Книга - Il Volto della Paura

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Il Volto della Paura
Blake Pierce


Un Thriller di Zoe Prime #3
“UN CAPOLAVORO DEL THRILLER E DEL MISTERO. Blake Pierce ha svolto un lavoro magnifico nella caratterizzazione dei personaggi, così accuratamente descritti da un punto di vista psicologico che possiamo calarci nelle loro menti, provare le loro paure e gioire dei loro successi. Ricco di colpi di scena, questo libro vi terrà svegli fino all’ultima pagina.”

–-Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (re Il Killer della Rosa)



IL VOLTO DELLA PAURA è il volume #3 di una nuova collana di romanzi thriller incentrati sull’FBI ad opera dell’autore bestseller secondo USA Today Blake Pierce, il cui bestseller #1 Il Killer della Rosa (Volume #1) (download gratuito) ha ricevuto oltre 1,000 recensioni a cinque stelle.



L’Agente Speciale dell’FBI Zoe Prime soffre di una rara condizione che le dona anche un talento unico: quello di vedere il mondo attraverso una lente di numeri. I numeri la tormentano, rendendola incapace di relazionarsi agli altri e facendole avere una vita sentimentale deludente, ma le permettono anche di vedere schemi che nessun altro agente dell’FBI è in grado di vedere. Zoe tiene segreta la sua condizione, in preda alla vergogna e alla paura che i suoi colleghi possano scoprirla.



A Los Angeles, diverse donne vengono ritrovate morte, senza alcuno schema a parte il fatto di essere orribilmente marchiate. Trovandosi in un vicolo cieco, l’FBI si rivolge all’Agente Speciale Zoe Prime per trovare uno schema lì dove altri non riescono, e per fermare l’assassino prima che colpisca di nuovo.



Ma Zoe, in terapia, sta affrontando i propri demoni, ed è a malapena capace di muoversi nel suo mondo afflitto dai numeri, oltre ad essere sul punto di lasciare l’FBI. Riuscirà a entrare nella mente di questo assassino psicopatico, trovare lo schema nascosto e uscirne incolume?



Thriller ricco di azione dalla suspense al cardiopalma, IL VOLTO DELLA PAURA è il volume #3 di una nuova avvincente collana che vi terrà incollati alle pagine fino a notte fonda.



Il Volume #4 sarà disponibile a breve.





Blake Pierce

IL VOLTO DELLA PAURA




IL VOLTO


DELLA


PAURA




(Un Thriller di Zoe Prime—Volume 3)




B L A K E   P I E R C E




TRADUZIONE ITALIANA A CURA DI


ANTONIO CURATOLO



Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore statunitense oggi campione d’incassi della serie thriller RILEY PAGE, che include sedici libri (e altri in arrivo). Blake Pierce è anche l’autore della serie mistery MACKENZIE WHITE che comprende tredici libri (e altri in arrivo); della serie mistery AVERY BLACK che comprende sei libri; della serie mistery KERI LOCKE che comprende cinque libri; della serie mistery GLI INIZI DI RILEY PAIGE che comprende cinque libri (e altri in arrivo); della serie mistery KATE WISE che comprende sei libri (e altri in arrivo); dell’emozionante mistery psicologico CHLOE FINE che comprende cinque libri (e altri in arrivo); dell’emozionante serie thriller psicologico JESSIE HUNT che comprende cinque libri (e altri in arrivo); della seria thriller psicologico RAGAZZA ALLA PARI, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della serie mistery ZOE PRIME, che comprende due libri (e altri in arrivo) e della nuova seria thriller ADELE SHARP.

Un avido lettore e da sempre amante dei generi mistery e thriller, Blake ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.blakepierceauthor.com (http://www.blakepierceauthor.com/) per saperne di più e restare informati.








Copyright © 2020 by Blake Pierce. All rights reserved. Except as permitted under the U.S. Copyright Act of 1976, no part of this publication may be reproduced, distributed or transmitted in any form or by any means, or stored in a database or retrieval system, without the prior permission of the author. This ebook is licensed for your personal enjoyment only. This ebook may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this book with another person, please purchase an additional copy for each recipient. If you’re reading this book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then please return it and purchase your own copy. Thank you for respecting the hard work of this author. This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental. Jacket image Copyright used under license from Shutterstock.com.



LIBRI DI BLAKE PIERCE

LA SERIE THRILLER DI ADELE SHARP

NON RESTA CHE MORIRE (Libro #1)

NON RESTA CHE SCAPPARE (Libro #2)

NON RESTA CHE NASCONDERSI (Libro #3)



THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Volume#1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Volume #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Volume #3)



LA RAGAZZA ALLA PARI

QUASI SCOMPARSA (Libro #1)

QUASI PERDUTA (Libro #2)

QUASI MORTA (Libro #3)



THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Libro #1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Libro #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Libro #3)



I THRILLER PSICOLOGICI DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)

LA BUGIA PERFETTA (Libro #5)

IL LOOK PERFETTO (Libro #6)



I GIALLI PSICOLOGICI DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

UN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)

RITORNA A CASA (Libro #5)

FINESTRE OSCURATE (Libro #6)



I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)

SE LEI SI NASCONDESSE (Libro #4)

SE FOSSE FUGGITA (Libro #5)

SE LEI TEMESSE (Libro #6)

SE LEI UDISSE (Libro #7)



GLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)

PERSECUZIONE (Libro #5)



I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)

OMICIDI CASUALI (Libro #16)

IL KILLER DI HALLOWEEN (Libro #17)



UN RACCONTO BREVE DI RILEY PAIGE

UNA LEZIONE TORMENTATA



I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)

PRIMA CHE INSEGUA (Libro #13)



I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)



I MISTERI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)




CAPITOLO UNO


Callie mise le mani in tasca, piegando il gomito in modo tale da spingere la borsa che portava sulle spalle ancora di più contro il fianco. Era il genere di precauzione che prendeva sempre quando si recava a far visita a Javier, un suo amico con un vero talento per l’arte.

Si erano incontrati al college, e mentre Callie aveva forzatamente optato per un lavoro d’ufficio, Javier aveva scelto di provare a realizzare i suoi sogni. Ovviamente, vivere da artista avendo un debito da studente voleva anche dire non risiedere nel migliore dei quartieri. C’erano volte in cui Callie, una giovane donna attraente, non si sentiva per niente al sicuro da queste parti.

Ma quello – penso tra sé e sé mentre le dita sfioravano il freddo involucro della bomboletta – era il motivo per il quale portava sempre in tasca uno spray al peperoncino.

Aveva anche un piano di fuga: spruzzare il liquido e scappare, a seconda della posizione in cui si trovava. Doveva attraversare un vicoletto per raggiungere il monolocale di Javi, e quello era anche il nodo cruciale. Prima di quel punto, sapeva che avrebbe fatto meglio a tornare sui suoi passi, sulla strada principale, dove avrebbe potuto trovare la sicurezza tra la folla. Una volta superata la metà del vicolo, avrebbe dovuto correre verso il portone di Javi e urlare al citofono fino a quando lui non l’avesse fatta entrare.

Ad ogni modo, non aveva passato tutto il suo tempo a preoccuparsi dei potenziali rischi rappresentati dalla zona verso cui si stava dirigendo. Anzi, era proprio il contrario. Callie aveva escogitato il suo piano la seconda volta che aveva fatto visita a Javi, e da allora era stata libera di fantasticare mentre raggiungeva la casa del suo amico. Fantasticare sul tatuaggio che lui le stava disegnando e del risultato finale.

Lavoravano insieme su quei disegni da un paio d’anni, ancora prima che lei facesse il suo primo tatuaggio. Le era piaciuto così tanto che l’aveva implorato di realizzarne un altro, e questa sarebbe stata la terza volta in cui uno dei disegni del ragazzo avrebbe adornato il suo corpo. C’era qualcosa di sorprendentemente intimo in tutto questo, sebbene loro due non fossero mai stati amanti. Qualcosa del modo in cui la sua opera attraversava il corpo della donna, l’unico atto di ribellione nei confronti dello stile di vita aziendale che avrebbe indubbiamente dovuto sopportare per decenni.

O forse no. Forse alla fine avrebbe trovato un modo per uscirne, per fare le cose che amava davvero. Avrebbe dato vita a un lavoro tutto suo, sebbene non avesse ancora capito quale. Callie poteva ancora sperarci.

Si infilò nel vicolo, superando un bidone della spazzatura ribaltato e un murales che era stato ricoperto da graffiti da qualche ragazzino con delle bombolette spray. Arte, coperta da un inutile scarabocchio che esortava le città a sbarazzarsi dei murales. Una vergogna. Il sole della California che aveva illuminato il suo viso era sparito, rimpiazzato dalle fredde ombre che si stagliavano tra i grattacieli, mentre i suoi occhi si adattavano all’incipiente oscurità.

Dall’altra parte del vicolo entrò un uomo, che si diresse verso di lei. Callie si irrigidì un po’, osservandolo e cercando di fingere di guardare a terra alla sua sinistra. Lui era incappucciato, il volto immerso nell’ombra, le mani in tasca proprio come lei.

Non riusciva a capire chi fosse. Brutto segno, in un posto come quello. Poteva voler dire che lui non voleva essere riconosciuto. Sì, un gran brutto segno.

Le dita di Callie si contorsero per avvolgere la bomboletta spray al peperoncino, i muscoli delle sue braccia contratti mentre considerava l’eventualità di usarla. L’avrebbe tirata fuori con un rapido gesto, gliel’avrebbe puntata in faccia, usando la punta dell’indice per trovare l’ugello in modo da accertarsi che fosse rivolto verso il lato giusto, e alla fine avrebbe spruzzato il contenuto e sarebbe scappata.

Accelerò il passo, pensando che più rapidamente l’avesse superato, meno probabilità avrebbe avuto lui di sopraffarla. Diede un’occhiata alla distanza che li separava, cercando di stimarla, poi alzò subito gli occhi al cielo. Era già a metà strada? Avrebbe fatto prima ad andare avanti o a tornare indietro? Javi la stava aspettando. Forse, se fosse scappata verso la casa del ragazzo, lui l’avrebbe fatta entrare più velocemente. Sì, doveva correre da Javi.

Trattenne il respiro mentre l’uomo si avvicinava, cercando di continuare a camminare come se non stesse succedendo nulla, ma stringendo più forte che mai la bomboletta spray. Era pronta, pronta a reagire …

Lui la superò senza fare nulla.

Callie respirò di nuovo, rimproverandosi mentalmente per essere così paranoica. Era questo che succedeva alle persone eccessivamente pronte. Che pensavano troppo all’eventualità di essere aggredite nei vicoletti.

Javi sarebbe morto dalle risate per questa storia. Lei gliel’avrebbe raccontata, nonostante fosse imbarazzante. Lui avrebbe riso di gusto e le avrebbe assicurato di proteggerla dai cattivi. Quel momento li avrebbe legati.

Improvvisamente, Callie si sentì strattonare al punto da perdere l’equilibrio, proprio mentre si stava nuovamente calmando. Qualcosa alle sue spalle. Si rese conto che si trattava di lui … doveva essere lui. L’aveva presa alle spalle, trattenendola con una mano, e l’aveva tirata verso di lui. Le sue scapole sbatterono contro il petto dell’uomo, e sentì qualcosa premere contro la sua gola, qualcosa di affilato, qualcosa …

Voleva gridare aiuto, chiamare Javi, urlare; ma quando ci provò, tutto ciò che avvertì fu l’aria che gorgogliava dalla sua gola, attraverso il taglio che lui le aveva praticato. Le aveva tagliato la gola. Qualcosa di bollente si stava riversando sul suo petto, e lei sapeva di cosa si trattava: era il suo stesso sangue.

Con un barlume di lucidità totalmente nuova nella sua vita, Callie Everard si rese conto che stava per morire.

Anzi, che stava già morendo. Stava accadendo davvero, proprio in questo momento, concretamente, e si rese conto che non avrebbe mai più rivisto Javi e il disegno del tatuaggio, e non avrebbe mai realizzato il suo sogno di creare un lavoro tutto suo, né avrebbe mai acquistato quella Mercedes sulla quale aveva messo gli occhi quando aveva letto che una famosa redattrice di moda ne guidava una. Le mani di Callie strinsero la propria gola, scivolando per colpa del sangue, e la donna riuscì soltanto a percepire i bordi di quel nuovo orifizio, la cui conformazione non aveva alcun senso per le sue dita.

Callie si accasciò, ignara di questo finché non si rese conto che stava guardando il cielo e che quindi doveva trovarsi in posizione supina. Cercò un’ultima volta di emettere un suono, risucchiando disperatamente l’aria attraverso la bocca spalancata e cercando di espellerla con un grido. Riuscì soltanto ad avvertire un altro fiotto di sangue uscirle dalla ferita, l’ossigeno che gorgogliava al suo interno, incapace di raggiungere i polmoni.

Passò soltanto un altro breve istante prima che Callie smise del tutto di vedere e di respirare, e di lei non rimase che il suo cadavere, abbandonato in un vicoletto. Un guscio vuoto. La sua anima, o la sua coscienza, o qualsiasi cosa fosse Callie, era andata via, ormai perduta.




CAPITOLO DUE


Zoe appoggiò il bicchiere sul tavolo, cercando di non calcolare il volume d’acqua che ancora si trovava al suo interno. Era una battaglia persa in partenza, naturalmente. Avrebbe sempre visto i numeri, che lo volesse o meno.

“A cosa stai pensando?”

