Книга - Le Tessere Del Paradiso

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Le Tessere Del Paradiso
Giovanni Mongiovì


Il Regnum è un enorme mosaico variopinto in cui gente di culture, lingue e religioni diverse convive l’una accanto all’altra. Siamo intorno alla metà del XII secolo e sul trono di Sicilia siede Guglielmo il Malo. In questa storia si muovono sei protagonisti, ognuno facente parte di una delle razze che compongono l’enorme mosaico del Regno. Alessio, maestro d’arte bizantino, dal carattere remissivo e alla ricerca dell’amata figlia; Amjad, potente eunuco saraceno, votato segretamente alla causa dell’Islam; Vittore, figlio del popolo di Palermo, innamorato di una donna musulmana; Manfredo, nobile lombardo ambizioso e vendicativo; Chana, vedova di un prestadenari ebreo, alla ricerca di giustizia per l’assassinio del marito; e Roberto di Rossavilla, ago della bilancia delle controversie del Regno. In particolare quest’ultimo viene messo di fronte ad una complicata scelta: sposare la bella Rocca, figlia del dissidente Eraldo, oppure accettare l’offerta del Re, ripudiando la promessa spos Il Regnum è un enorme mosaico variopinto in cui gente di culture, lingue e religioni diverse convive l’una accanto all’altra. È stato il potere forte e accentrato dei sovrani normanni a rendere possibile tale creatura unica al mondo, prospera e potente. Pende tuttavia sul Regno una pericolosa legge di natura: ciò che è bello è spesso anche fragile… ciò che riesce è spesso anche precario! Siamo intorno alla metà del XII secolo e sul trono di Sicilia siede Guglielmo, detto “il Malo”. Questi preferisce l’ozio e il vizio all’esercizio di governo. Emergono perciò uomini senza scrupoli intenzionati ad accrescere il proprio prestigio. Majone, Ammiraglio del Regno, punta subdolamente al trono, mentre Matteo Bonello, giovane e valoroso barone, intende sovvertire il sistema con la forza. Le tensioni sfociano in una vera e propria guerra tra razze, che mette contro i saraceni, rappresentati dai potenti eunuchi di corte, e i lombardi, interessati al potere degli eunuchi e capeggiati dalla nobiltà dissidente. Intanto approfittano di questa debolezza le potenze confinanti, il papa così come i musulmani d’Africa, pronti a colpire al cuore il regno più avanzato d’Europa. In questo contesto si muovono sei protagonisti, ognuno facente parte di una delle razze che compongono l’enorme mosaico del Regno. Alessio, maestro d’arte bizantino, dal carattere remissivo e alla ricerca dell’amata figlia; Amjad, potente eunuco saraceno, votato segretamente alla causa dell’Islam; Vittore, figlio del popolo di Palermo, innamorato di una donna musulmana; Manfredo, nobile lombardo ambizioso e vendicativo; Chana, vedova di un prestadenari ebreo, alla ricerca di giustizia per l’assassinio del marito; e Roberto di Rossavilla, ago della bilancia delle controversie del Regno. In particolare quest’ultimo viene messo di fronte ad una complicata scelta: sposare la bella Rocca, figlia del lombardo Eraldo, oppure accettare l’offerta del Re, ripudiando la promessa sposa ed infrangendo gli accordi col nobile dissidente. Roberto potrebbe lasciar decidere il cuore, ma c’è un problema: non ama Rocca! Si sviluppa così una storia piena di colpi di scena, in cui le vicende dei singoli influenzeranno il destino di tutti. Sarà qualcuno dei sei protagonisti a salvare il Regnum dall’odio e dall’intolleranza, o forse finalmente il Re si renderà conto che il futuro del suo trono passa dalle sue mai compiute scelte? Nel frattempo, in una delle sale del Palazzo Reale, tessera dopo tessera, un abile mosaicista sta per portare a termine una delle opere più emblematiche del periodo normanno. Su quelle mura è raffigurato il Paradiso, meta che accomuna tutti gli uomini di ogni razza e cultura, e immagine stessa del Regnum. Un romanzo storico di ambientazione medievale moderno come pochi. Capace di affrontare in chiave diacronica argomenti attuali come l’integralismo islamico, il suprematismo razziale e la tutela dei diritti individuali; a dimostrazione che nella storia umana non si inventa mai nulla di nuovo.





Giovanni Mongiovì

Regnum – Le tessere del Paradiso




Giovanni Mongiovì




LE TESSERE DEL PARADISO




Regnum



In copertina: contorno del “portale”, dall’abside della Cappella Palatina, Palermo.

giovannimongiovi.com (http://giovannimongiovi.com/)



Copyright © 2019 – Giovanni Mongiovì


In principio fu il gran finale, l'ultimo atto, la più bella poesia; "carne di carne e ossa di ossa", l’integrità naturale in un paradiso inviolato…




…primigenia visione che in me ridesti, tu, preziosa madre, ammaliante sposa, per sempre mio Eden.




A Valentina e Tommaso…







Premessa


Il mondo potrebbe essere definito un mosaico di vita… razze, culture, lingue, pensieri e comportamenti differenti che creano un’enorme opera musiva di straordinaria bellezza estesa fino ai confini della Terra. Solo l’accostamento razionale della diversità può regalare un’opera di senso definito e compiuto… lì dove altrimenti avremmo la monotona monocromia del tutto uguale, un muro bianco in cui nessuno ravviserebbe l’arte. Ciò fa perciò di Dio l’artista per eccellenza, primordiale e quindi modello assoluto. Tuttavia, per apprezzare la bellezza di questo gigantesco mosaico bisognerebbe osservare da lontano, da una distanza tale da non riuscire a cogliere le singole parti come elementi a sé stanti. Spettatori privilegiati sono dunque Dio e gli spiriti celesti, in quanto all’uomo che vi è dentro è impossibile avere la stessa visione d’insieme. E per tale motivo, proprio perché non riescono a cogliere la bellezza complessiva, molto spesso gli esseri umani prendono le distanze da chi è diverso da loro. Eppure, se in luogo di carne e sangue fossero date all’uomo le ali incorporee degli angeli, egli potrebbe vedere che tale mosaico di vita, in cui nessuna tessera è meno importante di un’altra, ha le sembianze di un soggetto di senso definito e compiuto… le sembianze della stessa immagine del suo Artista e Creatore.

L’uomo ha sempre cercato di emulare il modello assoluto del mondo… ci hanno provato pittori, scultori, architetti… e ancora maestri di lettere e di scienza che hanno cercato di cogliere l’essenza in luogo dell’evidenza. Eppure vi fu anche chi tentò di creare un modello, di proporzioni umane, dello stesso mondo… proprio una riproduzione di quel mosaico di vita tanto caro a Dio. Una rappresentazione in scala e limitata della diversità terrestre. Un modello avente come confini il mar Mediterraneo in luogo dell’abisso ignoto di dove finisce il mondo, e avente come centro la felice Palermo in luogo della contesa Gerusalemme. Qualcosa di umano e quindi fallimentare, ma capace di dare una rozza idea di ciò che è il mondo visto da lontano.

Singolare nello spazio e nel tempo, il Regno di Sicilia creato da Re Ruggero era un esempio di tolleranza e tutela della diversità. Mecenate di arti e curioso dei segreti del mondo, Re Ruggero ereditò una terra in cui gente differente viveva già l’una di fronte all’altra. Cristiani di lingua greca, cristiani di lingua romanza, saraceni[1 - Saraceni: nome con cui erano comunemente conosciuti i musulmani nel Medioevo. Altri sinonimi utilizzati nel romanzo sono: mori, islamici e arabi. Alcuni di questi termini sono chiaramente impropri, tuttavia rispecchiano la conoscenza e la cultura della società dell’epoca. Oggi il nome “saraceni” viene utilizzato esclusivamente quando si devono indicare i pirati arabi e berberi che infestavano le coste del Mediterraneo, ma in questo romanzo indica tutti i musulmani. Il termine “musulmani” invece non è presente perché è di introduzione posteriore all’ambientazione del romanzo. Per lo stesso motivo non sono utilizzati mai i termini “bizantini” ed “ebrei”.] e giudei[2 - Giudei: nome con cui venivano chiamati gli ebrei in epoca medievale.] di lingua araba, convivevano sulla stessa isola da secoli, oggi stringendo amicizia ed oggi dichiarandosi guerra. Ruggero seppe pacificarli permettendo ad ognuno di vivere la propria diversità purché riconoscessero il potere dal quale ogni cosa era data e sottratta… purché riconoscessero il potere del Re e della sua legge.

Ruggero era consapevole della povertà della cultura normanna dinanzi ai millenni di sapere del mondo greco-romano e dinanzi all’innovativo approccio alla scienza degli arabi, dunque umilmente aveva fatto suo ciò che era stato di altri e si era proposto continuatore ed unificatore di quelle stesse civiltà, intendendo sfruttare le potenzialità di ogni razza a sua convenienza. Per tale motivo le monete recavano leggende in latino e leggende in arabo, le cupole delle chiese erano decorate con caratteri cufici[3 - Cufico: stile calligrafico della lingua araba.], gli atti ufficiali erano redatti in latino, in greco e in arabo, e il conteggio degli anni era reso secondo la data della creazione del mondo, secondo l’Egira[4 - Egira: letteralmente “emigrazione”. Indica l’esodo di Maometto da La Mecca a Medina. L’anno di tale episodio, avvenuto nel 622 d.C., segna l’inizio del calendario musulmano.] e secondo la nascita di Cristo. Per tale motivo i funzionari e i consiglieri del Re erano spesso illustri greci; così come potevano trovarsi a corte e nell’amministrazione eunuchi saraceni, dignitari d’oltralpe e vescovi d’origine straniera. Inoltre, l’esercito era costituito dalla componente feudale, per lo più formata dai baroni normanni, e dalla componente regolare, formata per la maggiore da saraceni stipendiati, mentre i marinai della flotta erano forniti dalle colonie lombarde[5 - Longobardi e Lombardi: il termine longobardi indica in senso stretto i discendenti del popolo germanico che invase la penisola italiana nel VI secolo, ma in senso lato tutti gli abitanti d’Italia che, da nord a sud, furono soggetti a tale popolo, e quindi anche a coloro che erano di origine italica (campani, lucani, ecc…). Nel XI secolo i longobardi parlavano ufficialmente il latino, ma si esprimevano nei dialetti romanzi dei luoghi in cui risedevano. Dopo la conquista normanna del sud Italia il termine derivato “lombardi” cominciò ad indicare solamente gli abitanti dell’Italia settentrionale.] dell’Isola.

Questo mondo variegato rendeva il Regno una metafora della diversità del mondo e faceva della stessa Sicilia un mosaico di vita. Tuttavia, come Dio aveva abbandonato l’uomo alla mercé della propria presunzione, affinché l’umanità facesse il suo tempo, ed era entrato nel suo giorno di riposo, così Ruggero era entrato nel suo riposo eterno.

Che cosa avrebbe potuto minare d'altronde l'epoca più splendente del Regno se non la fugacità della vita umana?

Di lui restano le opere ed un sarcofago in porfido rosso contenente le sue spoglie. Quelle opere tuttavia testimoniano proprio il cosmopolitismo del suo Regno… e non a caso, tra ciò che l’avrebbe reso immortale ai posteri, c’erano proprio gli splendidi mosaici delle chiese e dei palazzi. Milioni di tessere in pietre pregiate e in pasta vitrea, sgargianti e brillanti, sistemate con sapienza l’una accanto all’altra.

Essi quindi diventano la metafora del Regno, come il Regno è la metafora del mondo. Un singolo colore per ogni singola razza e cultura… un singolo materiale per ogni singola religione e lingua: il rosso del porfido, il bianco della madreperla, l’oro e l’argento, il verde della malachite e l’azzurro oltremare del lapislazzuli…

Un’arte che era destinata a conservarsi nei secoli, diversamente all’opera di congiungere persone diverse in un unico mosaico di vite. Infatti, solo un potere forte, solo Ruggero, poteva essere in grado di tenere coeso ciò che a causa degli egoismi umani tende a sfaldarsi.

Esistono gli eredi, è vero, ma raccogliere il testimone è difficile nella misura di quanto fosse amato e grande il predecessore. Per di più l'opulenza porta spesso ad adagiarsi nelle comodità e ad indulgere nei piaceri; il benessere ereditato conduce alla noncuranza delle proprie responsabilità.

E che cosa avrebbe potuto minacciare la tolleranza assicurata dal Regno se non l'odio che risiede nel fanatismo e nella paura del diverso?

Quando un popolo inizia ad odiare sé stesso, perché riconosce nel proprio fratello un estraneo ed un nemico, allora si trova al principio della fine… sulla strada che conduce alla sconfitta di ogni bene.

Ma forse, se quel mondo, pur così pieno di difetti e ingiustizie, fosse perdurato oltre la vita di una generazione sulla strada tracciata da Ruggero, nel tempo esso avrebbe rasentato utopisticamente il modello assoluto del primo mosaico di vita, ciò che fu per Dio l’Eden e il Paradiso.




PARTE I – PORFIDO ROSSO SANGUE





Capitolo 1


Ottobre 1160 (Anno Mundi[6 - Anno Mundi: nel calendario bizantino la locuzione Anno Mundi, abbreviato A.M., indica che il conteggio degli anni inizia dalla data della creazione del mondo, che secondo tale calendario sarebbe avvenuta l’1º settembre del 5509 a.C. In questo romanzo gli anni riportati nell’intestazione dei capitoli sono indicati secondo il calendario giuliano/gregoriano e secondo quello dell’etnia del protagonista di ciascuna parte.] 6669), Messina



Un uomo di nobili principi sprofondato nel baratro del disonore. Lui che era manipolatore della luce finito nell’oscurità più profonda. Mortificato nello spirito, rassegnato alla morte e desideroso dell’oblio tanto quanto i vivi sono desiderosi del ricordo. Un uomo ancora vivo per definizione, ma morto nella sostanza… Un condannato non ancora giunto al suo momento di celebrità; quel momento in cui l’intera piazza avrebbe gridato “A morte!” e il boia avrebbe assolto il suo impegno.

Alessio marciva nei sotterranei umidi e scuri delle carceri di Messina da ormai tre anni. Non aveva amici e familiari che lo venissero a trovare e poteva godere della sola compagnia dei topi e degli scarafaggi. Smagrito della metà del suo peso iniziale, poteva contare nella sola provvigione gettatagli ai piedi dal carceriere. I capelli grigi erano cresciuti fino a coprirgli la schiena e la barba fino al petto. Non ricordava più quale fosse il suono della sua voce né che colore avesse il sole.

Cinquantenne nativo di Nicea[7 - Nicea: importante città dell’Impero bizantino, oggi parte della Turchia e conosciuta col nome di İznik.], Alessio era giunto a Messina appunto tre anni prima, proprio mentre il conflitto tra il Regno e Costantinopoli raggiungeva il suo apice. Salpato da Corcira[8 - Corcira: nome con cui era conosciuta un tempo l’isola greca di Corfù.] aveva affrontato il viaggio fino alla città del Faro[9 - Faro di Messina: nome con cui veniva indicato l’attuale Stretto di Messina.] per mezzo di un mercantile veneziano che commerciava seta. Dunque, mentre la flotta del suo Imperatore veniva sconfitta dai siciliani presso Eubea[10 - Eubea: grande isola del mare Egeo appartenente oggi alla Grecia. In passato era conosciuta anche come Negroponte.], lui era attraccato in territorio nemico.

Il suo intento iniziale era stato quello di spingersi fino a Palermo, tuttavia si era voluto intrattenere alcuni giorni presso uno dei numerosi monasteri di rito greco del Val Demone[11 - Val Demone: uno dei tre Valli in cui era divisa un tempo la Sicilia. Il Val Demone corrisponde al triangolo nordorientale dell’Isola. Gli altri due sono il Val di Mazara ad ovest e Il Val di Noto a sudest.]. Questi luoghi religiosi, sparsi sui monti della Sicilia nordorientale, avevano rappresentato per secoli il baluardo della cristianità contro l’islamizzazione dell’Isola, ma ora che a Palermo sedevano sovrani devoti alla chiesa di Roma, tali monasteri venivano sempre più accantonati in favore di quelli di rito latino; aumentavano così i monaci benedettini e diminuivano quelli basiliani.

Alessio era un uomo con un forte senso della spiritualità e non si faceva mai mancare la preghiera e la contemplazione, specie prima di affrontare le difficoltà della vita. Quelli infatti sarebbero dovuti essere giorni fatidici, in cui la sua esistenza, ricca di denari ma povera di affetti, si sarebbe dovuta capovolgere a soddisfazione dei suoi desideri. Anelava come niente al mondo riscattare dalla schiavitù la sua unica figlioletta, una ragazza ormai più che ventenne di nome Zoe, rapita dai siciliani molti anni prima, quando questi avevano strappato Corcira ai romei[12 - Romei: appellativo con cui venivano chiamati i bizantini nel medioevo. Letteralmente “romani”, essendo Bisanzio proprio l’Impero Romano d’Oriente. Il termine “bizantini” fu coniato in un’epoca successiva. In questo romanzo sono anche chiamati col termine generico di “greci”, da non confondere con i greci propri della Sicilia, ovvero quella parte di popolazione indigena di lingua greca e osservante il rito orientale nella religione.].

Le cose, tuttavia, com’è facile intuire, erano andate storte. Invece di raggiungere Palermo, era finito in gattabuia, e invece di riscattare la figlia dalle mani dei padroni, era stato costretto a riscattare giorno dopo giorno la sua sopravvivenza. Pendeva su di lui un’accusa di omicidio e per tale accusa era già stata emessa la condanna per impiccagione. Si diceva che avesse ucciso un giudeo messinese di nome Moshè, medico personale dello Stratigò[13 - Stratigò o Strategoto: sorta di governatore della città di Messina con compiti esecutivi e giudiziari. La figura dello Stratigò risale all’epoca bizantina, ma si mantenne durante la dominazione normanna, a testimonianza del retaggio greco-bizantino della città.], ma conosciuto soprattutto come presta denari. Alessio si dichiarava innocente e faceva appello alla giustizia divina affinché prevalesse su quella umana. Nondimeno pesavano a suo sfavore molte cose… Per quanto infatti la morte di Moshè avesse fatto comodo a molti, i suoi interessi erano tutelati dallo stesso Stratigò, il quale aveva promesso, sotto pressione dell’intera comunità giudaica, che la dipartita violenta del suo medico e amministratore di finanze non sarebbe rimasta impunita. Inoltre, cosa più importante, la colpevolezza di Alessio era avvalorata da un testimone oculare. Comunque sia, se il greco straniero non era ancora asceso al patibolo, il motivo andava ricercato nella sua grande fortuna economica. Custodiva il suo denaro, quello con cui avrebbe dovuto riscattare Zoe, un certo monaco basiliano[14 - Basiliani: monaci seguaci della regola di San Basilio. Possono essere di rito sia greco che latino, ma in questo romanzo si intendono soltanto quelli di rito orientale.] di nome Onesimo, un giovane frate con cui Alessio aveva legato particolarmente nei giorni precedenti al suo arresto. Questi avrebbe dovuto tenere nascosto il denaro in vista della liberazione dello straniero, tuttavia, venendo a conoscenza della prossima condanna a morte, aveva deciso di trovare un accordo con lo Stratigò, tale Guglielmo Perollo. Settimanalmente partiva quindi dal suo monastero sui Peloritani e scendeva fino a Messina. Qui versava parte della somma nelle tasche dello Stratigò in modo che questi ritardasse l’esecuzione. Ecco perciò spiegato il motivo per cui il collo di Alessio non era ancora stato appeso ad un cappio. D’ogni maniera, se il prigioniero avesse saputo con che cosa Onesimo stesse pagando il suo mantenimento in vita, probabilmente avrebbe commesso un secondo omicidio a danno del religioso.

A circa tre anni dal suo arrivo a Messina, Alessio mise piede fuori dalla cella e gli occhi gli bruciarono per più di un’ora a causa dell’intensa luce.

«Sarai condotto a Palermo.» gli dissero.

Dunque per un attimo provò uno strano appagamento; forse lo portavano a Palermo perché era lì che avvenivano le esecuzioni importanti… e lui era divenuto noto e famoso.

Poi, prima che il carro dalle grosse ruote partisse per la capitale del Regno, Onesimo saltò dentro, intenzionato ad accompagnarlo.

Alessio lo fissò per lunghi minuti con i suoi occhi azzurro cielo; il suo sguardo era serio ma non spento, la sua espressione piena di rancore ma non avvilita. Perfino quando il carro cominciò a sobbalzare tra sassi e buche, il greco restò a guardare il suo giovane conoscente senza dire nulla.

«Hai tu il mio denaro!» esclamò poi, come se a quella conclusione vi giungesse adesso.

«Credo nella vostra innocenza.» rispose invece Onesimo, ma Alessio sembrava pensare solo ad una cosa.

«Il mio denaro… dov’è? Devi ridarmelo!»

Il viso candido del frate si turbò. Per come lo straniero lo fissava forse aveva fatto male a crederlo innocente. Allargò perciò al collo la semplice tunica monacale e tirò fuori un sacchetto tintinnante di monete.

«Questo è ciò che rimane…»

Quindi Alessio, nonostante fosse legato ai polsi, gli saltò addosso come una bestia feroce, intendendo strozzarlo.

«Se siete ancora vivo è perché ho pagato lo Stratigò!» urlò Onesimo, non appena gli fu chiaro che quell’aggressione si sarebbe conclusa con qualcosa di grave.

«Avreste conservato il denaro per riscattare vostra figlia, ma non avreste potuto abbracciarla…» spiegò ulteriormente.

