsela dalla testa per la maggior parte del tempo a Quantico, ma c’era ancora la questione di Bolton Crutchfield. Sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere e che lui durante il loro ultimo incontro aveva tentato di adescarla.

Eppure doveva sapere: Crutchfield aveva davvero trovato un modo per incontrare suo padre, Xander Thurman, il Boia dell’Ozarks? Aveva trovato un modo per mettersi in contatto con l’assassino di innumerevoli persone, inclusa sua madre, l’uomo che l’aveva lasciata, quando aveva sei anni, legata vicino al suo cadavere, dove sarebbe di certo morta congelata in un isolato capanno?

Aveva intenzione di scoprirlo.




CAPITOLO TRE


Eliza stava aspettando quando Gray arrivò a casa quella sera. Arrivò in tempo per la cena, con un’espressione in viso che lasciava intendere che si aspettava quello che sarebbe successo. Dato che Millie ed Henry erano seduti lì, intenti a mangiare il loro mac&cheese con fette di hot dog, nessuno di loro due disse nulla sulla situazione.

Fu solo quando i bambini furono andati a dormire che la questione venne alla ribalta. Eliza era in piedi in cucina quando Gary entrò dopo aver messo a letto i bambini. Si era tolto la giacca, ma aveva ancora addosso la cravatta allentata e i pantaloni del completo da ufficio. Eliza sospettò che fosse per apparire più credibile.

Gray non era un uomo imponente. Alto un metro e ottanta scarsi, la superava solo di un paio di centimetri, anche se con i suoi 75 chili, pesava ben di più. Sapevano bene entrambi che il suo aspetto era decisamente meno autoritario con indosso solo una maglietta e i pantaloni della tuta. La tenuta da lavoro era la sua armatura.

“Prima che tu dica qualcosa,” disse, “ti prego di lasciarmi spiegare.”

Eliza, che aveva passato gran parte della giornata a chiedersi come sarebbero andate le cose, fu felice di permettere alla sua ansia di restare momentaneamente in attesa, lasciando che fosse lui a dimenarsi nel tentativo di giustificarsi.

“Accomodati pure,” gli disse.

“Prima di tutto, mi spiace. Indipendentemente da qualsiasi altra cosa possa dire, voglio che tu sappia che ti chiedo scusa. Non avrei mai dovuto permettere che succedesse. È stato un momento di debolezza. Mi conosce da anni e sa quali siano i miei punti deboli. Sapeva cosa avrebbe stuzzicato il mio interesse. Avrei dovuto controllarmi, ma ci sono cascato.”

“Cosa stai dicendo?” chiese Eliza, stupefatta e nel contempo ferita. “Che Penny è stata una seduttrice e che ti ha manipolato costringendoti ad avere una relazione con lei? Sappiamo entrambi che sei un uomo debole, Gray, ma mi stai prendendo in giro?”

“No,” rispose lui, scegliendo di non dare seguito al commento sul ‘debole’. “Mi prendo la completa responsabilità delle mie azioni. Mi ero fatto tre whiskey. Sono stato attratto dalle sue gambe in quel vestito con lo spacco laterale. Ma lei sa cosa mi fa andare nel pallone. Immagino siano state tutte quelle confidenze che vi fate da anni. Ha saputo come solleticarmi il braccio con la punta delle dita, ha saputo come parlare, quasi facendo le fusa sussurrandomi nell’orecchio. Probabilmente sapeva che tu non facevi queste cose da tanto tempo. E sapeva che non saresti entrata in quel bar perché eri a casa, messa al tappeto dalle pillole per il sonno che prendi quasi tutte le sere.”

Quell’affermazione rimase sospesa tra loro per diversi secondi, mentre Eliza cercava di assumere un certo contegno. Quando fu certa che non avrebbe gridato, rispose con voce incredibilmente calma.

“Stai dando a me la colpa di questa cosa? Perché sembra che tu stia dicendo di non essere potuto restare nei tuoi pantaloni perché io ho problemi a dormire la notte.”

“No, non intendevo questo,” piagnucolò lui, ritraendosi davanti alle sue parole avvelenate. “È solo che hai sempre problemi a dormire la notte. E non sembri mai tanto interessata a voler restare sveglia insieme a me.”

“Giusto per essere chiari, Grayson: dici che non mi stai incolpando. Ma poi passi immediatamente a dire che io sono messa KO dal Valium e non ti riservo sufficienti attenzioni, per cui hai dovuto portarti a letto la mia migliore amica.”

“Ma che razza di migliore amica è se ti fa una cosa del genere?” provò a dire Gray, in un tentativo disperato.

“Non cambiare argomento,” disse lei con tono seccato, costringendosi a mantenere la voce stabile, in parte per evitare di svegliare i bambini, ma soprattutto perché era l’unico modo per evitare di perdere il controllo. “È già sulla mia lista. Ora tocca a te. Non potevi forse venire tu da me e dirmi: ‘Ehi, tesoro, mi piacerebbe tantissimo passare una serata romantica con te stasera”, oppure “Amore, sento che siamo distanti ultimamente. Possiamo stare un po’ vicini questa sera?’ Queste non erano forse buone opzioni?”

“Non volevo svegliarti e darti fastidio con domande del genere,” rispose lui, la voce mite, ma le parole taglienti.

“Quindi hai deciso che il sarcasmo è il modo migliore in questa circostanza?” chiese Eliza.

“Guarda,” disse lui, alla disperata ricerca di una via di scampo, “con Penny è finita. Me l’ha detto oggi pomeriggio e io sono d’accordo con lei. Non so come andremo avanti da qui, ma è mia intenzione farlo, se non altro per i bambini.”

“Se non altro per i bambini?” ripeté lei, stupita dal modo eclatante in cui suo marito stava fallendo. “Vattene e basta. Ti concedo cinque minuti per fare i bagagli e salire in macchina. Prenotati una stanza d’albergo fino a prossime istruzioni.”

“Mi stai cacciando da casa mia?” le chiese incredulo. “La casa che ho pagato?”

“Non solo ti sto cacciando,” sibilò lei. “Ma se non esci dal vialetto entro cinque minuti, chiamo la polizia.”

“E cosa gli dici?”

“Mettimi alla prova,” ribatté lei furente.

Gray rimase a fissarla. Per niente turbata, Eliza andò al telefono e lo prese. Fu solo quando sentì il suono del numero che veniva digitato che Gray scattò in azione. Nel giro di tre minuti stava uscendo di casa come un cane con la coda tra le gambe, la borsa di tela piena zeppa di camicie e giacche. Una scarpa cadde mentre scappava via. Lui non la notò ed Eliza non disse nulla.

Fu solo quando sentì la macchina che si allontanava, che Eliza riappoggiò il telefono sul mobiletto. Abbassò lo sguardo sulla propria mano sinistra e vide che il palmo sanguinava dove vi aveva piantato le unghie stringendo il pugno. Solo in quel momento ne sentì il bruciore.




CAPITOLO QUATTRO


Nonostante fosse fuori allenamento, Jessie si divincolava nel traffico del centro di Los Angeles diretta verso Norwalk senza grossi problemi. Strada facendo, decise di fare un colpo di telefono ai suoi genitori, se non altro come modo per distrarsi dall’incombente arrivo alla destinazione che si era prefissata.

I suoi genitori adottivi, Bruce e Janine Hunt, vivevano a Las Cruces, Nuovo Messico. Lui era un agente dell’FBI in pensione e lei una ex insegnante. Jessie aveva trascorso qualche giorno con loro prima di arrivare a Quantico e aveva sperato di poter fare lo stesso al suo ritorno. Ma non c’era stato sufficiente tempo tra la fine del corso e la ripresa del lavoro, quindi aveva dovuto abbandonare l’idea di una seconda visita. Sperava di tornare presto a trovarli, soprattutto dato che sua madre stava lottando contro il cancro.

Non le sembrava giusto. Erano una decina d’anni ormai che Janine viveva questa battaglia, e questo era solo un tassello da aggiungere all’altra tragedia che la coppia aveva affrontato anni prima. Subito prima che prendessero Jessie con loro quando lei aveva sei anni, avevano perso il loro bambino di due anni, anche lui portato via dal cancro. Erano stati felici di riempire il vuoto che questo evento aveva lasciato nei loro cuori, anche se significava adottare la figlia di un serial killer, un uomo che aveva assassinato la madre della bambina, abbandonando quest’ultima a morte certa. Dato che Bruce stava nell’FBI, l’abbinamento era sembrato logico agli US Marshals che avevano inserito Jessie nel programma protezione testimoni. Sulla carta, era tutto molto sensato.