“Eh?” Zoe alzò lo sguardo con aria colpevole, incontrando gli occhi marroni di John in attesa.

Si aspettava che perdesse la pazienza, ma non lo aveva ancora spinto fino a quel punto. Al contrario, lui le rivolse un sorriso gentile, uno di quei suoi sorrisi asimmetrici che si inarcavano di più sul lato destro del suo viso che su quello sinistro. Sembrava che lui le dedicasse sempre quei sorrisi, perdonandole questo o quello. Zoe non sapeva davvero se lo meritasse.

“A cosa pensi?” domandò John.

Zoe cercò di dare alla propria espressione una forma che riuscisse a comunicargli in modo convincente che fosse tutto ok. “Oh, a niente di particolare,” rispose, realizzando un secondo dopo che forse non era la risposta migliore da dare: “Soltanto a faccende di lavoro.”

“Puoi parlarmene, lo sai,” disse John, facendo scivolare la sua mano su quelle della donna, sul tavolo. Lei avvertì il battito calmo dell’uomo attraverso il pollice, nel punto in cui premeva sulla sua pelle, più lento del proprio. Molto più lento.

Grandioso. Zoe aveva imbastito una rapida scusa e ora lui le stava chiedendo i dettagli. E adesso cosa avrebbe dovuto fare? “È un caso aperto,” rispose, scrollando le spalle e sperando che lui le se la bevesse. “Non posso parlare dei dettagli fino a quando non arriverà in tribunale.”

John annuì, sembrando accettare la risposta. Zoe tirò un sospiro di sollievo. Doveva concentrarsi, evitare di contare le quattro volte in cui la testa dell’uomo si era mossa in avanti ad un’angolazione di trenta gradi e la brillantezza dei suoi curatissimi capelli castani aveva fatto la sua comparsa, o i sei bicchieri che passavano sul vassoio tenuto in mano dalla cameriera di un metro e sessantotto centimetri, o le …

Zoe sbatté le palpebre, cercando di concentrare nuovamente il suo sguardo sulla figura di John e le sue orecchie su ciò che lui le stava dicendo.

“Allora, ho dovuto dirgli, ‘Mi spiace, Mike, è un peccato che debba andare a un appuntamento stasera,’” rise.

Zoe aggrottò la fronte. “Avresti potuto rimandare l’appuntamento,” disse. “Non me la sarei presa.”

“Cosa? No!” disse John, appoggiandosi allo schienale della sedia con aria allarmata per poi riprenderle la mano. “Dio, no, Zoe. Non vedevo l’ora di rivederti. Era soltanto … ero sarcastico. O ironico, o qualcosa del genere. Confondo sempre le due cose. Sinceramente, non avrei mai annullato il nostro appuntamento soltanto per una questione di lavoro.”

Lo sguardo di Zoe si spostò sul suo piatto, ormai privo degli eccellenti involtini di salmone con burro bianco al limone che erano stati la sua portata principale. Questo era il ristorante più in voga a Washington, D.C. per un appuntamento, e lei a stento ricordava di aver mangiato.

Non era sicura di poter dire che avrebbe sempre messo John prima di ogni altra cosa. Dopotutto, era un agente dell’FBI. Avrebbe dovuto anteporre i casi alla sua vita privata, e non il contrario. Allungò consapevolmente una mano per portare un ciuffo dei suoi corti capelli castani dietro l’orecchio, constatando nel mentre che erano un centimetro più lunghi rispetto a quanto desiderava fossero tagliati. Le giornate erano state piuttosto movimentate, ultimamente. Non c’era stato il tempo per tutti quegli impegni quotidiani che facevano parte della vita.

“Voglio dire, certo, capisco che a volte sia necessario rimandare,” continuò John, sorseggiando il suo vino con nonchalance come se non fosse appena riuscito a leggerle nel pensiero. “Insomma, devi fermare la furia omicida dei serial killer. Il tuo lavoro è importante. Per quanto mi riguarda, nessuno si arrabbierà se non rimango tutta la notte in ufficio cercando di capire se esiste una linea di proprietà comune fra tre diversi rilievi del 1800, e se questi possono applicarsi al caso del mio cliente. Tranne forse il mio cliente, e lui usufruirà del fantastico umore con il quale mi sveglierò domattina sapendo di aver trascorso la mia serata insieme a te.”

“Sei troppo gentile con me,” gli disse Zoe. “Sempre. Non capisco perché.”

Era vero: lei non lo capiva. Aveva completamente mandato a monte il loro primo appuntamento, e al secondo lo aveva trascinato in un ospedale per cercare di risalire alle cartelle cliniche di un potenziale assassino. E lui era rimasto ad aspettarla fuori al freddo, perché lei non si era preoccupata di dirgli che avrebbe potuto tornare a casa da sola. Non molti uomini avrebbero avuto voglia di fissare un terzo appuntamento, e questo era il quinto.

“Non devi capirlo,” rispose John, lisciandosi la cravatta per l’undicesima volta quella sera, un gesto che lei stava iniziando a riconoscere. “Devi soltanto accettare il fatto che secondo me lo meriti. Non sono troppo gentile. Sono abbastanza gentile. In effetti, potrei esserlo di più.”

“Invece no. Andrebbe contro le leggi fisiche e naturali.”

“Beh, e chi ha bisogno di quelle?” John le rivolse nuovamente uno dei suoi luminosi sorrisi e si appoggiò allo schienale della sedia mentre il cameriere raccoglieva i loro piatti vuoti.

“Allora, di cosa ti stai occupando al momento?” domandò lei, pensando che avrebbe dovuto cercare di mostrare più interesse per la vita di John. Lui era sempre così premuroso a chiederle della sua. Stava rovinando tutto? Sì, stava rovinando tutto … no?

“Come ti ho detto, si tratta di una controversia sul confine di una proprietà ancestrale,” disse John, rivolgendole uno sguardo perplesso. “Sicura che sia tutto ok?”

Zoe lo guardò, incontrando i suoi occhi che avevano pupille leggermente dilatate alla luce soffusa del ristorante, sentendo le quattro battute della delicata melodia di pianoforte in sottofondo e percependo il movimento di ogni nota: una su, una giù, una su, mezza nota su, una giù. Se soltanto riuscisse a “spegnere” i numeri, o quantomeno ad abbassarne il volume. Doveva concentrarsi su John e su ciò che le stava dicendo, ma il suo cervello non si fermava. Aveva soltanto bisogno che si fermasse. Stava girando tutto vorticosamente, e non era più sicura che sarebbe riuscita a riprendere il controllo..

“Credo di essere un po’ stanca,” rispose. Come scusa, sembrava quasi accettabile. Almeno nel caso ci fosse una scusa per non riuscire a concedergli l’onore della sua attenzione.

Lui non conosceva la sua capacità di vedere i numeri ovunque, in qualsiasi cosa, e lei non aveva alcuna intenzione di dirglielo. Neanche per i quattrocentocinquantatre dollari e diciannove centesimi di piatti e bevande che aveva visto passare accanto al loro tavolo nelle mani del personale di sala da quando si erano seduti, un’ora e tredici minuti fa.

“È stata una serata meravigliosa,” disse lei. La parte peggiore era che diceva sul serio. Visto che John aveva trascorso tutto il tempo a essere premuroso e farla sentire bene, perché non era riuscita neanche ad ascoltarlo?

“Beh, la mia è stata orribile. Ti va di rifarlo la prossima settimana?” rispose lui, pulendosi la bocca sorridente con un fazzolettino. Nonostante nei suoi occhi ci fosse una certa malizia, che si abbinava perfettamente ai lineamenti irregolari della sua bocca, le ci volle un po’ per capire che stava scherzando. Le sue parole la gelarono e le fecero pensare di aver rovinato tutto.

“Mi piacerebbe,” disse Zoe, annuendo e tenendo per sé le sue emozioni. “La prossima settimana andrà benissimo.”

Si alzò per uscire, sapendo già che lui si sarebbe rifiutato di farle pagare i novantotto dollari e trentadue centesimi della sua parte di conto, oltre alla mancia.

Sebbene ci avesse pensato, evitò di dire ad alta voce che sarebbe stata fortunata se fosse riuscita a tener fede al loro appuntamento. Era un agente attivo dell’FBI, e ciò significava che era impossibile prevedere quando sarebbe spuntato fuori un nuovo caso, o dove sarebbe stato necessario recarsi.

La prossima settimana, a quest’ora, chissà dove avrebbe potuto essere.

Persino in questo preciso momento, un nuovo assassino probabilmente stava portando a termine il proprio delitto, creando uno schema per loro; e c’era sempre la possibilità che, stavolta, lei non sarebbe riuscita a capirlo. Zoe lottò contro la sensazione di disagio che si faceva strada nelle sue viscere, convincendosi in un certo senso di esserne certa: da qui a una settimana, sarebbe stata immersa in un caso che avrebbe fatto apparire tutti gli altri come un gioco da ragazzi.




CAPITOLO TRE


Zoe cambiò posizione, cercando di sistemarsi meglio sulla vecchia e comoda poltrona. Si stava abituando alla terapia, per quanto apparisse strano persino a lei.

Parlare con qualcuno dei suoi problemi personali, settimana dopo settimana, in passato sarebbe stata la sua personale idea dell’inferno, ma avere accanto la dottoressa Lauren Monk non era poi così male. Dopotutto, era stata proprio la dottoressa Monk a spingerla a uscire di più con John e quella, almeno finora, si era rivelata un’ottima decisione.

Da parte sua, quantomeno. Stava iniziando a chiedersi se John potesse dire la stessa cosa.

“Allora, parlami dell’appuntamento. Cos’è successo?” domandò la dottoressa Monk, sistemando il blocchetto d’appunti sulle ginocchia.

Zoe sospirò. “Non riuscivo a concentrarmi,” rispose. “I numeri prendevano il sopravvento. Riuscivo a pensare solo a quelli. Mi sono sfuggite frasi intere del suo discorso. Volevo dedicargli tutta la mia attenzione, ma non riuscivo a spegnere i numeri.”

La dottoressa Monk annuì con aria seria, portando la mano al mento. Da quando Zoe aveva vuotato il sacco a proposito della sua sinestesia – l’abilità di vedere numeri ovunque e in qualsiasi cosa, come ad esempio notare che la penna della dottoressa Monk avesse un peso superiore alla media per via della leggera inclinazione di quindici gradi che aveva mentre era posata sul bordo delle sue dita, rispetto a quello di una BIC – aveva trovato la terapia ancora più utile. Riuscire ad ammettere ciò che le capitava e le sue difficoltà era decisamente liberatorio.

C’erano poche persone al mondo che conoscevano la sua condizione. C’era la dottoressa Monk, e la dottoressa Francesca Applewhite, che era stata la mentore di Zoe sin dai suoi giorni al college. E poi c’era la sua partner all’FBI, l’Agente Speciale Shelley Rose.

E nessun altro. Non aveva neanche bisogno di tutte le sue dita per contarle. Quelle erano le uniche persone di cui si fosse mai fidata abbastanza da rivelare il proprio segreto, dalla prima volta in cui la sua condizione era stata diagnosticata da un dottore che non aveva mai più rivisto. Intenzionalmente. Per molto tempo, aveva pensato che fosse possibile, in qualche modo, fuggire o ignorare quella capacità che sua madre aveva definito “il dono del diavolo”.

Ma fino a quando la aiutava a risolvere crimini, Zoe non voleva che sparisse. Non più. Sarebbe soltanto utile riuscire a metterla in pausa mentre cercava di instaurare una relazione romantica, che non richiedeva misure specifiche del liquido contenuto in ogni bicchiere o della distanza tra gli occhi di John.

“Potrebbe essere utile riuscire a escogitare insieme dei modi per aiutarti ad “abbassare il volume”, a placare il tuo cervello, per così dire,” disse la dottoressa Monk. “È qualcosa che prenderesti in considerazione?”

Zoe annuì, sorpresa dal nodo che si era creato nella sua gola al pensiero di essere in grado di fare quanto detto dalla terapista. “Sì,” disse. “Sarebbe fantastico.”

“Perfetto.” La dottoressa Monk ci pensò su per un attimo, battendo distrattamente la penna sulla clavicola. Zoe aveva notato questa abitudine, un numero sempre pari di colpetti.

“Perché fa così?” sbottò, sentendosi in imbarazzo un secondo dopo aver posto quella domanda.

La dottoressa Monk la guardò sorpresa. “Ti riferisci al gesto di picchiettare la penna sulla spalla?”

“Mi scusi. Sono affari suoi. Non deve dirmi il motivo.”

La dottoressa Monk sorrise. “Non importa. In realtà, è una cosa che ho iniziato a fare quando ero una studentessa. È un esercizio di rilassamento.”

Zoe aggrottò la fronte. “Non si sente calma?”

“Certo. Ormai è diventata una sorta di abitudine, anche quando sto pensando. Mi permette di immergermi in uno stato più Zen. Di solito soffrivo di attacchi di panico quando ero più giovane. Hai mai sperimentato un attacco di panico, Zoe?”

Zoe ci pensò su, cercando di capire cosa si intendesse con attacchi di panico. “Non credo.”

“Che si tratti di un vero e proprio attacco di panico o di qualcosa di meno grave, abbiamo bisogno di trovare qualcosa che ti calmi, che faccia sparire i numeri. Vogliamo che la tua mente smetta di correre, permettendoti di concentrarti su una cosa alla volta.”

Zoe annuì, muovendo la dita sulle crepe del bracciolo in pelle della sua poltrona. “Sarebbe perfetto.”