La cosa, dopo alcuni minuti di imprecazioni e maledizioni, che fecero fischiare le orecchie del giovane tonsurato, parve convincere Alessio.

«Potevi intascarteli tu quando hai saputo la fine che avrei fatto.» ragionò il prigioniero, intanto che la lunga barba grigia dondolava a destra e a sinistra per via della strada dissestata.

«Maestro, voi mi avete appassionato con i racconti della vostra arte ed io non riuscirei a non ammirarvi neppure se criminale lo foste davvero.»

«La mia arte… a cosa mi serve adesso la mia arte?» domandò Alessio, rivolgendosi al destino infausto e sollevando impotente le spalle.

«Voi potete dare ancora molto, e potete insegnare ai giovani quella vostra teoria su come imbrigliare la luce nella pietra.»

«Riponi la tua fiducia sull’uomo sbagliato.»

«No, voi davvero potete riprendere il controllo della vostra vita… o almeno vi è una possibilità perché questo accada…

Statemi a sentire: un paio di mesi fa passò per il palazzo dello Stratigò un funzionario del Re ed io mi ci imbattei per caso. Questi parlava fluentemente il greco nostrano, la mia stessa lingua, e non mi ci volle molto per comprendere che fosse diretto a Palermo. Colsi l’occasione e gli parlai di voi, Maestro… di voi e del torto che si stava facendo al Re lasciando marcire nelle carceri un tale genio. È risaputo che Guglielmo d’Altavilla sia mecenate d’arti e cultore delle piacevolezze della vita. Quell’uomo, un logotheta[15 - Logotheta: dal greco “colui che conta, calcola”. Dignitario del Regno di Sicilia e dell’Impero Bizantino che attendeva ai bilanci statali.] di nome Basilio, si lisciò la barba interessato all’argomento, dunque mi parlò di una grande sala del Palazzo Reale che il Re aveva intenzione di abbellire con dei mosaici. E infine, quando gli dissi che venivate da Costantinopoli e che avevate impreziosito le stanze dell’Imperatore, sorrise e mi disse che per certo ne avrebbe parlato al Re.»

«Io non ho mai prestato servizio per l’Imperatore. Tu pecchi mentendo, ragazzo!»

«Davvero io l’ho creduto…»

«Sebbene io non te ne abbia parlato… Poco male… in fondo era a Palermo che intendevo giungere già tre anni or sono. Troverò la mia Zoe e la strapperò dalle mani di quel maledetto!»

Onesimo tossì due volte, segno che avesse tralasciato di comunicare una postilla importante.

«Temo, Maestro, che le cose non siano come le credete. Il Re non vi ha accordato nessuna grazia, ed in verità, anche se desiderasse farlo, la cosa non sarebbe così semplice.»

«Quale razza di sovrano vi governa?» chiese stizzito Alessio.

«Quello che vi è successo è accaduto nella gloriosa Messina e la legge cittadina, maggiore perfino all’arbitrio del Re, vieta ai tribunali che non siano composti da messinesi di giudicare i misfatti avvenuti in città.»

«E dunque il Re non può niente?»

«Potrebbe, ma col clima di diffidenza che aleggia in giro, difficilmente contrarierà una città che finora gli è stata amica.»

«E non vale a nulla che a morire sia stato soltanto un avaro giudeo?»

«I giudei di Messina hanno pari diritti dei cristiani, e godono di tutela anche nelle altre città del Regno.»

«Che assurdità!» esclamò Alessio.

«Vi ci dovete abituare… anche se so bene che a voi stranieri molte cose di questa terra appaiano come bizzarrie. Ad ogni modo, farete bene a considerarvi come in prestito per un servigio da rendere al Re, poiché in realtà appartenete ancora alle carceri messinesi.»

«Per quale assurdo piacere allora mi hai fatto tirare fuori? Non posseggo più il denaro e non posseggo più la libertà… verrò comunque ucciso, ma dopo aver lasciato la mia firma sulle pareti del Palazzo del Re. Che guadagno posso averne in tutto questo?»

«Maestro, voi mi avete detto che la vostra arte vi importava più della stessa vita ed io ho creduto di farvi felice.»

«Tu sei solo un monachello che ha deviato la propria fede e si è abbandonato al materialismo delle arti umane.»

«Chiedo solo di vedervi all’opera… e poi farò penitenza.»

Alessio si resse quindi la testa come preso da una forte emicrania.




Capitolo 2


Ottobre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus[16 - Balermus: nome di Palermo durante il periodo normanno. Si tratta della latinizzazione del nome arabo Balarm, che differisce tuttavia dall’antico nome latino Panormus. Da Balermus deriva l’attuale Palermo. Nelle intestazioni dei capitoli il nome delle città è pressoché quello in latino degli atti ufficiali dei normanni di Sicilia.], Palazzo Reale



Raccogliere il testimone di Re Ruggero sarebbe stato un compito arduo per chiunque. A causa della straordinarietà dell’uomo che era stato e della grandezza raggiunta dal suo regno, sarebbe diventato il termine di paragone per tutti i re che si sarebbero avvicendati sul trono di Sicilia… ed ovviamente, com’è facile immaginare, dal confronto quasi tutti ne sarebbero usciti rimpiccioliti.

La nascita di Guglielmo non era stata accolta col consueto giubilo riservato agli eredi al trono. Essendo solo il quarto dei figli avuti da Ruggero, era impensabile che un giorno potesse diventare il sovrano del glorioso Regno costruito da suo padre. E forse, proprio per questo motivo, il destino gli aveva riservato le qualità strettamente necessarie alla sua natura, solo ciò che gli sarebbe servito per vivere lontano dalle responsabilità di governo. Guglielmo era un coraggioso combattente, una qualità consona ai cadetti, ma per quanto riguardava i pregi che rendono un sovrano un buon sovrano, era mancante in tutto. La morte dei suoi fratelli l’aveva costretto a ricoprire un ruolo in cui, per tutta la durata del suo regno, sarebbe stato additato come incapace. Guglielmo era abulico, avaro e pieno di superbia. Non aveva abbastanza forza di carattere e volontà per prendere decisioni, e a differenza di Ruggero, il quale firmava tutto ciò che usciva dal Regio Palazzo, rimandava le questioni o delegava i suoi potenti ministri. Passava gran parte del suo tempo nelle splendide regge fuori Palermo, attorniato da paradisiaci giardini e lusso d’ogni genere, e qui, tra eunuchi e donne favorite, era solito abbandonarsi a smodati banchetti e piaceri sessuali. Del suo ruolo assolveva quindi solo gli aspetti piacevoli, e tutto questo mentre uomini più furbi e capaci di lui imperavano a proprio arbitrio. Spiccava tra tutti i suoi funzionari Majone di Bari, Emiro degli Emiri ed Arconte degli Arconti, chiamato Amiratus[17 - Amiratus: latinizzazione dell’arabo ‘amir (emiro). Era il titolo riservato al primo ministro del Regno di Sicilia in epoca normanna, chiamato per esteso anche Emiro degli Emiri (ovvero Amiratus Amiratorum), o Arconte degli Arconti (dal termine greco che significa primo magistrato). La parola italiana Ammiraglio deriva appunto dall’arabo ‘amir, avendo subito alla spiccia i seguenti passaggi: ‘amir > Amiratus > Amiralius > Ammiraglio. Tali trasformazioni linguistiche e semantiche avvennero alla corte siciliana. Proprio qui, infatti, la parola Ammiraglio, che inizialmente indicava una sorta di primo ministro con poteri plenipotenziari, finì per indicare il comandante generale della marina militare.] da quelli che contavano e Ammiraglio dal popolo. Questi era la vera mente del governo. Benché le origini di Majone fossero modeste, si era distinto già ai giorni di Ruggero per la sua effettiva intelligenza amministrativa e militare. Un uomo che tuttavia ricalcava i vizi della corte forse ancor più del Re e che sapeva imporre il potere regio con straordinaria crudeltà e violenza. Lo conoscevano bene i baroni della Terraferma che ci si erano scontrati durante l’ultima ribellione. Sarebbe bastato un qualsiasi giudizio, perfino il più benevolo, per indicarlo come la ragione di ogni male e di ogni sventura del Regno. Perfino i saraceni, benché parteggiassero per il Re, avevano da ridire su Guglielmo e sopratutto sul suo primo ministro. E alla fine, per le proprie e altrui mancanze, sarebbe stato proprio il Re a pagare il prezzo più alto, e l’avrebbe fatto con la reputazione riservata ai libri di storia, con quell’epiteto che avrebbe accompagnato il suo nome per tutta l’eternità: Guglielmo di Sicilia, detto il Malo.

Appena giunti a Palermo, Alessio venne condotto al Palazzo del Re e qui venne accompagnato da quel Basilio logotheta fino ad una sala ubicata nella torre chiamata Joharia[18 - Joharia: dall’arabo al-jawhariyya, col significato di “ingioiellata”.], presso le stanze del tesoro. La sala in questione era di medie dimensioni e dalla forma allungata. Inoltre aveva il soffitto a crociera e su un lato di essa si apriva una loggia che dava sul panorama di Palermo.

«Quando arriverà il Re è consuetudine che vi prostriate col viso al pavimento.» istruì il dignitario.

E di fatto non passò molto che Guglielmo d’Altavilla fece capolino nella sala insieme ad uno stuolo di uomini preziosamente vestiti, eunuchi e servi.

Guglielmo era un uomo alto, di aspetto pregevole, anche se in viso manifestava un minimo di trascuratezza dovuto probabilmente all’animo indolente e vizioso. Indossava una larga e lunga veste di foggia arabesca, a significare come nel suo perpetuo soggiorno a Palermo, nel suo eterno oziare tra i giardini e gli harem dei suoi palazzi, si fosse fatto influenzare dall’impronta culturale islamica della città.

«Basilio, è questo l’uomo di cui mi avevate parlato?» chiese Guglielmo una volta che l’ospite si rimise in piedi e ce l’ebbe davanti.

Il timbro della voce del Re lasciava trasparire tutta la mollezza del suo carattere.

«Come vi chiamate?» domandò quindi direttamente allo straniero, rivolgendosi in greco.

«Aléxios, Maestà.»

«Avete ucciso un uomo; perché un assassino compare oggi al mio cospetto?»

«In verità, Maestà, venni accusato ingiustamente…»

«Ingiustamente? Dite quindi che la giustizia del Regno sia fallace?»

«Non la giustizia in sé, Maestà, ma nel mio caso un uomo testimoniò il falso.»

Guglielmo sbuffò, come spazientito dalle discolpe di Alessio.

«Basilio, raccogliete quanto prima le rimostranze di quest’uomo…» comandò al logotheta, il quale rispose con un accenno di inchino.

«E tu, Mattia.» fece perciò ad uno degli eunuchi che lo accompagnava.

«Occupati di rendere presentabile il nostro ospite. Fallo radere, cambiare d’abito e lavare…»

E rivolgendosi a tutti:

«Che non mi sia più presentato qualcuno che non sia al meglio del suo aspetto… Non sopporto i visi scuri e tristi!»

«Me ne occuperò io, Maestà.» rispose quel tale Mattia.

«Bene, dagli cibo e comodità… e pure una donna se te la chiede. Questa corte tratta con rispetto gli uomini d’arte e di scienza!»

Fu allora che Guglielmo si sciolse dagli uomini del suo seguito e prese a passeggiare avanti e indietro nella stanza.

«In questa sala mio padre ricevette molti grandi uomini e prese importanti decisioni. Gli erano care queste quattro mura e gli era cara questa torre, così come gli era cara la vista della nostra amata Palermo guardando dalla loggia. Io ho continuato la sua tradizione e vi ho continuato a tenere le mie udienze private… tuttavia oggi intendo rendere questa sala un luogo di stupore, qualcosa che desti meraviglia, qualcosa degno della cappella del Palazzo e delle cattedrali edificate da mio padre.»

Alessio intanto studiava le pareti e il tetto osservando in tutte le direzioni.

Quando Guglielmo si accorse della distrazione del maestro d’arte, gli chiese:

«Per certo uno con le vostre referenze deve vedervi già l’opera compiuta…»

«In verità, Maestà, scrutavo le linee, la luce e gli spazi… ragionavo sul potenziale che queste mura possono esprimere.»

«E che cosa vedete oltre la pietra?»

Alessio si spostò al centro della sala e, guardando il vertice del tetto a crociera, propose:

«Quattro cherubini dai colori sgargianti, uno per lato!»

Guglielmo storse il muso… letteralmente.

«Niente santi e angeli! Le chiese costruite da mio padre sono già piene di queste immagini, ed io stesso ho continuato il decoro della cappella del Palazzo facendo raffigurare scene bibliche. Avete prestato servizio per l’Imperatore di Costantinopoli, dunque conoscete bene come rappresentare potere e regalità…»

Perciò, mimando con le mani, tutto preso dal progetto, sempre il Re spiegò:

«Il Paradiso… voglio che mi ricreiate il Paradiso! In questa sala concederò udienza privata ad ambasciatori, nobili e vescovi; desidero che ognuno di essi rimanga stupefatto. Si fa un gran parlare dei giardini delle mie residenze fuori Palermo, eppure molta di questa gente non li vedrà mai. Che se ne facciano un’idea osservando le pareti di questa stanza, così da invidiare e rabbrividire dinanzi alla bellezza e alla potenza del mio regno. Voglio tuttavia che nessuno, né l’Arcivescovo né l’ambasciatore dei fatimidi[19 - Fatimidi: potente dinastia musulmana (sciita ismaelita) che dominò il Nordafrica dal X al XII secolo.], possa offendersi a causa di ciò che vede.»

«Si dice che i vostri giardini riproducano la perfezione dell’Eden.»

«I mori lo chiamano jannat al-arḍ[20 - Jannat al-ard: letteralmente “paradiso della terra”. Da questa parola deriva Genoardo, termine con cui si indicava il parco dei re normanni di Sicilia.], il “paradiso della terra”.»

«Mi sia concesso di vedere, seppure da lontano, questo paradiso.»

«A che vi serve? Immaginate pure… e se è il caso esagerate!»

Quella fu l’ultima raccomandazione del Re prima di lasciare la sala insieme a tutti quelli con cui era giunto.

Dunque Alessio si catapultò su Basilio, il quale ancora tentennava ad andarsene, e gli chiese:

«Ascolterete davvero la mia discolpa, Signore?»

«È la parola del Re, ma voi prima dedicatevi a quello che dovete fare. Ricordatevi che ci metto personalmente la faccia nella riuscita del vostro talento e che se l’opera non dovesse piacere al Re, ci rimetterò con la mia reputazione. Finite il mosaico e, dopodiché, se avrò avuto successo tramite voi, vi prometto che non solo ascolterò la vostra discolpa, ma farò di tutto per rendervi un uomo libero.»

Quindi Onesimo, finora intimorito dalla presenza di Guglielmo, intervenne:

«È bene dunque iniziare subito!»

«Mi occuperò io stesso della fornitura dei materiali. Sarò il tramite col mondo esterno, poiché per quanto vi riguarda, finché non avrete finito l’opera, non potrete lasciare questa stanza.» spiegò Basilio.

Alessio sorrise ed esclamò:

«Una prigione per certo più piacevole di quella in cui stavo!»

Fu in quel momento che rientrò l’eunuco Mattia, ovvero colui che era stato incaricato di dare ad Alessio una parvenza più consona al luogo in cui soggiornava.




Capitolo 3


5 Novembre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus, Palazzo Reale



Compiacere il Re per ottenere la propria libertà… questo divenne il principale obiettivo di Alessio nei giorni successivi al primo incontro col sovrano. Non rivide più Guglielmo, così come non rivide più molta della gente che il giorno del suo arrivo accompagnava il monarca. Incontrò tuttavia più volte Basilio, interessato per fini personali all’opera, e l’eunuco Mattia, preposto alla sua cura. Ovviamente non poté staccarsi dall’insistente presenza di Onesimo, il quale dall’alba al tramonto non smise mai di tempestare di domande e richiedere delucidazioni su ciò che il maestro d’arte si accingesse a fare.

Una sera Alessio, già sbarbato e rasato come il Re desiderava, se ne stava disteso sul suo giaciglio ed osservava la malta ancora umida stesa sul soffitto; tale strato sarebbe servito come preparazione e supporto per il legante e le tessere. Onesimo aveva lasciato quel luogo da mezz’ora quando qualcun altro girò la chiave nel chiavistello. Alessio non si aspettava di ricevere visite; il servo incaricato a chiuderlo dentro non tornava mai dopo essersene andato. Si sedette perciò sul suo giaciglio ed aspettò che dal buio si manifestasse il soggetto. La luce di una lampada rischiarò l’intero ambiente.

«Avete già deciso cosa rappresenterete su queste mura?» chiese in greco l’eunuco Mattia, venendo avanti e coprendosi con un lembo della sua veste il naso, forse infastidito dall’odore della calce.

«C’eravate anche voi quando il Re ha richiesto il Paradiso.»

«Non cadete in inganno, Mastro Alessio. Guglielmo desidera soltanto che i suoi gusti vengano vezzeggiati. Non dovete inventare nulla… semplicemente interpretate.»

«Non conosco abbastanza bene il Re per interpretare i suoi gusti.»

«Giochi di geometrie, motivi floreali, simmetrie perfette, alberi verdeggianti…»

«Non sono forse le stesse cose con cui abbelliscono i loro palazzi i sultani d’Africa?»

«Guardate bene dove siete e ragionate se nel mondo cristiano esiste un luogo tanto vicino all’Islam come questa città.»

Alessio sapeva bene di cosa Mattia stesse parlando e in quel momento non poté fare a meno di osservare come l’eunuco vestisse al pari di un principe saraceno.

«Lo conoscete bene il Re…» commentò il mosaicista.

Quello allora si sedette su uno sgabello e spiegò:

«Servo questa casa sin dalla mia tenera età. Nacqui come Amjad, ma al battesimo mi diedero un nuovo nome.»

Dunque sempre Mattia, intanto che lo scrutava con i suoi occhi truccati di nero, chiese:

«Non ditemi che non l’avevate capito…»

Alessio aveva capito molte cose di quell’uomo. Per certo era uno degli eunuchi, nonostante egli non l’avesse mai detto. Il tono della voce, la strana cantilena, l’assenza di barba, i lunghi capelli intrecciati, i monili, la delicata sciarpa che gli ricopriva il collo e il trucco gli davano un’aria più femminile che maschile.

«Siete venuto per discutere dei mosaici?» chiese Alessio affinché quello andasse al dunque.

«No, mi chiedevo soltanto come mai un uomo che se ne sta rinchiuso per tre anni non senta la necessità di incontrare una donna. Che non c’entri in questo quel monachello che vi gironzola intorno… Forse gradite altro?»

Alessio capì l’allusione, tuttavia evitò di scavare a fondo pur di non scoprire se si trattasse di una sorta di proposta.

«Sono un uomo che si attiene ai detti di Dio!» rispose invece, lasciando trasparire tutto il suo senso di religiosità.

«Eppure avete ucciso un uomo…»

«Il caso verrà riesaminato e io verrò scagionato da tutte le accuse.»

«Ma per intanto rimanete quello che il mondo vi crede: un assassino! Ho chiesto in giro e sembra che abbiate ucciso un certo giudeo messinese.»

Alessio stava per spazientirsi, nondimeno si trattenne quando l’altro disse:

«Sappiate comunque che non vi condanno. Chi sono io per giudicare i motivi che vi hanno spinto ad una azione del genere? Parlatemi di questa donna… Zoe.»

Alessio si chiese come facesse a sapere così tante cose di lui, tuttavia era la prima volta che qualcuno si interessasse ai motivi del suo viaggio in Sicilia. Forse Mattia, al pari di una donna sfaccendata e curiosa, amava impicciarsi nei fatti altrui. Comunque sia, sentire dalla bocca di qualcun altro quel nome, Zoe, lo fece quasi commuovere. Probabilmente fu per disperazione, per quel peso maggiore della prigionia che si portava sul cuore, che Alessio sentì di potersi fidare dell’eunuco.

«Zoe è la mia unica figlia.» rispose.

«Siete venuto fin qui per vostra figlia?»

«Per lei e per la promessa che feci ad una donna morente.»

Mattia si sporse in avanti, appoggiò il mento sul pugno, fissò il gomito sul ginocchio, e spiegò:

«Per quanto voi abbiate passato gli ultimi tre anni recluso tra quattro mura, sappiate che in vita siete stato più libero di me… La mia condanna è stata eseguita già durante la mia fanciullezza, cosicché il resto della mia esistenza è stato segnato per sempre. La mia prigione è il ruolo che ricopro in questo Palazzo: custode dell’harem, guardiano delle donne, servitore del Re e soprintendente ai bisogni della Regina… un ruolo segnato sul mio corpo. Dunque non stupitevi se vi chiedo di parlarmi di voi, poiché il vostro racconto rappresenta una delle possibili vite che avrei potuto vivere se non fossi stato recluso in questa condizione di prigionia.»

Alessio provò tenerezza per quell’uomo.

«Quanti anni avete?» chiese perciò curioso.

«Trentadue.»

«E da quanti anni fate parte del seguito del Re?»

«Divenni valletto di Ruggero all’età di nove anni. Temo tuttavia che la mia vita non possa paragonarsi alla vostra. Se continuassi a rispondere alle vostre curiosità sono sicuro che vi annoierei. Sappiate solo che anche nella mia vita c’è una donna, una giovane sorella che amo più del sole.»

