Книга - Scherzi Dell’Amicizia

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Scherzi Dell'Amicizia
Marco Fogliani


Una decina di racconti dell'autore dedicati all'Amicizia.

In ordine alfabetico, i racconti inclusi nella raccolta sono i seguenti:

IL BRACCIALETTO SMARRITO

IL FIGLIO NON ADOTTIVO

IL REGALO DI COMPLEANNO

IO ED AUGUSTO, I DUE INVISIBILI DELLA CLASSE

L’AMICO DI NONNA PINA

LA FESTA A SORPRESA

PEN FRIENDS

SESSANTA!

SOLI IN COMPAGNIA

SULLA SPIAGGIA

Si avverte che, dato il carattere tematico della raccolta, alcuni di questi racconti potrebbero essere inclusi anche in altre raccolte dello stesso autore.








Marco Fogliani


Copertina di Marco Fogliani

Aggiornamento al: 24/10/2021




L'AMICO DI NONNA PINA


La vicenda che vi sto per narrare si è svolta in un periodo molto particolare della nostra Storia: un periodo in cui i ragazzi andavano a scuola restando a casa, ed anche i loro genitori lavoravano in ufficio senza fisicamente recarvicisi. In quel periodo persino nonna Pina, nonostante la sua non trascurabile età, finì per modificare il suo stile di vita, consolidatosi nell’arco di tanti anni, eliminando la sua uscita mattutina per la spesa e anche quella domenicale della messa.

A quel tempo, in un paesino della provincia di Roma, i genitori di Piero - un ragazzino di quarta elementare alto già quasi come un adulto - non andavano d’accordo già da un po’; ed il fatto di dover rimanere chiusi tutti in casa per disposizione governativa non facilitava di certo la loro pacifica coabitazione e convivenza. Tutt’altro. Un giorno, dopo pranzo, accadde qualcosa tra i suoi genitori che provocò un diverbio particolarmente acceso. Piero fu mandato di sopra a studiare in camera sua, ma … hai voglia a chiudere la porta del salotto e quella delle scale perché non sentisse! Piero sentì tutto, e certamente anche i vicini.

La lite nacque per colpa di un telefono o di un cellulare: per una chiamata per lui, a cui per sbaglio rispose lei; o forse per qualche messaggio di lui, o per lui, che non avrebbe dovuto essere scoperto. Insomma, una questione di uomini e donne, che Piero ancora non comprendeva pienamente, ma che già sapeva come si sarebbe sviluppata. Porte che sbattono; voci che si alzano; toni che si accendono. Ed a questo punto il povero Piero (vorrei dire il piccolo Piero, ma la sua statura non me lo consente) decise di uscire in giardino, di inforcare la sua bicicletta e, in barba ai divieti proclamati dalla televisione mille volte nella giornata, di andarsene via per la strada deserta pedalando in modo forsennato, disperato, per dissipare la rabbia e la frustrazione che queste liti gli procuravano.

Uscendo, Piero ebbe modo di sentire anche un piatto che, lanciato, finì per rompersi; o forse era un bicchiere; oppure erano posate e non si ruppe nulla. Fatto sta che, con la sua fuga senza esitazione, Piero si perse il finale di quel litigio, un po’ diverso dal solito: suo padre che, stavolta d’accordo con sua madre, usciva di casa per andarsene a trascorrere il resto della reclusione stabilita dal governo in un altro appartamento, presumibilmente con un’altra donna. E forse per non tornare più.

Piero pedalò all’impazzata, per sfogarsi, senza una meta precisa. Quando la sua rabbia si fu un po’ attenuata gli si pose il problema di dove andare. Stavolta, più seriamente delle volte precedenti, gli balenò in mente di fuggire di casa. Ma per andare dove?

Fu così che, guardandosi intorno per capire dove fosse arrivato – e ne aveva fatta davvero parecchia di strada – si rese conto di trovasi a non molta distanza dalla casa di Giulio, un suo coetaneo che aveva conosciuto non si ricordava bene né quando né come, da piccolo. Non frequentava la sua stessa scuola. Lì vicino, si ricordava, c’era la casa di sua nonna, un bel villino con giardino, orto e gatti.

Ci arrivò, la riconobbe e suonò al citofono.