“Iniziamo con un esercizio di meditazione. Ritengo che dovresti iniziare a praticare la meditazione ogni sera, magari appena prima di metterti a letto. Meditare sarà un aiuto costante che, nel tempo, migliorerà la tua capacità di controllare la mente. Non risolverà immediatamente la situazione, ma impegnandoti vedrai senza dubbio dei risultati. Mi segui?”

Zoe annuì silenziosamente.

“Bene. Ora ascolta attentamente le mie istruzioni. Voglio che ci provi subito, dopodiché potrai praticarla per conto tuo stasera. Inizia chiudendo gli occhi e contando i tuoi respiri. Prova a rimuovere qualsiasi altra cosa dalla tua mente.”

Zoe obbedì e chiuse gli occhi, iniziando a respirare profondamente. Uno, ripeté nella sua mente. Due.

“Benissimo. Non appena arriverai a dieci, ricomincia da uno. Non continuare a contare. Concentrati soltanto su quei respiri, fino a quando non inizierai a sentirti rilassata.”

Zoe cercò di farlo, sforzandosi di allontanare gli altri pensieri dalla mente. Era difficile. Il suo cervello voleva comunicarle la presenza di un prurito sulla gamba destra, o il vago odore del caffè della dottoressa Monk, o voleva ricordarle quanto fosse strano essere seduta a occhi chiusi nell’ufficio di un’altra persona. E poi voleva dirle che stava sbagliando l’esercizio, e voleva permetterle di distrarsi.

Ad ogni modo, stava respirando al ritmo giusto? Quanto rapidamente avrebbe dovuto farlo? Lo stava facendo bene? E se avesse respirato male per tutto questo tempo? Per tutta la sua vita? Come avrebbe fatto a saperlo?

Nonostante i suoi dubbi, continuò a provarci in silenzio, e alla fine iniziò a sentirsi rilassata.

“Stai andando benissimo,” disse la dottoressa Monk, la sua voce era più bassa e tranquilla adesso. “Ora voglio che immagini un cielo. Sei seduta, alzi lo sguardo verso il cielo. Un blu stupendo; c’è soltanto una nuvola che fluttua, nient’altro all’orizzonte. Si allunga su un calmo mare blu. Riesci a vederla?”

Zoe non era brava con l’immaginazione, ma ricordò una foto che aveva visto di recente, un annuncio pubblicitario di un’agenzia di viaggi. Una famiglia che giocava felicemente in spiaggia, un incredibile paradiso blu alle loro spalle. La sua mente si diresse lì, concentrandosi su quell’immagine. Rivolse un piccolo cenno alla dottoressa Monk per farle capire di essere pronta a continuare.

“Bene. Senti il calore del sole sul tuo viso e sulle spalle. È una giornata meravigliosa. Soltanto una leggera brezza, esattamente il tipo di clima che ti piacerebbe trovare. Sei seduta su un piccolo gommone, appena al largo. Lo senti oscillare dolcemente al ritmo delle onde. È così calmo e sereno. Non è stupendo il sole?”

Zoe di norma sarebbe scoppiata a ridere per una cosa del genere, ma fece come le era stato detto, e poté quasi giurare di riuscire a provare quelle sensazioni. Un sole reale, che accarezzava la sua fronte. Non troppo forte: il sole adatto per un’abbronzatura, non per un melanoma.

Melanoma. Non avrebbe dovuto pensare a quel tumore. Concentrati, Zoe. Dondola al ritmo delle onde.

“Guarda di lato. Vedrai l’isola alle tue spalle. La spiaggia da dove sei appena venuta e, più indietro, il resto di questo paradiso. Cosa vedi?”

Zoe sapeva esattamente ciò che vedeva: un’altra immagine di una pubblicità di viaggi. Un posto dove tempo fa avrebbe voluto andare. Ma si trattava di una destinazione da luna di miele e lei era single all’epoca. In quell’occasione si era sentita ancora più sola.

“Sabbia dorata,” rispose, il suono della sua stessa voce stranamente distante ed estraneo. “Poi una macchia rigogliosa. Dietro, alberi tropicali che si allungano verso il cielo, tre metri e oltre. Il sole sta scendendo a un angolo acuto, le ombre sono lunghe soltanto quindici centimetri. Non riesco a vedere oltre. C’è un albero che pende a quarantacinque gradi sull’acqua, con un’amaca di due metri legata sotto. È vuota.”

“Cerca di concentrarti più sulla scena che sui numeri. Adesso ascolta. Riesci a sentire le onde che si infrangono dolcemente sulla spiaggia? Il canto degli uccelli?”

Zoe respirò profondamente, lasciandosi travolgere da queste nuove sensazioni. “Sì,” disse. “Pappagalli. Credo. Le onde arrivano a intervalli di tre secondi. Gli uccelli cantano ogni cinque secondi.”

“Senti il calore del sole sul tuo viso. Puoi chiudere gli occhi, smettere di contare. Sei al sicuro lì.”

Zoe respirò, continuando a guardare l’isola nella propria mente. Il suo sguardo deviava sull’amaca. Per chi era? Per se stessa, o un giorno ci sarebbe stato qualcuno accanto a lei? John? Lo voleva lì, su quest’isola tutta sua? L’amaca era concepita per un uomo. Lei era alta soltanto un metro e sessantotto centimetri. L’amaca era sospesa a sessanta centimetri sul pelo dell’acqua.

“Perfetto, Zoe. Ora, voglio che ti concentri nuovamente sul tuo respiro. Conta a ritroso a partire da dieci, proprio come abbiamo fatto prima, ma al contrario. Mentre lo fai, voglio che torni lentamente dalla tua isola. Lascia che svanisca, e svegliati, un po’ alla volta. Delicatamente, adesso. Abbiamo finito.”

Zoe aprì gli occhi, un po’ imbarazzata da quella sensazione di maggior relax, e consapevole di quanto sembrasse strano il fatto che fosse stata lontano, su una piccola isola creata dalla sua mente, nonostante fosse rimasta seduta a schiena dritta su una poltrona, sotto lo sguardo attento della terapista.

“Sei stata molto brava.” La dottoressa Monk sorrise. “Come ti senti adesso?”

Zoe annuì. “Più calma.” Eppure, si sentiva dubbiosa. I numeri erano stati insieme a lei. L’avevano seguita, anche in quel luogo. E se non fosse mai riuscita a sbarazzarsi di loro?

“È un ottimo inizio. Ti sentirai ancora più rilassata con la pratica. Ed è importante, perché potrai tornare in quel luogo calmo ogni volta che ti sentirai stressata o oppressa.” La dottoressa Monk scrisse rapidamente qualche appunto sul suo quaderno, con la penna che creava linee veloci e illeggibili che Zoe non riusciva a decifrare.

“E se fossi costretta a mettere a tacere velocemente i numeri? Ad esempio, in una situazione d’emergenza?” domandò Zoe. “O se non potessi dire all’altra persona per quale motivo ho bisogno di calmarmi?”

La dottoressa Monk annuì. “In quel caso, prova semplicemente a contare i tuoi respiri come hai fatto per entrare nella fase di meditazione. Dovremmo testarlo in uno scenario reale, ma ritengo che contare una cosa, ad esempio il tuo respiro, possa farti smettere di vedere altri numeri. È una manovra di distrazione: tenere occupata l’area matematica del tuo cervello concentrandoti su qualcos’altro.”

Zoe annuì, cercando di imprimere questa informazione nella sua mente. “Okay.”

“Ora, Zoe, parliamo del fatto di non voler spiegare alle persone perché hai bisogno di mettere a tacere i numeri, o di non dire loro di questo dono. Perché vuoi ancora nasconderlo?” domandò la dottoressa Monk, inclinando la testa in un modo che Zoe percepì come un cambio di strategia.

Faceva fatica a rispondere a quella domanda. Beh, non proprio: conosceva il motivo. C’era una paura che l’aveva attanagliata da quando era ragazzina, rafforzata dalle urla di figlia del diavolo e dalle ore di preghiera che l’avevano costretta in ginocchio tutte le notti, in preda al desiderio che i numeri svanissero. Era semplicemente difficile ammetterlo ad alta voce.

“Non voglio che le persone lo sappiano,” rispose, prendendo un po’ di lanugine immaginaria dai suoi pantaloni.

“Ma per quale motivo, Zoe?” incalzò la dottoressa Monk. “Hai una stupenda abilità. Perché non vuoi condividerla con gli altri?”

Zoe era in difficoltà. “Io … non voglio che gli altri pensino che io sia diversa.”

“Ti preoccupa che i tuoi colleghi ti vedano in modo diverso da come fanno adesso?”

“Sì. Forse …” Zoe esitò, scrollando le spalle. “Forse potrebbero tentare di … di farne qualcosa. Di sfruttare questa capacità in qualche modo. Non voglio essere un burattino nelle mani di altre persone. O la vittima di scherzi crudeli. O una sorta di oggetto da testare.”

La dottoressa Monk annuì. “È comprensibile. Sicura che sia soltanto questo a preoccuparti?”

Zoe conosceva la risposta a quella domanda. L’aveva persino sussurrata nella propria mente. Mi preoccupa il fatto che tutti sappiano, che tutti vedano che non sono normale. Non sono una di loro. Sono uno scherzo della natura. Temo che potrebbero odiarmi per questo. “Sì, sono sicura,” disse apertamente.

La dottoressa Monk la osservò per un istante, e Zoe sentì di essere stata scoperta. La dottoressa Monk era una psicologa: era ovvio che riuscisse a capire quando qualcuno le stava mentendo. Avrebbe insistito, spinto Zoe ad ammettere la paura segreta che aveva sepolto in profondità dentro di sé per tutto quel tempo.

Invece, tutto ciò che fece fu chiudere il suo taccuino e riporlo accuratamente sulla scrivania, rivolgendole un ampio sorriso. “Oggi abbiamo fatto qualche fantastico progresso, Zoe. Siamo alla fine della nostra seduta, quindi ti prego di integrare quella meditazione nella tua routine serale e provare a rispettarla. Al nostro prossimo incontro, mi piacerebbe sapere se hai fatto qualche ulteriore progresso.”

Zoe si alzò, la ringraziò e andò via, provando al sensazione di essere stata salvata dalla campanella.

E poi sentì un’altra campanella, stavolta letteralmente: uno squillo proveniente dalla tasca. Tirò fuori il cellulare mentre attraversava la sala d’attesa, vedendo il nome di Shelley sul display.

“Agente Speciale Zoe Prime,” disse. Era piacevole usare il titolo ufficiale, anche quando sapeva chi stesse chiamando.

“Z, sono io. Il comandante vuole che tu venga immediatamente in aeroporto. Abbiamo un caso a Los Angeles. Fai la valigia, ci vediamo lì.”

“Quanto tempo ho?” chiese Zoe.

“Il volo parte tra quarantacinque minuti.”

“Ci vediamo lì,” rispose Zoe. Mise giù il telefono e avanzò più celermente attraverso il corridoio, calcolando quanto tempo avrebbe avuto a disposizione per fare i bagagli, considerando la durata del viaggio per l’aeroporto.

Dentro di sé, provò una sensazione di vago entusiasmo. Era passato un po’ di tempo dall’ultimo caso, tutto scartoffie, udienze e burocrazia. Naturalmente non era per niente felice che qualcuno fosse morto, ma le sarebbe servito immergersi in un semplice caso di omicidio, e nella sua mente incrociò le dita che si trattasse proprio di qualcosa del genere.




CAPITOLO QUATTRO


Zoe guardò fuori dal finestrino, vedendo le nuvole che scorrevano sotto l’ala dell’aereo. Quella vista avrebbe potuto regalarle una sorta di pace. Dopotutto, non c’era niente da contare. Ma non le piaceva la sensazione di essere così lontana da terra, e non le sarebbe mai piaciuta. Odiava il pensiero che qualcun altro avesse il completo controllo e fosse responsabile della sua vita.

“L’Agente Speciale al Comando Maitland ci ha dato questi dossier,” disse Shelley, tirando fuori un paio di portadocumenti per attirare l’attenzione di Zoe.

Zoe si voltò verso di lei, strizzando gli occhi per concentrarsi. “Bene. Cosa c’è di talmente tanto urgente da non poter attendere una riunione di persona?” I capelli biondi di Shelley erano perfettamente legati in un chignon, e il suo trucco era più curato e preciso che mai. Zoe si domandò per un attimo come riuscisse sempre ad apparire così ordinata, nonostante avesse una figlia piccola a casa, e persino quando era costretta a salire su un aereo con un così breve preavviso.

“Due vittime,” disse Shelley. Aprì i dossier. “Evidentemente la squadra sul posto ha ritenuto di non poter fare a meno dell’aiuto dell’FBI. Ci hanno girato il caso volontariamente.”

“Volontariamente?” Zoe inarcò le sopracciglia. “Non mi stupisce che Maitland ci voglia lì il prima possibile. Probabilmente, ha pensato potessero cambiare idea.”

Non accadeva spesso che mettessero le mani su un caso che fosse stato loro ceduto intenzionalmente. Le forze dell’ordine di solito erano territoriali, volevano occuparsi personalmente di un caso dall’inizio alla fine. Zoe lo capiva. Ma questo, di solito, portava a un clima molto teso e a una cooperazione estremamente riluttante. Gli agenti locali erano inclini a sospettare che quelli dell’FBI arrivassero e sottraessero loro un caso, bollandoli come non idonei al servizio, nonostante di solito questo sospetto non avesse alcun fondamento reale. Sarebbe stato bello essere le benvenute, almeno una volta.