«Conoscete quindi il sentimento che muove il mondo, mio Signore! Bene, vi dirò di Zoe… Conobbi sua madre molti anni fa, venticinque per l’esattezza, durante una visita sull’isola di Corcira. In quegli anni ero un giovane apprendista che si stava affrancando con successo dall’insegnamento del suo maestro. Essendo quindi il mio servizio a buon mercato, venni assoldato per un lavoro da un certo notaio dell’isola. Questi mi chiedeva la stesa di un mosaico pavimentale in opus sectile[21 - Opus sectile: antica tecnica artistica che utilizza marmi e paste vitree tagliate ad hoc per realizzare intarsi pavimentali e parietali.] come abbellimento della cappella privata della sua famiglia. Benché si trattasse di un’arte molto complicata, mi gettai nella sfida sicuro che non avrei fallito. Fallii tuttavia come uomo timorato di Dio quando mi imbattei nella moglie del notaio, una donna dalla bellezza sconvolgente dieci anni più grande di me. Non so ben dire se fui io a corteggiare lei o se fu lei a sedurmi; la mia mente era annebbiata dalla passione e il mio cuore in preda ad un turbinio di emozioni. Ci vedemmo clandestinamente per due mesi, quindi, determinato ad allontanare da me la tentazione e ad acquietare il senso di dannazione che andava crescendo nella mia anima, scomparvi senza neppure completare l’opera. Col tempo la mia mente dimenticò il viso di quella donna e il mio cuore barattò l’amor carnale per quello sacro. Divenni intanto famoso e ricco come mai avrei immaginato. Ritrovandomi tuttavia un giorno in meditazione con me stesso e guardando i miei capelli grigi, riflettei che in luogo della fama e del denaro avrei preferito l’affetto di una famiglia. L’archimandrita[22 - Archimandrita: superiore di un monastero di rito greco ortodosso.] di un monastero, un amico d’infanzia, mi consigliò allora di scegliere la solitaria contemplazione di Dio e di prendere i voti… mi propose quel tipo di famiglia che è il monastero. Quando io però gli chiesi se sarebbe stato saggio riavvicinarmi ai rimpianti di gioventù, lui mi rispose che un uomo che rimugina sui rimpianti per certo non ha mai smesso di praticare il peccato nel suo cuore. Gli dissi allora di essere venuto a sapere che il marito di quella donna era morto e che i miei sentimenti si erano destati a causa di quella notizia. Lui mi spiegò quindi che se non l’avessi rincontrata non avrei mai potuto scoprire quello che la Volontà Divina desiderava per me. Partii immediatamente per Corcira e dopo poco tempo ritrovai la donna che molti anni prima mi aveva indotto al peccato. La ricordavo splendente… bella, ed invece adesso avevo di fronte una persona vecchia e malata. La ritrovai distesa sul suo letto e, tenendole la mano, le giurai comunque che questa volta non l’avrei abbandonata. In fin dei conti mi sarebbe bastato considerarla un’anziana madre. Ma lei, lusingata per la mia offerta benché ormai senza alcuna voglia di vivere, mi fece giurare per Dio di renderla felice in un’altra maniera. Mi disse di aver avuto un’unica figlia, una bambina che lei aveva amato più di ogni altra cosa, e che tale creatura era il frutto del nostro amore clandestino. Rimasi sbigottito, eppure sorrisi come se quella fosse la notizia più felice che un uomo potesse ascoltare. Quando nondimeno vide la mia gioia, turbò la sua espressione e pianse. Mi disse che Zoe era stata presa durante il saccheggio dell’isola da parte dei siciliani nel 1147, secondo il vostro calendario. Era stata catturata il primo giorno ed esposta sulla piazza in quello successivo. Lei le era stata accanto tutto il tempo, finché un nobile siciliano, un comandante di galea molto apprezzato tra i suoi, non aveva voluto comprarla ad un prezzo talmente alto da superare qualunque tentativo di riscatto da parte del notaio suo marito. Mi chiese quindi di ritrovarla e di riscattare ad ogni costo la sua libertà. Stetti al capezzale di quella donna per un’intera settimana, e quindi, ad un certo punto, mi disse:

«Non capite come sarebbe cambiata la sorte della mia amata Zoe se voi non ve ne foste mai andato?»

Compresi allora tutta la mia responsabilità nella faccenda. Adesso, oltre al desiderio di avere una famiglia, nacque in me l’obbligo verso il mio sangue. Era chiaro che la Volontà Divina mi stesse parlando nel più comprensibile dei modi…

Lei morì due giorni più tardi e io salpai per queste terre subito dopo averle chiuso gli occhi.

Giunsi a Messina l’estate di tre anni fa, intento ad arrivare a Palermo e trovare Zoe. Passai alcuni giorni in un monastero di rito greco sulle montagne che spingono quella città verso il mare, e dunque, mentre facevo la spola tra quel luogo di contemplazione e il mercato, venni a sapere che quel noto comandante di galea soggiornava da alcuni giorni nei pressi del porto. Quella era la mia occasione… Dio mi stava mettendo dinanzi alla soluzione e per certo mi avrebbe spianato la strada. Mi presentai sorridente e amichevole, intendendo contrattare l’acquisto della ragazza. Quello aveva la mia stessa età e per certo possedeva più fama e denaro di me. Ad ogni modo, si alterò non appena gli menzionai il nome di Zoe e mi disse di non farmi più vedere. Sapevo che non sarebbe stato facile, per cui lo ricercai la sera dello stesso giorno, raddoppiando l’offerta e parlandogli col cuore in mano. Questa volta mi stette a sentire e mi assicurò che la cosa si poteva fare. Perciò mi diede appuntamento all’alba presso uno dei magazzini del porto, dove disse che si sarebbe presentato con un notaio per stipulare la vendita. Non chiusi occhio e già un’ora prima che spuntasse il sole arrivai al luogo concordato. Temetti a portare il denaro e pensai bene di lasciarlo nelle mani del fedele Onesimo, istruendolo che avrebbe dovuto consegnarlo solo a me quando più tardi sarei tornato insieme a degli sconosciuti… e che se non fossi tornato, avrebbe dovuto custodirlo fino a quando non avrebbe colto un segno della Volontà Divina. Queste parole, recepite da un cuore onesto come quello di Onesimo, mi hanno permesso di conservare la vita ritardando l’esecuzione. Sarebbe tuttavia complicato spiegarvi questa sera in che modo quel frate mi ha salvato la vita…

Ritornando a quella maledetta mattina vi dico quello che successe. Quando entrai nel magazzino la luce di una torcia si spegneva al contatto col suolo e un uomo lì accanto boccheggiava supino come fanno i pesci presi all’amo. Gli occhi di costui mi terrorizzarono: li aveva spalancati, fissi verso qualcosa di indefinito. Sul suo petto vi erano almeno tre profonde ferite e in una di esse se ne stava ancora conficcato il pugnale che gli aveva squarciato il cuore. In men che non si dica quello smise di boccheggiare e con ancor meno tempo si presentò quel maledetto nobile. Questi mi vide piegato sul morto e dunque si mise a gridare che un uomo era appena stato ucciso. In quel momento pensai di scappare… di restare e spiegare tutto… di inventare una storia che avrebbe alleviato la mia posizione. Non ebbi il tempo di fare nulla, poiché mi circondarono e mi presero in custodia. Pochi giorni dopo venne emessa la mia condanna a morte, decisione maturata grazie alla testimonianza di quell’uomo che asseriva di avermi colto in flagranza di crimine.»

«Davvero una storia incredibile! Mi chiedo però come mai riluttiate a dire il nome della donna che amaste in gioventù.»

«Perché voglio esimere il suo nome dal giudizio degli uomini. Giudichi Dio i suoi peccati!»

«E perché dunque mi avete nascosto anche quello del nobile comandante di galea vostro nemico?»

«Provo nausea perfino a pronunciarlo quel nome… e poi, voi che sapevate così tante cose di me ancor prima di questa sera, dovreste saperlo.»

«In verità la vostra storia mi ha appassionato già giorni or sono, quando sotto invito del Re mi fu chiesto di capire chi foste davvero. Sì, lo ammetto, ho indagato su di voi! Tuttavia fino ad oggi ho avuto come elemento solo quel nome, Zoe, credendo tra l’altro che si trattasse della vostra amata.»

«Ecco perché questa notte venite a svegliarmi… per scavare a fondo nella mia persona e dare risposta al Re.»

«No, Mastro Alessio, c’è dell’altro.»

A ciò Mattia si alzò dallo sgabello e prese a gironzolare nella stanza.

«Io non ho mai avuto un padre.»

«Neppure io conobbi il mio, se questo vi può consolare.» rispose Alessio, comprendendo il tono triste dell’altro.

«Ma voi avete colmato tale vuoto con il vostro carattere avventuriero e virile. Io invece cerco di riempire questa assenza ravvisando la figura di un padre negli uomini che incontro durante le mie giornate. Voi, Mastro Alessio, mi date questa idea più di ogni altro uomo con cui mi sia rapportato. La mia non è più semplice curiosità o la risposta ad un’esigenza del Re… io voglio aiutarvi a ritrovare la vostra Zoe.»

Alessio era confuso e al tempo stesso lusingato.

«Dite davvero?»

«Sì, ma voi ditemi prima il nome dell’uomo che l’ha strappata dalle braccia di sua madre anni or sono.»

Alessio stava per dirglielo, poi parve pensarci. In tutta questa storia era finito prigioniero e quasi impiccato proprio per fidarsi troppo della gente.

«No, Signore, datemi prima un segno che vi interessate davvero della mia causa. Trovatelo voi il nome di costui!»

Dunque l’eunuco, invece di offendersi, sorrise.

«È una richiesta ragionevole. D’altronde, come potrei dimostrarvi il mio affetto se non vi fosse alcuno sforzo in quello che faccio…»

Quella fu l’ultima frase prima di lasciare la sala e l’artista che avrebbe dovuto abbellirla.




Capitolo 4


7 Novembre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus, Palazzo Reale



Passati due soli giorni Mattia entrò nella sala e, mentre Alessio ed altri tre operai se ne stavano sull’impalcatura, urlò:

«Mastro Alessio, venite giù!»

Ci volle qualche minuto prima che l’abile maestro d’arte si calasse fino al pavimento.

«Giordano di Rossavilla!» esordì l’eunuco.

Alessio si stranì in viso; era più il disgusto che provava per quel nome che la sorpresa per la scoperta di Mattia.

Onesimo si avvicinò curioso. Sapeva benissimo quali fossero i sentimenti del suo mentore nei confronti della persona in questione.

Alessio diede quindi le spalle all’eunuco e cercò un pretesto per troncare lì quella conversazione. Prese in mano la cazzuola sporca di malta e si mise a ripulirla con un altro arnese identico.

«Come può esservi utile conoscere il nome della persona che mi ha rovinato?» chiese sempre Alessio, trovando il coraggio per affrontare l’argomento.

«Egli trattiene pure vostra figlia.» rispose Mattia.

«Questo lo sapevo anche prima che salpassi per questa terra.»

Dunque l’eunuco, entusiasta, prese per il braccio Alessio e lo accompagnò fino alla balaustra della loggia. Da lì era possibile vedere tutta Palermo.

«Quel palazzo laggiù, quello con le merlature presso la via Marmorea; lo vedete?»

«Lo vedo.»

«È lì che abita il vostro nemico, ed è lì che se ne sta anche la vostra Zoe. In vita vostra non vi è mai stata così vicina! Io ci sono stato giusto stamattina.»

Alessio si voltò e, afferrando per le spalle l’uomo del Re, gli chiese:

«L’avete vista?»

E Mattia, sorridendo:

«È una donna splendente!»

«Descrivetemela, vi prego.»

«Occhi azzurri come i vostri e capelli lunghi e profumati. Vi somiglia molto… È così bella!»

Alessio piangeva mentre l’altro gli parlava di Zoe.

«Le avete parlato?»

«Oh no… non è stato possibile parlarle. Mi è stata descritta da un uomo che mendica da quelle parti e io ho aspettato che si affacciasse sugli scaloni dell’ingresso per vederla.»

Alessio abbracciò Mattia e gli disse:

«Ve ne sono grato, mio Signore!»

«Quando riuscirò a parlarle, le dirò di voi.»

«No, non fatelo! Non voglio che sappia che questo condannato a morte sia suo padre. Però, se davvero volete farmi piacere, continuate a portarmi sue notizie. Io guarderò da oggi in avanti le merlature di quel palazzo, immaginandola secondo la vostra descrizione.»

Così Mattia si conquistava la fiducia di Alessio ed instaurava nel suo cuore quel tipico senso di gratitudine che assoggetta gli uomini sinceri a chi è datore di bene.

«Maestro, sembra che a quell’eunuco gli stiate a cuore.» commentò Onesimo, vedendo Mattia andarsene.

«Vedi quelle merlature laggiù, ragazzo?» indicò Alessio, interrompendo il più giovane.

«Le vedo.»

«Devi fare una cosa per me. Va’ fin lì e informati se quel palazzo è davvero quello di Giordano di Rossavilla.»

«Non vi fidate dell’eunuco?»

«In vita mia non ho mai ricevuto del bene disinteressato e intendo valutare se costui è sul serio un’anima sincera e pura come dice.»

«Vi ha fatto il nome di Giordano di Rossavilla benché voi non glielo aveste detto; perché pensate che vi stia mentendo?»

«Non lo penso, desidero solo accertarmi del contrario. E poi il nome di quel farabutto non sarebbe difficile scoprirlo, visto che è colui che mi ha accusato dell’omicidio del giudeo.»

Lo stesso pomeriggio Onesimo andò e tornò dal palazzo indicato da Mattia e diede conferma circa l’effettiva proprietà di Giordano di Rossavilla, ovvero il nobile che aveva testimoniato contro Alessio e che tratteneva Zoe. Adesso il maestro d’arte non aveva più motivo di dubitare di Mattia e attribuì l’interesse nei suoi confronti ad una forma di attrazione verso la figura di uomo-padre che lui rappresentava.

Venne tuttavia presto il momento in cui la fiducia e la gratitudine di Alessio nei confronti di quell’uomo dovette essere provata.

Il 7 di novembre Mattia si presentò con le stesse dinamiche della prima volta. Il rumore della chiave nella serratura svegliò Alessio e questi immaginò che fosse proprio l’eunuco. Il servitore del Re aveva alcuni graffi sul collo e i vestiti strappati in più parti, inoltre piangeva e si copriva la bocca come farebbe un bambino che ha subito un’ingiustizia e intende trovare conforto nel genitore.

«Cosa vi è capitato?» chiese Alessio, mettendosi in piedi e porgendogli una spalla.

Lo fece poi accomodare e gli porse dell’acqua.

«Parlatemene, vi prego.» lo esortò ancora.

«Il gaito[23 - Gaito: dall’arabo qā’id, letteralmente “capo”, “leader”. Nella Sicilia normanna indicava i funzionari di Palazzo e i membri della Regia Curia. Di norma i gaiti erano musulmani convertiti al cristianesimo e poteva trattarsi di eunuchi. La parola entrò nella lingua latina come gaytus, volgarizzato gaito.] Luca, è stato lui a ridurmi così.»

«Chi sarebbe costui?»

«Uno degli eunuchi del Re la cui parola vale molto a Palazzo.»

«E perché l’avrebbe fatto, figliolo?»

«Perché ho rifiutato di sottostare alle sue angherie.»

«Di cosa state parlando?»

«È dalla mia tenera età che il gaito Luca si approfitta della mia fragilità… e io ho sbagliato a crederlo come un padre e a fidarmi delle sue carezze.»

Alessio comprese quale sorta di storie scabrose si consumassero tra le mura del Palazzo. Si chiese come un eunuco potesse abusare sessualmente di qualcun altro, ma trattenne la sua curiosità pur di non scoprire la vergogna di quegli uomini.

«L’avete rifiutato?»

«Sì, e lui ha reagito così perché non era mai successo che lo respingessi… Ma, credetemi, non potevo acconsentire dopo quello che ho scoperto.»

Dunque Mattia avvicinò il viso e disse a bassa voce:

«Cose pericolose… cose che vi riguardano!»

«La gente dovrebbe smetterla di interessarsi di me, piccolo e insignificante uomo quale sono! Parlate! Cos’altro succede che dovrei sapere?»

«Prima prendete questo.» invitò Mattia, porgendo sulla mano di Alessio un nastro azzurro.

«Cos’è?»

«Un nastro per capelli che ho raccattato dalla strada stamani, subito dopo che una bellissima donna l’aveva perso.»

«È di Zoe?» domandò concitato Alessio, stringendo il pugno e il nastro tra le dita.

«È il suo.»

«Voi ogni giorno mi rendete felice e turbato allo stesso tempo! Potessi io vederla passare anche da lontano…»

«Ve la porterò qui! Ma mi ci vuole tempo, Mastro Alessio…»

«Davvero lo dite?»

«Ve lo giuro! Tuttavia il gaito Luca minaccia anche voi oltre che me. Egli intende proporre il suo maestro d’arte per la messa in opera del mosaico della sala. Sapete cosa significa se la spunterà?»

«Ritornerei a Messina per continuare a marcire nelle segrete del carcere…» ragionò Alessio con lo sguardo perso nel vuoto ed il groppo in gola.

«E che ne sarebbe di Zoe? Proprio ora che sono riuscito ad avvicinarla…»

«Lasciatemi parlare con il logotheta Basilio. È lui il mio garante.» esclamò l’abile artista, mettendosi in piedi.

«No, no… Basilio può ben poco contro il gaito Luca. Se questi si è messo in testa di farvi cacciare è proprio perché odia il logotheta e intende screditarlo agli occhi del Re.»

«Mi usano per i loro intrighi di corte!»

«Ma voi… voi soltanto… potete fare ancora qualcosa.» disse con voce bassa e sobillante Mattia.

«Cosa può fare un povero prigioniero dinanzi alla malignità che intende ucciderlo?»

«Colpire d’anticipo! Per adesso solo io conosco le intenzioni del gaito Luca. Mettetelo a tacere prima che sorga il sole e si presenti al Re.»

Alla sua ultima frase l’eunuco accompagnò un gesto ben più esplicativo. Venne dunque fuori dalla larga manica di morbida seta una lama affilata.

Alessio parò le mani davanti a quell’arma e si voltò sdegnato.

«No… questo è troppo!»

Mattia allora prese a piangere e ribadì:

«Non capite che questa è l’unica possibilità di vedere vostra figlia? Vi farete ammazzare se non lo fate! Vi porteranno a Messina e non aspetteranno ancora molti giorni prima di appendervi al cappio. La vita del gaito per la vostra… E riscattate anche me dal peccato a cui mi conduce da anni quell’essere spregevole!»

«È per me o per voi che me lo chiedete?»

«I nostri interessi coincidono, Mastro Alessio, ed inoltre la vostra causa mi sta a cuore come se fosse la mia.»

«Fatelo voi!» respinse determinato Alessio.

«Il mio polso è debole e il mio cuore è tenero. Forse finirei per farmi soggiogare ancora una volta dai desideri di quell’uomo…»

«Al contrario di quello che si crede, io non ho mai ucciso nessuno.»

«E alla vostra Zoe non ci pensate? Non volete rivederla, fosse l’ultima cosa che farete?»

Alessio tornò a guardare il vuoto, pensieroso e confuso. Poi sbottò:

«Andatevene via da qui!»

E spinse Mattia fino al corridoio.

Alessio ansimava mentre richiudeva la porta e poggiava le spalle contro il muro. Nella penombra della candela si guardò perciò le mani, arnesi che in vita sua avevano solo creato e mai distrutto. Dunque, sollevando lo sguardo, si accorse che nella confusione il nastro per capelli era finito per terra nel bel mezzo della stanza.

«Mio Signore, concedimi le armi per combattere il male!» sospirò in una sorta di preghiera mentre fissava la volta a crociera.

«Credetemi, Mastro Alessio, non esiste altro modo per rivedere la vostra Zoe e al tempo stesso conservare la vostra vita.» fece Mattia da dietro la porta, avendo la certezza che l’altro se ne stesse appena oltre.

«Andate via!» urlò lo straniero.

«Non posso credere che preferiate morire e abbandonare per la seconda volta vostra figlia.»

Quindi Alessio aprì la porta e permise all’eunuco di entrare.

«Se avete tanto a cuore la mia causa, fatemi fuggire!»

«Voi chiedete la mia vita in cambio della vostra. Sono io il preposto alla vostra cura e verrei punito con la pena che spetta a voi se vi lasciassi andare.»

«Fuggite anche voi, venite con me e Zoe lontano da questa città.»

«E come prenderete Zoe con voi visto che con quell’uomo l’argomentazione del danaro non è bastata già tre anni fa?»

«Datemi l’arma che avete portato e la conficcherò nel cuore di Giordano di Rossavilla! Ad ognuno ciò che merita, e lui è meritevole di morte per aver pugnalato quel giudeo e per aver accusato me.»

«Dunque intendete uccidere un uomo… proprio quello che aborrivate poco fa.»

Alessio smise di parlare; la logica di Mattia era inconfutabile. Risultava così chiaro come niente più dell’odio possa motivare un uomo nel compiere il più nefando dei gesti compiuti contro il proprio simile.

Ancora Mattia spiegò:

«Se fuggirete capiranno senz’altro che siete stato voi e vi braccheranno… vi braccheranno e vi troveranno! Solo, in terra straniera… che mai intendete fare? L’efficacia delle guardie del Re è proverbiale perfino fuori dal Regno. Inoltre a me dareste la morte, poiché è impensabile che io venga con voi. Ho una sorella che vive tra il popolo, che amo più di ogni cosa e che dipende da me in tutto. Non posso lasciarla. Fate quello che dovete, ma tornate qui prima dell’alba.»

«Se mi è permesso uscire da questo palazzo, allora farò quello che devo solo contro l’unica fonte dei miei problemi.»