Lei cacciò dalla testa quel pensiero e digitò il numero.

“Ciao pa’,” disse. “Come va?”

“Ok,” rispose lui. “Ma’ sta pisolando. Vuoi richiamare più tardi?”

“No. Possiamo parlare noi. Farò due chiacchiere con lei stasera o un altro giorno. Come vanno le cose lì?”

Quattro mesi prima sarebbe stata riluttante a parlargli senza la madre lì presente. Bruce Hunt era un uomo difficile da avvicinare, e neanche Jessie era particolarmente coccolona. I ricordi della sua infanzia con lui erano un miscuglio di gioia e frustrazione. C’erano state settimane bianche sugli sci, campeggio e camminate in montagna, e vacanze di famiglia in Messico, a neanche un centinaio di chilometri da casa.

Ma c’erano anche stati confronti farciti di grida, soprattutto quando lei era entrata nell’adolescenza. Bruce era un uomo che apprezzava la disciplina. Jessie, con anni di dolore represso per aver perso sua madre, il proprio nome e la propria dimora in un colpo solo, tendeva a volte ad esagerare. Durante gli anni trascorsi alla USC e anche dopo, probabilmente avevano parlato in tutto una ventina di volte. E anche le visite erano state rare.

Ma recentemente il ritorno del cancro di ma’ li aveva costretti a parlare senza intermediari. E il ghiaccio si era in qualche modo spezzato. Lui era addirittura venuto a Los Angeles per aiutarla a riprendersi dopo la ferita all’addome causatale dall’aggressione ad opera di Kyle lo scorso autunno.

“Qui è tutto tranquillo,” le disse, rispondendo alla sua domanda. “Ma’ ha fatto un’altra sessione di chemio ieri, motivo per cui ora sta recuperando. Se si sente meglio, potremmo uscire per cena più tardi.”

“Con tutta la squadra di poliziotti?” chiese lei con tono scherzoso. Pochi mesi prima i suoi genitori si erano trasferiti da casa loro a una struttura abitativa popolata per lo più da pensionati del dipartimento di polizia di Las Cruces, del Dipartimento dello Sceriffo e dell’FBI.

“No, solo noi due. Stavo pensando a una cenetta a lume di candela. Ma in un posto dove sia possibile metterle affianco un secchio in caso le venga da vomitare.”

“Sei veramente un romanticone, pa’.”

“Ci provo. E a te come va? Mi pare di capire che hai passato l’addestramento dell’FBI.”

“Cosa te lo fa capire?”

“Perché sapevi che te l’avrei chiesto, e non mi avresti chiamato se non ci fossero state buone notizie in merito.”

Questa Jessie doveva concedergliela. Per essere un vecchio lupo, era ancora piuttosto sveglio.

“Sono passata,” gli confermò. “Ora sono di nuovo a Los Angeles. Ricomincio a lavorare domani e sto… svolgendo delle commissioni.”

Non voleva preoccuparlo con la sua attuale reale destinazione.

“Mi pare di cattivo auspicio. Perché ho la sensazione che tu non stia facendo la spesa?”

“Non intendevo farla apparire così. Mi sa che sono solo ancora frastornata dal viaggio. Sono quasi arrivata,” mentì. “Meglio che chiami di nuovo stasera o aspetto domani? Non voglio rovinare la tua seducente cena con secchio del vomito al seguito.”

“Magari domani,” le consigliò lui.

“Ok, di’ ciao a ma’. Vi voglio bene.”

“Anch’io ti voglio bene,” le disse, e riagganciò.

Jessie cercò di concentrarsi sulla strada. Il traffico stava peggiorando e il tragitto verso la struttura del DNR, che richiedeva generalmente circa tre quarti d’ora, le lasciava ancora una buona mezz’ora di guida.

Il DNR, acronimo di Divisione Non Riabilitativa, era una speciale unità isolata affiliata all’Ospedale di Stato-Metropolitano di Norwalk. L’ospedale principale era la sede di una vasta gamma di esecutori malati di mente, ritenuti incapaci di essere detenuti in una prigione convenzionale.

Ma l’annesso del DNR, sconosciuto al pubblico e quasi alla maggior parte del personale della polizia e dei medici addetti alla salute mentale, ricopriva un ruolo più clandestino. Era progettato per ospitare un massimo di dieci malviventi tenendoli isolati dalla rete. In questo momento c’erano solo cinque persone trattenute lì, tutti uomini, tutti stupratori o assassini seriali. Uno di loro era Bolton Crutchfield.

La mente di Jessie andò con il ricordo all’occasione più recente in cui era stata lì a fargli visita. Era stato il loro ultimo incontro prima di partire per l’Accademia Nazionale, anche se non gliel’aveva detto. Jessie aveva fatto visita a Crutchfield regolarmente dall’ultimo autunno, quando aveva ottenuto il permesso di interrogarlo come parte del suo tirocinio di laurea specialistica. Secondo il personale lì presente, quasi nessun medico o ricercatore era mai riuscito a parlargli. Ma per motivi che non le erano stati chiari se non verso la fine, lui aveva acconsentito a parlarle.

Nel corso delle ultime settimane avevano raggiunto una sorta di accordo. Lui avrebbe discusso i particolari dei suoi crimini, inclusi metodi e moventi, se lei avesse condiviso con lui alcuni dettagli della propria vita. Inizialmente era sembrato un baratto onesto. Dopotutto l’obiettivo di Jessie era diventare una profiler criminale specializzandosi nei serial killer. Averne uno propenso a discutere dei dettagli di ciò che aveva fatto poteva rivelarsi un tesoro senza prezzo.

E si era poi presentato anche un vantaggio aggiunto. Crutchfield aveva un’abilità alla Sherlock Holmes nel dedurre le informazioni, anche se si trovava chiuso a chiave nella cella di un ospedale psichiatrico. Era riuscito a cogliere dettagli della vita di Jessie solo guardandola in faccia.

Aveva usato quella sua abilità, insieme alle informazioni sul caso che lei aveva condiviso, per darle indizi su diversi crimini, incluso l’assassinio di una ricca filantropa di Hancock Park. Le aveva anche messo la pulce nell’orecchio che il suo stesso marito potesse non essere affidabile come sembrava.

Sfortunatamente per lei, le sue abilità deduttive lavoravano anche contro di lei. Il motivo per cui aveva voluto inizialmente incontrare Crutchfield era che aveva notato come avesse modellato i suoi omicidi su quelli di suo padre, il leggendario serial killer Xander Thurman, mai catturato. Ma Thurman aveva commesso i suoi crimini nelle campagne del Missouri oltre vent’anni prima. Sembrava una scelta oscura e fatta a caso per un killer con pianta stabile nella California meridionale.

Ma era venuto fuori che Bolton era un grande ammiratore di suo padre. E quando Jessie aveva iniziato a fargli domande sul suo interesse per quei vecchi omicidi, non gli ci era voluto molto per mettere insieme i pezzi del puzzle e capire che la giovane donna che aveva davanti era personalmente collegata a Thurman. Alla fine aveva ammesso di sapere che lei era sua figlia. E le aveva anche rivelato un tassello in più: due anni prima aveva incontrato suo padre.

Con voce gioiosa l’aveva informata che suo padre era entrato nella struttura sotto le mentite spoglie di un medico ed era riuscito ad avere una lunga conversazione con il prigioniero. A quanto pareva stava cercando sua figlia, che aveva cambiato nome e che era stata inserita nel Programma Protezione Testimoni dopo l’uccisone della madre. L’uomo sospettava che un giorno lei sarebbe andata a trovare Crutchfield, dato che i loro crimini erano simili. Thurman voleva che Crutchfield gli facesse sapere se lei si sarebbe fatta viva, fornendogli poi nome e luogo in cui si trovava.

Da quel momento in poi la loro relazione aveva avuto una disparità che l’aveva messa incredibilmente a disagio. Crutchfield le forniva ancora informazioni sui suoi crimini e dettagli sugli altri. Ma entrambi sapevano che era lui ad avere tutte le carte in mano.

Sapeva il suo nuovo nome. Sapeva che aspetto aveva. Conosceva la città in cui viveva. A un certo punto era venuta a sapere che aveva addirittura scoperto che abitava nell’appartamento dell’amica Lacy. E a quanto pareva, nonostante fosse incarcerato in una struttura ipoteticamente segreta, era in grado di dare a suo padre tutti quei dettagli.