Shelley aprì il primo dossier e iniziò a leggere. “La prima vittima è un maschio, bianco, di poco più di trent’anni. Si chiamava John Dowling, ma la polizia del posto ci ha messo un bel po’ per identificarlo.”

Zoe cercò di ignorare il nome e il modo in cui sentirlo l’avesse colpita. Dopotutto, John era un nome piuttosto comune. Non avrebbe dovuto immaginare John sanguinante, colpito da un proiettile o strangolato per proseguire. “Per quale motivo?”

“Il cadavere era pesantemente ustionato. Secondo l’autopsia, qualcuno gli ha prima tagliato la gola, dopodiché ha portato il cadavere da un’altra parte e gli ha dato fuoco.”

“Sappiamo dove è stato commesso il crimine?”

Shelley esaminò gli appunti. “Ancora nessuna informazione sul luogo effettivo dell’omicidio. Si pensa possa essere stato commesso in un’abitazione privata, dato che sul luogo di ritrovamento non c’era molto sangue e non è stato segnalato nulla. Il corpo è stato portato in una strada isolata e bruciato nel cuore della notte. Quando un residente del posto lo ha notato ed è stato abbastanza coraggioso da avvicinarsi a dare un’occhiata, il fuoco ne aveva già fatto scempio.”

Shelley passò silenziosamente una foto alla sua partner. Mostrava un cadavere annerito e contorto, quasi al punto da essere irriconoscibile come essere umano. Sembrava un oggetto di scena, piuttosto che una persona in carne e ossa. Tanto di cappello a chi era riuscito a determinare la causa della morte, pensò Zoe. Deve essersi trattato di un lavoraccio.

C’era un’altra foto nel dossier, l’immagine sorridente di un giovane uomo. Mostrava John Dowling in vita; probabilmente era stata presa da uno dei suoi account social. Si trovava in una stanza piuttosto buia, e sullo sfondo erano visibili delle persone: probabilmente si trattava di una festa. Il ragazzo sembrava felice.

“Al momento abbiamo qualche indizio su di lui? Nemici, rancori?”

“Ancora niente. L’indagine è in corso.”

“Ok. E la seconda vittima?”

Shelley chiuse il primo dossier e prese il secondo, respirando con la bocca. “Storia simile. Sgozzata, poi bruciata. Una giovane donna, Callie Everard. Circa venticinque anni. Era anche bella.”

Zoe riuscì a stento a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo. La stupiva sempre il fatto che le persone, persino la sua esimia partner, dessero importanza a cose del genere. Giovane, vecchia, carina, brutta, magra, grassa: un morto era un morto. Ogni vita tolta era qualcosa sui cui investigare, ogni assassino qualcuno da punire. I particolari facevano poca differenza.

“Il luogo?”

“Questa volta è successo tutto nello stesso vicoletto. Sembra che l’assassino si sia avvicinato a lei, le abbia tagliato la gola, abbia aspettato che morisse e poi le abbia dato fuoco. Almeno ha avuto un po’ di pietà. A quanto pare, non era cosciente quando è stata bruciata.”

In questo caso, Zoe condivideva il sentimento della sua partner. C’erano pochissimi modi piacevoli di morire, ed essere bruciati non faceva parte di quella lista ristretta. “Cosa sappiamo di lei? Era stata forse presa di mira in qualche modo?”

“Gli agenti locali non hanno ancora finito di indagare. È stata trovata ieri, e sono riusciti a identificarla soltanto stamattina presto. Hanno informato i suoi familiari, tutto qui.”

Zoe cercò le foto. Questo cadavere era meno ustionato, anche se leggermente. Era comunque possibile capire che si trattava di una donna, e sul cadavere c’erano ancora brandelli di carne rossa e cruda che spiccavano su quella massa annerita.

“Riesci a capire qualcosa dalle immagini?” domandò Shelley.

Zoe alzò lo sguardo e si rese conto che la sua partner la stava osservando intensamente. “Non ancora. Non vedo niente di utile. il fuoco distrugge le cose, le altera. Non riuscirei neanche a stabilirne in modo attendibile l’altezza e il peso, se non avessimo i rapporti medici.”

“Entrambi giovani e in forma. Forse si tratta semplicemente di un delitto passionale. Magari avevano un amico in comune, o un ex amico, che ha perso la testa e ha deciso di sistemare la cosa a modo suo.”

“Magari.” Zoe sospirò e appoggiò la testa al sedile. Perché gli aeroplani dovevano essere sempre così scomodi? Aveva letto che i passeggeri in prima classe avevano dei letti. Figuriamoci se l’FBI metterebbe a disposizione dei suoi agenti qualcosa del genere.

“Allora, come vanno le cose?” chiese Shelley. Ripose i dossier nel suo bagaglio a mano e si accomodò sul sedile con un’espressione di complicità. “Sei uscita con John ieri sera?”

Era venerdì sera, e John sembrava felice del modo abituale con cui Zoe portava avanti la propria vita. Le stesse cose alla stessa ora. L’unica differenza era il luogo di incontro. “Sì.”

“E …?” domandò Shelley con impazienza. “Dettagli, Z. Sta andando bene tra di voi, vero?”

Zoe scrollò le spalle, voltando nuovamente la testa verso il finestrino. “Abbastanza bene, credo.”

Shelley si lasciò sfuggire un sospiro di insofferenza. “Abbastanza bene? Cosa vuol dire? Lui ti piace o no?”

“Ovvio che mi piace.” Zoe aggrottò la fronte. “Altrimenti per quale motivo ci uscirei tanto spesso?”

Shelley esitò, il suo riflesso nel finestrino inclinò lateralmente la testa. “Mi sembra giusto. Anche se ci sono persone che continuano a uscire insieme senza provare una vera e propria attrazione. Ma tu hai capito cosa intendo. I vostri incontri stanno diventando seri?”

Zoe chiuse gli occhi. Forse, così facendo, Shelley avrebbe capito l’antifona. “Non so cosa voglia dire, e comunque non credo di voler rispondere.”

Shelley si zittì e non disse nulla per un po’. Poi, silenziosamente, aggiunse: “Lo sai, non devi continuare a respingermi. Sai che puoi fidarti di me. Non dirò niente a nessuno. Non ho tradito il tuo segreto, o sbaglio?”

C’era la piccola questione di quella volta in cui Shelley aveva detto al loro superiore, Maitland, che Zoe era “brava in matematica”; ma Zoe non ritenne utile rivangare quell’argomento.

Non rispose, almeno non subito. Cosa avrebbe potuto dire? Certo, era parecchio riservata, lo era sempre stata. Doveva giustificare anche quello? Prima la dottoressa Monk, e adesso Shelley, stavano parlando come se lei avesse un problema. Come se fosse assurdo che una persona volesse tenere per sé la propria vita privata.

“Non capisco neanche perché continui a tenerlo segreto,” continuò Shelley. “Potresti davvero fare del bene.”

“Come?”

“Mettere a frutto le tue capacità. Catturare gli assassini.”

“Catturo già gli assassini.”

Shelley sospirò. “Sai cosa voglio dire.”

“No, in realtà non lo so,” rispose Zoe, più propensa che mai a cambiare discorso. “Quanto manca per arrivare?” Iniziò a battere le dita sullo schermo che aveva di fronte, cambiando pagina per mostrare il percorso e la posizione del loro volo, anche se sapeva perfettamente dove si trovassero e quanto tempo mancasse all’arrivo.

“Dovresti rifletterci su, comunque,” disse Shelley. “Mi pare che tu sia più felice quando hai attorno persone che conoscono il tuo segreto. Ti irrigidisci, tieni tutto dentro, quando credi che non sia sicuro. Forse, in generale, la tua vita sarebbe più facile se tutti sapessero.”

“Cinquantasei minuti,” disse Zoe, come se non l’avesse ascoltata. “Dovremmo prepararci. Ci converrà dirigerci direttamente sulla scena del crimine più recente dall’aeroporto. Hai l’indirizzo?”

Shelley non disse nulla, limitandosi a rivolgerle uno sguardo prolungato e strano prima di tornare ai dossier e cercare le informazioni di cui avevano bisogno.




CAPITOLO CINQUE


Zoe strizzò gli occhi, guardando su e giù per il vicoletto e verso il cielo. Era una giornata limpida e chiara. Sulle loro teste si intravedeva una sottile striscia color celeste che si restringeva in lontananza, incorniciata dai sudici mattoni dei palazzi e dei magazzini.

Questo posto era decisamente distante dal lusso e dalle palme ondeggianti di Beverly Hills. Le strade e i marciapiedi erano rotti e scoloriti, e l’edificio più vicino alla fine del vicolo era un rifugio per senzatetto. Eppure, i monolocali che si ergevano sul lato opposto probabilmente costavano più della sua casa d’infanzia nella campagna del Vermont.

Qualcosa era ancora presente nell’aria, nonostante la rimozione del cadavere. Zoe riusciva a sentirne l’odore. Probabilmente non sarebbe andato via per un sacco di tempo. Il fetore di carne umana e capelli bruciati tendeva a rimanere nei paraggi.

Zoe rivolse nuovamente la propria attenzione al suolo e alla macchia creata dal fuoco, che si estendeva lungo l’asfalto della strada e i mattoni, i sacchetti della spazzatura e gli aghi gettati a terra. La maggior parte di quella roba, ormai, era bruciata e contorta su se stessa, trasformata in irriconoscibili forme di plastica nera che si aggiungevano all’odore quasi soffocante. A quanto pare, l’assassino non si era preoccupato molto della presentazione.

O forse l’aveva fatto: forse stava sostenendo che questa giovane donna, questa Callie Everard, era soltanto un altro rifiuto.

Shelley era lì vicino e stava parlando all’ufficiale di polizia locale, mentre gli altri stavano impacchettando tutto. La squadra della scientifica era già stata sulla scena, e il cadavere era stato portato via per essere esaminato. Non restava altro da fare che prelevare tutte le piccole prove rimaste tra i detriti della scena dell’omicidio. Una poliziotta bassa con i capelli corti le stava cautamente riponendo in appositi sacchetti di plastica.

Zoe la osservò con vago interesse. La sua mente stava lavorando per conto suo, intenta a esaminare tutto ciò che coglieva lo sguardo. La vittima era stata lasciata in posizione supina con la testa vicina ai sacchi della spazzatura rovesciati, i piedi rivolti verso il centro del vicoletto, a un angolo di trenta gradi rispetto a quella che sarebbe stata la linea centrale. Molto probabilmente era caduta di schiena dopo che la sua gola era stata tagliata. C’erano ancora tracce di sangue, sotto i fluidi corporei bruciati e sciolti, a convalidare questa teoria.

Sapevano già un sacco di cose su di lei, su Callie. Il resto lo avrebbero scoperto una volta interrogati gli amici e la famiglia: avrebbero capito chi fosse e cosa facesse. Per quale motivo qualcuno volesse ucciderla.

Ma l’assassino, quella era un’altra storia. Dov’era lei, o lui? Zoe non riusciva a vedere nulla sull’asfalto del vicoletto, nessun segno particolare che potesse svelare il responsabile. Non c’erano orme, non in un vicolo che veniva indubbiamente attraversato da decine, se non centinaia, di persone al giorno. Non c’erano accendini o mozziconi, nessuna tanica di benzina vuota. Qualsiasi prova in grado di tradire la presenza del colpevole era stata rimossa quando qualcuno aveva versato dell’acqua sul corpo nel tentativo di spegnere il fuoco e salvare una vita che era già venuta meno.

Cosa aveva usato come combustibile? Come accelerante? Dove si era appostato? Che tipo di arma aveva usato quell’uomo per tagliarle la gola? O quella donna, cercò di ricordare a se stessa nel tentativo di mantenere una mente aperta; ma le statistiche parlavano chiaro. Un tale livello di violenza solitamente indicava un sospettato maschio.

Il problema stava in quel “solitamente”. Zoe si fidava del proprio istinto, ma a meno che non fosse sicura al novanta per cento di qualcosa, non era disposta a scommetterci su. E anche quando, in passato, era stata assolutamente sicura di una cosa, a volte si era sbagliata. E in questo momento non aveva alcuna sicurezza, non in relazione all’assassino.

Forse avrebbe scoperto qualcos’altro dando un’occhiata al cadavere. Si diresse verso Shelley, che stava per portare a termine il suo colloquio.

“Qui non c’è niente,” comunicò Zoe, non appena Shelley ebbe finito.

“Non posso dire di essere sorpresa,” rispose Shelley. Stava guardando verso le finestre degli alloggi in alto, annerite non dal fumo proveniente da un corpo umano, ma da anni di sporcizia e incuria. “Nessuno del quartiere ha visto nulla. Hanno detto di aver sentito prima l’odore del fumo. Qualche residente del posto è corso fuori con un secchio d’acqua per cercare di aiutare la ragazza, ma nient’altro. Nessun sospetto, nessuno che abbia osservato la scena. Nessun testimone che abbia visto entrare qualcuno nel vicolo a quell’ora.”

“Nessun filmato?” Zoe indicò verso una telecamera di sorveglianza situata in alto, proprio nel punto del vicolo da cui erano entrate.

Shelley scosse la testa. “I poliziotti dicono che non è neanche funzionante. Ogni volta che cercavano di metterla in funzione, i ragazzini spruzzavano vernice sulle lenti o tagliavano i cavi. L’hanno tenuta lì come deterrente, ma non è operativa da anni.”

“La gente del posto lo avrebbe capito,” sottolineò Zoe.

“Lo stesso vale per chiunque avesse fatto un giro preliminare attorno all’edificio e avesse visto le condizioni in cui si trova.”