«Giordano di Rossavilla… Ma cosa ci avrete concluso? Domani il gaito Luca si farà ricevere dal Re e vi farà allontanare da Palermo. Avrete vendicato l’affronto ma non riabbraccerete Zoe. È il gaito che per ora dovete colpire… credetemi! Vi giuro che vi permetterò di allontanarvi dal Regio Palazzo una seconda volta per i vostri scopi. Un piacere per un piacere… liberatemi dal peccato e io vi aiuterò ad avere il cuore di Giordano di Rossavilla.»

«Voi avete già appieno la ricompensa per il vostro peccato, e la pagate con la corruzione del vostro corpo!»

«No, Mastro Alessio, è il gaito che mi conduce all’inferno… Lui è il Diavolo!»

«Se Dio permette l’esistenza del Male è perché sa che possiamo combatterlo.»

«Sì, e questa notte noi due possiamo combatterlo solo con questo…»

Ed ecco venire fuori dalla manica di nuovo la lama luccicante.

«Questo non è un peccato meno grave.»

«Mastro Alessio, Dio benedirà la riuscita della questione dandovi il segno che l’approva… ma se voi stanotte ve ne starete qui, domani sarà perduta ogni cosa.»

Alessio non valutò l’attimo in cui successe, ma improvvisamente si ritrovò a reggere quel pugnale sul palmo della mano.

«Troverete il gaito Luca a sorseggiare vino in una locanda; ve la indicherò, così che non potrete sbagliare. Adesso seguitemi!»

Come sospinto da una forza invisibile, Alessio andò dietro all’eunuco Mattia e, avanzando per i corridoi secondari, alla fine si ritrovò fuori dal Palazzo.

Com’è vero che non si può morire due volte, Alessio non temeva una seconda condanna da parte dell’uomo. Già accusato di omicidio, adesso era consapevole che avrebbe sporcato veramente le sue mani bagnandole nel sangue, e forse avrebbe ricordato l’operato di quella notte ogni qual volta avrebbe posato le tessere di un mosaico… quelle in porfido rosso che tanto amava. In passato con esse aveva rappresentato il sangue di Cristo, ma da adesso con esse avrebbe rammentato il suo peccato.




Capitolo 5


Notte del 7 Novembre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus



Su Palermo scendeva il silenzio delle tenebre, le candele venivano spente e i piani rimandati all’indomani. Le zanzare che salivano dal Papireto[24 - Papireto: chiamato anche “torrente Danisinni”, è uno dei fiumi che scorreva a Palermo. Questo era il fiume occidentale, quello che delimitava ad ovest l’antica città punica. Gli altri fiumi sono il Kemonia, deviato poi in modo da sfociare nell’Oreto, e appunto l’Oreto, chiamato in questo romanzo col nome arabo di wādī al-‘Abbās. Il Papireto e il Kemonia lambivano ad ovest e ad est il quartiere del Cassaro, per poi sfociare entrambi nell’enorme porto cittadino.] e dal Kemonia, in quelle notti d’autunno atipicamente calde ed umide, colpivano gli incauti che delle tenebre facevano giorno. Forse, alla luce del sole, analizzando la quantità di punture che ricopriva la pelle di ciascuno, sarebbe stato possibile scoprire chi avesse dormito e chi no. Guardie della ronda notturna, poeti, pescatori, briganti, prostitute e amanti… ognuno aveva un buon motivo per muoversi nel buio. Inoltre, quella notte, quella tra il 7 e l’8 di novembre, era visibile in cielo solo il primo quarto di luna. Perfino l’astro preposto da Dio per illuminare in luogo del sole nascondeva più della metà del suo volto, intendendo disertare la sua presenza per non essere complice del male che stava per consumarsi.

Alessio stringeva l’impugnatura del pugnale come se questo potesse cadergli dalle mani. Aveva sempre maneggiato seghetti e tronchesine, per tagliare le tessere, ma mai lame di quel genere, ed ora sentiva di avere tra le mani l’attrezzo sbagliato, non adatto al suo mestiere. Al polso teneva invece legato stretto il nastro della sua Zoe, ad indicare come cuore e braccio avrebbero dovuto muoversi adesso con un’unica volontà.

Dopo aver oltrepassato il Kemonia e proseguito per un dedalo di stradine, Mattia si fermò presso la locanda e in vista della vicina Porta di Sant’Agata. Da quel luogo si raccontava che vi fosse passata proprio la martire catanese, di ritorno alla sua città dopo essersi rifugiata per un periodo a Palermo a causa delle persecuzioni. E sempre riguardo a quella porta si tramandava il ricordo di un’impresa compiuta da un cavaliere normanno durante la guerra contro i mori. Tale guerriero indomito l’aveva attraversata per punire la lingua di un soldato islamico che osava farsi beffe dei cristiani e dei loro santi, ma essendo la porta stata sbarrata dopo il suo passaggio, il cavaliere era stato costretto ad andarsene per un’altra uscita. Un’impresa a dir poco inumana! Nessuno ricordava il nome del cavaliere e si diceva soltanto che egli fosse stato un parente del Gran Conte.

«Lì, presso la porta, vedete? Vi è ancora la lanterna accesa ai tavoli della locanda.» fece notare Mattia.

«Della gente mi vedrà in viso!» esclamò Alessio.

«Quando il gaito Luca va alla locanda paga tutti i tavoli, poiché non vuole nessuno tra i piedi, neanche il locandiere.»

«È solo?»

«Lo è! Ma adesso andate, io vi aspetterò qui. Troverete la porta chiusa, ma ecco la chiave! Solo state attento a non fare troppo rumore.»

«Come fate ad averla voi la chiave della locanda?»

«Il gaito Luca ne ha una copia, tanta è la fiducia che ripone in lui il locandiere… ed anche io ne ho una.»

Nell’oscurità quasi assoluta delle strette vie Alessio si avvicinò a quella casa, dunque pian piano girò la chiave nella serratura e fu dentro. Subito la sua attenzione venne catturata dalle spalle di un uomo che se ne stava chino sul suo bicchiere; automaticamente il pugnale venne fuori dalla manica.

«Mi dispiace, buonuomo, ma non è solo la mia vita che perdo lasciandovi vivere.» spiegò Alessio, giustificandosi ancor prima di commettere il fatto.

Quello si voltò terrorizzato, poiché non credeva che vi fosse qualcun altro, e scattò in piedi. L’eunuco in questione aveva circa quarant’anni, portava una lunga veste gialla ed uno strano copricapo arancione.

«Chi siete? Se è denaro che cercate, sappiate che vi darò tutto quello che volete!»

Ma Alessio, ignorando le parole dell’altro e la propria coscienza, tirò un affondo, ferendolo in maniera importante all’addome.

Quello indietreggiò e si resse con entrambe le mani al tavolo, ma, vedendo che Alessio digrignava i denti e si avvicinava nuovamente, gridò:

«Mia Signora, ci attaccano!»

Quindi un secondo affondo lo colpì al petto, per certo uccidendolo non appena il sangue avrebbe smesso di girare.

Un tizio poco più giovane di Alessio scese come un pazzo dal piano superiore. Questi vestiva di nero e portava un grosso anello del medesimo colore. Lo sguardo era quello sicuro di sé e senza paura tipico degli uomini di guerra, e la gestualità, imperante e decisa, era quella tipica degli uomini di potere. Inoltre era armato di una lunga spada, la quale risultò subito evidente che sapesse usarla a dovere.

Alessio schivò il primo fendente e, divincolandosi tra i tavoli, se la diede a gambe gettando dietro di sé quanti più ostacoli riuscisse a trovare. Per poco non ci lasciò le penne!

Nella confusione ed ancora concitato perse di vista l’angolo al quale avrebbe dovuto aspettarlo Mattia. Gironzolò convulsamente nei pressi della Porta di Sant’Agata per alcuni minuti e poi, sicuro che quel tizio stesse dando l’allarme, si dileguò senza meta per le vie della città, prendendo la direzione del mare. Quando infine fu sicuro di essersi allontanato abbastanza dal luogo del delitto, ritornò nel Cassaro attraverso il Ponticello, ovvero il passaggio sul Kemonia che unisce il suddetto quartiere ai rioni dei giudei posti ad oriente del fiume, e riprese la strada che porta al Regio Palazzo, ma questa volta facendo un altro percorso. Prese la via Marmorea, quella denominata dagli arabi al-Balat per via dei basoli che la ricoprono e che taglia a metà il Cassaro[25 - Cassaro: dall’arabo al-Qasr, fortezza. Durante la dominazione islamica il termine indicava la zona fortificata della città. Col tempo finì per dare il nome alla stessa strada principale di Palermo, ovvero l’al-Balat degli arabi (propriamente lastra di pietra, marmo, da cui il termine siciliano “balata”), chiamata anche via Marmorea durante il periodo normanno, ed appunto Cassaro in epoca successiva. Oggi corrisponde alla via Vittorio Emanuele.]. Ma fu verso la metà di quel viaggio, mentre veniva avanti come un cane randagio, mentre avanzava disorientato in una città a lui sconosciuta, che si accorse che le merlature e il colore della calce della costruzione dinanzi a sé erano gli stessi di quella indicata da Mattia guardando il panorama dalla loggia del Palazzo Reale. Lì vi abitava Giordano di Rossavilla, l’uomo che l’aveva rovinato, e sempre lì vi era la sua Zoe. Si bloccò all’istante e prese a valutare quale fosse la cosa più saggia da fare. Sentiva l’adrenalina salirgli su per le orecchie e il cuore spaccargli il petto, sia per quello che era successo poco prima sia per ciò che sarebbe potuto accadere da lì a poco.

Nel palazzo dei Rossavilla, nonostante l’ora tarda, i lumi erano accesi ed un paio di persone parlottavano presso l’ingresso. Il portone era aperto e un tizio della servitù presidiava uno strano via vai di gente. Alessio si incuriosì e credette bene di avvicinarsi. D’altronde si era disfatto dell’arma già da molti minuti e non avrebbe potuto costituire una minaccia per nessuno, se non per sé stesso qualora il nobile l’avesse riconosciuto.

Non appena l’uomo della servitù lo vide avvicinarsi gli disse:

«Va’ via… non è il momento per le elemosine!» credendo che si trattasse di un mendicante.

Effettivamente, benché non indossasse più gli stracci che aveva in carcere, Alessio vestiva in modo semplice e sciatto.

«Non capisco.» spiegò Alessio, non comprendendo l’arabo usato dall’uomo della servitù.

«Latif, lascialo stare.» fece uno dei due che sostavano sull’ingresso.

Questi era un giovane uomo ben vestito e dall’aspetto gradevole, per certo uno dei padroni.

«Mendicate denaro?» chiese dunque il nuovo giunto, rivolgendosi ad Alessio nel volgare del popolo.

«Non parlo la vostra lingua.» rispose invece il maestro d’arte.

«Parlate greco… non vi ho mai visto.» concluse il più giovane, finalmente nella lingua del forestiero.

«Mio Signore, vedo le lampade accese e il portone aperto a quest’ora della notte; che succede?»

«Mio padre è gravemente malato, allettato da settimane in un’agonia che sembra non avere fine. Questa notte aspettiamo che il medico dia il suo ultimo responso.» spiegò mestamente il figlio del suo acerrimo nemico.

«Malato?» ripeté stupito Alessio.

«Sì, malato… Ma voi chi siete?» chiese quell’altro, cominciando ad insospettirsi per l’inconsueta curiosità del passante.

«Io sono solo uno dei lavoratori di seta degli opifici del Palazzo del Re.»

Alessio la buttò lì, d’altronde sapeva bene come alcuni suoi connazionali, esperti lavoratori di seta, molti anni prima fossero stati condotti da Ruggero in Sicilia per lavorare nelle officine reali del suo Palazzo. La seta del Regno, la quale era frutto delle conoscenze greche dei nuovi giunti e della sapienza degli artigiani arabi già presenti a Palermo, era tra le migliori al mondo.

«Questa casa ha bisogno di preghiere e non di stoffe… foste stato voi un prete…» rispose amareggiato il Rossavilla.

«No, mio Signore, non è per questo che sono qui nel cuore della notte. Giusto una settimana fa, mentre valutavo il pregio dei tessuti dei venditori del mercato, mi imbattei in una donna della servitù di questo palazzo. Anche lei era interessata agli stessi articoli e così mi ci ritrovai a parlare. Quando si accomiatò mi accorsi che un nastro dei suoi capelli si era sciolto ed era lì per lì per cadere. Tentai di avvisarla, ma la folla la risucchiò occultandola alla mia vista. Più avanti ritrovai il nastro, ma non lei. Questa notte stavo tornando a Palazzo quando mi sono accorto che non avevate ancora soffiato alle candele e non avevate ancora serrato il portone. Ecco, desidererei restituire l’oggetto perso alla sua legittima proprietaria. Se non è troppo, e se la vostra serva non è ancora andata a letto, permettetemi di incontrarla… qui fuori, davanti all’occhio del vostro schiavo moro, così che le renda di persona ciò che ha smarrito.» spiegò Alessio, indicando al termine del discorso proprio il nastro azzurro che teneva legato al polso.

Il padrone fece segno a Latif di avvicinarsi e rivolse l’ultima domanda ad Alessio.

«Come si chiama la serva?»

«La bella donna con cui parlai al mercato si chiama Zoe.»

Il figlio di Giordano e il maggiordomo della casa, quel tale Latif, si guardarono confusi.

«Siete sicuro che vi abbia detto di servire al palazzo dei Rossavilla?» chiese il capo della servitù.

Ad Alessio batté il cuore. Quella domanda piena di sospetto sembrava essere il preludio di qualcosa di brutto. Intanto, guardando verso il Regio Palazzo, verso la parte alta della via Marmorea, si accorse che un grande stuolo di uomini, visibili al buio poiché reggevano molte torce, si avviava velocemente verso est. Immaginò quale sorta di delitto avesse richiamato quella moltitudine di guardie e immaginò che a breve si sarebbe scatenata la caccia all’uomo. Un influente eunuco del Re era stato ammazzato e se avessero sorpreso proprio Alessio per le strade, il quale assassino già lo era, per certo lo avrebbero arrestato, condannato senza bisogno di indagine e ucciso.

«Mio Signore, mi ha fatto proprio il nome di Giordano di Rossavilla.»

«In tal caso, o le frottole le ha raccontate lei o le raccontate voi! Qui non vi è mai stata nessuna serva con questo nome.» concluse il signore tra i due.

Alessio cominciò ad innervosirsi. Se non fosse stato uno dei più abili maestri mosaicisti, dall’occhio arguto e dalla posa perfetta, sicuramente le sue mani avrebbero iniziato a tremare e il suo sguardo ad essere inquieto.

«Zoe… la vostra serva… una meravigliosa donna dagli occhi azzurri e dai capelli lunghi e profumati.» aggiunse ancora Alessio, ripetendo la descrizione fatta da Mattia.

«Da come ne parlate sembra proprio che ve ne siate innamorato…» scherzò il nobile di discendenza normanna.

«In tal caso temo che la donna a cui vi riferiate debba avervi indicato volutamente il palazzo sbagliato… per togliervi dai piedi.»

A quelle parole del figlio del suo nemico, Alessio andò in escandescenza. Solo un paio di anni prima proprio con Giordano avevano contrattato il futuro di Zoe ed ora quei due dicevano di non conoscere nessuno che portasse quel nome. Per certo mentivano!

Alessio strinse i pugni e imbruttì come un cane rabbioso lo sguardo, sennonché in quell’istante una decina di guardie attraversò la via Marmorea e si infilò nel labirinto di stradine sul lato destro della città. Quello non era il momento di farsi notare, dunque il colpevole di quella confusione abbassò la testa e concluse:

«Avete ragione, Signore, quella meschina deve avermi imbrogliato.»

E si allontanò mestamente.

L’enorme palazzo-fortezza, sede del Re quando questi era in città, era visibile da molti punti di Palermo. La facciata del Palazzo, intonacata di bianco brillante e contornata di rosso, simbolo di regalità, guidò Alessio fino al luogo dal quale era evaso per la cruenta avventura di una sola notte.




Capitolo 6


8 e 9 Novembre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus, Palazzo Reale



Per non gettare sospetti sullo strano sodalizio esistente con il criminale straniero, Mattia si dileguò non appena ebbe richiuso dentro la sala Alessio ed ebbe in tale modo assicurato ad entrambi un alibi. Per l’intero Palazzo, infatti, il prigioniero non era mai uscito da quella stanza.

La mattina fu Onesimo a riportare la notizia dell’assassinio dell’importante eunuco del Re. Naturalmente l’intera Palermo ne parlava, ma Alessio, segregato lì dentro, non poteva saperlo. Giunsero poi i giovani manovali affidati alla direzione del maestro straniero e questi confermarono con stupore la notizia.

Lo sguardo di Alessio restava tuttavia come stregato, perso nella luce che penetrava da oltre la loggia. Non aveva chiuso occhio e i dubbi più atroci gli torturavano l’anima. Sarebbe voluto tornare al palazzo dei Rossavilla già quella mattina, in barba ad ogni pericolo, così da comprendere cosa significava quella frase: “Qui non vi è mai stata nessuna Zoe”.

Ebbe comunque l’occasione di sciogliere almeno parte di quei dubbi già a mezzogiorno, quando si presentò Mattia in persona.

L’eunuco aveva congedato il servo preposto alla dispensazione del cibo ed ora portava le vivande con le sue mani. Quel giorno era prevista zuppa di lenticchie e cipolle.

Vedendo Mattia, Alessio chiese ai manovali e al fedele Onesimo la cortesia di lasciarli soli.

«Vi cercano, ma non verranno mai a controllare qualcuno che è già recluso.» esordì l’eunuco, stringendo una spalla di Alessio come in una sorta di blando massaggio.

«Esiste un testimone, un nobiluomo che ha provato ad uccidermi nella locanda. Avevate detto che il vostro amico se ne stava da solo!» accusò arrabbiato il greco.

«Non preoccupatevi, Mastro Alessio, chiunque esso sia non verrà mai a saggiare il vostro viso qua dentro.»

«Lo voglio ben sperare, poiché la mia fine significa anche la vostra.»

«Perciò non dovete preoccuparvi, in quanto sono pronto ad eliminare qualunque pericolo alla vostra ed alla mia incolumità.»

Alessio si spostò verso la loggia e, reggendosi ad una delle colonne, riprese:

«Il pericolo imminente che incombeva sulla mia testa è stato eliminato questa notte; dico bene?»

E si voltò a guardare Mattia.

«Esisteva un ostacolo concreto ed esso era il gaito Luca, colui che si frapponeva fra voi, la vostra sopravvivenza e la bella Zoe.»

«Perciò capirete che adesso che ho bagnato le mie mani nel sangue e ho condannato la mia anima all’inferno non desidero altro che incontrare mia figlia…»

«Succederà presto, ve lo giuro.»

Dunque il tono di Alessio proseguì volutamente più rilassato.

«Ditemi qualcos’altro di lei, vi prego… qualcosa che non mi avete ancora detto.»

«Il suo passo è leggiadro e la sua voce melodiosa. Sapete? Cantava uno stornello che parlava d’amore quando ieri mattina l’ho vista.»

«E Giordano di Rossavilla, l’avete visto?»

«Giusto stamattina se ne stava presso il porto; pare stia progettando un viaggio di commercio. Parta pure quel maledetto e lasci sguarnito il suo palazzo, così potremo agire indisturbati e riavvicinare la nostra Zoe; che ne pensate?»

Alessio ritornò a guardare i tetti di Palermo. Una lacrima incontrollata si perse nella sua barba grigia ed un’altra bagnò i palmi delle sue mani… quelle mani che adesso mostrava a sé stesso con rammarico. Non era necessario cercare altre rispose: dal momento che Giordano di Rossavilla era gravemente malato e allettato da parecchio tempo, era chiaro che Mattia si fosse inventato tutto. L’eunuco non aveva mai incontrato Zoe… anzi non l’aveva mai vista! Mattia si era approfittato di Alessio e del suo desiderio di famiglia. Aveva sfruttato il maestro d’arte facendo leva sul suo onore, su quel senso morale mostrato nei confronti della donna che un tempo aveva amato, nei confronti del risultato di quell’amore, nei confronti della sua astratta responsabilità di padre e nei confronti di Dio.

Con la coda dell’occhio Alessio fissò Mattia, dunque pensò di gettarlo oltre la balaustra della loggia e di fargli pagare tutti i suoi torti in un attimo. Poi rifletté che un eunuco morto potesse già bastare… E poi, Zoe non era il frutto di un’invenzione, Zoe era reale! Giordano non aveva mai smentito la sua esistenza…

O forse, e a questa conclusione Alessio quasi non cadde di sotto… forse anche Giordano di Rossavilla era stato al suo gioco, con lo scopo di immischiarlo nella morte del giudeo messinese in modo da togliere ogni possibile sospetto su di lui, vero artefice di quel misfatto. Sì, Giordano e Mattia avevano fatto leva sulla sua ligia onestà per servirsene a loro arbitrio. Il primo l’aveva usato come capro espiatorio, il secondo come esecutore materiale dei suoi intrighi.

Un peso mai avvertito in precedenza piombò sulle spalle di Alessio, il senso di colpa e la dannazione per quella vita spezzata appena qualche ora prima. Più in basso, proprio nello stomaco, cominciava a configurarsi la delusione per quella speranza, la voglia di sentirsi parte di una famiglia, adesso irrealizzabile. Certamente quella donna in fin di vita si era inventato tutto, forse per vendicare l’abbandono di molti anni prima, e aveva tirato in ballo l’unico nome di un nobile siciliano che ricordava, quello di Giordano di Rossavilla.

Così Alessio trovava le risposte che cercava interpretando i segni inviati da Dio. Con rammarico comprendeva che avrebbe dovuto farsi frate e ritirarsi in contemplazione, poiché andando in direzione opposta alla sua vocazione era finito in balia dei capricci del Diavolo.