Jessie era piuttosto certa che quello fosse almeno parte del motivo per cui Lacy, un’aspirante stilista di moda, aveva colto al volo l’occasione di un lavoro a Milano per sei mesi. Era un’opportunità grandiosa, ma era anche mezzo mondo di distanza dalla vita pericolosa di Jessie.

Quando Jessie uscì dall’autostrada, pochi minuti prima di raggiungere il DNR, ricordò come Crutchfield avesse tirato alla fine il colpo decisivo della tacita minaccia che era sempre rimasta sospesa durante i loro incontri.

Forse l’aveva fatto perché sentiva che lei se ne sarebbe andata per diversi mesi. Forse era solo per dispetto. Ma l’ultima volta che lei aveva guardato attraverso il vetro fissando i suoi occhi infidi, lui le aveva scagliato addosso una bomba.

“Farò una piccola chiacchierata con tuo padre,” le aveva detto con quel suo raffinato accento meridionale. “Non voglio rovinare le cose dicendo quando, ma sarà una cosa adorabile, ne sono certo.”

Lei era riuscita a malapena a pronunciare la parola: “Quando?”

“Oh, non preoccuparti di questo, signorina Jessie,” le aveva risposto con tono mirato a darle sollievo. “Sappi solo che quando parleremo, mi assicurerò di portargli i tuoi saluti.”

Mentre entrava nella proprietà dell’ospedale, Jessie si pose la stessa domanda che l’aveva divorata da allora, quella che era capace di levarsi dalla testa solo quando si concentrava intentamente su altri lavori: l’aveva fatto davvero? Mentre lei era stata via a imparare come catturare gente come lui o suo padre, i due si erano veramente incontrati una seconda volta, nonostante tutte le precauzioni di sicurezza progettate per prevenire proprio quel genere di cose?

Aveva la sensazione che quel mistero fosse sul punto di essere risolto.




CAPITOLO CINQUE


Entrare nell’unità DNR era proprio come ricordava. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione all’accesso nel campus interno all’ospedale attraverso un cancello sorvegliato, portò l’auto dietro all’edificio principale avvicinandosi a una struttura più piccola e anonima sul retro.

Era uno stabile in cemento e acciaio a un solo piano, in mezzo a un parcheggio asfaltato. Si vedeva solo il tetto da dietro un’altra recinzione in filo spinato colorato di verde che circondava l’intera proprietà.

Jessie passò attraverso il secondo cancello sorvegliato per accedere al DNR. Dopo aver parcheggiato, proseguì a piedi fino all’accesso principale, fingendo di ignorare le numerose videocamere di sicurezza che seguivano ogni suo passo. Quando arrivò alla porta esterna, aspettò che venisse aperta per farla entrare. Diversamente dalla prima volta che era stata lì, ora la conoscevano e la ammettevano solo vedendola.

Ma questo valeva solo per la porta esterna. Dopo aver attraversato un piccolo cortile, raggiunse l’ingresso principale della struttura, che aveva delle spesse porte in vetro antiproiettile. Strisciò la sua carta personale e la luce del pannello divenne verde. Poi l’agente addetto alla sicurezza dietro al bancone, che poteva vedere a sua volta il colore della luce, la fece entrare completando così il processo.

Jessie si trovava ora in un piccolo vestibolo in attesa che la porta esterna si chiudesse. L’esperienza le aveva insegnato che la porta interna si poteva aprire solo quando quella esterna si era chiusa del tutto. Quando si sentì il sonoro scatto della serratura, la guardia di sicurezza sbloccò la porta interna.

Jessie entrò, e qui trovò ad attenderla un secondo agente armato. L’uomo raccolse i suoi effetti personali, che erano minimi. Aveva imparato nel tempo che era meglio lasciare quasi tutto in macchina, dove non c’era nessun pericolo che qualcuno facesse irruzione.

La guardia la perquisì e poi le fece cenno di andare verso lo scanner a onde millimetriche in stile aeroporto che dava una visione dettagliata del suo corpo. Dopo esservi passata attraverso, i suoi oggetti le venivano restituiti senza una parola. Era l’unica indicazione che le era consentito proseguire.

“Incontrerò l’agente Gentry?” chiese all’agente dietro al banco.

La donna sollevò lo sguardo e la guardò con espressione di completo disinteresse. “Esce tra un momento. Aspettala vicino alla porta dell’Area preparatoria di transizione.”

Jessie seguì le istruzioni. L’Area preparatoria di transizione era la stanza dove tutti i visitatori andavano a cambiarsi prima di interagire con un paziente. Una volta entrati, veniva loro richiesto di indossare un camice grigio stile ospedale, togliersi ogni gioiello e levarsi eventuale trucco dal viso. Come le avevano raccomandata, questi uomini non avevano bisogno di ulteriori stimoli.

Un momento dopo l’agente Katherine ‘Kat’ Gentry uscì dall’area preparatoria per salutarla. Era bello vederla. Sebbene non fossero esattamente andate d’amore e d’accordo da subito quando si erano conosciute la scorsa estate, ora le due donne erano amiche, unite dalla condivisa consapevolezza dell’oscurità che si celava dentro a certe persone. Jessie era arrivata a fidarsi così tanto di lei che Kat era una delle cinque o sei persone al mondo che sapevano che lei era la figlia del Boia dell’Ozarks.

Mentre Kat veniva verso di lei, Jessie notò ancora una volta la perfezione del capo della sicurezza del DNR. Fisicamente imponente nonostante fosse alta poco più di un metro e settanta, il suo corpo da 65 chili era quasi interamente fatto di muscoli e volontà d’acciaio. Ex Ranger dell’esercito, aveva eseguito due tour in Afghanistan e portava i resti di quei giorni stampati sul volto, butterato per le bruciature da frammenti di proiettile e con una lunga cicatrice che partiva subito sotto l’occhio sinistro e percorreva il volto verticalmente fino al lato della guancia. Gli occhi grigi erano misurati, attenti nell’osservare ogni minimo dettaglio e valutare se fosse o meno una minaccia.

Chiaramente non considerava tale Jessie. Sorrise e la strinse in un solido abbraccio.

“Da quanto tempo, signora FBI,” le disse con entusiasmo.

Jessie annaspò per riprendere fiato dopo quella stretta possente, parlando solo quando se ne fu liberata.

“Non appartengo all’FBI,” le ricordò. “Ho solo preso parte al programma di addestramento. Sono ancora affiliata al Dipartimento di Polizia di Los Angeles.”

“Come vuoi,” disse Kat chiudendo il discorso. “Stavi a Quantico, hai lavorato con le autorità del tuo campo, hai imparato belle cose sulle tecniche dell’FBI. Se ho voglia di chiamarti signora FBI, lo faccio.”

“Sei significa che non mi spaccherai la schiena a metà, puoi chiamarmi come ti pare.”

“Detto questo, penso che non potrò più farlo,” puntualizzò Kat. “Mi sembri più forte di prima. Mi pare di capire che non ti hanno fatto lavorare solo di cervello mentre stavi lì.”

“Sei giorni alla settimana,” le raccontò Jessie. “Lunghe corse, percorsi a ostacoli, autodifesa e addestramento con le armi. Diciamo che mi hanno veramente fatto il culo dandomi una forma piuttosto decente.”

“Mi devo preoccupare?” chiese Kat con finta preoccupazione, facendo un passo indietro e sollevando le braccia sulla difensiva.

“Non penso di essere una minaccia per te,” ammise Jessie. “Ma mi sento in grado di potermi proteggere contro qualsiasi persona sospetta, cosa che non era decisamente possibile prima. In retrospettiva, sono stata fortunata ad essere sopravvissuta ad alcuni dei miei più recenti incontri.”

“È meraviglioso, Jessie,” disse Kat. “Magari dovremmo allenarci un giorno o l’altro. Giusto un paio di round per tenerti in forma.”

“Se con un po’ di round intendi un po’ di round di spari, ci sto. Così potrei prendermi una piccola pausa dalla corsa e ginnastica quotidiana.”

“Ritiro tutto quello che ho detto,” disse Kat. “Sei sempre la solita pappamolle di sempre.”

“Oh, ecco la Kat Gentry che ho imparato a conoscere e ammirare. Sapevo che c’era un motivo per cui eri la prima persona che volevo vedere quando sono tornata in città.”

“Sono lusingata,” disse Kat. “Ma penso che entrambe sappiamo che non sono io la persona per cui sei venuta qui. La finiamo con le chiacchiere e andiamo dentro?”

Jessie annuì e seguì Kat nell’Area preparatoria di transizione, dove sterilità e silenzio misero fine allo slancio giocoso del loro incontro.