Nonna Pina, come ho già accennato, si era già adeguata ad alcuni cambiamenti causati dalla pandemia. Uno di questi era che la spesa le arrivava a casa, portata da un fattorino o da un corriere. Lei apriva il cancello e loro la lasciavano lì, appena dentro. Non doveva neanche pagare: ci aveva già pensato suo figlio, con cui la sera prima si era sentita (e vista) per video-telefono, ed a cui aveva elencato quello che le serviva. Così con questo espediente riuscivano a vedersi ed a sentirsi tutti i giorni; e suo figlio aveva modo di starle vicino e di sapere che stava bene.

Quando le suonò il citofono, nonna Pina non si ricordava di aspettare qualcuno o qualcosa. Aprì e si diresse al cancello. Quando vide quel ragazzino, per giunta senza mascherina, rimase sorpresa.

“E tu chi sei? Che ci fai qui?”, gli chiese.

“Cercavo Giulio. È questa casa sua?”

“Perbacco, quando viene a trovare sua nonna d’estate sì, questa è casa sua. Ma adesso è coi suoi genitori, a Roma. Ma non ti preoccupare. Adesso gli telefoniamo, così gli puoi parlare e puoi anche vederlo, persino.”

Piero esitò. Nonna Pina insistette.

“Su, entra. Ma sai che mi sembra di averti già visto. Come hai detto che ti chiami?”

“Piero”.

“Dai Piero, vieni, che forse c’è anche qualche dolcetto per te.”

Erano già entrati in casa quando a nonna Pina, che pure aveva qualche timore per la sua salute a star vicino a quel ragazzino sconosciuto, venne una nuova preoccupazione.

“Ma i tuoi genitori lo sanno che sei qui?”

“No. Ma per favore, non glielo dica. Altrimenti mi tocca tornare a casa e sentirli di nuovo litigare.”

“Ma non hai pensato che forse si stanno già preoccupando per te?”

Poi, dopo un attimo di pausa, proseguì: “Magari facciamo così: adesso chiamiamo subito Giulio, poi pensiamo ai tuoi genitori. Li chiamo io, se preferisci. Gli dirò che stai bene e che ti fermi un po’ da me, d’accordo? Che ti vengano a prendere più tardi, magari dopo cena, se vuoi. Faccio delle ottime tagliatelle io, lo sai? Che ne dici?”

Piero non rispose.

“Allora, vediamo di attivare il collegamento con Giulio. Non ci crederai, ma sono brava anche a fare queste cose: me lo ha insegnato mio figlio quando mi ha portato questo affare.”

Nonna Pina armeggiò un poco col suo computer, ed ecco un signore apparire sullo schermo.

“Ciao mamma. Oggi sei molto in anticipo. Tutto bene?”

“Sì, sì. Ho chiamato per Giulio, perché c’è qui una sorpresa per lui: un suo amichetto.”

“Aspetta che te lo vado a chiamare. Giulio! Giulio vieni, c’è nonna che ti vuole. Dice che ha una sorpresa per te.”

“Piero! Sei tu Piero! Ciao, ome stai?” Giulio lo riconobbe, ed i due ragazzi cominciarono a parlare di cose loro, di giochi, di calcio e di televisione, e di altre cose strane che i grandi capiscono poco ma che ai ragazzini interessano moltissimo. Parlarono forse per un’ora, senza interruzione. Anzi, un’interruzione ci fu: quando nonna Pina porse a Piero un foglietto chiedendogli di scrivere il suo cognome ed il numero di telefono di casa. “Così io intanto li chiamo”, gli disse. E così fece.

Le rispose una voce di donna. “Pronto?”

“Buongiorno. Mi scusi, è la casa di Piero Rossini?”

“Sì, sono la sua mamma. Ma lui è di sopra a studiare, se vuole glielo vado a chiamare.”

“No, no. Non c’è bisogno. Anche perché lui non è di sopra a studiare. Anzi: volevo giusto dirle questo: che suo figlio adesso è qui a casa mia. Sono la nonna di un suo amichetto, Giulio. Adesso loro due sono qui a giocare. Potrebbero passare il pomeriggio insieme, e magari Piero potrebbe anche fermarsi qui a cena, se non le dispiace.”

“A dire il vero mi farebbe anche comodo: ho molto da fare, ho da lavorare tutto il pomeriggio. Così non dovrei mettermi ai fornelli. Caso mai la richiamo quando ho finito, va bene?”

“Va bene. A questo numero. Allora a più tardi, tanto io non esco.”