La sera, dopo aver finto per tutto il giorno che non fosse successo nulla, trattenne Onesimo oltre l’orario di lavoro. E dunque, quando il più giovane si accorse della sua inquietudine, Alessio gli afferrò un braccio e lo supplicò:

«Ragazzo, devi confessarmi!»

Il disagio nato da quella richiesta scomparve quando Alessio ammise:

«So benissimo che non è nelle tue facoltà la possibilità di impartire questo sacramento, ma sei l’unico amico che mi rimane.»

Perciò cominciò:

«Ho ucciso un uomo… un uomo innocente…»

«Allora è vero quel che si dice di voi!» esclamò stupefatto Onesimo, il quale l’aveva sempre creduto incolpevole.

«Ti stupirai sapendo che nel mio caso ho ricevuto la sentenza prima di compiere il reato…»

Sconvolto oltre ogni dire e profondamente turbato, Onesimo fece fatica a giudicare l’anima redenta oltre la carne peccaminosa che aveva davanti. Alla fine seppe solo dire:

«Vi assolva Dio che scruta i cuori.» e con una scusa si accomiatò dal suo mentore, deluso da quell’uomo che finora aveva aiutato senza riserve.

A questo punto, ancora frastornato e senza nessuna voglia di vivere, Alessio non era più sicuro nemmeno della genuinità del proprio cuore. Credette di sentirsi in tutto e per tutto come si sente un malvagio.

L’esperto maestro d’arte d’altro canto faceva parte di quel tipo di uomini che dopo il peccato e l’errore cercano in tutti i modi di rimediare – la ricerca di Zoe, dopo tanti anni dai suoi sbagli di gioventù lo dimostrava pienamente – e adesso avrebbe rimediato pure all’ultimo atroce peccato se avesse potuto. Essendo tuttavia la vita qualcosa di esclusiva competenza divina, l’uomo non può ridare ciò che toglie.

Alessio aveva abbozzato sulla calce del supporto i soggetti che avrebbe dovuto realizzare in mosaico. Si trattava di alberi esotici e palme, di animali reali e fantastici: leoni, pavoni, cervi e leopardi, ma anche grifoni e centauri. Quella sera, alla luce tremula della candela, mentre se ne stava disteso sul suo giaciglio, li vide prendere vita. Quello che sarebbe dovuto diventare il Paradiso che il Re tanto desiderava adesso si manifestava nella sua mente come l’Inferno. Alessio si addormentò fissando quelle figure, e pochi minuti più tardi quelle bestie gli sbranavano le carni e lo dilaniavano. Uno dei pavoni disegnati con tanta precisione sul muro adesso gli beccava il cuore. Alessio si svegliò di soprassalto e per quella notte ebbe timore a riaddormentarsi, sicuro che nel sonno i demoni della sua mente si sarebbero destati nuovamente per molestarlo.

L’indomani Onesimo non si presentò e questo tormentò Alessio non meno degli inquietanti sogni della notte appena trascorsa. Rimuginò per tutto il giorno su quanto inutile fosse diventata la sua vita e concluse che dopo il tramonto, quando se ne sarebbero andati tutti, si sarebbe lanciato dalla loggia. Nondimeno, quando i manovali lasciarono la sala, Mattia si presentò tutto intristito. Alessio sorrise… ora lo sfiorava una malsana idea: avrebbe reso un bene al mondo tirandoselo dietro giù dalla balaustra.

«Che avete, mio Signore?» chiese l’abile artista, questa volta recitando.

Alessio boicottava la sua onestà in luogo dell’ipocrisia di chi si spaccia falsamente amico.

«Una nuova minaccia incombe sulla nostra causa!»

«Credevo che il gaito Luca fosse l’ultimo pericolo.»

«Qualcuno vi ha visto allontanare dalla locanda.»

«Vi riferite al tizio che ha provato ad ammazzarmi?»

«No, non a quello… a quanto pare il gaito Luca se ne stava da solo quando venne ritrovato. Chiunque fosse colui che vi ha attaccato aveva buone ragioni per dileguarsi prima che qualcuno chiamasse le guardie.»

Qualcos’altro non quadrava in quella storia. Il nobiluomo che l’aveva aggredito si era volatilizzato nel nulla, probabilmente perché, così come diceva Mattia, lì non doveva esserci. Si trattava forse di un ricercato? Alessio non lo sapeva né poteva chiedere in giro. Tuttavia, riflettendoci, qualche elemento in più per capire la questione ce l’aveva. Il gaito Luca, in preda al terrore, aveva gridato: «Mia Signora, ci attaccano!». C’entrava una donna quindi; ma chi? E perché in luogo di una donna era venuto giù un uomo? Si trattava forse di amanti… una relazione illegittima che il gaito Luca stava proteggendo? Alessio suppose molte cose in pochi minuti.

«Le guardie si mobilitarono non molto dopo; chi diede l’allarme?» chiese ancora il maestro d’arte.

«Vittore!»

«Un uomo con pochi anni meno di me…» descrisse Alessio, credendo ancora che quello fosse il nome della persona che l’aveva assalito.

«No, Vittore è una persona giovane.»

«Non c’era nessun giovane quella notte, né dentro né fuori la locanda.»

«Le case di Palermo hanno gli occhi, Mastro Alessio! Vittore, il venditore di conchiglie, vi ha visto, anzi ha visto entrambi… a voi uscire dalla locanda e a me starmene ad aspettarvi lì vicino. Essendo che mi ha riconosciuto quale eunuco del Re, ha bazzicato attorno al Palazzo per due giorni. Stamattina mi ha ritrovato, proprio mentre mi recavo dalla vostra Zoe… e sapete cosa mi ha detto?»

«Cosa?»

«Che avrebbe saputo indicare me e voi ad un processo. Quindi mi ha chiesto del denaro per il suo silenzio… molto denaro.»

«Dategli quanto chiede e mettetelo a tacere!»

«Non dispongo di quella cifra; forse voi sì?»

«Vi risparmio pure di riferirmi l’entità della cifra… sapete benissimo che ho perso tutto.»

«Dunque dovremo agire come l’ultima volta, rapidi e incisivi.»

«I manovali affidati al mio comando mi hanno riferito giusto stamattina che l’Ammiraglio del Regno, tale Majone, sta rivoltando la città da cima a fondo, intenzionato a prendere l’assassino del gaito Luca.»

«Sciocchezze! Neppure il Re si è scomodato a rientrare a Palermo dopo il misfatto.»

«Che il vostro sovrano sia molle e disinteressato è cosa risaputa… e che deleghi il suo ministro anche.»

Mattia sorrise e rispose:

«Avete capito tutto di questo Regno pur standovene tra quattro mura!»

«Perciò prendete tempo con chi vi ricatta e aspettate che le acque si calmino.»

«Abbiamo tempo fino all’11 del mese e poi parlerà.»

Alessio ci pensò un attimo. Con molta probabilità Mattia ne stava inventando un’altra con lo scopo di indurlo ad eliminare i suoi nemici. D’altro canto, se fosse stato vero, Alessio sarebbe andato incontro ad una morte certa… né più e né meno quello che era previsto comunque per lui. Cosa cambiava nella sua condizione? Nulla… se non altro che se quel Vittore avesse parlato, lui avrebbe pagato con la giusta pena il suo peccato. Si prospettava quindi la possibilità di scontare le sue colpe e di far cadere la responsabilità pure sull’eunuco Mattia, vera mente e vero manovratore del delitto. Alessio decise quindi che non avrebbe mosso un dito e che sarebbe andato incontro al suo destino.

«L’11 è fra due giorni!» esclamò il recluso tra i due.

«Capite perciò che non c’è tempo da perdere!»

«Domani, ma non stanotte, non oggi che i ricordi del gaito Luca morente sono ancora vividi nella mia testa.»

Così, con una scusa, Alessio prendeva tempo. Avrebbe rimandato fino al termine dei suoi giorni, consapevole che in tale modo avrebbe messo fine al male, ed il male in questo caso era lui stesso.




Capitolo 7


Notte del 10 Novembre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus



Alessio sapeva che Mattia si sarebbe ripresentato nel corso della giornata del dieci per persuaderlo ad agire proprio quella notte, così pensava a quale scusa avrebbe dovuto addurre questa volta per esimersi da quel compito ingrato.

Durante la mattinata, in mezzo al suo intricato groviglio di pensieri, l’unico diversivo alla monotonia della quotidianità lo ebbe con la consegna di un cesto contenente alcune tessere dorate. Quelli erano i primi quadrelli che giungevano dalle officine dei mastri vetrai palermitani. Il maestro d’arte avrebbe dovuto adesso saggiarne la qualità e riportare la sua impressione al logotheta Basilio, patrocinatore dell’opera. Benché quelle tessere avessero perso su Alessio il loro precedente ascendente, questi non poté ignorare che si trattava di un prodotto ben fatto, degno del palazzo di un Re. Quindi, passato da poco mezzogiorno e congedati i manovali per il pranzo, venne fuori sulla loggia intento a valutare i riflessi che la lamina d’oro e la pasta vitrea che la ricopriva producevano alla luce del sole.

«Sarebbe davvero un peccato che a completare questo mosaico non foste voi.» esordì Mattia, giunto silenziosamente alle spalle di Alessio.

«Sarebbe un peccato per voi non vederlo finito.» rispose a tono l’artista, voltandosi.

«Dunque è chiaro che non possiamo aspettare oltre questo giorno.»

«Questa volta mandate qualcun altro, qualcuno il cui viso non getti sospetti. Vi ricordo che uno sconosciuto, probabilmente influente e sicuramente temibile, mi ha visto in faccia.»

L’eunuco Mattia si avvicinò, l’afferrò con vigore per le spalle e disse:

«Mastro Alessio, voi siete come un padre per me; di chi altri dovrei fidarmi?»

«Assoldate qualcuno che lo fa per mestiere.»

«Lo farò… sicuramente lo farò se vi rifiuterete di aiutarmi. Però, lasciatemelo dire: vi sottraete alla soluzione di un problema che riguarda anche voi… e questo mi delude.»

Alessio tornò a voltarsi verso il panorama. Se era vero quanto diceva Mattia, in qualunque caso quell’uomo sarebbe morto. Pensò che non passava molta differenza tra l’essere l’esecutore materiale di un delitto e permetterlo pur potendolo impedire. Forse poteva riscattare quella vita dalla morte e riequilibrare davanti a Dio il peso dei suoi meriti con quello dei suoi torti.

«Va bene, lo farò io!» esclamò d’impulso.

Mattia sorrise e l’abbracciò.

«Sapevo che non mi avreste deluso!»

«Informatemi quando ritenete che il momento sia propizio.»

Quel giorno, una volta rimasto solo, Alessio lo passò in preghiera e meditazione. Col cuore compunto e lo spirito contrito chiese a Dio di tener conto della buona azione che si accingeva a compiere in cambio dell’errore commesso poche sere prima. Ragionò che se quel giovane uomo, Vittore, fosse davvero un ricattatore, allora sarebbe andato incontro alla sua meritata fine portandosi dietro Mattia… Se invece ancora una volta quest’ultimo si era inventato tutto, allora avrebbe fatto all’eunuco lo sgarbo di salvare la vita al suo nemico.

A buio inoltrato Mattia e Alessio uscirono dal Palazzo e si diressero verso il porto. In una delle case sulla punta del Cassaro, in una delle abitazioni più modeste, oltre le mura e dirimpetto al bacino del porto, viveva Vittore, il presunto testimone dell’omicidio del gaito Luca. Quando giunsero nei pressi della piazza in cui le navi in entrata e in uscita pagano all’ufficiale reale il dazio sulle merci, si accorsero che tirava un forte vento di tramontana proveniente dal mare e dovettero ripararsi nei loro mantelli. Alessio si guardò intorno, l’ambiente non era certo quello della locanda… qui normalmente si muovevano brutti ceffi da porto e criminali; ringraziò il Cielo che quella notte il vento gelido spazzasse via anche la mala gente e i loro affari notturni.

Mattia dunque si fermò sull’ingresso della piazza e da qui indicò l’abitazione di Vittore.

«Eccola lì in fondo, tra le case dei pescatori. Vi basterà sfondare una finestra per essere dentro. Io vi aspetterò qui…»

«Perché dovrei penetrare in casa di quell’uomo con la violenza, col rischio di finire in una lotta in cui potrei avere la peggio? Dirò di essere venuto a consegnare quanto ha chiesto e poi rivelerò l’inganno a suo discapito.»

«No, non vi fidate di quell’uomo. Egli è più infido delle vipere!»

«È lui che non dovrebbe fidarsi di me. Non preoccupatevi.»

Alessio si diresse lentamente verso le case che danno sulla discesa per il mare, mentre Mattia lo supplicava ancora di starlo ad ascoltare circa il metodo migliore per risolvere la questione. Dopo nemmeno un minuto Alessio era ormai troppo lontano per avvertire la voce dell’altro e il fischio del vento nelle sue orecchie copriva ogni raccomandazione. Attraversò quindi la piazza e giunse davanti alla porta dell’uomo da colpire. Dopo qualche secondo da uno spiraglio si affacciò un’anziana donna con gli occhi semichiusi e la capigliatura scompigliata; dietro di essa si potevano intravedere almeno tre uomini. Anche se Alessio avesse avuto cattive intenzioni, con molta probabilità non ne sarebbe uscito vivo.

«Vittore.» disse spaesato e con un filo di voce.

Si fece allora avanti un giovane uomo dall’aspetto forzuto.

«Chi siete?»

Chiaramente, se quello era Vittore, quel “chi siete” la diceva lunga sulle menzogne di Mattia, in quanto il presunto ricattatore avrebbe dovuto riconoscere l’assassino dell’eunuco del Re. Alessio tirò un sospiro di sollievo e raccolse tutta la sua determinazione per fare quel torto a Mattia.

«Parlate greco?» chiese il maestro d’arte.

«Sono un pescatore e un commerciante, non esiste lingua di questa terra che io non comprenda e parli.» rispose l’altro.

«Vittore, il venditore di conchiglie, siete voi?»

«Forse lo sono, o forse no, dipende da chi siete voi.»

«I vostri nemici progettano il male per colpirvi… sono venuto a dirvelo.»

«Chi vi manda?»

«Io sono il tramite di quel progetto che ha come risultato la vostra morte. Tuttavia non avete nulla da temere, poiché intendo fare uno sgarbo al mio mandante e risparmiarvi.»

E quello, con impareggiabile calma e perfino un filo di sbruffonaggine, ripeté:

«Perciò vi chiedo chi vi manda.»

«Mattia… vi dice qualcosa questo nome?»

Vittore sorrise; quel nome gli evocava una strana ilarità.

«Quell’essere né uomo né donna mi aveva giurato che mi avrebbe scagliato contro l’intero esercito del Re, e invece mi manda solo voi… voi che, con tutto rispetto, non avete neppure la parvenza di un assassino. Ma non offendetevi, straniero, poiché se aveste avuto tali sembianze sareste già passato all’altro mondo. Nessuno tocca nessuno in questa piazza! Guardatevi attorno.»

Alessio si voltò: gruppi composti da quattro o cinque uomini stazionavano nel bel mezzo della piazza e fissavano nella direzione dell’intruso.

«Da dove sbucano?» domandò Alessio meravigliato.

«Sono sempre stati lì!»

Il maestro d’arte provò una forte sensazione di terrore, sudore freddo e fiato corto. Si trovava proprio nel covo degli scaricatori di porto e dei pescatori, i quali, tutti insieme, costituivano una sorta di corporazione per proteggersi dalle minacce esterne e dagli abusi perpetrati ai loro danni. Di Mattia, ovviamente, non vi era più neanche l’ombra,

«Mi dispiace dirvelo, ma questa notte eravate voi la vittima di quella maledetta volpe!» spiegò perciò Vittore.

Ad Alessio quasi non cedettero le gambe. Ancora una volta era stato così tanto stupido da cascarci. Mattia non aveva mentito quando aveva detto che quella notte l’unico testimone dell’uccisione del gaito Luca doveva morire… tuttavia era ora di comprendere che l’unico testimone, colui che sapeva troppo e che rappresentava quindi una minaccia per i suoi malvagi disegni, era proprio lui. D’altronde l’esperto mosaicista era stato già condannato a morte, e, non avendo niente da perdere, avrebbe potuto parlare circa l’assassinio del gaito Luca. Inoltre, Alessio era stato visto in viso da quel tizio che aveva provato a difendere la sua vittima, e perciò, se riconosciuto, avrebbe potuto fare il nome di Mattia. Ovviamente, essendo proprio questi il responsabile del prigioniero, l’eunuco doveva aver già preparato un alibi che lo discolpasse da una plausibile accusa di complicità riguardo a quella fuga.

«Vi ha mandato qui per farvi ammazzare. Che gli avete fatto?» aggiunse ancora Vittore, intanto che il suo interlocutore se ne stava ammutolito e sconvolto.

«Io… io…» ripeté stralunato Alessio.

Vittore, che ormai aveva spalancato la porta di casa sua, prese a ridere. Tutti gli altri, coloro che se ne stavano all’interno della casa e quelli sulla piazza, risposero scompisciandosi come dei bambini che trovano piacere nel loro gioco.

«Ma almeno siete venuto armato, poveruomo?» chiese il giovane pescatore per aumentare l’ironia.

«Armato di coraggio sicuro!» rispose uno dei presenti.

«Compari, poco scherzo, io voglio ringraziare quest’uomo a cui sono debitore della vita.» fece Vittore.

Dunque tirò fuori dalla tasca un ducale[26 - Ducale: moneta d’argento coniata dai Re normanni. Il ducale era uno scifato, ovvero una particolare moneta a forma di scodella. Per tale motivo nel Regno di Sicilia ducale e scifato erano ritenuti sinonimi.] di Re Guglielmo e lo mise in mano ad Alessio.

Tutti scoppiarono a ridere. Vittore sminuiva il gesto inusuale dell’altro ricambiandolo con una moneta di medio valore. Quello era il momento di andarsene, prima che l’umiliazione si trasformasse in qualcosa di più pericoloso.

«Vi ringrazio!» rispose Alessio, stringendo il pugno e la moneta, intimorito e abbassando il capo.

Quando nondimeno voltò le spalle per andarsene, Vittore gli tirò un calcio nel sedere, facendolo capitolare proprio nel bel mezzo del cerchio di persone.

«Dite a quel castrato di mandarmi qualcuno che valga più di una moneta d’argento. Se crede che mi sporchi le mani con un poveraccio, ha capito ben poco di me. Non sono un criminale, ma so difendermi da chi mi intralcia. Venga di persona quell’essere immondo, e lo ricompenserò a dovere!»

In quel momento una folata di vento fece volare via il cappuccio dalla testa di Alessio. Fu allora che uno dei presenti provò stupore nell’osservare i capelli e la barba grigia del maestro d’arte.

«Vittore, non ricalca costui la descrizione che ci ha fatto il capo della guardia?»

Il ragazzo osservò per bene lo straniero ed esclamò:

«Se non è lui poco ci manca!»

E fece agli altri segno di immobilizzarlo.

«A quanto ammonta la taglia?» domandò un altro ancora.

«Non c’è nessuna taglia, ma solo la promessa che Majone saprà ricompensare a dovere chi gli porterà l’assassino di quell’eunuco. È una sua questione personale!»

Alessio non comprendeva il volgare latino utilizzato da quegli uomini e dunque, vedendosi afferrare per le braccia, spiegò:

«Io sono un uomo di religione che è stato trattato come non merita… voi, giovane, ricambiate col male la mia onestà!»

«Voi siete senza dubbio un uomo probo, che come me si è fatto nemico un uomo del Re. Tuttavia, noi che viviamo dell’elemosina del mare siamo anche dei poveracci e dobbiamo guadagnarci da vivere. Questa notte un grosso pesce si è gettato di sua volontà dentro la rete; dovremmo lasciare andare questo regalo del Signore?» rispose Vittore.

«Non ci guadagnerete uno scifato… non valgo niente io!» urlò Alessio, recalcitrando mentre quelli lo esortavano a camminare.

«Questo lo stabilirà l’Ammiraglio.»

Da tutto ciò era evidente che il testimone della locanda, benché fosse rimasto nell’anonimato, avesse raccontato tutto all’autorità competente, e che quest’ultima si fosse rivolta pure ai civili e agli irregolari per raggiungere un rapido successo.

D’ogni modo, il primo ad essersi accorto che Alessio somigliava alla descrizione dell’assassino del gaito Luca, si parò davanti al catturato e fece riflettere:

«Da quando in qua facciamo i favori a Majone?»

«Quando vendi il tuo pesce, Mamiliano, ti curi di chi sia la mano che ti paga?» chiese Vittore.

«L’Ammiraglio è un uomo senza scrupoli, che non ha rispetto per la gente e né tanto meno per il Re.»

«Si lamenti Guglielmo allora. Se è vero, come si dice, che costui ha provato a soffiargli il trono, lo faccia esiliare… E se è vero, come si dice, che costui governi nel letto della Regina più del Re, allora lo faccia bruciare vivo sull’argine del fiume. Per quanto mi riguarda l’Ammiraglio ha dimostrato di avere a cuore più gli interessi dei commercianti e dei mercanti che quelli dei feudatari. Non è anche questo che i nobili gli rimproverano?»