*



Quindici minuti dopo, Kat condusse Jessie alla porta che connetteva l’ala di sicurezza del DNR ad alcune delle persone più pericolose del pianeta. Erano già state nel suo ufficio per un aggiornamento riguardante gli ultimi mesi, che erano stati sorprendentemente privi di eventi.

Kat l’aveva informata che non appena Crutchfield l’aveva minacciata di un imminente incontro con suo padre, la già serrata sicurezza era stata aumentata ancora di più. La struttura aveva aggiunto ulteriori videocamere di sicurezza e ancora più verifiche dell’identità dei visitatori.

Non c’erano prova che Xander Thurman avesse tentato di fare visita a Crutchfield. I suoi soli ospiti erano stati il medico che veniva ogni mese a controllare le sue funzioni vitali, lo psichiatra con cui non parlava quasi mai e un detective del Dipartimento di Polizia di Los Angeles che aveva sperato, inutilmente, che Crutchfield condividesse informazioni su un caso congelato su cui stava lavorando, e il suo avvocato d’ufficio che si era presentato solo per assicurarsi che non lo stessero torturando. Aveva a malapena dialogato con tutti loro.

Secondo Kat, non aveva parlato di Jessie con il personale, e neppure con Ernie Cortez, il simpatico agente che faceva da supervisore alle sue docce settimanali. Era come se lei non fosse esistita in questo periodo. Jessie si chiese se fosse arrabbiato con lei.

“So che ricordi come funziona,” disse Kat mentre stavano vicino alla porta di sicurezza. “Ma sono passati un po’ di mesi, quindi diamo una ripassata alle procedure di sicurezza come precauzione. Non avvicinarti al prigioniero. Non toccare la barriera di vetro. So che non ti interessa, ma ufficialmente, non dovresti condividere nessuna informazione personale. Chiaro?”

“Sì,” disse Jessie, felice dei promemoria. Le servivano per predisporsi nel giusto assetto mentale.

Kat fece strisciare il proprio badge e annuì guardando la videocamera sopra alla porta. Qualcuno fece scattare la serratura automatica facendole entrare. Jessie fu subito travolta dal sorprendente via vai di attività. Invece delle solite quattro guardie di sicurezza, ce n’erano sei. Inoltre c’erano tre uomini con uniformi da operai che andavano in giro con diversi pezzi di attrezzature tecniche.

“Cosa sta succedendo?” chiese Jessie.

“Oh, mi sono dimenticata di dirtelo: ci arriveranno alcuni nuovi residenti a metà settimana. Avremo tutte e dieci le celle piene. Quindi stiamo controllando l’attrezzatura di sorveglianza nelle celle vuote per essere certi che tutto funzioni bene. Abbiamo anche aumentato il personale addetto alla sicurezza in ogni turno da quattro a sei agenti durante il giorno, compresa me, e da tre a quattro durante la notte.”

“Mi pare… rischioso,” disse Jessie diplomaticamente.

“Ero contraria,” ammise Kat. “Ma la contea aveva necessità e noi avevamo celle disponibili. È stata una battaglia persa da subito.”

Jessie annuì mentre si guardava attorno. I fondamenti del posto sembravano gli stessi. L’unità era progettata come una ruota con un centro di comando nel mezzo e raggi che si allungavano in ogni direzione, portando alle celle dei detenuti. Al momento c’erano sei agenti nello spazio ora affollato del centro di comando, che assomigliava a una stazione infermieristica decisamente piena.

Alcuni volti le erano nuovi, ma la maggior parte apparivano invece familiari, incluso Ernie Cortez. Ernie era un omone grande e grosso, circa due metri per oltre cento chili di muscoli. Era sulla trentina e aveva i primi segni grigi nei capelli corti e neri. Quando vide Jessie, le rivolse un ampio sorriso.

“Signorina elegante,” le disse, usando l’affettuoso soprannome che le aveva affibbiato la prima volta che si erano visti, quando aveva tentato di fare colpo su di lei, suggerendole che avrebbe potuto fare la modella. Lei lo aveva fermato praticamente subito, ma lui non sembrava essersela presa.

“Come va, Ernie?” gli chiese con un sorriso.

“Lo sai: il solito. Mi assicuro che pedofili, stupratori e assassini facciano i bravi. E tu?”

“Praticamente lo stesso,” disse, decidendo di non entrare nei particolari delle sue attività degli ultimi mesi con così tante facce non conosciute attorno.

“Quindi, adesso che hai avuto un po’ di mesi a disposizione per occuparti del tuo divorzio, vuoi passare un po’ di tempo di qualità con il buon vecchio Ernie? Questo week end ho in programma di andare a Tijuana.”

“Il buon vecchio Ernie?” ripeté Jessie, incapace di fare a meno di ridere.

“Cosa c’è?” disse lui sulla finta difensiva. “Non mi si addice come descrizione?”

“Scusami, buon vecchio Ernie, ma sono piuttosto certa di avere altri programmi per questo week end. Ma divertiti a fare festa! Comprami delle Chiclet, ok?”

“Ahi,” rispose lui, stringendosi il petto come se gli avessero tirato una freccia al cuore. “Anche i ragazzi grandi e grossi hanno dei sentimenti, sai? E siamo anche, capisci, grandi e grossi.”

“Va bene, Cortez,” si intromise Kat, “adesso basta. Mi hai fatto venire il vomito ormai. E Jessie ha i suoi affari di cui occuparsi.”

“Cattiva,” mormorò lui sottovoce mentre riportava la sua attenzione sul monitor davanti a sé. Nonostante le sue parole, il tono suggeriva che non era per niente ferito. Kat fece cenno a Jessie di seguirla verso l’ala con la cella di Crutchfield.

“Questo ti potrebbe servire,” le disse porgendole il piccolo telecomando con il pulsante rosso al centro. Si trattava del dispositivo “di emergenza”. Jessie la considerava un po’ una sorta di copertina di Linus digitale.

Se Crutchfield avesse ingarbugliato troppo le cose con lei e le fosse venuta voglia di uscire dalla stanza senza fargli sapere dell’impatto che stava avendo su di lei, doveva solo premere il pulsante che teneva nascosto in mano. Quello avrebbe allertato Kat, che avrebbe potuto mandarla fuori dalla stanza per un qualche motivo inventato. Jessie era piuttosto certa che Crutchfield fosse a conoscenza del dispositivo, ma era comunque contenta di averlo.

Afferrò il telecomando, fece un cenno di assenso a Kat per dirle che era pronta ad entrare e fece un profondo respiro. Kat aprì la porta e Jessie entrò.

A quanto pareva Crutchfield aveva anticipato il suo arrivo. Era in piedi a pochi centimetri dal vetro che divideva la stanza a metà, e le sorrideva.




CAPITOLO SEI


Jessie ci mise un paio di secondi a distogliere gli occhi dai suoi denti storti e valutare la situazione.

In superficie non sembrava per niente diverso da come lo ricordava. Aveva ancora i capelli biondi rasati corti. Indossava ancora la divisa obbligatoria azzurra. Aveva ancora il volto leggermente paffuto che ci si sarebbe aspettati da un uomo altro circa un metro e settantacinque per settanta chili di peso. Lo faceva sembrare più vicino ai venticinque anni che hai trentacinque che effettivamente aveva.

E aveva ancora gli stessi occhi castani inquisitori, quasi rapaci. Erano l’unico accenno che lasciasse intendere che l’uomo di fronte a lei aveva ucciso almeno diciannove persone, se non forse il doppio.

Neanche la cella era cambiata. Era piccola, con uno stretto letto senza lenzuola avvitato alla parete di fondo. Nell’angolo di destra si trovava una piccola scrivania con una sedia attaccata, accanto a un piccolo lavandino. Dietro c’era un gabinetto, disposto sul fondo, con una porta scorrevole in plastica per consentire un minimo di privacy.

“Signorina Jessie,” le disse con voce suadente. “Che sorpresa inaspettata imbattersi in te qui.”

“Eppure lei se ne sta lì in piedi come se stesse aspettando il mio arrivo,” ribatté lei, non volendo concedergli un solo secondo di vantaggio. Si avvicinò al tavolo accanto al vetro e si sedette sulla sedia. Kat assunse la sua solita posizione di controllo, in piedi nell’angolo della stanza.

“Ho percepito un cambiamento nell’energia di questa struttura,” rispose lui, il suo accento della Louisiana più pronunciato che mai. “L’aria sembrava più dolce e mi è parso di sentire gli uccelli che cinguettavano fuori.”