Terminata la telefonata con Giulio, Piero andò in giardino a giocare coi gatti. Si ricordava che ce n’era più d’uno. Voleva toccarli ed accarezzarli, ma quelli scappavano e si nascondevano, un po’ come fanno tutti i gatti coi bambini. Piero trascorse anche con loro un tempo interminabile, fino a riuscire prima a convincere il più piccolo di loro a lasciarsi accarezzare, e poi finché non fu egli stesso ad annoiarsi di accarezzarlo.

Quando rientrò in casa, nonna Pina stava seduta sulla sua poltrona a dondolo davanti al televisore, sferruzzando con un lavoro a maglia.

“Non è che ci sono altri giochi?”, le chiese Piero. “Di quelli di Giulio, voglio dire. Mi sono dimenticato di chiederglielo.”

“Se vuoi possiamo richiamarlo. Ma … aspetta, vieni qui che ti faccio vedere una cosa”. Piero le si avvicinò incuriosito.

“Vuoi che ti insegni un trucco per far colpo sulle ragazzine? Sempre che far colpo sulle tue coetanee ti interessi. È un metodo che funziona sempre, parola mia: sono stata ragazzina anch’io, lo sai. E poi ti assicuro che funzionerà anche quando sarai più grandicello.”

Piero annuì, e sembrava molto interessato.

“Non c’è nulla che attragga le femmine come vedere un maschio che fa la maglia. Magari all’inizio qualcuna può riderci un po’ sopra; ma poi, se vedono che la sai fare davvero, ne rimangono estasiate, in ammirazione, e ti tengono in grandissima considerazione. Vuoi che ti faccia vedere come si fa? Tanto prima di cena abbiamo ancora tanto tempo.”

Piero fece cenno di sì, incuriosito.

“Bene. Allora oggi comincio a insegnarti i rudimenti dell’uncinetto. Ma prima … dimenticavo una cosa: non è che sei uno di quei bambini che va a scuola anche il sabato, ed hai dei compiti da finire?”

“No, no: domani niente scuola, io.”

“Va bene, allora prendi questo uncinetto e cominciamo a vedere come si impugna”.

Così nonna Pina cominciò quella singolare lezione. Ricordava di aver provato ad insegnare a fare a maglia anche a Giulio, qualche anno prima, ma evidentemente a quel tempo suo nipote era troppo piccolo, e probabilmente le ragazzine ancora non gli interessavano abbastanza. Invece Piero seguì i suoi insegnamenti con una certa attenzione.

La lezione e l’esercitazione pratica durarono a lungo. A un certo punto, quando lei lo vide stanco, distratto e che faticava a proseguire, gli disse:

“Adesso riposati un po’, che poi devi darmi una mano in cucina. Mi devi aiutare a preparare le tagliatelle. Sentirai che buone, le tagliatelle alla maniera di nonna Pina. Sono famose in mezzo mondo. E se impari a farle, poi ti puoi rivendere anche quelle.”

Piero, che conosceva il famoso motivetto a cui nonna Pina aveva fatto allusione, fece cenno di sì con la testa; poi tirò fuori il suo cellulare e si immerse in una serie di partite col suo gioco preferito. Finché, come promesso, non aiutò nonna Pina in cucina a preparare la cena.

Ecco, così è andata che quella volta Piero incontrò nonna Pina. E da allora in poi ogni venerdì pomeriggio, finché essa fu in vita, le sue visite a casa di lei divennero una bella e costante abitudine.

Tra tutti i nuovi parenti che Piero avrebbe acquisito di lì a poco - prima un secondo papà e poi una seconda mamma, e con loro dei nuovi fratelli e sorelle – nonna Pina fu senz’altro quella più affettuosa e simpatica. Gli insegnò molto bene tutti i suoi segreti, con la maglia ed in cucina, che effettivamente riuscirono a fargli avere un certo successo con le ragazze; una delle quali, per lui indubbiamente la migliore del mondo, divenne poi la compagna della sua vita; con cui visse poi per sempre felice e contento.




IO E AUGUSTO, I DUE INVISIBILI DELLA CLASSE


Alle scuole superiori mi trovai decisamente male. Non per colpa dei professori, le cui valutazioni mi sembravano tutto sommato eque, almeno per quello che mi riguardava. Non sembravano influenzate né dalla mia nazionalità né dal fatto che fossi musulmano. Del resto non so se fossero fatti conosciuti a tutti. La mia diversità non si evinceva immediatamente dalla carnagione, ma neanche dal mio nome e cognome, Stefan Moffat, per gli amici Stefano.