«Guglielmo teme perfino il suo ministro, questa è la verità, e non è capace nemmeno di impedire che Majone gli rubi la moglie. Ricordo bene quando Ruggero condannò al rogo il suo Ammiraglio, quel Filippo di Mahdia che tramava segretamente con i maomettani d’Africa… Se Guglielmo fosse stato appena la metà di ciò che era suo padre avrebbe per lo meno fatto arrestare Majone, soprattutto dal momento che su di lui pendono accuse simili a quelle mosse contro il suo predecessore. Forte è giunto il grido dei cristiani di Mahdia, donne e bambini massacrati senza pietà dalla furia di quei cani infedeli! Ho scambiato due parole con un nobile di fuori città e lui mi ha detto che Majone ha abbandonato volutamente quella gente al proprio destino. Amici, credete a me, l’Ammiraglio è in combutta con i saraceni d’Africa e protegge gli eunuchi del Re, i quali tramano la rivolta per riconsegnarci agli emiri e ai califfi.» spiegò un altro tra i compari del porto.

«Questi argomenti lasciali al tuo nobile di fuori città; costui avrà sicuramente le giuste argomentazioni per difendersi. Tu invece sei un poveraccio… e i poveracci, caro Duccio, devono parlare da poveracci! Il nostro unico ideale è quello di riempirci le tasche.»

«Vittore, è un discorso da poveracci dire che costui seduce le nostre sorelle per toglier loro l’onore?» aggiunse sarcastico Mamiliano.

«Se qualcuno dei presenti ha una sorella disonorata da quel tale, lo dica adesso e lasceremo andare questo povero cristo.»

«Le giovani figlie dei nobili ribelli sconfitti… lo sanno tutti, Vittore… E poi c’è la storia della sorella del genovese…» stava per raccontare Mamiliano.

«Il genovese non è dei nostri!» lo interruppe Vittore.

«Il genovese fa parte della corporazione dei mercanti di stoffe. E riguardo alle figlie dei nobili, Mamiliano, so bene che sono storie vere; ma a noi cosa ce ne importa?» concluse infine.

Quel breve dibattito si chiudeva lì. In realtà menti più colte avrebbero potuto addurre accuse ben più concrete all’operato di Majone, ma persi tra il “non ci riguarda” e il “per sentito dire” decisero che avrebbero consegnato lo straniero all’Ammiraglio del Regno così da riscuotere la ricompensa.

«Dove mi portate?» chiese Alessio.

«Pare che Majone sia disposto a pagare per mettervi le mani addosso.» gli rispose Mamiliano, sin dall’inizio il meno propenso alla cosa.

Alessio, che aveva deciso di accettare quella missione per avere redente le sue colpe, che sarebbe stato disposto pure a morire per espiare il male che aveva commesso, adesso cominciava a provare nostalgia per la vita che stava per lasciare. Tuttavia, coerentemente alla sua prima decisione, non disse più nulla e con rassegnazione si fece condurre da quegli uomini sino alla tana del lupo.

Percorrendo l’ampia via Marmorea, incontrarono un paio di guardie della ronda. Uno di quei soldati corse subito verso la chiesa dove spesso si intratteneva a pregare Majone di Bari, per avvisarlo dell’avvenuta cattura. Ogni uomo in armi era stato infatti istruito che avrebbe dovuto condurre il ricercato direttamente al cospetto dell’Ammiraglio, ovunque egli si trovasse.

Non erano ancora giunti all’altezza dell’incrocio da cui si imbocca la via per la chiesa edificata da Majone – guarda caso costruita proprio accanto a quella di Giorgio d’Antiochia, il suo più illustre predecessore – che videro arrivare la guardia inviata prima.

«Al palazzo dell’Arcivescovo, presto!»

Ripresero perciò a percorrere la strada principale che divide il Cassaro, in direzione del Palazzo Reale.

Dopo un po’ passarono sotto l’abitazione di Giordano di Rossavilla e Alessio non poté fare a meno di pensare a come tutto fosse cominciato con l’inganno di quell’uomo e con l’illusione di ritrovare Zoe. Questa volta tutto taceva e Alessio sperò che il suo nobile rivale lo seguisse nella morte quella stessa notte, non riprendendosi mai più dalla sua malattia.

Giunti sulla piazza della Cattedrale svoltarono a destra, e qui, proprio sull’incrocio, aspettarono che la guardia entrasse nel palazzo dell’Arcivescovo, sito sul retro della grande chiesa, per avvertire l’Ammiraglio. Venne quindi fuori Majone, il quale, tutto concitato, si avvicinò agli uomini che tenevano in custodia Alessio. Vittore e Mamiliano trattenevano ancora il prigioniero per le braccia quando l’Ammiraglio lo prese per il mento e lo indusse a guardarlo negli occhi. Sorprendentemente, lo stupore colse Alessio più di Majone. Adesso il maestro d’arte era sicuro che sarebbe morto e probabilmente anche quella stessa notte. Ecco infatti svelata l’identità dell’uomo che lo aveva aggredito alla locanda!

La notte in cui era stato ucciso il gaito Luca, Majone si trovava al piano superiore di quello stesso edificio ed era in compagnia di una donna, presumibilmente della stessa signora affidata alla cura dell’eunuco, ovvero la Regina. L’Ammiraglio temeva la testimonianza di Alessio più di quanto Alessio temesse la testimonianza dell’Ammiraglio. Le voci sulla tresca tra il primo uomo del Re e la Regina erano diffuse in tutto il Regno, ma, di fronte ad una prova del genere, per certo neanche l’indolente Guglielmo sarebbe rimasto indifferente.

Alessio strizzò gli occhi e spalancò la bocca per la meraviglia di quell’incontro. Majone invece incattivì lo sguardò e digrignò i denti.

«Che questa bestia non viva oltre questo momento!» sentenziò, indicando in tal modo alle sue guardie quale fosse il prossimo ordine da portare a termine.

Strapparono dunque Alessio dalle mani di Vittore e lo condussero per altri luoghi. Lo sfortunato artista passò ora dinanzi all’ingresso del palazzo dell’Arcivescovo e qui, vedendo stazionare sulla strada tutto il seguito dell’Ammiraglio e credendo che questi avessero a che fare con Ugone, il prelato a capo di Palermo, supplicò:

«Signori, vi prego, lasciatemi parlare col Vescovo; sono anch’io un uomo di religione!»

Quelli lo fissarono con apparente indifferenza e tornarono a guardare davanti a sé, verso Majone. Intanto alle spalle di questi si udiva il rumore delle sbarre che la servitù stava mettendo alle porte del palazzo, richiudendo l’ingresso con un’inconsueta premura.

Alessio, che di fronte alla morte non voleva più morire, puntò i piedi sui basoli della strada e gridò:

«In nome di Dio, aiutatemi!»

«Non date peso a quel greco!» urlò Majone, rivolgendosi ai suoi sulla porta e preoccupato che il condannato ne dicesse una di troppo.

Adesso Alessio si concentrò sulla lama della spada che già una delle guardie aveva sguainato. Pensò che morire trafitto fosse meno doloroso e infamante che morire impiccato. Ora si attaccava a quest’unica consolazione, mentre uno dei due soldati indicava all’altro l’imbocco di una stradina, lì dove il condannato sarebbe stato ucciso.

«Signore, che la morte copra i miei peccati non redenti!» esclamò il maestro d’arte, guardando il cielo.

E poi, rivolgendosi alle guardie, pregò:

«Vi chiedo solo di avere una sepoltura…»

Ma quelli, saraceni di lingua araba, non compresero nulla, né le parole di Alessio né che da quella notte, quella del 10 novembre 1160, tutto sarebbe cambiato.




PARTE II – LA MANO DI MALACHITE





Capitolo 8


1156 (551 dall’egira) Balermus e dintorni



La folla si stringeva compatta attorno alla scena, senza dir parola e senza commentare. In molti erano infatti i saraceni che osservavano silenziosi, oltre le spalle delle guardie reali, oltre quella coltre di fumo che si innalzava al cielo congiuntamente alle loro preghiere. Sulla sponda sinistra della foce del wādī al-‘Abbās[27 - Wādī al-‘Abbās: nome del fiume Oreto durante il periodo arabo.], appena fuori dalle mura della città, quel giorno del 1156 il boia aveva appiccato un fuoco che non sarebbe durato fino a sera… ma che tuttavia avrebbe continuato ad ardere per anni nel cuore di Amjad.

Per ogni giovane islamico non esiste ricordo d’infanzia più importante del khitān[28 - Khitān: circoncisione rituale islamica.], e per Amjad, che immaginava la circoncisione come una sorta di festa in suo onore, quel giorno della sua fanciullezza sarebbe stato ancor più cruciale.

Suo padre era appena morto in battaglia mentre combatteva nell’esercito di Re Ruggero contro l’Imperatore d’Occidente. Sua madre se n’era andata poco dopo, dando alla luce la piccola Naila. E così Amjad e Naila erano finiti nelle mani dello zio, un uomo tanto povero quanto spietato. Questi, dichiarando di non poter togliere il pane dalla bocca dei figli per darlo agli estranei, aveva infatti deciso che avrebbe coperto le spese per crescere la piccola Naila con i proventi derivati dalla vendita di Amjad. L’aveva dato ad un mercante e questi, valutando che il bambino era bello, fine e dalla voce aggraziata, l’aveva rivenduto agli agenti del Palazzo del Re. Ed ecco arrivare quel giorno, quando all’età di nove anni era stato convocato per il khitān. Amjad non poteva saperlo, ma, in luogo del suo prepuzio, i medici di corte stavano per rimuovere ciò che gli avrebbe impedito d’ora in poi di essere considerato un uomo. Amjad era stato evirato, sfregiato nella sua virilità, affinché potesse comparire nelle stanze private dell’harem. In seguito, poche settimane dopo, aveva subito anche il battesimo, ricevendo un nuovo nome: Mattia, come l’apostolo chiamato a sostituire il traditore di Cristo.

Per un ragazzino di nove anni la vita di corte, con i suoi sfarzi e la sua opulenza, esercitava sicuramente un fascino irresistibile. Quando Amjad accarezzò le sue morbide vesti di seta, quando assaggiò la prelibatezza dei cibi del Re, quando si ritrovò a maneggiare l’oro e i gioielli destinati alle concubine, si convinse che la sua vita fosse migliorata.

Verso i quindici anni cominciò ad attirare le attenzioni degli uomini che gravitavano attorno alla figura del Re. I suoi modi raffinati e la sua pelle liscia costituivano una sfiziosa deviazione rispetto alle usuali donne di malcostume. Così Amjad crebbe in fama e potere, e ben presto, poco più che ventenne, giunse nelle camere della nuova principessa, una ragazza sedicenne di nome Margherita, proveniente dalla Navarra e data in moglie all’erede Guglielmo. Di Margherita ne divenne presto il confidente e, quando lei venne incoronata Regina, rifulse parte di quella gloria divenendo uno degli eunuchi più potenti e vicini al Re. Per Amjad, tuttavia, esisteva pure un’altra donna, una che in cuor suo destava quel sentimento d’amore che per forza di cose non poteva essere accompagnato dalla passione. E proprio perché Amjad non sapeva cosa fosse la passione per una donna, proprio perché non aveva altro a cui attaccarsi se non all’affetto di sangue, che cominciò a legarsi morbosamente alla sua giovane sorella. La tolse dalle grinfie dello zio, il quale per certo l’avrebbe venduta una volta raggiunta l’età più conveniente, e la fece trasferire in un ricco appartamento del Cassaro, nel cuore di Palermo. Diede così a Naila comodità, servitrici e opportunità come mai lei avrebbe potuto avere. Inoltre, recarsi settimanalmente in casa della sorella divenne per lui più che una ragione di vita. Amjad amava Naila e quasi ne idolatrava la bellezza; mai e poi mai avrebbe permesso a qualcuno di sfiorarla.

Se da un lato Amjad aveva dato il suo cuore a Naila, dall’altro aveva riservato la passione agli uomini. Ne esistevano molti nella vita dell’eunuco, ma non con tutti aveva voluto abbandonarsi ai vizi della carne, dal momento che, se l’avesse fatto, quello strumento del potere che era il letto, si sarebbe trasformato in un semplice oggetto di piacere privo di scopo. E così, diventato più potente di molti degli uomini del Re che avevano favorito la sua scalata, adesso si sarebbe dato solo a chi avrebbe potuto renderlo influente anche al di fuori del Palazzo, così che la propria ascesa superasse il limite imposto dall’esclusività della corte.

L’occasione sembrò presentarsi quando a Palermo giunse da Sfax[29 - Sfax: città costiera dell’Ifrīqiya (Africa), ubicata nell’attuale Tunisia e chiamata in arabo Safaqīs.] un certo saraceno, un uomo ormai di una certa età che per brevità venne appellato col nome di Forriāni. Costui aveva ricevuto la nomina di ‘amil[30 - ‘Amil: letteralmente “agente”. Incaricato governativo che riscuoteva la jizya e le altre tasse.] della sua città dal Re di Sicilia, ma, dichiarandosi con umiltà troppo vecchio per governare, aveva passato le redini al figlio. Si era dunque recato a Palermo come ostaggio a garanzia dalla fedeltà del suo luogotenente ed erede. Forriāni era ovviamente un uomo potente e riverito in tutta l’Africa siciliana, e farselo amico avrebbe significato avere una base sull’altra sponda del Mediterraneo, così da provare ad approntare un qualche affare commerciale privato. Essendo comunque costui anche un uomo religioso, ligio e scrupoloso dell’ortodossia coranica, Amjad comprese presto che i metodi che gli erano tanto cari non avrebbero funzionato. Nacque tuttavia un’amicizia, un sodalizio in cui Forriāni parve interessato a voler strappare Amjad dal peccato, dall’avidità e dalla fede cristiana. L’‘amil di Sfax era una persona carismatica e persuasiva, e così, molto presto, riuscì a redimere Amjad dal peccato e a ridestare in lui i precetti religiosi d’infanzia. Fece leva in modo particolare sul sopito sentimento d’identità razziale del giovane, quel suo essere saraceno che era stato cancellato con una banale e imposta aspersione d’acqua sul capo. Inoltre lo fece riflettere sul fatto che fare gli interessi dei saraceni avrebbe significato favorire la sua amata Naila, in quanto lei non aveva mai smesso di far parte della stirpe dei mori di Sicilia. E così, alla fine, guidato nei gesti e nelle parole da Forriāni, nascosti nelle stanze dell’ospite, Amjad tornò ad inchinarsi verso La Mecca e a recitare la shahādah[31 - Shahādah: testimonianza di fede islamica che corrisponde alle parole “Testimonio che non c’è divinità se non Allah e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero”.]. Il giovane eunuco riscopriva in tal modo di avere un Dio e si attaccava sempre di più ad un padre; tale divenne Forriāni per lui.

Sennonché, giunto il 1156, Omar, figlio e sostituto dell’‘amil di Sfax, volle ribellarsi al giogo di Guglielmo, e come gesto emblematico di tale decisione fece massacrare i cristiani della città, non risparmiandone neppure uno.

La notizia giunse rapida a Palermo, così come rapida fu la convocazione a corte del garante di Omar… ovvero suo padre… ovvero Forriāni.

Fu allora che Amjad, immaginando quali sviluppi si sarebbero potuti configurare per il suo mentore e padre spirituale, volle incontrarlo prima che comparisse davanti a Guglielmo.

Forriāni se ne stava presso uno dei giardini del Re, in quel Palazzo della Favara[32 - Favara: palazzo reale in stile islamico, fatto edificare dall’emiro Ja’far e riadattato da Re Ruggero. Il suo nome risale all’arabo “Fawwara”, che significa “fonte che ribolle”. Oggi è conosciuto anche come castello di Maredolce ed è ubicato ai piedi del monte Grifone, ad est dell’antico nucleo di Palermo. Era ritenuto una delle residenze più raffinate dei sovrani normanni e i suoi giardini erano famosi per bellezza e splendore.] tanto caro agli Altavilla. Qui rimaneva sorvegliato a vista, benché a distanza, dalle guardie reali. Fissava da un’ora il cielo e l’orizzonte, perso sotto un palmeto e andando e venendo con le mani dietro la schiena.

«Mio padre e amico, dimmi che le notizie che giungono da Safāqis sono mendaci.» esordì Amjad, tutto concitato e preoccupato.

«È tutto vero, fratello mio.»

«Che la slealtà di tuo figlio perisca con lui!»

«No, Amjad, no… Omar mi condanna a morte, è vero, ma consacra la mia e la sua anima ad Allah.»

«Maestro, tu parli dell’opera di tuo figlio come del più eccelso degli atti che un credente debba compiere.»

«È così, Amjad. Credi che per Omar sia facile sapere che suo padre è come se fosse già morto?»

«Se ha fatto quel che ha fatto è perché egli non si cura dell’uomo che l’ha concepito…»

Forriāni riprese a camminare e, portando uno strano sorriso sul viso, cominciò a spiegare:

«Potrebbe mai un padre sacrificare un suo figliolo?»

«No, Maestro.»

«E potrebbe mai un figlio sacrificare suo padre?»

«Se io fossi stato tuo figlio non l’avrei mai fatto.»

«Ma se io te l’avessi chiesto, Amjad… se ti avessi fatto giurare per il sangue che ci lega di non curarti di me e di agire per il bene dell’Islam?»

«No, Maestro, io non l’avrei fatto.»

Forriāni si fermò e, mettendo le mani sulle spalle del suo giovane amico, gli disse:

«Hai ancora tanto da imparare, Amjad caro… Non esiste opera più meritoria del martirio, e per Omar questo dono è il bene più grande che potesse farmi.»

Dunque Amjad capì l’essenza di quel discorso.

«Hai chiesto a tuo figlio di ribellarsi al Re e di non curarsi di te?»

«Glielo feci giurare prima di partire.»

«Al cuore di tuo figlio è stato legato il peggior fardello che un uomo possa sopportare!»

«Ho addestrato bene il mio ragazzo e per lui sarebbe un fardello maggiore dover portare il disonore per aver disubbidito alla mia parola.»

«Quanto coraggio, Maestro mio!»

«Intollerabili sono le voci che giungono dall’Ifrīqiya[33 - Ifrīqiya: regione corrispondente all’attuale Tunisia e ad alcune parti dell’Algeria e della Libia. Letteralmente “Africa”, essendo il termine derivato da ciò che i romani e poi i bizantini definivano Africa (provincia d’Africa).]. I contingenti cristiani del Re di Sicilia non mostrano alcun rispetto per la razza nostra, e numerose sono le voci delle angherie e dei soprusi che sono costretti a subire le donne e i bambini delle città sulla costa. Come potremmo continuare a lavare le nostre mani con l’acqua della purificazione se intanto la nostra coscienza è sporca dei patti conclusi con questi infedeli? Come potremmo continuare ad inchinarci per la ṣalāt[34 - Ṣalāt: la preghiera canonica islamica, recitata obbligatoriamente dai musulmani osservanti cinque volte al giorno ed anticipata dall’adhān (il richiamo alla preghiera) del muezzin.] se intanto abbassiamo il capo di fronte a questi miscredenti? Non possiamo permettere che la condizione dei nostri fratelli divenga come quella dei credenti di Sicilia. Palermo è ancora piena di minareti, è vero… e si ode ancora il canto del muezzin; ma a quale prezzo? Ho conosciuto un fratello proveniente dalle campagne… questi piangeva mentre mi narrava di come i suoi figli siano stati pronti a rinnegarlo pur di abbracciare la religione dei cristiani, una fede ben più conveniente e rimunerativa da queste parti. I re di Sicilia sviano i fedeli con il fascino dell’oro, ma nei villaggi i baroni non mostrano sempre la stessa condiscendenza; pur di non incorrere nello svantaggio sociale si preferisce allora l’abiura della retta via. È giunto il momento, Amjad, e così ho pure mandato a dire ad Omar.»

L’eunuco della Regina prese a piangere, commosso da tanto coraggio e col cuore spezzato per via della sicura condanna a morte del suo mentore.

Più tardi Guglielmo chiese a Forriāni di richiamare all’ordine il figlio, ma, com’è facile immaginare, l’anziano ‘amil negò l’intromissione. L’ostaggio, un tempo consegnatosi volontariamente come prigioniero, venne quindi rinchiuso e messo ai ceppi.

Dato che Forriāni dimostrava di non tenere per nulla alla sua vita, Gugliemo pensò allora che le armi potevano ancora essere evitate facendo leva sull’amore che un figlio dovrebbe nutrire per suo padre. Non era certo l’impressione del sangue che una guerra comporta a far tentare l’ultima a Guglielmo, ma il costo di un nuovo conflitto, qualcosa che in quel momento non poteva permettersi, impegnato com’era in Terraferma a sedare la rivolta dei baroni ribelli e a respingere la coalizione del papa e dell’Imperatore d’Oriente. In barba quindi alla giustizia di cui erano meritevoli le vittime cristiane mietute dal nuovo carnefice saraceno, Guglielmo mandò un messaggero fino a Sfax, recando minacce come ricompensa alla disubbidienza e promesse come premio ad un nuovo giuramento di sottomissione. Ma Omar, avendo già informato gli amici del padre che la volontà di questi era il martirio, ne organizzò il funerale, sorreggendo una bara vuota e mettendola in bella mostra sulla spiaggia, affinché il messaggero dei siciliani sulla barca potesse recepire una risposta esplicita.

Fu così che al ritorno dell’inviato del Re a Palermo, Guglielmo decise di attuare la punizione per colui, che a suo discapito, aveva deciso di tradire i giuramenti. E fu così che ebbe luogo l’esecuzione descritta poc'anzi, quel rogo che Amjad contemplò con orgoglio e con la promessa che la causa dei saraceni di Sicilia sarebbe stata onorata fino alla fine, così come Omar stava onorando quella dei credenti d’Africa.