“Non mi pare che lei sia sempre così propenso alle moine,” notò Jessie. “Le spiacerebbe condividere con me il motivo di questo umore così lusinghiero?”

“Niente in particolare, signorina Jessie. Un uomo non può semplicemente apprezzare la piccola gioia che gli viene dall’arrivo di un visitatore inaspettato?”

Qualcosa nel modo in cui disse le ultime parole fece venire i brividi a Jessie, come se ci fosse altro da dover aggiungere. Rimase seduta in silenzio per qualche secondo, permettendo alla propria mente di lavorare, per niente preoccupata dai limiti di tempo. Sapeva che Kat le avrebbe permesso di condurre l’interrogatorio a proprio piacimento.

Rigirandosi le parole di Crutchfield nella testa, si rese conto che potevano avere più di un significato.

“Quando parla di visitatori inaspettati, si riferisce a me, signor Crutchfield?”

Lui la fissò per diversi secondi senza parlare. Alla fine, lentamente, il largo sorriso che aveva stampato in volto si trasformò in un più malevolo – e più credibile – ghigno.

“Non abbiamo ancora stabilito le regole di base per questa visita,” disse, voltandole di colpo le spalle.

“Penso che i tempi delle regole siano passati da tempo, non crede, signor Crutchfield?” gli chiese. “Ci conosciamo da tempo ormai, e direi che a questo punto possiamo permetterci di parlare e basta, no?”

Crutchfield andò fino al letto che stava appeso alla parete della cella e si sedette, l’espressione leggermente nascosta nell’ombra.

“Ma come faccio a essere sicuro che sarai disponibile come vorresti che io fossi con te?” le chiese.

“Dopo aver chiesto a uno dei suoi scagnozzi di fare irruzione nell’appartamento della mia amica spaventandola al punto che ancora non riesce a dormire, non sono certa che lei si sia pienamente guadagnato la mia fiducia o il mio desiderio ad essere disponibile.”

“Tiri in ballo quell’evento,” le disse, “ma trascuri di considerare le innumerevoli volte che ti ho dato assistenza in casi tanto professionali quanto personali. Per ogni cosiddetta indiscrezione da parte mia, io ho compensato con informazioni che si sono dimostrate colme di valore per te. Tutto quello che sto chiedendo sono sicurezze riguardo al fatto che questa non si trasformi in una via a senso unico.”

Jessie lo guardò con determinazione, cercando di capire quanto disponibile avrebbe potuto rivelarsi pur mantenendo la dovuta distanza professionale.

“Cosa sta cercando esattamente?”

“In questo momento? Solo il tuo tempo, signorina Jessie. Preferirei che non facessi così l’estranea. Sono passati settantacinque giorni da quando mi hai concesso l’ultima volta la tua presenza. Un uomo meno sicuro di me potrebbe prendere questa lunga assenza come un’offesa.”

“Ok,” disse Jessie. “Prometto di farle visita più regolarmente. In effetti, mi assicurerò di passare almeno un’altra volta questa settimana. Come le pare?”

“È un inizio,” rispose lui con tono indifferente.

“Fantastico. E allora torniamo alla mia domanda. Prima ha detto di apprezzare la gioia che deriva da visite inaspettate. Si riferiva a me?”

“Signorina Jessie, anche se è sempre un piacere godere dalla tua compagnia, devo confessarti che il mio commento era effettivamente riferito a un altro visitatore.”

Jessie poté sentire Kat irrigidirsi nell’angolo dietro di lei.

“E a chi si sta riferendo,” chiese, mantenendo lo stesso livello di voce.

“Penso tu lo sappia.”

“Mi piacerebbe che lei me lo dicesse,” insistette Jessie.

Bolton Crutchfield si alzò di nuovo in piedi, ora più visibile sotto la luce, e Jessie poté notare che si stava passando la lingua sulle labbra, come le se lei fosse un pesce appeso a una lenza con cui stava giocherellando.

“Come ti ho assicurato l’ultima volta che abbiamo parlato, ti avevo spiegato che avrei fatto una chiacchierata con tuo papà.”

“E l’ha fatto?”

“Certo che sì,” le rispose con tono noncurante, come se le stesse dicendo l’ora. “Mi ha chiesto di portarti i suoi saluti, dopo che gli ho offerto i tuoi.”

Jessie lo fissò attentamente, cercando un indizio sul suo volto, tentando di capire se stesse nascondendo qualcosa.

“Ha parlato con Xander Thurman,” chiese per conferma, “in questa stanza, nel corso delle scorse undici settimane?”

“Sì.”

Jessie sapeva che Kat stava esplodendo dal desiderio di fargli delle domande per tentare di avere conferma della veridicità della sua affermazione e di come fosse potuto succedere. Ma nella sua testa questo era secondario e se ne sarebbero potute occupare poi. Jessie non voleva che la conversazione venisse deviata, quindi proseguì prima che l’amica potesse dire qualsiasi cosa.

“Di cosa avete parlato?” gli chiese, tentando di mantenere la voce neutra.

“Beh, abbiamo dovuto mantenerci piuttosto criptici, in modo da non rivelare la sua vera identità a coloro che stavano ascoltando. Ma il fulcro della nostra chiacchierata sei stata tu, signorina Jessie.”

“Io?”

“Sì. Se ricordi bene, io e lui abbiamo avuto un incontro un paio di anni fa, e al tempo mi aveva avvisato che un giorno avresti potuto venire a farmi visita. Ma che avresti avuto un nome diverso rispetto a quello che ti aveva dato lui, Jessica Thurman.”

Jessie trasalì involontariamente a udire il nome che non sentiva pronunciare da nessuno da una ventina d’anni. Sapeva che lui avrebbe visto la sua reazione, ma non poté farci nulla. Crutchfield sorrise soddisfatto e continuò.

“Voleva sapere come stava la sua figlia perduta da tempo. Era interessato in ogni genere di dettaglio – che lavoro fai, dove vivi, che aspetto hai adesso, qual è il tuo nuovo nome. È molto ansioso di rimettersi in contatto con te, signorina Jessie.”

Mentre Crutchfield parlava, Jessie si impose di inspirare ed espirare lentamente. Ricordò a se stessa di decontrarre il corpo e fare del proprio meglio per restare calma, anche se era tutta una facciata. Doveva apparire imperturbata mentre poneva la domanda successiva.

“E lei ha condiviso alcuni di questi dettagli con lui?”

“Solo uno,” rispose con tono malizioso.

“E quale sarebbe?”

“La casa è dove risiede il cuore,” le disse.

“Cosa diavolo vuol dire?” chiese Jessie, il cuore che improvvisamente batteva rapidamente.

“Gli ho detto dove si trova il luogo che chiami casa,” disse lui con chiarezza.

“Gli ha dato il mio indirizzo?”

“Non sono stato così specifico. A essere onesto, non conosco il tuo indirizzo esatto, nonostante i miei migliori sforzi per scoprirlo. Ma so abbastanza da poter permettere a lui di trovarlo, se sarà abbastanza sveglio. E come entrambi sappiamo, signorina Jessie, il tuo papà è molto sveglio.”

Jessie deglutì a fatica e si impose di non urlargli addosso. Stava ancora rispondendo alle sue domande e lei aveva bisogno di tutte le informazioni che poteva estrapolare, prima che si fermasse.

“Quindi quanto tempo ho prima che venga a bussare alla mia porta?”

“Dipende da quanto tempo ci metterà a mettere insieme tutti i pezzi,” disse Crutchfield scrollando esageratamente le spalle. “Come ho detto, ho dovuto parlare in modo un po’ criptico. Se fossi stato troppo specifico, avrei lanciato dei segnali di allarme alle persone che monitorano ogni mia conversazione. Non sarebbe stato produttivo.”

“Perché non mi racconta esattamente quello che gli ha detto? In questo modo posso organizzarmi adeguatamente con i tempi.”

“E dove sta il divertimento allora, signorina Jessie? Mi piaci parecchio, ma questo mi sembrerebbe un vantaggio irragionevole. Dobbiamo concedere una possibilità a quest’uomo.”

“Una possibilità?” ripeté Jessie incredula. “Di fare cosa? Di squartarmi come ha fatto con mia madre?”

“Non mi pare per niente corretto,” rispose Crutchfield, apparentemente sempre più calmo, man mano che Jessie si agitava. “Avrebbe potuto farlo al tempo in quel capanno in mezzo alla neve tanti anni fa. Ma non l’ha fatto. Allora perché dare per scontato che voglia farti del male ora? Magari vuole solo portare la sua signorinella a Disneyland per una gita.”