Zoe si guardò attorno un’ultima volta, soddisfatta che non ci fosse nient’altro da scoprire qui. L’unica storia che i numeri le stavano raccontando riguardava la realizzazione degli edifici e il vicolo stesso. Dato che dubitava che l’altezza dei muri avesse qualcosa a che fare con il delitto, avevano finito. “Ok, andiamo dal medico legale,” disse con aria risoluta, incamminandosi verso l’auto che avevano noleggiato.


***

Zoe arricciò il naso, dopodiché regolò il respiro. Era tutta una questione di concentrazione. Inspirò attraverso la bocca, evitando la parte peggiore dell’odore, ed espirò dal naso. Shelley stava cercando di non vomitare, ma Zoe provò a non farsi distrarre da quello.

“Capisco, è uno di quelli brutti,” disse il medico legale. Era una giovane donna alta e abbronzata, con capelli biondo scuro e, in generale, un po’ troppo ombretto per qualcuno che lavorava in uno studio medico, anche se gli unici con cui aveva a che fare erano i morti.

Zoe ignorò anche lei, e mantenne la propria attenzione sul cadavere. Semmai rientrasse ancora nella definizione di cadavere; “carbone” sarebbe stato un termine più appropriato. L’uomo, quello che Shelley aveva chiamato John Dowling, non era più un uomo. Aveva ancora una certa forma – gambe intrecciate tra loro, braccia attaccate al corpo, una protuberanza rotonda al posto della testa – ma sarebbe stato facile scambiarlo per un rottame, parte delle viscere di una barca, o per un antico cimelio che aveva bruciato tra le rovine di Pompei.

Il secondo cadavere era più riconoscibile, sebbene non di molto. Per qualche ragione, nonostante il fuoco non avesse compiuto lo stesso scempio del primo cadavere, l’odore era peggiore. Forse perché era stato lasciato al sole della California in pieno giorno. La giovane donna. I brandelli di carne lacera e bruciata che erano ancora attaccati al suo corpo sembravano un qualcosa di osceno. Tredici centimetri di gamba sopra il piede, cinque centimetri per ogni gomito, una ciocca di capelli sulla parte posteriore della testa che erano rimasti intatti grazie al contatto con il terreno umido. Se fosse stata avvolta dalle fiamme ancora per poco, sarebbe diventata cenere, proprio come l’uomo.

“Ferite pre-immolazione?” domandò Zoe, senza alzare lo sguardo.

Il medico legale esitò per un secondo.

“Prima che venissero bruciati,” aggiunse Zoe per spiegarsi.

“So cosa vuol dire immolazione,” rispose la donna, con un primo accenno di nervosismo nella sua voce calma e solare. Tutto di lei era irritante agli occhi di Zoe. “Per quanto mi risulta, considerando lo stato dei cadaveri, c’era soltanto la singola ferita alla gola. Sufficiente a uccidere. Sono stati bruciati, ma non è stato fatto loro nient’altro.”

Zoe si sporse in avanti, esaminando la gola. Le mani della ragazza la stringevano, e le dita si erano sciolte e fuse insieme quando era stata bruciata. Tuttavia, c’era ancora una ferita netta e visibile dietro di loro, che si spalancava lì dove la sua testa si era inclinata all’indietro.

“Un lavoro preciso,” disse, più a se stessa che a qualcun altro.

“È stato un attacco rapido,” convenne il medico legale. “Chiunque sia l’assassino, sa il fatto suo. In entrambi i casi, si è avvicinato direttamente alle spalle e ha praticato un singolo taglio lungo la gola, squarciandola completamente.”

Zoe raddrizzò la schiena e guardò Shelley, per far sì che fosse chiaro che la prossima osservazione sarebbe stata rivolta a lei e non all’irritante presenza aggiuntiva nella stanza. “Non è stato un delitto commesso in modo impulsivo. È stato pianificato, il luogo è stato scelto con cura.”

“Credi che le vittime siano state scelte di proposito?”

Zoe si morse le labbra per un istante, muovendo lo sguardo tra i due cadaveri. Cosa avevano in comune, a parte il fatto di essere ridotti entrambi in cenere?

“È presto per dirlo,” affermò. “Dobbiamo saperne di più su Callie Everard. Se riusciamo a trovare un collegamento tra i due, bene. Altrimenti, potrebbe trattarsi di una faccenda più grande.”

“Un serial killer?” gemette Shelley. “Spero che fossero segretamente amanti o qualcosa del genere. Incrocio le dita, magari riusciamo a tornare a casa per il weekend.”

“Buona fortuna,” si intromise il medico legale, un intervento assolutamente superfluo.

Zoe le rivolse un’occhiata malevola, ma la sua irritazione venne placata, almeno in parte, dal modo in cui la donna si irrigidì e iniziò ad armeggiare con un vassoio di metallo che si trovava nei paraggi, piuttosto che incrociare nuovamente il suo sguardo.

“C’è una stanza che ci attende al commissariato locale,” disse Shelley. “Il poliziotto con cui ho parlato mi ha garantito che il caffè fa schifo, ma anche che l’aria condizionata è completamente inutile, quindi abbiamo un sacco di cose da aspettarci.”

“Fammi strada,” rispose Zoe, desiderando almeno trovare divertente quella battuta per indorare la pillola.




CAPITOLO SEI


Con un sospiro, Zoe scelse una sedia e vi si afflosciò, allungandosi per prendere il primo dossier che era stato messo lì a loro disposizione.

“Grazie, Capitano Warburton, apprezziamo davvero il suo aiuto,” Shelley si trovava vicino alla porta e stava facendo il solito, ottimo lavoro con le chiacchiere e i convenevoli che Zoe non aveva mai gradito.

Era bello far parte di una squadra che funzionava. Una squadra in cui ogni componente aveva i propri specifici ruoli. Shelley capiva le persone tanto quanto Zoe capiva i numeri, e sebbene nessuna delle due riuscisse davvero a comprendere l’opera dell’altra, almeno veniva reso tutto più facile.

Dopo una buona ventina di minuti trascorsi a studiare i dossier, non si erano ancora avvicinate a nulla. Nonostante i locali avessero raccolto diverse dichiarazioni da parte dei familiari e ottenuto molte più informazioni rispetto ai dossier iniziali che avevano esaminato in aereo, nulla di tutto questo sembrava essere utile. Zoe lanciò sul tavolo i fogli che aveva in mano con un lamento di frustrazione.

“Perché non c’è mai un collegamento semplice?”

“Perché, in quel caso, i locali riuscirebbero a risolvere il caso da soli, e noi rimarremmo senza lavoro,” rispose in modo calmo Shelley. “Ripassiamo quello che sappiamo. Parliamone. Magari scatterà qualcosa.”

“Ne dubito molto. Quei due erano così diversi.”

“Beh, iniziamo proprio da questo. John era un ragazzo in salute, giusto? Un fanatico della palestra.”

“Il suo coinquilino ha detto che trascorreva quasi tutto il suo tempo libero ad allenarsi. Era in ottima forma.”

“Ed era anche un bravo ragazzo.”

Zoe fece una smorfia. “Donava soldi in beneficienza e dava una mano in una mensa del povero la domenica. Non vuol dire per forza che fosse un bravo ragazzo. Moltissime persone fanno cose del genere perché nascondono un lato oscuro.”

“Ti stai arrampicando sugli specchi,” disse Shelley, scuotendo la testa. “Non ci sono altri significati nascosti. Aveva uno stile di vita pulito. Niente droghe, né condanne, neanche un rapporto disciplinare al lavoro.”

“Lei invece era l’opposto.” Zoe diresse quest’ultima affermazione verso una fotografia di una raggiante Callie Everard, che sorrideva alla fotocamera e aveva in mano una bottiglia di birra mentre un ragazzo dall’aria ubriaca le metteva il braccio attorno alle spalle.

“Beh, forse no. Ok, ha avuto qualche problema di droga quando era più giovane. Ma è entrata e uscita dalla riabilitazione quando aveva ventitre anni, ha completato il percorso e ha perso il vizio. Era pulita da un paio di anni. Si è rimessa in sesto.”

Zoe prese in considerazione questo aspetto. “Forse potrebbe essere un indizio. Entrambi con sane abitudini, anche se soltanto di recente.”

“A cosa stai pensando? A una sorta di culto della forma fisica o cose del genere?” domandò Shelley.

Zoe le rivolse uno sguardo cupo.

“Beh, è possibile,” disse Shelley. “Guarda tutta quella roba delle cyclette. E quel culto dell’auto-aiuto, quello che convinceva con l’inganno le donne a fare sesso e donare soldi al fondatore.”

“Suppongo tu abbia ragione.” Zoe non conosceva i dettagli, ma aveva sentito parlare dei casi. Shelley aveva ragione, in un certo senso. Non si sa mai cosa potrebbe esserci sotto la superficie fino a quando non si scava abbastanza a fondo da scoprirlo.

Sollevò le foto delle due vittime, cercando eventuali analogie. Era sempre frustrante imbattersi in casi del genere. In presenza di una sola vittima, era possibile limitarsi ad analizzare le prove, concentrarsi su ogni piccolo dettaglio di quell’unica persona. Quando c’erano tre o più vittime, era possibile avere a disposizione abbastanza dati per definire uno schema. Per capire che l’assassino si stava muovendo in una determinata direzione, oppure stava soltanto prendendo di mira le persone bionde di altezza inferiore a un metro e settantotto centimetri, o che magari presentavano un certo tic.

Ma quando le vittime erano due, la faccenda si complicava enormemente. Non era possibile mettere insieme le cose nello stesso modo. Un’analogia in termini numerici poteva anche rivelarsi soltanto una coincidenza che sarebbe stata demolita dal ritrovamento di un altro cadavere. Magari in un primo momento si notava che le età delle vittime erano numeri primi, soltanto per scoprire in seguito che quell’aspetto non aveva alcun senso. Era impossibile capire cosa fosse importante e cosa invece fosse soltanto fumo negli occhi, gettato dal proprio cervello e privo di qualsiasi proposito.

“C’è una cosa che hanno in comune,” disse Zoe, battendo l’indice sulle foto. “I tatuaggi. Dowling aveva una tigre sul bicipite sinistro, Everard una rosa sulla coscia destra, tatuata a puntini. Inoltre, stava andando a trovare un suo amico per farne un altro.”

Shelley scrollò le spalle. “Credi davvero sia un collegamento? Tantissime persone hanno dei tatuaggi.”

Zoe stava sfogliando altre foto, notando ulteriori segni su zone di pelle che erano visibili in diversi scatti. Erano stati presi quasi tutti dai profili social delle vittime, e sembrava che entrambi fossero orgogliosi dei propri tatuaggi, al punto da metterli in mostra. C’era un significato in tutto questo? “Non avevano soltanto un tatuaggio. Guarda. Entrambi ne erano pieni. Dowling aveva quasi tutta una gamba tatuata, fino al piede. Ed Everard, qui, sulla schiena e sull’addome.”

“Non sono ancora sicura che significhi qualcosa. È soltanto una moda di questo periodo.”

Zoe arricciò il naso. “Una moda?”

“Già. Non ci hai mai fatto caso? Un sacco di ventenni si tatuano, oggigiorno. Coprono tutto il corpo. Persino la faccia e le mani. Anche moltissime celebrità lo hanno fatto. Justin Bieber, Ariana Grande, conosci? Rapper, cantanti, sportivi. È considerata una cosa figa.”

“Tatuare la faccia e le mani sembra un’idea decisamente idiota,” disse Zoe, facendo una smorfia. “Immagina di non poter mai più nascondere un errore che hai fatto da giovane, quello di scegliere qualcosa di stupido da imprimere per sempre sul tuo corpo.”

“Deve esserci un qualche tipo di collegamento tra di loro,” brontolò Shelley. “Scommetto che ha a che fare con le loro vite private. Forse entrambi frequentavano le stesse persone. Magari avevano in comune un bar o un club, un gruppo di amici, un cugino che conosceva un cugino. Forse, senza saperlo, avevano entrambi partecipato a uno stesso evento. Dobbiamo soltanto continuare a scavare fino a quando non ci arriviamo.”

Zoe annuì. “Bene, allora, ho capito da dove dovremmo iniziare.” Raccolse il dossier di Callie Everard e prese nota dell’indirizzo che vi era indicato. “L’amico che stava andando a trovare: Javier Santos.”




CAPITOLO SETTE


Zoe gironzolò nel piccolo studio, osservando le illustrazioni e i disegni che ricoprivano ogni possibile superficie. Spettava a qualcuno che aveva più interesse di lei per l’arte affermare se Javier avesse o meno del talento. Il fatto che fosse produttivo, tuttavia, era fuori discussione.

“Questi sono tutti per tatuaggi?” domandò, esaminando i disegni.

“Sì, certo.” Javier annuì. “In gran parte sono stati utilizzati. Comunque, posso prepararvi qualcosa di originale, se lo desiderate.”

Zoe si girò di scatto a guardarlo per capire se stesse scherzando. Sembrava serio, il che era peggio.

“Non penso proprio,” disse lei, accontentandosi di impiegare queste semplici parole, sperando che lui non insistesse. Non le sarebbe piaciuto rovinare l’interrogatorio prima ancora di iniziarlo, dicendogli apertamente la sua opinione sulle persone che si facevano i tatuaggi.