Capitolo 9


Inverno 1159/1160 (554 dall’egira) Balermus



Nel giro di pochi anni tutte le città d’Africa appartenute ai siciliani finirono per ribellarsi. A Sfax seguirono Gerba[35 - Gerba: isola dell’Ifrīqiya, oggi ubicata nella Tunisia meridionale.], Tripoli d’Occidente[36 - Tripoli: in arabo Ṭarābulus. Città storica dell’Ifrīqiya ed attuale capitale della Libia. Chiamata anche Tripoli al-Gharb o Tripoli d’Occidente per differenziarla dall’omonima città libanese.] e molte altre. All’ingresso del 1159, di quell’impero che era stato il simbolo della grandezza di Ruggero, rimaneva solo Mahdia[37 - Mahdia: città costiera dell’Ifrīqiya, ubicata nell’attuale Tunisia. Antica capitale della dinastia ziride, chiamata in arabo Mahdiyya.]. Tuttavia né Omar di Sfax, figlio di Forriāni, né gli altri capi locali che si erano scossi di dosso l’ingombrante giogo dei cristiani, riuscirono a mantenere a lungo il loro potere. Se alcuni di questi infatti furono in grado di resistere al contrattacco dei siciliani, non poterono nulla contro Abd al-Mu’min, califfo degli almohadi[38 - Almohadi: dinastia berbera di religione musulmana che dominò il Maghreb e la Spagna dal XII al XIII secolo.]. Questi giunse dall’Andadus[39 - Andalus: nome con cui gli arabi chiamavano la Spagna musulmana. Il termine si è conservato nel nome della regione più a sud della penisola iberica.] e dal Maghrib[40 - Maghrib: in arabo letteralmente “occidente”. Oggi il termine indica tutta la metà del Nordafrica occidentale, ma nella lingua araba si intende in senso stretto il Marocco.] per sottomettere tutto ciò che gli capitasse a tiro, e nella seconda metà del 1159 cinse d’assedio la fortezza di Mahdia, presso la quale si rifugiavano i cristiani e quei saraceni che gli erano avversi.

Benché il presidio cristiano fosse sotto ogni aspetto in svantaggio rispetto agli almohadi, esso poteva contare sulle formidabili difese della città e sul valore dei soldati, il fior fiore degli uomini in armi del Regno. Abd al-Mu’min, accompagnato da Hasan, l’emiro ziride[41 - Ziridi: dinastia berbera di religione musulmana che dominò l’Ifrīqiya dal X al XII secolo.] di Mahdia cacciato da Ruggero anni prima, circondò allora per mare e per terra la penisola su cui sorge la città. Era una questione di tempo e presto la fame sarebbe sopraggiunta, piegando pure i più abili ed irriducibili soldati siciliani. La richiesta d’aiuto partì veloce per la corte di Palermo, ma la flotta di Guglielmo fu avvistata solo dopo molti giorni.

Il naviglio cristiano era numeroso, esperto e potente; perfino Costantinopoli aveva dovuto chinare il capo di fronte alle galee siciliane. Comandava la flotta un certo gaito – così come ormai venivano chiamati i capi, o per dirla all’arabesca i qā’id – di nome Pietro. Questi era un eunuco saraceno convertito al Cristo per avidità e convenienza, e asceso al ruolo di comandante.

Guardando la fila di centocinquanta galee giungere dall’orizzonte, perfino Abd al-Mu’min, la cui fede lo portava sempre a valutare l’impossibile, ammise che sul mare non vi fosse speranza alcuna di battere i siciliani. Il califfo fece perciò schierare sulla spiaggia l’esercito e si preparò ad un prossimo sbarco. Quel giorno, tuttavia, pure il vento gridava Allahu Akbar[42 - Allahu Akbar: letteralmente “Dio è il più grande”. Si tratta di un’espressione araba comune nel mondo islamico e presente nel Corano, nel ṣalāt e nell’adhān.], soffiando avverso ai cristiani. E così, quando i saraceni si accorsero della difficoltà con cui i siciliani arrancavano controvento, saltarono a bordo e ingaggiarono lo scontro. Dopo non molto il gaito Pietro se ne tornava con la coda fra le gambe, avendo tremato innanzi alla marea umana dei soldati sulla spiaggia, avendo perso alcune imbarcazioni, volendo preservare il resto della flotta, e forse – e di questo l’avrebbero accusato in patria – non volendo combattere contro un così glorioso servitore di Allah… Dio degli almohadi e segretamente Dio suo.

Abd al-Mu’min sapeva che la flotta di Guglielmo sarebbe tornata. Adesso, però, tentennava a dare il colpo di grazia sul presidio, temendo che se avesse compiuto un massacro su quei cristiani, avrebbe innescato la vendetta della corte di Palermo, la quale probabilmente si sarebbe rivalsa sugli stessi mori di Sicilia. Poi, inaspettatamente, giunse tra le sue mani una missiva… ed allora gli fu chiaro cosa fare.

A Palermo, Amjad si adoperava per la sconfitta del suo signore, e come la più abile delle spie e il più spregiudicato dei traditori, si muoveva nell’ombra per favorire in tutto e per tutto Abd al-Mu’min. Egli, essendo il confidente della Regina, poteva usufruire di un canale privilegiato dal quale recepire le informazioni più sensibili. Non che la Regina presenziasse alle sedute della Curia Reale[43 - Magna Curia: organo centrale dell’amministrazione pubblica nel Regno di Sicilia.], ma presenziava allo stesso letto di Majone e da lui poteva sapere molte cose.

Un giorno Margherita di Navarra, guardando il suo amante rivestirsi e avendo nelle orecchie i racconti di terrore che giungevano da Mahdia, chiese:

«Sono sicura che voi non avreste fallito di fronte a quel sanguinario predone.»

«Se il gaito Pietro ha mancato il colpo, ben poco avrei potuto io.»

Dunque la Regina, ancora distesa sul letto, allungò una mano per trattenere Majone, come se paventasse un qualche pericolo in quella stanza.

«Temo che il Re mandi voi questa volta!»

«Vostro marito si cura più dei propri sollazzi che della perdita del presidio di Mahdia.»

«Sapete bene come la guerra per lui faccia parte di uno di questi sollazzi. Egli impugnò personalmente la spada quando ci fu da sedare la ribellione dei baroni.»

«Allora era in gioco la sua stessa corona. E poi non offuscherà il mio consiglio per imporre il suo. Quando mai Guglielmo ha preso una decisione risoluta per il Regno?»

«Si fida di un uomo più capace e degno di lui!»

«Sappiate perciò che non partirò, né salperà una sola galea.»

Margherita si sedette sul letto, spostò i suoi lunghi capelli e fece meravigliata:

«I figli dei nostri servitori e i cadetti delle nostre nobili famiglie sono in quel presidio…»

«Si arrendano e conservino la vita; poco mi importa! L’incolumità di un pugno di soldati non è mai stata una priorità per nessun ministro o sovrano. Difendere Mahdia è uno sforzo che non possiamo permetterci.»

Majone spiegava la questione e liquidava i timori della Regina, adducendo come giustificazione il bene del Regno, tuttavia ben altri motivi albergavano nel cuore del perfido Ammiraglio…

Majone e Margherita si incontravano da qualche tempo nella locanda sita presso la porta di Sant’Agata, scelta tra tutte le altre perché da quella strada l’Ammiraglio ci passava per tornarsene a casa. La Regina, che per quegli incontri adulterini godeva della complicità del suo eunuco più fidato, quella notte se ne tornò a Palazzo tutta intristita e seria.

«Voi non siete voi questa sera.» commentò Amjad una volta che ebbe accompagnato la Regina nel suo appartamento.

Margherita espresse dunque tutte le sue ansietà riguardo al futuro dei poveri soldati di Mahdia e al mancato intervento dell’Ammiraglio.

«Vi è il figlio della cuoca di corte tra quei poveretti che devono difendersi dall’assedio del saraceno. Quando ho provato a dirlo a Majone, lui mi ha risposto che nell’esercito del Regno i poveracci ci entrano su base volontaria… che l’hanno scelto loro questo destino.» aggiunse, scendendo nel particolare.

Amjad si sfregava le mani; adesso era sicuro che Abd al-Mu’min avrebbe vinto. Quella stessa notte scrisse di suo pugno una lettera indirizzata al califfo, in cui lo informava che non sarebbe giunto nessun aiuto o vettovaglia a ristorare il presidio cristiano. Assicurò la missiva a dei commercianti arabi diretti a Tunis[44 - Tunis: Tunisi] e quindi si mise ad aspettare che l’informazione sortisse l’effetto desiderato.

In effetti la notizia piacque molto ad Abd al-Mu’min, tanto che rigirò il messaggio proprio al contingente siciliano arroccato nella fortezza della città. Così intendeva scoraggiarli e indurli alla resa, far crollare la fiducia che nutrivano per il Re ed il Regno, e proporre loro l’abiura e il tradimento. Ma gli assediati, che avrebbero potuto tradire Guglielmo ma non Dio, scelsero comunque di tenere ancora duro.

Nei primi di gennaio del 1160 i siciliani arroccati nella fortezza arrivarono a mangiare i propri cavalli e allora fu loro chiaro che per sopravvivere avrebbero dovuto inginocchiarsi al nemico. Chiesero perciò ad Abd al-Mu’min di conservare la vita, i propri beni e la libertà. Il califfo rispose che era disposto a concedergli anche di più, ma solo se si fossero convertiti all’Islam. Quel contrattare la propria vita durò per ancora qualche giorno e alla fine Abd al-Mu’min, persuaso dalle loro parole, li liberò e li rimandò in Sicilia. Così il califfo almohade scongiurava possibili ripercussioni sugli islamici di Sicilia e concedeva la libertà a gente che lo avrebbe d’ora in poi stimato più del vile Re che servivano. Il 21 di gennaio l’Africa siciliana cessava di esistere.

La notizia sconvolse le coscienze dell’intera nobiltà del Regno e fu in quell’esatto momento che alcuni degli ottimati più in vista decisero che non avrebbero più incontrato la faccia di Majone se non da morto. Accusavano il Re, ma soprattutto l’Ammiraglio, di aver abbandonato i cristiani di Mahdia al proprio destino. Per di più, la maggior parte di coloro che Abd al-Mu’min aveva rimandato in Sicilia era perita in un naufragio. Tali morti era come se li avesse causati il califfo e non il mare, e quindi lo stesso Majone a causa della sua inadempienza. Accusavano inoltre gli eunuchi di corte e gli altri saraceni di Sicilia di essere in combutta con gli almohadi e di aver favorito la sconfitta di Mahdia, cospirando insieme all’Ammiraglio affinché non fossero inviati gli aiuti necessari. Il clima di contestazione non era mai stato tanto incandescente e già tra il popolo si temeva che prima o dopo qualcosa sarebbe successo.

Quando si seppe poi della missiva di Amjad, benché nessuno sospettò in particolare dell’eunuco della Regina, fioccarono le accuse e si rischiò il tumulto. Alcuni tra i baroni dicevano che gli almohadi erano già a Palermo, nascosti tra la popolazione saracena connivente e complice del califfo, e che presto si sarebbero manifestati facendo strage dei cristiani e profanando le loro chiese. Chiaramente alcune fazioni del popolo ci credettero e fecero presto a manifestare il proprio dissenso. Dunque Majone, a cui la situazione era sfuggita di mano ed era già accusato di tradimento, fu costretto ad emanare il decreto secondo il quale per i saraceni fosse proibito portare armi addosso. Così acquietava gli animi, disarmava quei nemici dell’immaginario collettivo e fugava sensibilmente le accuse rivoltegli.

Il pericolo era reale, davvero Abd al-Mu’min stava conquistando l’intero Nordafrica, ma la percezione del pericolo tra la popolazione cristiana del Regno superava di gran lunga il pericolo stesso. Chi cavalcava il consenso che solo la paura diffusa può determinare erano i nobili, avversi per interesse politico e personale all’Ammiraglio.

Margherita di Navarra non aveva ancora trent’anni, eppure dimostrava di avere tanta di quell’intelligenza da rendere evidente come la sua presenza fosse sprecata accanto ad un sovrano come Guglielmo. Intelligente e spregiudicato era invece Majone di Bari, quasi vent’anni più vecchio di lei, con cui più di una volta aveva sognato di condividere lo scettro regio e la corona.

Quando la Regina apprese che ai poveri cristiani di Mahdia fosse stato mostrato un messaggio proveniente direttamente dalla corte, non poté fare a meno di sospettare di Amjad, colui col quale si era confidata. Ovviamente ciò che le stava più a cuore non era tanto il tradimento del Regno, quanto invece il tradimento delle sue confidenze private.

Un giorno se ne stava seduta allo specchio, a tu per per tu con la sua immagine riflessa e la sua vanità. Vestiva morbidi abiti a foggia orientale e pure il suo trucco sembrava quello della prediletta di un emiro. Margherita, pur essendo straniera, non aveva saputo resistere al fascino delle mode in voga tra le donne di Sicilia, così lontane dagli austeri costumi del resto d’Europa.

Amjad, da dietro, le allacciava collane e orecchini, spostandole i capelli e scoprendole il collo affinché potesse valutare bene quale monile indossare. Margherita allora fissò allo specchio il riflesso degli occhi neri e profondi del suo eunuco e, dopo aver emesso un lungo respiro, gli disse:

«Sono stati così orribili questi dieci anni in cui hai dovuto servirmi, Mattia?»

«Mia Signora, per la piacevolezza mi sono sembrati un solo giorno.» rispose lui, non immaginando certo cosa nascondesse quella domanda.

«E da quale ora di questo giorno hai cominciato a raccontare i segreti detti in questa stanza?»

Adesso lo sguardo della Regina manifestava tutta la sua delusione.

«Cosa dite?» chiese Amjad, sminuendo col tono della voce l’accusa di lei.

«È per denaro che vendi le mie confessioni?» ripeté il concetto Margherita.

Tuttavia questa volta Amjad sorrise irrispettoso e fece:

«Temo per voi che se davvero io avessi raccontato le vostre privatezze, la vergogna del vostro letto non sarebbe stata presa solo per una diceria e per certo qualcuno ve ne avrebbe chiesto conto. La legge del Regno è chiara riguardo all’infedeltà della moglie, e vostro marito è molto intransigente su questi aspetti… tanto rigido da avere ispirato innumerevoli filastrocche riguardo al suo moralismo. A colei che porta la vergogna nel letto coniugale spetta la morte da parte del congiunto tradito. E se costui non ristabilisce il proprio onore, allora verrà bollato come complice e uomo che non merita rispetto. Pensate che se davvero avessi riferito le vostre confidenze, Sua Maestà sarebbe passato sopra alla vostra vergogna?»

«È dunque questa la vera natura dei tuoi pensieri, Mattia? Offendi la tua Regina parlando di vergogna… mentre sai benissimo quale peso mi è l’essere innamorata di un uomo che non è mio marito.»

Amjad non rispose, consapevole di aver toccato l’argomento più scomodo che riguardasse Margherita, ciò che ledeva il suo onore di regina e di moglie.

«Fammi provare quella d’oro col rubino.» richiese lei, ritornando alle questioni vane.

Nondimeno l’eunuco non aveva ancora finito di agganciare la collana che lei riprese:

«Da domani mi aiuterà un altro servitore ad indossare i miei gioielli.»

Amjad, che serviva quella donna sin dal suo arrivo a Palermo, sin da quando lei a soli sedici anni era stata data in moglie all’erede al trono, si bloccò all’istante, spiazzato, confuso e terrorizzato dall’idea di fare la fine dell’Ammiraglio Filippo e del più recente Forriāni.

«Che significa, mia Signora?»

«Ti sostituirà Luca, già a capo degli eunuchi dell’harem, colui che per esperienza viene appellato gaito, benché non abbia mai impugnato armi. Entrare nel mio appartamento sarà il giusto traguardo per il suo fedele servizio.»

Impietrito, Amjad non sapeva come rispondere.

«E adesso, su… cosa aspetti? Attacca questa collana!»

«Che ne sarà di me se voi mi accantonate per un altro servitore?»

«I nobili accusano l’Ammiraglio di aver mandato lui quella missiva al saraceno, e di tramare insieme ai mori di Sicilia per la fine del Regno. Niente di più falso! Smonterò le accuse che minacciano l’uomo che amo consegnando il vero colpevole alla giustizia.»

Fu adesso che Amjad non pensò più a cosa rispondere. Sopraggiunta la rabbia imbruttì il suo viso, tirò quindi a sé la collana, più di quanto potesse sopportare il delicato collo della Regina. Alle urla strozzate per il soffocamento, Amjad chinò la testa fino all’orecchio di lei e rispose:

«Voi non farete nulla di quanto avete detto, non potete permettervelo. Come reagirebbe vostro marito se gli mostrassi la chiave affidatami dal locandiere per i vostri incontri amorosi? E come reagirebbe il Re se gli facessi leggere le lettere di passione che voi e il vostro Ammiraglio vi scambiate? O credete che le abbia consegnate tutte? Le voci sono voci, è vero… ma io ho le prove! E non pensate che il vostro uomo, benché potente e pericoloso, sia in grado di cancellare la minaccia dello scandalo col sangue, poiché se voi toccate me sarà un altro ad avanzare le prove del vostro adulterio. Ho già preso le mie precauzioni, mia Regina!»

E a questo lasciò la presa, un attimo prima che Margherita di Navarra diventasse cianotica per la mancanza d’aria.

La Regina si teneva la gola, rannicchiata sul pavimento e respirando affannosamente per la paura di star per morire e per l’effettivo danno fisico subito. Quando sollevò il capo, intendendo reagire a colui che aveva osato tanto, comprese di essere rimasta sola.

Da quel giorno Amjad non vide più la donna che aveva servito per dieci anni, in quanto, ancor prima di capire se questa l’avesse accantonato veramente per un altro, decise che sarebbe stato lui a non presentarsi, consapevole che quel rapporto di estrema fiducia ormai rotto non si sarebbe rinsaldato. Ad ogni modo, dal fatto che la Regina non denunciò mai quel tradimento né l’aggressione alla sua persona, era evidente che il ricatto dell’eunuco avesse sortito l’effetto sperato.

Agli inizi di marzo Amjad ricevette la conferma di essere entrato nelle grazie del padrone alla cui presenza segretamente ambiva prostrarsi. Uno dei reduci di Mahdia volle incontrarlo mentre lui se ne stava in casa dell’amata sorella per il consueto incontro settimanale.

«Un uomo sulla porta cerca il mio Signore.» avvertì una delle serve, saracena anch’ella, a cui l’eunuco aveva affidato la cura di Naila.

Avendone dunque accertato l’identità, e nonostante lo preoccupasse il fatto che qualcuno fosse risalito con tale facilità a lui, Amjad lo ricevette in casa.

«Il mio nome è Ahmed. Ho rischiato l’arresto e la morte in naufragio per incontrarti, mio Signore. Il califfo mi ha nascosto tra i cristiani che ha rimandato dal loro re, e costoro, grati per la libertà accordatagli da Abd al-Mu’min, non hanno voluto rivelare chi fossi. Ed eccomi qui, al cospetto dell’uomo a cui il mio signore è debitore.»

«Siamo tutti debitori ad Allah! Di’ al mio signore che non mi deve nulla, eccetto che il suo braccio agisca ancora con la stessa risolutezza con cui ha colpito fino ad ora.»

«Il braccio di Abd al-Mu’min è più esteso di quanto riuscirebbe ad esserlo se egli fosse un uomo solo. Ogni persona che china il capo verso La Mecca guarda al mio signore con speranza, e grazie ad uomini come te il suo potere arriva perfino al cuore del suo nemico. Perciò il mio signore ti chiede di radunare tutti coloro che tossiscono di fronte alle malefatte degli infedeli e di portarli alla rivolta, affinché questo volgare regno muoia così come esso è nato, con dolore e patimenti, e questa terra ritorni ad essere pura del fango dei miscredenti.»

Amjad si sentì investito di un rinnovato senso di responsabilità, qualcosa di maggiore a qualunque altra funzione avesse ricoperto finora alla corte di Re Guglielmo. Poi, a suggello del ruolo a cui era stato appena iniziato, l’uomo del califfo gli donò un oggetto dal significato emblematico. Si trattava di una piccola scultura in malachite, una mano aperta avente sul palmo l’abbozzo di un occhio.

«Il verde è il colore del Profeta e cinque, come queste dita, sono i precetti del Corano… affinché tu non scordi mai che la causa del tuo signore è anche la causa di Allah, Colui che come quest’occhio vede tutto, l’esposto e il segreto, i tuoi atti favorevoli e il tuo eventuale tradimento.»

L’eunuco di corte strinse quell’oggetto nel suo pugno ed inspirò profondamente ad occhi chiusi. Quel risveglio che era cominciato con Forriāni di Sfax, adesso per Amjad diventava un sogno ad occhi aperti dai contorni vividi e reali.




Capitolo 10


Novembre 1160 (555 dall’egira) Balermus



Amjad fece presto a radunare in seno alla comunità araba di Palermo i sostenitori della causa almohade. La casa di Naila divenne da quel momento la base di coloro che cospiravano contro il Regno e il quartiere saraceno della città il mare da cui pescare nuove reclute da risvegliare alla jihad[45 - Jihad: parola araba che significa letteralmente “sforzo”. Può indicare la lotta interiore per raggiungere la fede perfetta, ma generalmente con questo termine si indica la guerra santa compiuta dai musulmani in difesa della propria fede.].

Nel giro di pochi mesi, Amjad, trasformato in predicatore, aveva raggruppato attorno a sé una considerevole cricca di fedeli pronti alla rivolta. Tra di essi vi erano alcuni fuoriusciti dell’esercito del Regno, che avevano preferito vivere in clandestinità, e pochi giovani di famiglia agiata, cresciuti nell’ambiente opulento di Palermo, la cui noia li aveva portati a covare risentimento verso le istituzioni del Palazzo Regio. Adesso avrebbero aspettato che Abd al-Mu’min preparasse la flotta e desse un segnale, e allora nel cuore del Regno si sarebbe scatenata la guerra santa contro gli infedeli, preparando così il terreno all’arrivo del califfo. La restrizione di Majone che proibiva ai saraceni di portare armi aveva certamente svantaggiato gli uomini di Amjad, tuttavia aveva avuto la conseguenza di fare inabissare il loro raggruppamento nel silenzio e nell’ombra, senza che nessuno si preoccupasse della sua esistenza.