Chi mi trattava male erano i miei compagni. Almeno così mi sembrava. Perché essere ignorato in modo così evidente ed in mia presenza mi sembrava non meno grave ed offensivo che essere trattato male con parole o fatti.

A volte avevo la sensazione di essere invisibile. Parlavano tra di loro delle vicende della classe e degli altri compagni, ma con me o di me sembrava che nessuno volesse parlare. Certo se domandavo qualcosa mi venivano date le risposte o le spiegazioni che chiedevo, ma con formalità, come se fossi un estraneo, o un professore; anzi, coi professori avevano più confidenza. Direi invece come se fossi stato di un'altra classe, o di un altro mondo. E di questo soffrivo terribilmente.

Per fortuna mi restavano ancora gli amici della mia vecchia classe, e avevo comunque molti interessi extrascolastici: questo da un lato mi permise di sopravvivere, facendo sì che il mio orgoglio ferito non scoppiasse, e dall'altro mi consentì di osservare la mia nuova situazione con un distacco ed una razionalità quasi da studioso, come se non si trattasse di me.

In classe li sentivo regolarmente prendere accordi per vedersi fuori, in genere il sabato pomeriggio, e andare ora al cinema, ora al luna park, ora chissà dove. Magari non erano i miei svaghi preferiti, magari avrei rifiutato, ma mi sarebbe piaciuto moltissimo essere invitato.

Mi sforzai per un po' di trovare mie eventuali colpe o responsabilità in questo tipo di comportamento. Lo attribuii dapprima al fatto che non usassi quel tipo di moderni aggeggini tascabili - colorati e tanto di moda - per giocare, guardare l'ora, telefonare o chissà cosa. Forse era motivo di inconfessato o inconscio disprezzo nei miei confronti. Ma anche altri non l'avevano, e per questa ragione erano magari affettuosamente canzonati o sbeffeggiati, il che per me sarebbe stato sempre molto meglio che essere ignorato.

Ipotizzai allora che la spiegazione di tutto fosse la mia diversa religione. Per verificarlo decisi che avrei seguito anch'io le lezioni di religione cattolica, così come buona parte della classe. E per questa mia decisione, tra l'alto, oltre a smuovere la burocrazia scolastica ebbi anche a venire in contrasto con mio padre. Mi diede del pecorone, del senza coraggio, senza cuore e senza testa. Ragiona, mi disse: se ti discriminassero a motivo della loro religione, non sarebbe questa una valida motivazione per disprezzarla?

Ma siccome mio padre era un uomo saggio, alla fine convenne che era giusto che io sperimentassi con mano, che facessi le mie esperienze, in modo che le mie scelte fossero più consapevoli. E non mi portò rancore.

Mio padre aveva ragione: avrei dovuto disprezzare quella religione se, avvicinandomi ad essa, fossi stato per incanto accettato, invitato ad uscire, considerato come uno della classe. Ma così non fu. A parte un certo piacevole stupore nell'insegnante di religione, non cambiò nulla.

Io abitavo proprio di fronte alla scuola. Sapevo quando i ragazzi si incontravano là sotto per le loro uscite, e per andare dove; e così a quell'ora guardavo fuori dalla finestra, per vedere dall'alto chi c'era, quello che facevano, come si comportavano. In genere si ciondolavano là davanti per quindici venti minuti, a volte per aspettare qualche ritardatario, a volte senza motivo, e poi si dirigevano come un gregge nella direzione attesa. Erano piccoli e buffi, visti da lassù.

Le prime volte osservavo queste scene con straziante dispiacere; ma poi sempre più con curiosità. Alle volte aprivo anche i vetri, per cercare di captare qualche parola o qualche discorso, cosa che però mi riusciva solo con qualche persona.

Una volta uscii anche di casa proprio a quell'ora, attraversando il gregge in attesa e fingendo che la cosa fosse casuale. Qualcuno mi salutò. “Ciao, Stefan. Oggi anche tu sei dei nostri?” Ma a me non sembrò propriamente un invito. “Passavo di qui solo per caso”, risposi, e tirai avanti.