Soprattutto tatuaggi del genere: opere casuali, indiscriminate. Zoe riusciva anche capire che a qualcuno potesse piacere la forma fumettistica del viso di una donna come opera d’arte da appendere ad una parete o da riporre in un libro. Ma imprimerlo sul corpo per il resto della propria vita? Indossare il volto di questa persona, questa donna fittizia, che non significava niente per nessuno ed era semplicemente frutto della fantasia occasionale di un artista?

Era strano oltre ogni limite, e lei non sapeva se fidarsi di qualcuno disposto ad accogliere una testimonianza permanente di una cosa così insensata.

“Come vuole.” Javier scrollò le spalle, apparentemente non infastidito dal suo disinteresse. “Non so cosa farò con il disegno che ho creato per Callie. Stavo pensando di tatuarlo su di me, ma potrebbe essere piuttosto inquietante.”

“Per quale motivo?” domandò Zoe, collegandosi alle parole del ragazzo. In base alla sua esperienza, se qualcuno coinvolto in un caso di omicidio riteneva che una cosa fosse “inquietante”, solitamente valeva la pena approfondire.

“Beh, prima di tutto era un’opera commemorativa. Venite, ve la mostro.” Javier iniziò a rovistare su una scrivania piena di scarti di schizzi realizzati su carta da lucido, e tirò fuori un blocchetto da disegno sul quale c’era un’illustrazione più rifinita. Era colorata con intense pennellate di nero, che andavano a costituire la sagoma di un uccello in volo.

“Cos’è?” domandò Zoe, ignorando l’occhiataccia che Javier le aveva rivolto per non aver immediatamente capito la sua opera artistica.

“È un corvo. Basato sul mito di Muninn,” iniziò lui.

“Viene dall’Antico Norreno, significa memoria,” lo interruppe Zoe. Almeno in questo caso, poteva dimostrare di saperne qualcosa. “Un uccello che assisteva il dio Odino. È per questo che l’ha definita un’opera commemorativa.”

“Per questo e per i fiori.” Javier indicò i tralci di fiori dietro l’uccello nero, accuratamente colorati con sfumature lilla e viola. “Sono zinnie, rappresentano la memoria di un amico perduto.”

“In memoria di chi?” domandò delicatamente Shelley, che si trovava dietro Zoe, intenta a osservare il disegno.

“Di un vecchio amico.” Javier storse la bocca, scrollando le spalle. “Un vecchio fidanzato, in realtà. Di quando Callie era, ehm …”

“Drogata?” continuò Zoe. Sentì sussultare Shelley alle sue spalle, ma non ebbe alcuna reazione. Che motivo c’era di girarci attorno? Sapevano tutti di cosa stavano parlando. Non era un segreto per nessuno di loro.

“Già,” disse Javier, grattandosi la nuca. “Stavo per dire in un giro sbagliato, ma sì.”

“Qual è la storia?” chiese Shelley. Il suo tono era molto più sensibile di quello di Zoe. In qualche modo, aveva l’abilità di porre domande ugualmente dirette ma facendole sembrare molto più … gentili.

“Era un brutto tipo. Uno del gruppo che l’ha fatta entrare nel giro della droga. Per quanto ne so, se non erano fatti, erano ubriachi. E se non erano né fatti né ubriachi, erano a sniffare coca nei bagni e a scoparsi a vicenda.” Javier scosse la testa, facendo un respiro profondo. “Scusatemi. Non mi piace pensare a lei in questo modo. Lei non è davvero così. Non era così, in questi ultimi anni in cui l’ho conosciuta.”

“Si è disintossicata dopo il college, giusto?” domandò Shelley.

“Esatto. L’ho aiutata io. All’inizio non poteva permettersi la riabilitazione, quindi abbiamo organizzato una fiera artistica. Abbiamo raccolto un po’ di soldi per lei, per me e per qualcun altro della nostra classe. Siamo rimasti in contatto da allora.”

“Questo ex,” incalzò Zoe, cercando di non farlo divagare.

“È stato ucciso, credo. Non so. A Callie non piaceva molto parlarne, all’epoca. Negli ultimi anni, aveva iniziato a fare i conti con il suo passato, a voltare pagina. Credo avesse finalmente accettato il fatto che lui non fosse il tipo giusto per lei, che il loro rapporto era malato. Ma anche che avevano avuto qualcosa di importante. Ecco il motivo dei fiori. Non si tratta soltanto di amore, ma di un amico perduto.”

Ucciso? Quel dettaglio attirò parecchio l’attenzione di Zoe. “Conosce le circostanze della sua morte?”

“Non è stata un’overdose. La polizia stava indagando, ma non so se hanno mai preso qualcuno. È tutto quello che so.”

Zoe rifletté su questa idea. Poteva trattarsi di un collegamento convincente, se prima questo misterioso ragazzo e poi Callie fossero stati uccisi. Avevano soltanto bisogno di trovare un legame con Dowling, e avrebbero avuto qualcosa per le mani. Magari qualcosa che aveva a che fare con la droga.

Shelley aveva detto che si trattava soltanto di una moda, ma i tatuaggi … Zoe non ne era mai stata una patita. Per lei, si associavano ad una parte della società che vedeva più spesso dietro le sbarre che in posizioni rispettabili. Non era possibile trovare un buon lavoro avendo un tatuaggio. Sicuramente non sarebbe stato possibile trovarlo nelle forze dell’ordine: non con lacrime da prigione tatuate sul viso o il nome del proprio figlio su tutta la gola.

Il tatuaggio che Javier aveva disegnato per Callie era grande. Diciotto centimetri, da una parte all’altra. Era impossibile nasconderlo. Al contrario, era concepito per essere messo in mostra. Le persone con tatuaggi visibili, come il suo e come quelli di Dowling, di solito non erano brave persone.

I conti iniziavano a tornare. Callie e il suo fidanzato erano nel giro della droga, frequentavano le persone sbagliate. Anche se era pulita quando è morta, aveva quel genere di trascorsi che attiravano l’omicidio. E per quanto riguarda Dowling, soltanto perché ormai aveva uno stile di vita sano, non vuol dire che non fosse stato coinvolto in qualcosa di losco in passato.

“Grazie, Javier,” disse bruscamente Zoe. “Il suo aiuto sarà molto prezioso.”

“Aspetta,” la interruppe Shelley. “Ho ancora un paio di domande.”

Zoe le fece cenno di proseguire, dirigendosi verso la porta dove avrebbe potuto attendere senza intralciare la sua partner. Dal suo punto di vista avevano finito, e voleva andar via subito. Non voleva perdere altro tempo a guardare questi inutili disegni di tatuaggi e parlare con Javier, che aveva già detto loro la cosa più interessante che dovevano sapere.

“Conosci qualcuno che avrebbe voluto fare del male a Callie?”

Javier fece cenno di no con la testa. “L’ho già detto prima ai poliziotti. Ultimamente era una ragazza dolcissima. Insomma, era davvero cambiata. Nessuno voleva che le accadesse qualcosa di male.”

Ma era davvero cambiata? Si domandò Zoe. Un lupo poteva perdere il vizio? Callie sicuramente non poteva perdere i suoi, non quelli impressi per sempre sul suo corpo. Per sempre, appunto, a meno che il suo assassino non li avesse eliminati con il fuoco.

Forse era tutto collegato. Forse aveva i tatuaggi di una gang che dovevano essere rimossi attraverso le fiamme. Forse qualcuno la vedeva come l’ultimo collegamento di una serie di omicidi che si era protratta per molto tempo. L’ultima parte di una vendetta compiuta da un trafficante uscito di prigione, o da una gang di motociclisti che desiderava sbarazzarsi di qualcuno che aveva infranto le regole.

“Cosa mi dice di stamattina, stanotte, ieri? Ha notato qualche faccia nuova che si aggirava da queste parti?” domandò Shelley.

“No, assolutamente no,” le rispose Javier. Le sue gambe cedettero e lui si afflosciò su una panca bassa collocata accanto a un tavolo, seppellendosi la testa tra le mani. “Vorrei saperne di più. Vorrei potervi dire qualcosa che possa aiutarvi a trovare il bastardo che le ha fatto questo. Lei non lo meritava.”

Ma forse qualcuno pensava che lo meritasse. Spettava a Zoe e Shelley scoprire chi, e qui non stavano facendo alcun passo avanti.

“La lasceremo con i suoi pensieri,” disse Zoe, una frase che aveva già sentito prima e che pensava sembrasse almeno un po’ sensibile. “Se le viene in mente qualcosa che pensa possa esserci utile, ci chiami, per favore.”

Ignorando le occhiate di biasimo che Shelley le stava lanciando per non essere stata abbastanza gentile, uscì dal monolocale di Javier, felice di respirare aria fresca e di non essere più distratta da tutti quei disegni pacchiani.




CAPITOLO OTTO


Lui la vide dall’altra parte della strada.

Lei non lo conosceva, e lui non conosceva lei. Non di persona. Ma ne sapeva abbastanza.

L’aveva osservata, e aveva scoperto cose su di lei di cui altri non erano a conoscenza. Sapeva dove viveva, da sola in un pianterreno di un palazzo in centro. Sapeva che lavorava part-time in un negozio a tre isolati di distanza, per mantenersi durante gli studi. Sapeva che ci aveva messo un po’ a trovare se stessa e capire cosa desiderasse fare della sua vita.

Sapeva che aveva un tatuaggio sull’avambraccio destro, e che aveva i capelli tinti. Aveva visto la sua collezione di bigiotteria sfoggiata un giorno dopo l’altro, e sapeva che le piaceva cambiare look ogni volta che usciva. Sapeva che usciva di casa alle 8:32 precise nei giorni in cui doveva andare a lavorare, perché la ragazza aveva stabilito nei minimi dettagli il suo tragitto. Sapeva che avrebbe preso un caffè lungo la strada, pre-ordinato tramite un’app per evitare la fila, e che si sarebbe recata nella stanza sul retro per indossare la divisa prima di andare a servire i clienti.

Sapeva quando finiva il suo turno, e la strada che prendeva per tornare a casa.

Sapeva che doveva morire.

Riusciva a stento a sopportare la sua vista, ma sapeva di dover guardare. Di dover osservare. Picchiettò distrattamente sullo schermo del suo cellulare, come se fosse completamente preso dai contenuti del dispositivo, guardandola attraverso gli occhiali da sole che celavano i suoi occhi. Studiava la routine della ragazza ormai da diversi giorni, e sapeva che sarebbe passata da qui. Questa panchina, collocata in posizione perfetta per tenerla sotto controllo.

Il mondo sarebbe stato un posto più sicuro dopo la sua morte. Quello era decisamente chiaro per lui.

La vide passare, esattamente in orario, e uscire dal suo campo visivo. Non aveva importanza. Sapeva esattamente dove stava andando. Lentamente, come se avesse tutto il tempo del mondo, si alzò dalla panchina e iniziò a camminare lungo il marciapiede nella stessa direzione in cui si era incamminata lei.

Il sabato faceva doppio turno. Si stava pagando gli studi, e aveva bisogno di soldi. Aveva senso, perché non c’erano lezioni da frequentare di domenica mattina. I suoi colleghi erano tutti felicissimi di non dover lavorare di sabato, o quantomeno di non dover lavorare così tanto come avrebbero dovuto fare se lei non avesse svolto il doppio turno. Era una soluzione che andava bene a tutti.

Soprattutto andava bene a lui, perché una volta uscita dal lavoro per tornare a casa, sarebbe stato buio. Lui sarebbe stato nascosto. Non l’avrebbe mai visto avvicinarsi.

La seguì da lontano fino a quando non raggiunse il negozio, dando un’occhiata all’interno fino a quando non la vide uscire dalla sala del personale. Bene. Andò via. Non aveva senso restare. Lei era lì dove lui voleva che fosse, e quello significava che stava andando tutto secondo i piani.

Ribolliva dalla rabbia quando pensava a lei, al fatto che fosse ancora viva. Non ne aveva il diritto. Non avrebbe dovuto azzardarsi a mettere tutti in pericolo come aveva fatto. Come faceva a non capire, a non sapere?

Stava studiando per diventare un’insegnante. Quella era la cosa più ridicola di tutte: immaginare che a una come lei venisse concesso di badare a dei bambini. Che le venisse affidata la loro educazione, permettendole di prendersene cura. Una posizione di fiducia del genere a una persona come lei.

Il mondo sarebbe stato decisamente migliore senza di lei.

Per il momento, non c’era niente da fare a parte attendere. Aveva fatto le sue ricerche, e gli piaceva trascorrere il tempo libero a guardare le persone, a scovare il male che avrebbe messo in pericolo tutti se lui non avesse fatto niente. Aveva un sacco di faccende con cui occupare la sua giornata.

E quella sera, lui sarebbe stato lì per lei. In osservazione. In attesa. Pronto a liberare il mondo dai suoi peccati.




CAPITOLO NOVE


Zoe attese l’elaborazione del comando di ricerca, appoggiandosi allo schienale della sedia e incrociando le braccia al petto.

“Ancora niente?” domandò Shelley.

“Dai un minuto al sistema,” rispose Zoe. Era ancora un po’ di cattivo umore per prima, e si sentiva talmente a suo agio attorno a Shelley da non preoccuparsi di nasconderlo. “Non è un film. Qui serve davvero del tempo per elaborare le informazioni.”

“Ok, ok,” disse Shelley. “Sono soltanto emozionata. Insomma, potrebbe trattarsi di un grosso indizio.”

Zoe la guardò con aria cupa, chiedendosi come fosse possibile per una persona passare da un’emozione all’altra così intensamente. Com’era possibile che Shelley potesse essere così sconvolta, quasi sul punto di piangere, ogni volta che vedeva un cadavere e interrogava un familiare, ed emozionarsi come una scolaretta alla prospettiva di risolvere il caso?