“Mi vorrà perdonare se non sono incline a dargli il beneficio del dubbio,” rispose lei con tono secco. “Questo non è un gioco, Bolton. Vuoi che venga a trovarti ancora? Devo essere viva per poterlo fare. La tua migliore amica non sarà molto loquace se il tuo mentore la fa a pezzi.”

“Due cose, signorina Jessie: prima di tutto capisco quanto questa notizia sia sconvolgente, ma preferirei che non assumessi questo tono familiare con me. Chiamarmi per nome? Non solo manca di professionalità, ma non è da te.”

Jessie rimase in silenzio ribollendo per la rabbia. Ancora prima che le dicesse la seconda cosa, già sapeva che le avrebbe detto ciò che lei voleva. Eppure rimase in silenzio, mordendosi letteralmente la lingua nella speranza ardente che non cambiasse idea.

“E secondo,” aggiunse, ovviamente soddisfatto di vederla così agitata, “anche se godo della tua compagnia, non avere la presunzione di pensare di essere la mia migliore amica. Non dimenticare la tua onnipresente e sempre vigile agente Gentry dietro di te. Lei è davvero un fiorellino: un fiorellino secco e appassito. Come le ho detto in più di un’occasione, quando uscirò da questo posto, intendo darle un saluto speciale, se capisci cosa intendo. Quindi non tentare di scavalcarla per metterti in testa.”

“Io…” iniziò a dire Jessie, sperando di cambiare idea.

“Tempo scaduto, mi spiace,” disse lui interrompendola. E detto questo si voltò, dirigendosi verso la piccola nicchia in cui si trovava il gabinetto, chiudendosi alle spalle il divisorio in plastica e mettendo così fine alla conversazione.




CAPITOLO SETTE


Jessie stava allerta, in guardia per notare qualsiasi cosa o persona che fosse fuori dall’ordinario.

Mentre svoltava verso casa sua, seguendo il solito percorso intricato di prima quello stesso giorno, tutte le precauzioni di sicurezza di cui era stata così fiera solo poche ore prima, adesso le apparivano miseramente inadeguate.

Questa volta si era raccolta i capelli in una crocchia sulla nuca e li aveva nascosti sotto a un berrettino da baseball e al cappuccio della felpa che aveva comprato tornando da Norwalk. Si era appesa davanti al petto la piccola borsa a forma di zainetto. Nonostante quelle misure extra di anonimità, non indossò gli occhiali da sole, preoccupata che potessero limitare la sua visuale.

Kat aveva promesso di visionare tutti i nastri relativi alle recenti visite di Crutchfield per vedere se qualcosa fosse sfuggito ai controlli. Aveva anche detto che se Jessie avesse potuto aspettare fino alla fine del turno, sarebbe andata fino al centro di Los Angeles, anche se lei abitava nella più distante città di Industry, per darle una mano e assicurarsi che tornasse sana e salva. Jessie aveva educatamente declinato l’offerta.

“Non posso contare su una scorta armata ovunque vada da ora in poi,” aveva insistito.

“Perché no?” le aveva chiesto Kat con tono parzialmente scherzoso.

Ora, mentre percorreva il corridoio fino al suo appartamento, si chiedeva se avrebbe dovuto accettare l’offerta dell’amica. Si sentiva particolarmente vulnerabile con la borsa della spesa sottobraccio. L’atrio era avvolto in un silenzio di tomba e Jessie non aveva visto assolutamente nessuno da quando era entrata nell’edificio. Prima che potesse levarsi quel pensiero dalla testa, un’idea folle le si accese in mente: che suo padre avesse ucciso tutti in modo da non dover gestire complicazioni quando l’avesse finalmente incontrata?

La luce dello spioncino era verde, cosa che le consentì una certa sicurezza quando aprì la porta, guardando entrambi i lati del corridoio per assicurarsi che non ci fosse nessuno in procinto di saltarle addosso. Non successe nulla. Una volta all’interno, accese le luci e poi chiuse tutte le serrature prima di disconnettere entrambi gli allarmi. Subito dopo riattivò la modalità ‘in casa’ per potersi muovere per l’appartamento senza far scattare i sensori di movimento.

Posò la borsa della spesa sul bancone della cucina e perlustrò la casa, il manganello pronto in mano. Aveva fatto domanda di un porto d’armi da fuoco prima di partire per Quantico e quando fosse andata al lavoro il giorno dopo avrebbe potuto prendere la sua pistola. In parte avrebbe voluto averla già presa quando si era fermata a prendere la posta poco prima quello stesso giorno. Quando fu finalmente sicura che l’appartamento fosse privo di pericoli, iniziò a mettere via la spesa, lasciando fuori il sashimi che aveva preso per cena invece della pizza.

Non c’è niente di meglio che un sushi del supermercato di lunedì per rendere particolarmente felice una ragazza single nella grande città.

Il pensiero la fece sorridere brevemente, prima che le tornasse in mente il pensiero che il suo padre serial killer aveva ottenuto degli indizi per trovare il suo luogo di residenza. Forse non era proprio una mappa, ma da quello che Crutchfield aveva detto, poteva essergli sufficiente per riuscire a trovarla alla fine. La grossa domanda era: quando sarebbe stato questo ‘alla fine’?



*



Novanta minuti dopo Jessie stava prendendo a pugni un grosso sacco pesante, madida di sudore che le ricopriva tutto il corpo. Dopo aver finito il sushi si sentiva irrequieta e fremente e aveva deciso di allenarsi per eliminare le sue frustrazioni in modo costruttivo in palestra.

Non era mai stata una grossa appassionata di allenamento. Ma nel tempo trascorso all’Accademia Nazionale, aveva fatto una scoperta inaspettata. Quando si allenava fino ad essere esausta, non restava spazio per le ansie e le paure che la consumavano così tanto nel resto del tempo. Se solo lo avesse saputo una decina d’anni prima, si sarebbe risparmiata migliaia di notti insonni, o infiniti incubi.

Questo le avrebbe anche risparmiato probabilmente alcuni viaggi dalla sua terapeuta, la dottoressa Janice Lemmon, una rinomata psicologa forense. La dottoressa Lemmon era una delle poche persone a conoscere i dettagli del passato di Jessie. Era stata una risorsa di estremo valore negli anni più recenti.

Attualmente però si trovava in fase di ripresa dopo un trapianto di fegato e per qualche settimana ancora non sarebbe stata disponibile per una seduta. Anche se la terapia dell’allenamento poteva essere più economica, Jessie sapeva che ci sarebbero di certo stati momenti in cui avrebbe avuto bisogno di vedere la dottoressa in futuro.

Mentre proseguiva con una nuova serie di pugni, ricordò come, prima del viaggio a Quantico, si fosse spesso svegliata sudando freddo e respirando affannosamente, cercando di ricordare a se stessa che si trovava al sicuro a Los Angeles e non in un piccolo capanno nell’Ozarks del Missouri, legata a una sedia con gli occhi fissi sul sangue che gocciolava dal cadavere in lento congelamento di sua madre.

Se solo fosse stato solo un sogno. Ma era reale. Quando aveva sei anni e il matrimonio dei suoi genitori aveva iniziato ad avere delle difficoltà, suo padre aveva portato lei e sua madre in un capanno isolato. In quella circostanza aveva rivelato loro che rapiva, torturava e uccideva la gente, e che lo faceva da anni. Poi aveva riservato lo stesso trattamento alla sua stessa moglie, Carrie Thurman.

Dopo averle ammanettato i polsi alle travi del soffitto per pugnalarla a intervalli regolari con un coltello, aveva costretto Jessie – allora Jessica Thurman – a guardare. Le aveva legato le braccia a una sedia e le aveva messo del nastro adesivo sugli occhi perché stessero aperti, fino a che aveva definitivamente ucciso sua madre.

Poi aveva usato lo stesso coltello per fare un grosso taglio sulla pelle della sua stessa figlia, dalla spalla sinistra alla base del collo. Dopodiché se n’era semplicemente andato dal capanno. Dopo tre giorni, due cacciatori che passavano di lì per caso, avevano trovato la bambina, in ipotermia e in completo stato di shock.

Quando si era ripresa, aveva raccontato alla polizia e all’FBI la sua storia. Ma a quel punto suo padre era sparito da tempo e con lui se n’era andata anche ogni speranza di acciuffarlo. Jessica era stata inserita nel programma protezione testimoni a Las Cruces con gli Hunt. Jessica Thurman era diventata Jessie Hunt ed era iniziata per lei una nuova vita.