Poi ci fu l'arrivo di Mariangela, e le cose sembrarono cambiare. Giunse nella nostra classe con qualche mese di ritardo. Era spaesata, e ovviamente suscitò una certa curiosità in tutti noi. Fu accettata piuttosto bene da tutti, e per il sabato successivo era stata invitata alla solita uscita.

“Vieni anche tu oggi pomeriggio, vero?”, mi chiese. Non so perché, ma questo invece mi era sembrato un invito. Era arrivata da così pochi giorni, ed era stata proprio carina con me.

“Sì, potrei venire.”

E così quella volta mi trovai là sotto insieme al gregge ad aspettare non so cosa. Poi si andò ad una pista di kart dove, visti i prezzi, finimmo per trascorrere il pomeriggio guardando degli sconosciuti che giravano come degli stupidi attorno attorno, su piccole vetture dal grande frastuono.

Io cercai di parlare un po' con Mariangela, di conoscerla meglio. Forse gli altri avevano già avuto modo di conoscerla, perché non era al centro dell'attenzione di tutti come mi aspettavo; o comunque la sentivano già parte della classe. Ne ebbi un'impressione molto positiva: mi sembrò una ragazza semplice, normale, molto umana, e per questo molto bella.

Presto capii che mi ero sbagliato. Qualche giorno dopo la sentii prendere accordi per vedersi al solito posto e alla solita ora.

“Anche questo sabato vi vedete nel pomeriggio? Andate da qualche parte?”, le chiesi io più tardi con indifferenza, per non far vedere che ci tenevo troppo. Ma lei, mentendo spudoratamente:

“Non so, non mi risulta. Ancora non ho saputo niente. Magari ti faccio sapere.”

E così la volta dopo osservai anche lei dalla finestra, puntino dall'alto, pecorella del gregge, e mi ritrovai sdraiato sul mio letto a piangere più del solito,

Poi un giorno mi accorsi di Augusto. Augusto era un mio compagno di classe, alto e grosso, ma non muscoloso; eppure uno che passava inosservato. Alle lezioni, comprese quelle di religione, era sempre presente, ma non sembrava mai parteciparvi veramente. La sua testa sembrava altrove, chissà dove. Se un giorno avessero messo un suo manichino sulla sua sedia al posto suo, forse io stesso non mi sarei accorto della differenza.

Constatando ciò diventai persino più indulgente coi miei compagni: forse io facevo loro lo stesso effetto che faceva Augusto a me, l'effetto del mantello dell'invisibilità.

Mi resi conto che alle uscite di classe lui era quello che mancava sempre, ma proprio sempre, oltre a me, che anzi una volta avevo partecipato. Per questo suscitò in me una gran curiosità, ed una gran simpatia.

“Ma tu non esci mai il sabato pomeriggio?”, fu forse la prima domanda che gli feci da quando lo conoscevo.

“No, di solito no”, mi rispose lui, di poche parole come sempre.

“E … che cosa fai nel tempo libero?”, gli chiesi sempre più incuriosito.

“Dipende. Alle volte vado in skate-board, oppure ballo, tipo balli rap o roller dance o altre cose moderne, non so se hai presente. Tanto poi le persone con cui lo faccio sono le stesse.”

Mi si spalancò la porta di un mondo sconosciuto e soprattutto che non avrei mai immaginato. Anzi, mi resi conto che fui io ad aprire quella porta, che era sempre stata lì davanti. E mi venne voglia di entrare.

“Una volta potrei venire a vederti?”, gli chiesi.

“E perché no? Se vuoi.”

Due o tre volte a settimana, verso le sei o le sette di sera, si vedeva con un gruppo di ragazzi tutti con berretto a visiera, jeans esageratamente larghi, scarpe di gomma o pattini ai piedi o skate in mano. Era come fosse un altro gregge, che però si spostava più in fretta e freneticamente, su rotelle. Una volta su due andavano in uno scantinato con uno stereo portatile e si scatenavano nei loro balli, in cui persino i più corpulenti come Augusto rivelavano un'agilità inaspettata nel roteare e muoversi a scatti e rotolarsi per terra. Il mangiare, tutte le altre necessità della gente comune ed i problemi del resto dell'umanità sembravano non solo non interessare, ma non sfiorarli neppure. Alla fine si salutavano con un ciao e tornavano ognuno chissà dove, ma era chiaro che la loro vera vita era soltanto quella.