Lo schermo che aveva di fronte lampeggiò, attirando la sua attenzione verso una lista di risultati. Sembrava che la loro seconda vittima, Callie Everard, si fosse data da fare per diversi anni. C’erano molti verbali che la riguardavano all’interno del sistema del commissariato di polizia locale, tra cui un paio di arresti per possesso di sostanze illegali.

“Ci siamo,” disse Zoe. “È stata interrogata un paio di volte in relazione alla morte di un certo Clay Jackson. Deve essere lui.”

“Clay Jackson? Perfetto,” ripeté Shelley, digitando il nome dell’uomo nella barra di ricerca sul computer che era stato portato nella loro temporanea stanza delle indagini.

A volte era estenuante lavorare in queste condizioni. Spostandosi sempre di città in città, riuscendo a malapena ad ambientarsi per poi essere spedite da qualche altra parte. Tornare a casa soltanto per le udienze, che erano sempre indesiderate e inevitabilmente inopportune.

Zoe cliccò sul nome dell’uomo e studiò i rapporti delle indagini. Stava ancora aspettando che la pagina si caricasse quando Shelley prese la parola. Non c’era da sorprendersi che i motori di ricerca su internet fossero più veloci rispetto al sistema della polizia di stato.

“Ho trovato qualcosa. L’account social commemorativo di Clay Jackson. Ci sono diversi post, ogni anno, in occasione dell’anniversario della sua morte e del compleanno, ma ci sono anche foto. Aveva un sacco di tatuaggi.”

“Un sacco?”

“Più di Callie. E credo di poterne riconoscere uno o due che hanno un particolare significato di strada. La teoria della gang potrebbe reggere.”

Zoe sbuffò, scuotendo la testa. Si alzò per dare un’occhiata, guardando le foto di Clay Jackson. Era alto un metro e ottantacinque e pesava sessantatre chili nella sua ultima immagine. Strafatto, a stento mangiava. Aveva l’aria di chi un tempo era stato in forma e in salute, muscoloso, prima che questa dipendenza prendesse il controllo della sua vita. Nelle foto diventava sempre più magro. Non ha mai portato a termine quel percorso, è stato ucciso prima.

“Perché i criminali fanno questo?” domandò.

“Fare cosa?”

“Si marchiano per noi. Ce la rendono facile con i loro tatuaggi da gang.”

“Non credo sia questo il senso di tatuarsi,” disse Shelley, sorridendo ironicamente mentre continuava a darle le spalle. “Si tratta di conformismo sociale. Mostrare l’appartenenza ad un determinato gruppo. A volte, il sentimento di lealtà e cameratismo che si ottiene da quel senso di appartenenza oltrepassa la necessità di proteggersi o la logica di evitare l’arresto.”

“Non farei mai un tatuaggio da gang. Anche se fosse un requisito per entrare a farne parte. Anzi, soprattutto se fosse così. Che regola idiota.”

Shelley girò leggermente la sua sedia, rivolgendo a Zoe uno sguardo divertito. “Comunque non penso proprio che ti uniresti a una gang. Richiederebbe troppi convenevoli. Non credo ti piacerebbe.”

“Non farei un tatuaggio per nessun motivo al mondo,” rispose Zoe, sottolineando l’altra parte della questione. “E non capisco perché qualcuno voglia farlo. Cosa può esserci di tanto importante da spingere una persona a disegnare qualcosa di permanente sul suo corpo?”

“Proprio non ti piacciono i tatuaggi, vero?”

Zoe non capiva se Shelley la stesse prendendo in giro o meno. “Sono un segno di scarsa intelligenza. Statisticamente, è molto più probabile che a tatuarsi siano i criminali rispetto ai cittadini onesti. E col passare del tempo, i tatuaggi assumono inevitabilmente un aspetto idiota. Perché stai sorridendo in quel modo?”

“Perché c’è qualcosa di me che non sai.” Shelley allontanò leggermente la sedia dalla scrivania e sollevò il piede. Prima che Zoe potesse protestare o chiederle cosa stesse facendo, Shelley alzò l’orlo dei pantaloni per mostrarle la pelle della sua gamba.

Sopra era tatuato un papavero in miniatura, di rosso brillante e nero, così realistico da far pensare a Zoe che quasi potesse allungarsi e coglierlo.

“Hai un tatuaggio?” disse Zoe, nonostante fosse ovvio. Era rimasta davvero basita. Non avrebbe mai immaginato che Shelley fosse tipa da profanare il suo corpo in quel modo.

“Ha ancora un bell’aspetto, no?” disse Shelley. Stava sorridendo: Zoe pensò che fosse una risata bonaria, ma non ne era del tutto convinta. “L’ho fatto quando ero al college. Il nome di mia nonna era Poppy. Dopo che è morta, ho pensato potesse essere un bel modo per ricordarla.”

Zoe si accasciò sulla sua sedia. Si sentiva a corto di fiato. “Ne hai altri?”

“No,” rise Shelley. “Ha fatto un male cane. Ho giurato a me stessa che avrei chiuso con i tatuaggi.”

“Non conoscevo questa … questa parte di te.”

“Quale parte? Quella criminale e scarsamente intelligente?”

Zoe deglutì. Poteva anche avere difficoltà a capire le emozioni umane e le regole sociali, ma in questo caso sapeva cosa fare: doveva scusarsi con la sua partner.

“Non volevo riferirmi a te,” disse. “Non sapevo che …”

“Hai fatto un’ipotesi,” continuò Shelley. “So che non pensi che io sia una persona cattiva, quindi devi considerare l’eventualità che la tua ipotesi non sia del tutto corretta. Non si tatuano soltanto i criminali e gli idioti.”

Zoe annuì, ponderando attentamente le sue parole. “Ammetto che un marchio di rispetto e commemorazione nei confronti di un caro scomparso possa essere una valida ragione per fare una cosa del genere.”

“Beh, almeno è un progresso,” disse Shelley. Stava ancora sorridendo, e Zoe aveva la sensazione che la stesse ancora prendendo in giro. Ma aveva incasinato le cose e detto qualcosa di potenzialmente offensivo, quindi le sembrava giusto. “Come sta andando la tua ricerca?”

Zoe colse la sottile allusione e rivolse nuovamente la propria attenzione al monitor, dove i precedenti penali di Clay Jackson si erano finalmente caricati del tutto. Fischiò debolmente, scuotendo la testa alla lunga lista di risultati che era comparsa. “Ok, ha decisamente dei precedenti. Pare fosse affiliato a una gang locale, come sospettavamo.”

Ora toccò a Shelley alzarsi e sporgersi verso il monitor di Zoe. Lessero insieme i risultati. Non raccontavano una bella storia.

Clay Jackson era stato un membro di una gang di LA, una nota banda pesantemente  coinvolta nel traffico di stupefacenti, tra le varie cose. Il genere di sostanze con cui Callie aveva incasinato la propria vita. Non era difficile capire dove si rifornisse.

I tatuaggi di Clay erano soltanto l’inizio. Quell’uomo era un elemento chiave della gang, sospettato di aver guidato attacchi in territorio rivale e di essere il cervello dietro diversi affari tra la gang e i fornitori e gli acquirenti. Aveva ricevuto diverse diffide per possesso di droga e di armi, ad ognuna delle quali ha fatto seguito un arresto e varie condanne. Aveva trascorso del tempo in carcere, entrando e uscendo continuamente dopo qualche mese, ma non lo avevano mai beccato a commettere qualcosa di abbastanza grave da sbatterlo in cella una volta per tutte.

Fino a quando non è finito tutto: il momento in cui è stato freddato in un vicoletto; il suo corpo è stato ritrovato in una pozza di sangue dalla polizia, dopo che i residenti dell’area avevano segnalato diversi colpi d’arma da fuoco. Non c’è mai stata nessuna vera prova su chi fosse il responsabile; soltanto legami indiziari e sospetti, facilmente visibili nella sequela di interrogatori e arresti successivi al delitto.

“Guarda qui,” indicò Zoe, battendo l’indice sullo schermo. “L’unica accusa che sono riusciti a confermare durante l’intera indagine è stata quella per possesso di arma da fuoco illegale. Il tizio che pensavano potesse essere il responsabile, solo che non potevano provarlo. Questo è stato il massimo che hanno ottenuto per lui. Gli hanno dato cinque anni.”

“Diamo un’occhiata,” disse Shelley. “Qual è il suo nome? Cesar Diaz?”

“Sì,” rispose Zoe, aspettando che la pagina si caricasse nuovamente. “La sua gang aveva legami stretti con i trafficanti Messicani. Pare che avessero combattuto per il controllo del territorio. Per avere il diritto di spacciare in quell’area.”

“Tutto torna. Clay era un pezzo grosso nella sua organizzazione; era quello che chiudeva gli affari e portava a termine le vendite, quindi ha senso che le gang rivali volessero fare fuori soprattutto lui, per mettere bene in chiaro chi avesse il controllo.”

I dati di Cesar Diaz apparvero sullo schermo.

Lessero entrambe l’ultimo aggiornamento, poi fecero una pausa e si guardarono.

Era una cosa grossa.

“Cesar Diaz è stato rilasciato con la condizionale qualche mese fa,” disse Shelley, dicendo ad alta voce ciò che avevano letto.

“Cesar Diaz è lì fuori, in strada, e forse cerca vendetta. Spiegherebbe l’omicidio di Callie. Elimina le cose alle quali Clay teneva di più per far sapere a tutti di essere tornato e mostrare che non si è indebolito. Che è ancora lui che comanda.”

“Ma cosa c’entra John Dowling? Quello non ha ancora senso per me.” Shelley aggrottò la fronte. “C’è una qualche connessione tra John e Cesar?”

Zoe esaminò la pagina, cercando di tirare fuori qualcosa. A quanto pare non c’era niente. Tornò immediatamente alla pagina precedente, al profilo di Clay Jackson.

Sotto il suo nome e la foto, accanto ai suoi dati fisici, c’erano alcuni link che portavano a sezioni più ampie. Una di queste riguardava le affiliazioni conosciute, e Zoe vi cliccò sopra per continuare a leggere il testo.

“Aspetta un secondo,” disse, notando qualcosa che fece scattare la sua memoria. “Alicia Smith. Sembra un nome comune, ma …”

Si alzò, prendendo il dossier di John Dowling dalla posizione in cui l’avevano lasciato, sul tavolo centrale. Sfogliò diverse pagine prima di trovare finalmente quello che stava cercando.

“Di cosa si tratta?” domandò Shelley, guardandola con ansia, con le dita che giocavano con il pendente a forma di freccia appeso al suo collo.

“Alicia Smith. Interrogata un paio di giorni fa da agenti in divisa in relazione all’indagine sulla morte di John Dowling.”

“Quale legame aveva?”

Zoe sorrise, assumendo un’espressione vittoriosa. “Alicia Smith è la madre di John Dowling.”

“Ma che …” Shelley si sporse in avanti, leggendo nuovamente sullo schermo. “Aspetta. Alicia Smith è anche la zia di Clay Jackson, da parte di sua madre.”

“John Dowling è il cugino di Clay Jackson. Ecco com’è connesso a Callie Everard.”

E, all’improvviso, tutti i pezzi si collocarono a formare il mosaico.

Shelley passò subito all’azione, digitando qualcosa sul PC di Zoe e muovendo il mouse con impazienza mentre la pagina si caricava nuovamente. “Ho i dettagli sulla libertà vigilata di Cesar Diaz. Meglio andare a fargli una visita.”




CAPITOLO DIECI


Zoe osservava la scena da un angolo della stanza, dove si era spostata con il pretesto di esaminare gli attestati appesi alla parete. Da quel punto poteva vedere e ascoltare, senza prendere parte alla conversazione fino a quando non fosse stata pronta.

Craig Lopez non sembrava il classico agente di custodia, almeno non il tipo che veniva in mente quando si sentiva questo termine. Aveva un fisico possente: un metro e novantatre centimetri di altezza e circa novantuno chili di muscoli. Non solo, ma la maggior parte di quei muscoli, che erano visibili sotto la polo che indossava, erano ricoperti di tatuaggi. Semplici scarabocchi si alternavano a elaborate opere d’arte, e lui li collezionava chiaramente da un sacco di tempo.

E poi c’era la cicatrice irregolare sul lato del collo, dove un proiettile si era fatto strada nella sua carne senza ucciderlo.

Evidentemente, era stato assunto grazie al suo punto di vista unico. Da giovane aveva fatto parte di diverse gang, quindi poteva parlare da pari ai componenti attuali. Sapeva cosa voleva dire per loro.

“Cesar è di nuovo nei guai?” domandò, con un’espressione grave e delusa. “Mi ha giurato che sarebbe tornato pulito. Che avrebbe chiuso con la gang e iniziato una nuova vita.”

“Non ne siamo ancora sicure,” specificò Shelley. “Dobbiamo interrogarlo.”

Craig aprì il cassetto di uno schedario e ne sfogliò il contenuto prima di tirare fuori un foglio di carta. “Questo è il suo indirizzo di libertà vigilata. Fate molta attenzione. Se è di nuovo invischiato in qualche affare con la gang, probabilmente avrà un seguito. È stato dentro per la gang, quindi ha guadagnato del prestigio. Vorranno proteggerlo. Se vi presentate con le armi spianate, potrebbero reagire molto male.”

“Capito,” disse Shelley. “E se andassimo da sole, soltanto noi due, e mostrassimo loro che vogliamo soltanto parlare?”