Jessie si scosse dalla testa quei ricordi, passando dai pugni ai calci. Accolse il dolore che derivava da quello sforzo e a ogni calcio l’immagine della pelle pallida e priva di vita di sua madre si dissolse a poco a poco. Poi un altro ricordo le si accese nella memoria, quello dell’ex marito Kyle che la aggrediva nella loro stessa casa, cercando di ucciderla e incastrarla per l’omicidio della sua amante. Jessie poteva quasi sentire ancora il bruciore dell’attizzatoio del caminetto che le si piantava nel lato sinistro dell’addome.

Il dolore fisico di quel momento andava a braccetto con l’umiliazione che Jessie ancora provava per aver passato dieci anni di relazione con un sociopatico senza neanche rendersene conto. Dopotutto lei doveva essere un’esperta nell’identificare quel genere di persone.

Jessie eliminò anche quel pensiero, sperando di cacciare dalla mente anche la vergogna passando a una serie di colpi di gomito mirati alla mandibola di un ipotetico assalitore. Le spalle stavano iniziando a farle davvero male, ma lei continuò a battere colpi contro il sacco, sapendo che la sua mente sarebbe stata presto troppo stanca per essere angosciata.

Questa era la parte di sé che non si era aspettata di scoprire all’FBI: l’aggressività fisica. Nonostante le apprensioni standard che provava quando era arrivata, aveva pensato che se la sarebbe cavata bene nella parte accademica del programma. Aveva appena trascorso tre anni in quell’ambiente, immersa nella psicologia criminale.

E aveva avuto ragione. Le lezioni di legge, scienza forense e terrorismo le erano venute facili. Anche il seminario in scienza comportamentale, dove gli insegnanti erano eroi per lei e dove pensava che sarebbe stata nervosa, si era rivelato naturale. Ma erano state le lezioni di allenamento fisico e di autodifesa che l’avevano davvero sorpresa.

I suoi istruttori le avevano insegnato che con quasi un metro e ottanta di altezza e 65 chili di peso aveva la struttura per confrontarsi con i maggiori criminali, se fosse stata debitamente preparata. Probabilmente non avrebbe mai avuto le abilità nel combattimento corpo a corpo di una veterana ex soldato delle Forze Speciali come Kat Gentry, ma aveva lasciato il corso con la certezza di sapersi difendere nella maggior parte delle situazioni.

Jessie si tolse i guantoni e andò al tapis roulant. Lanciando un’occhiata all’orologio vide che erano quasi le otto di sera. Decise che una bella corsa di 7 o 8 chilometri le sarebbe stata sufficiente per poter dormire senza fare brutti sogni. Era una priorità, dato che avrebbe ricominciato a lavorare il giorno dopo, e sapeva che tutti i colleghi le avrebbero sicuramente rotto le scatole aspettandosi che lei fosse una specie di supereroe dell’FBI adesso.

Impostò il tempo in quaranta minuti e diede il massimo per completare otto chilometri con un ritmo di circa 12 chilometri all’ora. Poi alzò il volume nelle cuffiette. Quando i primi secondi di ‘Killer’ di Seal partirono, la mente le si svuotò e Jessie si concentrò solo sul compito che aveva davanti. Era completamente ignara del titolo della canzone o di qualsiasi ricordo personale questa potesse risvegliare. C’erano solo il ritmo e le sue gambe che correvano in armonia con esso. Era la situazione più vicina al senso di pace che Jessie potesse pensare di ottenere.




CAPITOLO OTTO


Eliza Longworth si presentò alla porta di Penny il più rapidamente possibile. Erano quasi le otto di mattina, l’ora in cui in genere arrivava la loro insegnante di yoga.

Era stata una notte per lo più insonne. Solo alle prime luci del giorno le era parso di percepire quale fosse la strada giusta da percorrere. Una volta presa la decisione, Eliza sentì un peso che le si levava di dosso.

Aveva mandato un messaggio a Penny per dirle che la lunga notte le aveva concesso il tempo per pensare e riconsiderare se fosse stata troppo frettolosa a porre fine alla loro amicizia. Avrebbero dovuto fare la lezione di yoga. E poi, quando la loro insegnante Beth se ne fosse andata, avrebbero potuto trovare un modo per sistemare le cose.

Penny non aveva risposto, ma questo non aveva impedito ad Eliza di andare comunque da lei. Quando raggiunse la porta, vide l’auto di Beth risalire la via del quartiere mentre la donna le faceva un cenno di saluto.

“Penny!” gridò mentre bussava alla porta. “Beth è arrivata. Siamo sempre d’accordo per la lezione di yoga?”

Non ci fu risposta, quindi premette il pulsante del campanello e agitò le braccia davanti alla videocamera.

“Penny, posso entrare? Dovremmo parlare un secondo prima che arrivi Beth.”

Ancora nessuna risposta, e Beth era a un centinaio di metri di distanza dalla casa, in fondo alla strada, quindi Eliza decise di entrare. Sapeva della chiave di scorta nascosta, ma tentò comunque di spingere la porta per vedere se fosse già aperta. Lo era. Entrò, lasciando l’ingresso aperto per Beth.

“Penny,” chiamò. “Hai lasciato la porta aperta. Beth sta arrivando. Ti è arrivato il mio messaggio? Possiamo parlare in privato un minuto prima di iniziare?”

Entrò nell’atrio e aspettò. Ancora nessuna risposta. Passò allora in salotto, dove di solito facevano la loro lezione di yoga. Anche quello era vuoto. Stava per andare verso la cucina, quando Beth entrò.

“Signore, sono qui!” salutò dalla porta.

“Ciao Beth,” disse Eliza volandosi per salutarla. “La porta era aperta, ma Penny non risponde. Non sono sicura di cosa stia succedendo. Magari si è addormentata, oppure è in bagno o qualcosa del genere. Posso controllare di sopra se intanto vuoi prenderti qualcosa da bere. Ci metto un minuto.”

“Nessun problema,” disse Beth. “La mia cliente delle nove e mezza ha annullato la lezione, quindi non sono di fretta. Dille di fare con comodo.”

“Perfetto,” disse Eliza iniziando a salire le scale. “Dacci solo un minuto.”

Era quasi a mezza rampa quando si chiese e non avesse dovuto forse prendere l’ascensore. La camera da letto era al terzo piano e lei non era proprio entusiasta di quella scarpinata. Prima di poterci veramente ripensare, sentì un grido provenire dal piano di sotto.

“Cosa c’è?” esclamò mentre si girava e correva giù.

“Sbrigati!” strillò Beth. “Oh santo Dio! Veloce!”

La sua voce veniva dalla cucina. Eliza partì di corsa non appena fu alla base delle scale, attraversando il salotto e svoltando l’angolo con la cucina.

Sul pavimento della cucina in ceramica spagnola c’era un’enorme pozza di sangue, al centro della quale era riverso il corpo di Penny. Aveva gli occhi spalancati nel terrore, il corpo contorto in un orribile spasmo di morte.

Eliza corse accanto alla sua più cara amica, scivolando sul denso liquido. Il piede scivolò di lato e lei cadde di peso a terra, facendo spruzzare sangue ovunque.

Cercando di controllare gli sforzi di vomito, mise le mani sul petto di Penny. Anche con gli abiti addosso, era fredda. Nonostante tutto Eliza la scosse, come se in qualche modo fosse possibile svegliarla.

“Penny,” la implorò. “Svegliati!”

L’amica non rispose. Eliza sollevò lo sguardo verso Beth.

“Sai come si pratica la rianimazione?” le chiese.

“No,” disse la donna con voce tremante, scuotendo la testa. “Ma penso sia troppo tardi.”

Ignorando il commento, Eliza cercò di ricordare la lezione di rianimazione che aveva seguito anni prima. Era rivolta al soccorso dei bambini, ma di sicuro si potevano applicare gli stessi principi. Aprì la bocca di Penny, le reclinò la testa all’indietro, le chiuse il naso e soffiò con forza nella gola dell’amica.

Poi le si mise a cavalcioni, posò le proprie mani una sopra all’altra e spinse con forza contro lo sterno di Penny. Lo fece una seconda volta e poi una terza, cercando di raggiungere un certo ritmo.

“Oddio,” sentì Beth mormorare, quindi sollevò lo sguardo per vedere cosa stesse succedendo.

“Cosa c’è?” le chiese con voce ansiosa.

“Quando premi, il sangue le esce dal petto.”

Eliza abbassò lo sguardo. Era vero. Ogni compressione causava una lenta perdita di sangue da quelli che apparivano essere degli ampi squarci nella cavità del petto. Eliza sollevò lo sguardo di nuovo.