A me quelle persone, il loro abbigliamento, quello che dicevano, la loro musica e soprattutto il volume a cui la ascoltavano piacevano assai poco; ma mi affascinava vederli, quello che facevano, come si muovevano. Per cercare di legittimare la mia presenza con loro, mi diedi da fare per imparare ad usare lo skate, che dava l'impressione di essere il più semplice tra i loro passatempi; ma anche questo mi risultava piuttosto faticoso, in definitiva non adatto al mio fisico. Resistetti non più di tre o quattro incontri.

“Quello che fate mi piace molto”, gli confessai, “ma decisamente non fa per me. Non ti offendi se te lo dico, vero?”

“Figurati. Non sei mica obbligato a venire. Fai quello che vuoi, e amici come prima.”

Amici più di prima, direi io. Perché comunque mi avrebbe fatto piacere avere ancora la sua silenziosa compagnia, e magari capire qualcosa di più della sua vita.

“Magari potremmo vederci qualche volta e fare qualcos'altro, che so, andare al cinema”, gli proposi.

“Non è che io vada pazzo per il cinema”, mi rispose. “Mio padre mi porta spesso dei biglietti omaggio ed io non li uso mai. Se vuoi te li posso dare, la prossima volta.”

“Dicevo il cinema così per dire. Qualcosa che non sia faticoso come lo skate o i balli rap.”

“Magari potremmo andarcene un po' per il corso la domenica pomeriggio, così giusto per dare un'occhiata in giro.”

Trovai la sua proposta strana; anche questo passatempo era fuori dal mio mondo, ma acconsentii ed attesi la domenica con curiosità.

I motivi per cui voleva andare al corso potevano essere solo due, pensai: i negozi di vestiario e di moda, quasi tutti di un certo tono e generalmente aperti anche la domenica; oppure lo “struscio”, cioè fare avanti e indietro in compagnia osservando o cercando di farsi notare da altri gruppi di giovani dell'altro sesso.

Mi sarei stupito, conoscendo il suo abbigliamento di scuola e quello da rapper di strada, entrambi anonimi nel loro genere e tutto fuorché eccentrici, che il suo interesse fosse per la moda. Pure quando lo vidi quel giorno faceva un altro effetto: era ben pettinato e rasato, con qualcosa di diverso dal solito anche nel vestire. Poteva anche dare l'impressione a qualche ragazza di essere un bel giovane, pensai.

Quel pomeriggio percorremmo avanti e indietro il corso forse per dieci volte o più, osservando i gruppi che incrociavamo, squadrandoli dalla testa ai piedi, studiando attentamente il loro aspetto ed il loro atteggiamento; talvolta scambiandoci tra noi due commenti, evidenziando i tacchi più alti, le ragazze più carine, le tenute più audaci e originali, gli sguardi ed i sorrisi che sembravano nascondere il desiderio di conoscerci, di interrogarci, di invitarci; cercando di indovinare se nei gruppi ci fossero delle coppie già formate, o in via di formazione, e quali; oppure le ragazze in cerca di un'alternativa o un'evasione, non si sa quale - chissà, magari stavano aspettando proprio uno di noi.

Per poi riprendere questi commenti e verificarli al giro successivo, osservare se qualcosa era cambiato, se gli indizi erano rimasti invariati e se valeva la pena di riscontrarli ancora la volta dopo.

Fino al giorno prima avrei definito perlomeno demenziale un simile modo di trascorrere il tempo libero. Ma quella volta, con Augusto, capii che in alcuni casi poteva avere la sua ragione d'essere. Le nostre occhiate ed i nostri sguardi indagatori, o almeno quelli di Augusto, erano in alcuni casi ricambiati; e ciò indubbiamente voleva significare che non eravamo noi ad essere invisibili, o perlomeno che non lo eravamo per tutto il mondo.

Passammo il pomeriggio in questo modo stupido, senza pensare a nulla o fare nulla, fino ad averne i piedi doloranti. Forse fu un pomeriggio sprecato della mia vita, ma sicuramente non il più triste. E quando tornai a casa quella sera, mia mamma notandomi più rilassato e sereno del solito mi chiese cosa avevo fatto e dove ero stato. Io le risposi “Niente, mamma, proprio niente di niente”, e lei mi guardò come se fosse convinta che le stessi nascondendo qualcosa.

Ed invece, quel pomeriggio al corso non avevo fatto proprio niente: davvero un bel niente.





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