Craig inclinò il capo. “Sarebbe più sicuro. Ma accertatevi che qualcuno sappia dove siate. Non si sa mai.”

Shelley fece un respiro irregolare mentre annuiva. Zoe lo notò, pensando che probabilmente la sua partner non si era mai trovata in una situazione del genere prima d’ora. Per come se la cavava bene, a volte era facile dimenticare che non era uscita da Quantico da molto tempo. C’erano molti scenari nuovi che avrebbero ancora potuto spaventarla.

Quando si trattava di gang, neanche Zoe poteva dire di sentirsi totalmente sicura dei propri mezzi.

“Sei una sorta di esperto locale su queste gang?” domandò Zoe, rivolgendo la domanda a Craig.

Aveva aperto bocca per la prima volta durante l’intera conversazione: lui la guardò con aria sorpresa, e scrollò le spalle. “Immagino di sì. Almeno la cosa che più si avvicina da questo lato della legge. Perché? Vi servono informazioni?”

“Riguarda Clay Jackson, l’uomo che probabilmente è stato ucciso Cesar,” rispose Zoe.

“Oh, certo che è stato lui. Ma l’ha fatta franca,” disse Craig. “Me lo ha quasi confessato, anche se è troppo furbo per vuotare il sacco e ammetterlo chiaramente.”

Zoe annuì, grata per quella conferma. “Sua zia, Alicia Smith. All’epoca è stata interrogata sull’omicidio.”

Craig strizzò gli occhi e li alzò verso il soffitto, pensandoci su. “Non sono sicuro che il nome mi ricordi qualcosa.”

“Suo figlio, John Dowling, è una delle vittime degli omicidi su cui stiamo indagando attualmente.”

Craig colse l’antifona. “Mi state chiedendo del loro rapporto. Se Cesar abbia ucciso questo John Dowling appena uscito di prigione per dimostrare qualcosa.”

“Esattamente.”

Craig increspò le labbra, tamburellando con le dita sulla scrivania. “Non mi convince. Clay Jackson era come tanti di questi ragazzi. La gang era la sua famiglia. I legami di sangue non sono niente al confronto. Se non ricordo male, non aveva contatti con la maggior parte dei suoi parenti. I suoi genitori non volevano avere niente a che fare con un figlio che faceva parte di una gang.”

Quell’informazione era interessante. Era una falla nella loro teoria, ma d’altronde non era una prova. Craig conosceva questi uomini, ma non faceva parte delle gang. Non più. C’erano cose che avrebbero potuto nascondergli.

“Grazie,” disse Shelley, allungandosi per stringergli la mano. “La contatteremo se avessimo bisogno di qualcos’altro.”


***

L’indirizzo segnato sul pezzo di carta che Craig aveva scritto per loro le portò a un edificio fatiscente e a un piano con vecchie auto malconce parcheggiate lungo quello che avrebbe dovuto essere il giardino. Una di quelle auto aveva dei mattoni al posto degli pneumatici. Non era esattamente quello che ci si poteva aspettare dalla casa di un boss della droga.

Forse Craig aveva ragione, e Cesar era davvero fuori dal giro. Ma quello non voleva dire che avesse portato a termine la sua vendetta, pensò Zoe, mordendosi il labbro mentre esaminava la scena.

Non sembrava esserci nessuno nei dintorni che volesse far loro del male. Nessuno le guardava dalle finestre o dai porticati, nessuna auto attraversava lentamente il quartiere. Nessun segno di persone che si agitavano all’interno della casa.

“Dovremmo entrare,” decise Zoe, aprendo lo sportello del lato del guidatore e uscendo dall’auto.

Shelley la seguì un secondo dopo. Non si trattava di un forte ritardo, ma era pur sempre un ritardo. Zoe si domandò se Shelley stesse avendo dei ripensamenti a proposito di questa pista della gang. Qualsiasi cosa avessero fatto, avrebbero dovuto indagare in qualche modo. Indipendentemente dal ritardo provocato, sarebbero finite qui ad un certo punto.

Zoe cercò di mostrare una sicurezza che non sentiva davvero di avere mentre si dirigeva verso la porta d’ingresso e bussava con forza, tre colpi secchi che era impossibile non sentire in quella piccola abitazione.

Nessuna risposta.

Si scambiò un’occhiata con Shelley, che ora si trovava accanto a lei, e bussò di nuovo. Più forte. Cinque volte. Non era facile da ignorare.

Non sentì niente. Né lo scricchiolio delle assi del pavimento né un impercettibile movimento dietro le tende sottili. La finestra del soggiorno, visibile dal punto in cui si trovavano, si apriva su una stanza vuota.

“Non c’è nessuno qui,” disse Zoe un istante dopo, constatando che era improbabile che le stessero semplicemente ignorando.

“Allora, cosa facciamo adesso?” domandò Shelley, guardando indietro verso l’auto. “Ci sediamo e aspettiamo?”

Zoe seguì il suo sguardo e vide un anziano Ispanico che si era seduto sui gradini di una casa dall’altra parte della strada. Settantatre anni, stimò. “Forse. O forse no,” disse, incamminandosi con aria disinvolta nella sua direzione.

Era sempre imbarazzante muoversi verso qualcuno in questo modo. L’anziano le stava guardando e aveva capito che si stavano dirigendo verso di lui. Aveva capito che stavano andando a parlargli, ma era ancora troppo distante per fargli un saluto. Dove guardare? Per terra? In lontananza, ignorando la presenza dell’uomo, come se volessero semplicemente proseguire passandogli accanto? Oppure dovevano guardarlo in faccia, per creare un contatto visivo che sarebbe stato imbarazzante fino a quando non fossero state a portata d’orecchio?

Zoe scelse una combinazione di tutte e tre le cose, che in un certo senso risultò persino più imbarazzante, e finì col chiamarlo non appena fu a metà strada soltanto per mettere fine a quell’imbarazzo.

“Mi scusi, signore?”

Lui non si alzò, limitandosi a guardarle entrambe con un’aria di totale diffidenza, ma dedicò loro la sua attenzione.

“Stiamo cercando l’uomo che vive a questo indirizzo. Sa dove potrebbe trovarsi adesso?” domandò Zoe, mettendola in maniera piuttosto neutrale. Non c’era bisogno di rivelare tutto.

Il vecchio grugnì. “Volete dire Cesar?”

A quel punto scoprì le carte. “Esatto, signore.” Zoe mantenne un tono di rispetto. Aveva notato che il livello di collaborazione che era possibile ottenere dai testimoni anziani era spesso direttamente proporzionale al numero di volte in cui venivano chiamati “signore” o “signora”.

“Al fosso.”

“Al fosso?” ripeté Zoe. Nulla faceva sentire più idioti di un’interazione con una persona del posto.

Il vecchio grugnì nuovamente, rivolgendole una scrollata di spalle spazientita. “Il fosso. Dove vanno tutti quei ragazzi.”

“Intende i membri della gang, signore?” si intromise Shelley, con il suo solito tono basso e delicato.

L’uomo sfregò le dita contorte dall’artrite sulla testa, che era quasi calva tranne qualche ciocca particolarmente resistente, e annuì. “Tutti quei ragazzi. Non è un segreto da queste parti.”

“Può indicarci dove si trova, signore?” domandò Shelley. “Non siamo del posto.”

L’anziano la guardò dalla testa ai piedi e scoppiò a ridere, mostrando tre denti mancanti. “No, non lo siete,” disse, quindi rise di nuovo, a lungo e di gusto.

Zoe diede un colpetto al braccio di Shelley. “Ci conviene chiamare la polizia locale,” disse, facendo un cenno con la testa verso l’auto prima di incamminarsi in quella direzione. Dietro di loro, lungo i ventiquattro passi che le separavano dall’auto, la risata del vecchio continuava a risuonare, seguendole come un cattivo odore.

Zoe sprofondò nel sedile del conducente e sbatté la portiera, forse più forte del necessario.

“Qual è il piano?” domandò Shelley con il fiato sospeso. Le sue guance erano diventate rosa. L’intero confronto era stato fuori dalla sua portata.

“Chiamerò il commissariato,” rispose Zoe. “Ci serviranno rinforzi, e la posizione del “fosso”. Quelli del posto la conosceranno sicuramente. E poi ci dirigeremo lì.”

Compose il numero sul suo cellulare, stimando già l’entità dei rinforzi che avrebbero dovuto chiedere … e sarebbe stato prudente avere anche dei giubbotti antiproiettile.




CAPITOLO UNDICI


Zoe sistemò le cinghie del suo giubbotto antiproiettile un’ultima volta, sentendo la presa rassicurante del Velcro sulla sua controparte, e la forza con cui si unirono.

Il retro del furgone della polizia era angusto. Shelley era seduta di fronte a lei, e poi c’erano otto uomini e donne della squadra SWAT, tutti equipaggiati con tenute d’assalto complete. Zoe non era abituata alla sensazione di avere un elmetto in testa, al modo in cui le parti imbottite premevano contro le sue guance. Ma era comunque meglio rispetto all’eventualità di fare irruzione ed essere un bersaglio esposto.

Si fermarono in una strada senza uscita a poca distanza dal loro obiettivo, il luogo di ritrovo che i membri della gang chiamavano casa. Il Fosso. Si scoprì essere un bar, o almeno di facciata; il genere di posto in cui gli estranei non erano assolutamente graditi. Entrare sarebbe stato un vero e proprio raid. Il capitano della polizia locale aveva chiarito loro che non c’era altra opzione, con uomini del genere. Entrare disarmati, non protetti e in veste di poliziotti voleva dire uscirne morti.

Avevano steso una mappa tra di loro, una piantina del luogo. Si trattava perlopiù di un insieme di contorni quadrati neri, approssimazioni basate su ciò che era stato osservato nel corso di retate precedenti combinate con le mappe catastali.

“Ci sono tre uscite: qui, qui e qui.” Il comandante dell’unità le stava indicando, una in ogni direzione della bussola, tranne il sud. “Questa è l’entrata principale, da dove faremo irruzione, sulla strada. Le altre due verranno usate entrambe. Per esperienza, la gang si separerà più o meno a metà, scappando in ogni direzione e cercando di dividere anche le nostre forze.”

“Cos’è questa struttura?” domandò Zoe, indicando un rettangolo all’interno dell’edificio.

“Quello è l’angolo bar. Di norma, ci aspettiamo che la maggior parte delle persone si concentri in quel punto, con tavoli e sedie disseminati attorno a quest’area. Laggiù, dietro le doppie porte, c’è il circolo privato. I pezzi grossi trascorrono lì dentro il loro tempo.”

“È lì che troveremo Cesar,” disse Zoe. Era un commento, più che una domanda. Ma sapevano tutti che lui era un pezzo grosso. Era una delle regole non scritte di una gang come questa: una volta che si finiva dentro per gli affiliati senza fare la spia, si entrava a far parte della cerchia ristretta.

“Qui c’è il garage. È soltanto un soffitto coperto. La parte anteriore e quella posteriore sono entrambe aperte per fornire loro una rapida via di fuga. All’interno avranno diversi SUV, probabilmente anche moto e veicoli più piccoli, a seconda dei membri presenti nel circolo in questo momento.”

Zoe osservò la mappa, vedendola animarsi davanti ai suoi occhi. I punti rappresentavano le persone, come si sarebbero mosse confusamente, come sarebbero scappate. Angoli e traiettorie.





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“UN CAPOLAVORO DEL THRILLER E DEL MISTERO. Blake Pierce ha svolto un lavoro magnifico nella caratterizzazione dei personaggi, così accuratamente descritti da un punto di vista psicologico che possiamo calarci nelle loro menti, provare le loro paure e gioire dei loro successi. Ricco di colpi di scena, questo libro vi terrà svegli fino all’ultima pagina.”

–Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (re Il Killer della Rosa)

IL VOLTO DELLA PAURA è il volume #3 di una nuova collana di romanzi thriller incentrati sull’FBI ad opera dell’autore bestseller secondo USA Today Blake Pierce, il cui bestseller #1 Il Killer della Rosa (Volume #1) (download gratuito) ha ricevuto oltre 1,000 recensioni a cinque stelle.

L’Agente Speciale dell’FBI Zoe Prime soffre di una rara condizione che le dona anche un talento unico: quello di vedere il mondo attraverso una lente di numeri. I numeri la tormentano, rendendola incapace di relazionarsi agli altri e facendole avere una vita sentimentale deludente, ma le permettono anche di vedere schemi che nessun altro agente dell’FBI è in grado di vedere. Zoe tiene segreta la sua condizione, in preda alla vergogna e alla paura che i suoi colleghi possano scoprirla.

A Los Angeles, diverse donne vengono ritrovate morte, senza alcuno schema a parte il fatto di essere orribilmente marchiate. Trovandosi in un vicolo cieco, l’FBI si rivolge all’Agente Speciale Zoe Prime per trovare uno schema lì dove altri non riescono, e per fermare l’assassino prima che colpisca di nuovo.

Ma Zoe, in terapia, sta affrontando i propri demoni, ed è a malapena capace di muoversi nel suo mondo afflitto dai numeri, oltre ad essere sul punto di lasciare l’FBI. Riuscirà a entrare nella mente di questo assassino psicopatico, trovare lo schema nascosto e uscirne incolume?

Thriller ricco di azione dalla suspense al cardiopalma, IL VOLTO DELLA PAURA è il volume #3 di una nuova avvincente collana che vi terrà incollati alle pagine fino a notte fonda.

Il Volume #4 sarà disponibile a breve.

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