“Chiama il nove-uno-uno!” gridò, anche se sapeva che non c’era nulla da fare.



*



Jessie, che si sentiva sorprendentemente nervosa, arrivò presto al lavoro.

Con tutte le precauzioni extra che aveva preso in merito di sicurezza, aveva deciso di partire presto per il suo primo giorno di lavoro dopo tre mesi di assenza, in modo da essere certa di arrivare per le nove, l’ora in cui il capitano Decker le aveva detto di presentarsi. Ma avrebbe dovuto impegnarsi a calcolare meglio tutto il tragitto di svolte e scale nascoste, perché non le ci volle poi così tanto per arrivare alla Stazione Centrale.

Mentre andava a piedi dalla struttura del parcheggio all’ingresso centrale del commissariato, i suoi occhi sfrecciavano a destra e a sinistra alla ricerca di qualsiasi cosa fosse fuori posto. Ma poi ricordò la promessa che si era fatta subito prima di addormentarsi la notte precedente. Non avrebbe permesso alla minaccia di suo padre di consumarla.

Non aveva idea di quanto vaghe o specifiche fossero state le informazioni che Bolton Crutchfield aveva dato a suo padre. Non poteva neanche essere certa che l’uomo le avesse detto la verità. Nonostante questo, non c’era molto altro che lei potesse fare rispetto a ciò che già stava facendo. Kat Gentry stava controllando i nastri con le registrazioni delle visite ricevute da Crutchfield. Fondamentalmente viveva in un bunker. Oggi avrebbe avuto la sua arma personale. E oltre a questo doveva vivere la sua vita. Altrimenti sarebbe diventata pazza.

Si diresse verso il corpo centrale del commissariato, un po’ più apprensiva del necessario dopo così tanto tempo. E poi, l’ultima volta che era stata lì, era semplicemente una consulente profiler junior con contratto provvisorio.

Ora il contratto a termine era scaduto e anche se lei era tecnicamente ancora una consulente, era pagata dal Dipartimento di Polizia di Los Angeles e riceveva tutti i benefici connessi. Questo comprendeva l’assicurazione sanitaria, di cui aveva decisamente bisogno, se le esperienze più recenti potevano essere considerate un esempio.

Quando entrò nell’ampia area di lavoro centrale, contenente decine di scrivanie separate tra loro da poco più che pannelli di sughero, respirò e aspettò. Ma non accadde nulla. Nessuno disse niente.

In effetti nessuno parve notare il suo arrivo. Alcune teste erano abbassate nello studio di cartelle di lavoro. Altri erano con gli occhi fissi su persone che avevano davanti, molto spesso testimoni o sospettati in manette.

Jessie si sentì leggermente avvilita. Ma più di questo, si sentiva sciocca.

Cosa mi aspettavo, una festa?

Non era che avesse vinto il mitico Premio Nobel per la risoluzione di casi. Era andata all’accademia di addestramento dell’FBI per due mesi e mezzo. Era una bella cosa, ma nessuno le avrebbe fatto un applauso per questo.

Camminò in silenzio in mezzo al labirinto di scrivanie, passando accanto a detective con cui aveva precedentemente lavorato. Callum Reid, un uomo sui quarantacinque anni, sollevò lo sguardo dalla cartella che stava leggendo. Quando le fece un cenno di saluto, gli occhiali quasi gli caddero dalla fronte, dove li aveva appoggiati.

Anche Alan Trembley, sulla ventina, i suoi ricci biondi come al solito spettinati, portava gli occhiali, ma i suoi erano inforcati sul naso mentre lui interrogava con concentrazione un uomo che sembrava essere ubriaco. Non notò neanche Jessie che gli passava accanto.

Raggiunse la sua scrivania, che era ordinata in modo quasi imbarazzante, si levò la giacca e posò la borsa zainetto. Poi si sedette. Subito vide Garland Moses che usciva lentamente dalla sala del personale, caffè alla mano, diretto al suo ufficio del secondo piano che era fondamentalmente uno sgabuzzino per le scope.

Dava l’idea di essere uno spazio non particolarmente adeguato per il profiler criminale più celebrato che il Dipartimento di Polizia di Los Angeles avesse, ma Moses non sembrava curarsene più di tanto. A dire il vero non erano molte le cose che gli davano fastidio. Aveva più di settant’anni e lavorava come consulente per il dipartimento più che altro per evitare la noia, e in dette circostanze il leggendario profiler aveva la concessione di fare qualsiasi cosa volesse. Era un ex agente dell’FBI e si era trasferito nella Costa occidentale per andare in pensione, ma poi lo avevano convinto a fare da consulente alla centrale. Lui aveva accettato, a condizione di poter scegliere i casi e gli orari di lavoro. Considerata la sua carriera, nessuno al tempo si era opposto, e ancora oggi la cosa andava bene a tutti.

Con un cespo di capelli bianchi in disordine, la pelle rugosa e spessa e un guardaroba che risaliva agli anni Ottanta, aveva la reputazione di essere al meglio scontroso, e decisamente scorbutico quando si arrabbiava. Ma nell’unica interazione significativa che Jessie aveva avuto con lui, lo aveva trovato, se non proprio caloroso, almeno propenso alla conversazione. Avrebbe voluto cogliere più dettagli della sua mente, ma era ancora un po’ timorosa nel confrontarsi con lui direttamente.

Mentre saliva le scale e scompariva alla vista, Jessie si guardò attorno cercando Ryan Hernandez, il detective con cui aveva lavorato più spesso e che reputava il più vicino a poter definire amico. Avevano anche iniziato recentemente a darsi del tu chiamandosi per nome, un grosso passo nella cerchia della polizia.

Si erano effettivamente conosciuti in circostanze non professionali, quando il suo professore universitario lo aveva invitato a parlare durante la sua lezione di psicologia criminale nell’ultimo semestre alla UC Irvine lo scorso autunno. Ryan aveva presentato un caso di studio che Jessie – unica nella sua classe – era stata capace di risolvere. Poi era venuta a sapere di essere stata solo la seconda persona ad averne mai trovato la soluzione.

Dopodiché erano rimasti in contatto. Lei lo aveva chiamato per aiuto dopo che aveva iniziato a nutrire dei sospetti sui moventi di suo marito, ma prima che tentasse di ucciderla. E quando si era nuovamente trasferita nel centro di Los Angeles, aveva trovato lavoro al Dipartimento di Polizia dove lui operava.

Avevano lavorato insieme a numerosi casi, incluso l’omicidio della ricca filantropa Victoria Missinger. Era stata in gran parte la scoperta del killer da parte di Jessie ad assicurarle il rispetto che l’aveva condotta al colpaccio con l’FBI. E tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’esperienza e l’istinto di Ryan Hernandez.

In effetti l’uomo era così fortemente stimato che gli avevano assegnato un’unità speciale nel Furto e Omicidio, chiamata Sezione Speciale Omicidi, detta anche SSO in breve. Erano specializzati in casi di alto profilo che davano origine ad alto interesse mediatico e giudizio pubblico. Generalmente si trattava di incendi dolosi, omicidi con più vittime, omicidi di persone note e ovviamente serial killer.

Oltre al suo dono come investigatore, Jessie doveva riconoscere che non era per niente spiacevole passare del tempo con lui. I due avevano un buon rapporto, come se si conoscessero da più di sei mesi. In qualche occasione a Quantico, quando aveva avuto il tempo di fermarsi un attimo, Jessie si era chiesta se le cose sarebbero potute andare diversamente se si fossero incontrati in altre circostanze. Ma al tempo Jessie era già sposata ed Hernandez e sua moglie stavano insieme da più di sei anni.





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In LA CASA PERFETTA (Libro #3), la profiler criminale Jessie Hunt, 29 anni, appena uscita dall’Accademia dell’FBI, torna a trovarsi braccata dal suo padre assassino, incastrata in un pericoloso gioco del gatto e del topo. Nel frattempo deve correre per fermare un killer in un nuovo caso che la porta nel cuore della periferia, e sull’orlo della propria salute mentale. Jessie si rende conto che la chiave per la sua sopravvivenza si trova nel decifrare il suo passato, un passato che non avrebbe mai voluto dover affrontare di nuovo.Un emozionante thriller psicologico dal ritmo incalzante, con personaggi indimenticabili e una suspense da far battere il cuore, LA CASA PERFETTA è il libro #3 di un’ammaliante nuova serie che ti costringerà a leggere fino a notte fonda.Il libro #4 della serie di Jessie Hunt sarà presto disponibile.

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