Col passare dei mesi le file dei rivoltosi si ingrossarono, sennonché quell’atteso segnale che avrebbe dovuto richiamare alla guerra i saraceni di Sicilia tardò ad arrivare. Una causa che si regge su una promessa prossima a realizzarsi è sicuramente una causa destinata al fallimento quando l’attesa supera l’aspettazione… E così per Amjad tenere uniti tutti quegli uomini, specie i meno convinti, divenne sempre più complicato. L’entusiasmo, che era alto in primavera, andò scemando in estate e parve scomparire del tutto in autunno. L’eunuco dovette attingere allora alle migliori argomentazioni per rinvigorire lo zelo che quelli avrebbero dovuto conservare per la battaglia. Ma fu adesso che la paura della defezione si materializzò con la più terribile delle sorprese.

La giovane Naila aveva limitato la sua complicità negli affari del fratello alla sola disponibilità dell’abitazione. Sapeva bene in quali guai Amjad si stesse cacciando e aveva assistito alla sua progressiva radicalizzazione sin da quando questi era entrato in contatto col vecchio Forriāni. Comunque sia, indottrinata dall’amato congiunto, aveva anche riposto le sue speranze nell’avanzata degli almohadi, affinché ricostituissero le basi per una nuova Sicilia islamica. Nondimeno, all’ingresso di novembre, qualcosa in Naila parve improvvisamente cambiare.

Un giorno questa informò il fratello che attorno al suo appartamento circolavano da qualche tempo alcune guardie reali, e che alcune voci dicevano che stessero lì per indagare riguardo a certe riunioni di rivoltosi. Amjad ci credette e prese le sue precauzioni, salvo scoprire poco dopo che Naila si era inventata tutto. Per l’eunuco del Re quella ragazza aveva da sempre rappresentato la più forte ragione di vita, l’unica persona che aveva amato quasi come si ama una moglie. Amjad ne uscì deluso, tradito, e una gelosia mai provata prima lo pervase da testa a piedi. Avrebbe potuto affrontarla, avrebbe potuto ricercare una spiegazione direttamente parlandole, tuttavia conosceva già quella malattia che induce le donne a mentire; Margherita di Navarra era stata colpita da un simile cambiamento il giorno in cui Majone era entrato nella sua vita e aveva cominciato a tradire Guglielmo. Amjad ne era sicuro, Naila si era innamorata di un uomo e costui si stava sostituendo al suo affetto e alle sue cure. Decise allora di indagare e non ci volle molto per scoprire che Naila, senza la presenza di un protettore che la limitasse nelle libertà, lasciava giornalmente la sua abitazione per incontrarsi con un tale raccoglitore di conchiglie di nome Vittore. Amjad rimase sconvolto. Se si fosse trattato di un circonciso se ne sarebbe fatto una ragione, ma saperla tra le braccia di un infedele demolì la sua anima. Inoltre Naila era una donna raffinata e molto bella; che cosa poteva avere mai in comune con uno che vendeva conchiglie e pesce al mercato del porto? Amjad proprio non si dava pace e, non riuscendo neppure a guardare in faccia l’amata sorella, decise che avrebbe posto fine a quella relazione sentimentale affrontando quel giovanotto che abitava sulla punta del Cassaro.

Il cinque del mese, poco prima di mezzogiorno, si recò al mercato del pesce portando con sé cinquanta tarì[46 - Tarì: fu una delle monete principali utilizzate in Sicilia dal periodo arabo sino al XIX secolo. Letteralmente significa “fresco di conio”.]. Benché avesse smesso per quel giorno le sue vesti di seta e i suoi gioielli, non passavano inosservate la sua pelle liscia, la bellezza dei suoi occhi e la sua camminata raffinata; in molti si voltarono al suo passaggio e all’olezzo emanato dai suoi lunghi capelli, mormorando tra di loro che quello doveva essere sicuramente uno degli eunuchi del Re. Amjad avanzava tra la folla privo di seguito o scorta, intenzionato a risolvere la questione senza fare troppo rumore. Temeva, infatti, che se si fosse saputo l’inghippo, la reputazione della sorella ne sarebbe uscita compromessa dinanzi alla comunità islamica della città. Amjad, che già faticava a tenere alto lo zelo dei suoi, sapeva che la sua credibilità ne sarebbe uscita macchiata qualora per risolvere la questione non avesse agito con risolutezza. Prima di predicare l’epurazione della Sicilia dal male degli infedeli, ogni suo seguace gli avrebbe chiesto di ripulire la sua stessa casa. Per tutte queste ragioni Amjad doveva muoversi con segretezza.

Gli indicarono il banco del venditore di conchiglie, proprio quello in fondo alla strada e il più vicino alla discesa per il mare.

Vittore era un giovane uomo discretamente più alto della media e muscoloso. Portava sul viso un perpetuo ghigno di fierezza e una cicatrice sulla guancia sinistra appena al di sopra della folta barba. Vestiva gli abiti della gente comune, ma, controcorrente agli altri venditori, non indossava giacca e mantello, lasciando scoperte le braccia a sprezzo del clima del periodo. I suoi capelli erano scompigliati e bruni, e le sue sopracciglia folte; un aspetto selvaggio, benché non spiacevole, che rese più volte perplesso e confuso Amjad. L’eunuco dubitò perfino che quel tizio fosse davvero lo spasimante di Naila.

Vittore bandiva la sua merce, gridando:

«Pesce per i figli e collane per le mogli!»

Ovviamente lo diceva nel latino del popolo, la lingua a cui era più avvezzo.

«Volete una collana?» domandò Vittore non appena Amjad si fu accostato al banco.

«Una collana per femmina…» puntualizzò ancora il venditore, scambiandosi occhiate con Duccio, l’amico del banco accanto, e ridacchiando per via di quell’allusione sull’assenza di mascolinità del cliente appena giunto.

«Sì, una collana…» rispose l’eunuco pieno di imbarazzo.

Vittore allora gliene mostrò una decina, tutti monili creati da lui con le più belle conchiglie che era riuscito a trovare sulle spiagge dei dintorni di Palermo.

«Quale vi piace?»

E Amjad ne indicò una a caso.

Adesso tuttavia il viso di Vittore cambiò espressione e, parlando sottovoce, chiese:

«Non vorrete farmi credere che un eunuco del Re, che per certo può permettersi di indossare oro, argento e pietre preziose, si spinga fin qui per comprare i gioielli dei poveracci…»

«Se voi immaginate già qualcosa… è quello!» rispose serio Amjad, non lasciandosi intimorire dal tono sospettoso del venditore.

«Io non immagino proprio niente.» chiosò Vittore, ritornando a sorridere beffardo.

La sacca contenente le monete d’oro tintinnò adesso sul banco.

«Cinquanta tarì.»

Vittore si guardò attorno circospetto e recitò ancora:

«Voi confondete il valore di ciò che intendete acquistare.»

«La vostra insulsa collana… e che lasciate in pace la mia Naila…»

«Allora credo che la posta valga più di cinquanta monete d’oro.» spiegò Vittore, ritornando serio da far paura.

«Suvvia, pezzente, dove lo hai mai visto tutto questo denaro?»

Vittore, che era ricco d’orgoglio anche se povero di beni, emise un lungo respiro.

«Prendete il vostro denaro e non fatevi più vedere!»

E dunque, ritornando a fissare la folla, riprese a gridare:

«Pesce per i figli e collane per le mogli!»

Se Vittore passava sopra all’insulto e non rispondeva col coltello, quello con cui sbudellava il pesce per intenderci, lo faceva per non finire nei guai. Sapeva quali ripercussioni avrebbero potuto subire lui e la sua famiglia nel momento in cui avesse colpito un eunuco del Re. Comunque sia, adesso fu Amjad a dare in escandescenza.

«Va bene, ditemi quanto volete!» riprese l’eunuco, digrignando i denti e stringendo i pugni.

«Non vendo ciò che non è in vendita… Ve lo ripeto, andatevene!»

Amjad perciò si avvicinò repentino e, sporgendosi in avanti fino ad afferrargli la maglia, gli disse:

«Voi non sapete in quale razza di guaio vi state cacciando! Chiedetelo in giro chi è Mattia… Vi scaglierò addosso tutto l’esercito del Re!»

Ma Vittore, che non poteva tollerare che quello si spingesse fino al punto di toccarlo, lo afferrò per i capelli e lo tirò sul banco del pesce. Dunque concluse quell’azione affondandogli la testa nella cesta delle sardine. I mercanti e il resto dei presenti presero a ridere come se stessero osservando la scena più divertente in cui si fossero mai imbattuti.

«Senti la puzza di pesce? È di questo che profumano gli uomini!» gli fece Vittore all’orecchio, sollevandogli leggermente il capo per i capelli.

Quando infine il venditore di conchiglie mollò la presa, Amjad indietreggiò spaesato, tanto da perdere l’equilibrio e cadere.

«Ve ne farò pentire!» urlò da per terra.

Vittore era tuttavia consapevole che il danno fosse già stato fatto. Si avvicinò perciò all’eunuco e, mentre alcuni compari del mercato impedivano all’atterrato di rialzarsi e di muoversi, gli infilò al collo la collana che precedentemente gli aveva mostrato. Per concludere lo obbligò a gattonare, conducendolo per mezzo di quel guinzagliò composto da conchiglie acuminate. Per Vittore quella fu l’apoteosi del suo successo; venne acclamato e osannato dai presenti più di quanto avessero mai fatto col Re in persona.

Ora il venditore di conchiglie improvvisò l’imitazione di un abbaio, esplicitando quale animale stesse obbligando l’altro ad impersonare. L’allusione era di natura sessuale e andava al di là della già evidente umiliazione.

Quando Amjad venne lasciato libero, fuggì via, senza voltarsi e coprendosi il viso con un lembo del suo mantello. Tornò a Palazzo con la consapevolezza che con quella umiliazione nulla sarebbe stato più come prima. Si rinchiuse perciò nella sua stanza e qui, temendo perfino il giudizio del suo sguardo, ruppe tutti gli specchi che gli capitarono a tiro. Urlò e pianse per ore… quindi cominciò a meditare la sua vendetta. Doveva risolvere la questione velocemente e personalmente, cosicché la sua immagine di fronte a quelli che vedevano in lui un liberatore fosse ristabilita. Vittore doveva morire… tuttavia il solo pensiero di doverlo affrontare nuovamente lo faceva tremare. Fu adesso che nelle turbe della sua mente cominciò a delinearsi un’idea. La persona che poteva fare a caso suo, che poteva effettuare con efficacia la sua vendetta, era già a sua portata di mano.

Da qualche settimana gli era stata affidata l’ospitalità di un maestro d’arte di nome Alessio, un greco su cui pendeva già una condanna a morte per omicidio e a cui era stata commissionata la realizzazione del rivestimento in mosaico della sala di rappresentanza del Re. Ma come convincere un prossimo condannato a morte a diventare lo strumento del suo arbitrio? Non certo col denaro. Dunque Amjad si ricordò di aver sentito dire che quell’uomo era ossessionato da una donna, colei che avrebbe voluto incontrare prima di morire. Ecco perciò come plagiarlo al suo volere: Amjad avrebbe pagato i servigi sanguinari di Alessio offrendogli la possibilità di vedere il soggetto che bramava incontrare.

La stessa sera, quella del cinque, per mezzo della lusinga e dell’inganno l’eunuco entrò in confidenza col maestro d’arte e questi cominciò a fidarsi di lui. Appena due giorni dopo, Amjad giudicò quel rapporto ormai maturo per indirizzare colui che riteneva un vero assassino contro il suo nemico. Tuttavia fu adesso che l’odio dell’eunuco dovette essere convogliato su qualcuno che finora non aveva valutato.

Nel pomeriggio si presentò in udienza privata il gaito Luca, colui che mesi or sono gli aveva soffiato il posto al servizio della Regina.

Questi gli disse:

«Tutta Balarm[47 - Balarm: nome della città di Palermo durante il periodo arabo.] ti ride dietro, Mattia.»

«Sono stato aggredito e derubato… Balarm dovrebbe piangere sé stessa per le condizioni in cui versa!»

«Perché non hai indicato i responsabili?»

«A quest’ora quei ceffi saranno già fuggiti via tra i monti… se li denunciassi non rientrerebbero mai in città. Lascerò che le acque si calmino e che tornino a Balarm per colpirli con la massima severità.»

«E non ti turba per intanto che perfino a Palazzo si parli di te? Ho sentito dire che questa mattina hai minacciato e corrotto i manovali che vengono per i mosaici della sala, affinché qua dentro il tuo nome non sia oggetto dei loro rozzi discorsi.»

«Tu comprendi sempre troppo… non a caso ti appellano gaito benché tu gaito non lo sia.»

«Sono stato per anni gaito dell’esercito preferito dal Re… il suo harem! Ora però offro i miei servigi alla donna che tu hai servito per lunghi anni. Ed è proprio la Regina che oggi mi ha inviato da te, per sincerarsi delle tue condizioni. Sì, Mattia, la tua umiliazione è giunta fino alle stanze più recondite del Palazzo.»

Amjad, il quale immaginava che Margherita di Navarra l’avesse cancellato pure dal cuore, rimase sorpreso e perplesso.

«L’animo della Regina è incline al perdono; dovresti saperlo.» aggiunse il gaito Luca.

Amjad allora sospettò che quello fosse a conoscenza del fatto incriminato nel litigio avuto con la consorte del Re.

«Congetturi su un passato che non ti appartiene e parli di perdono…»

«Se dopo dieci anni di servizio la Regina ha deciso che non saresti più entrato nei suoi appartamenti, il motivo dev’essere stato serio.» addusse il gaito Luca, sorridendo provocatoriamente.

«Non abbastanza serio da non poterci passare sopra. Oggi sei qui in vece sua perché si è interessata di me, e forse la prossima settimana richiederà che io ritorni al mio posto.»

Contrariamente a ciò che Amjad si sarebbe aspettato di sentire, l’altro gli poggiò una mano sulla spalla e gli disse:

«Può darsi… ed è per questo, benché sia stato investito ad una posizione inferiore a quella che ricoprivo, che sarà mio interesse impedirtelo.»

«Solo perché ti chiamano gaito credi di esserlo anche sulla volontà della Regina?»

«No, ma sono sicuro di esserlo sulla tua libertà… Lascia che renda noto che un eunuco del Re, consacrato al Cristo e legato con voto di fedeltà a questo Regno, si renda colpevole di apostasia e tradimento, tramando con i saraceni d’Africa. So tutto, Mattia, tutto quel che basta per mandarti al patibolo sulla riva del fiume.»

Il viso di Amjad cambiò colore, e le sue mani, mentre osservava il gaito Luca allontanarsi, presero a tremare. Per certo una minaccia maggiore rispetto a quella rappresentata da Vittore si materializzava nell’eunuco rivale.

Quello era un lunedì e Amjad sapeva che la Regina si sarebbe incontrata con Majone nella locanda presso la porta di Sant’Agata. Sapeva inoltre che il gaito Luca, vincolato da un rapporto di fedeltà simile a quello di cui godeva precedentemente lui, avrebbe accompagnato la sua signora. Amjad ragionò che avrebbe messo a tacere il gaito Luca proprio quella sera e proprio in quel luogo.

Amjad si presentò nuovamente da Alessio e quindi, mostrandogli i graffi sul collo, quelli stessi che Vittore gli aveva provocato tramite la collana di conchiglie, lo persuase ad uccidere il gaito Luca, accusando quest’ultimo di crimini mai commessi.

Amjad aveva fatto fare una doppia chiave per la serratura della locanda e ne aveva conservato la copia quando aveva restituito l’originale alla Regina. Adesso quell’azione fatta per l’eventualità di un ricatto si rivelava utile. Tuttavia, senza ombra di dubbio, la sua chiave più efficace risultava essere la capacità di penetrare nella mente e nel cuore di chi lo credeva un uomo fragile e sincero. Amjad chiaramente indossava molte maschere.




Capitolo 11


Notte del 10 Novembre 1160 (555 dall’egira) Balermus



Risolta con successo la pratica del gaito Luca, Amjad poteva adesso dedicarsi a quello che era sotto gli occhi di tutti, la sua umiliazione pubblica ad opera di Vittore. A ricordargli che la cosa andava risolta immediatamente ci pensò un tale Mahmud, ufficiale disertore dell’esercito di Guglielmo che si era avvicinato alla sedizione predicata da Amjad. Questi gli parlò a nome di tutti e gli disse che se lui non avesse sistemato la questione al più presto sarebbe stato estromesso da quella fratellanza e la cosa sarebbe stata risolta a modo loro. A Mahmud non importava un bel niente di Vittore e della reputazione dell’eunuco, tuttavia Naila conosceva i loro nomi e non poteva rischiare che questa parlasse ai cristiani per consegnarli tutti ad una sicura condanna a morte. Amjad lo sapeva… per quelli come Mahmud spezzare il collo delicato di una giovane donna era un gioco semplice. Doveva agire prima che quelli impugnassero la questione. Ragionò di venire a capo del problema in una sola notte; avrebbe vendicato l’affronto di Vittore e fatto rinsavire la sorella dalla pazzia che l’aveva colta.

Parlò ad Alessio nella sala del Re e ancora una volta, facendogli false promesse e avanzando fantasiosi pericoli, lo convinse ad armare il suo braccio contro Vittore. Tuttavia Amjad si era accorto che il maestro d’arte fosse più credulone e ingenuo che spregiudicato e cinico, qualità indispensabili per un assassino… e che dunque, se era riuscito a far fuori il gaito Luca, per certo avrebbe potuto ben poco contro l’uomo del porto. Ragionevolmente l’eunuco avrebbe dovuto assoldare qualcun altro, qualcuno dallo spirito più fermo. Si presentava nondimeno l’occasione per risolvere i problemi collaterali scatenati dall’assassinio del gaito Luca. Alessio infatti era stato visto in viso da Majone e questo costituiva la più temibile delle minacce. Amjad doveva liberarsi di Alessio e della possibilità che tramite questi giungessero a lui. Doveva tagliare tutti quei fili che portavano al suo nome, eliminando necessariamente ogni testimone. Se Alessio avesse ucciso Vittore: bene… e se Vittore avesse ammazzato Alessio: poco male.

La notte del dieci Amjad accompagnò il mosaicista greco presso la casa di Vittore. Dopodiché, accertatosi che l’assassino non avesse sbagliato porta, si dileguò intento a compiere la seconda parte del suo piano. Prima che il crimine che stava per consumarsi presso la piazza del porto generasse confusione per le vie di Palermo, Amjad corse all’abitazione di Naila.

Una carrozza trainata da due cavalli giunse davanti la casa della giovane nel momento in cui Amjad bussò per la prima volta alla porta. Lo scambio di sguardi col cocchiere indicava che costui era lì per volontà dell’eunuco.

Aprì la serva e questa, con grande sorpresa, esclamò:

«A quest’ora della notte, mio Signore? Dev’essere successo qualcosa!»

«La signorina dorme?»

«Dorme, com’è normale che sia.»

Dunque Amjad spinse la porta ed entrò.

Ad ogni modo i toc toc avevano svegliato anche Naila e questa ora se ne stava pochi passi alle spalle della serva, vestita degli abiti della notte.

«Amjad, fratello mio, ho provato a cercarti ogni giorno per tutti questi giorni.» esordì Naila con uno strano gioco di parole.

«Prendi il mantello e andiamo!» ordinò perentorio lui.

«Dev’essere successo qualcosa se vieni a trovarmi nel cuore della notte.»

«È successo che devo aver cresciuto una prostituta!»

La serva, che non aveva mai sentito il padrone rivolgere parole di disprezzo alla sorella, ne risultò terrorizzata. La luce della candela retta dalla donna della servitù fu subito tremolante, così come il polso di chi la reggeva. Il viso pulito di Naila, ancora morbido e da bambina, produsse ora un’espressione di dolore.

«Parli così per via di Vittore… lo so.» comprese ed ammise Naila.

Presto Amjad le mollò uno schiaffo.

«Non pronunciare il nome di quell’infedele!» gridò anche.

Lei si resse il viso tra le mani e prese a piangere.

«È così grave che io mi sia imbattuta in qualcuno che desidera prendersi cura di me?»

Amjad la guardò deluso e rispose:

«Avevi già chi si prendeva cura di te.»

«Tu e la tua gelosia, Amjad! Non ho sostituito il tuo amore con quello di un altro.»

«Non darmi lezioni, Naila! Voi donne il tradimento lo portate nel cuore e mascherate il vostro male con questa stupida parola: amore.»

Naila alzò il tono della voce e insistette:

«Io non ti ho tradito, Amjad! Si rimane fratello e sorella anche quando si finisce tra le braccia di un estraneo.»

«Noi eravamo più di un fratello e una sorella, lo sai. Quante volte ci giurammo fedeltà… quante volte!»

«Erano le promesse di una ragazzina, Amjad… una ragazzina che conosceva ancora solo l’amore del miglior fratello del mondo.»

«Io non avrei mai tradito quel giuramento.»

«Tu, Amjad, non avresti potuto… Oggi, però, non puoi gettare su di me lo stesso biasimo con cui sei stato marchiato nel fisico. Sei tu l’eunuco Mattia… non io.»

«Un male che giurasti avresti portato insieme a me.»

«Ma io non ne sono stata in grado, non dopo aver conosciuto Vittore. Perdonami, Amjad… perdonami!»

Adesso, comprendendo che le ragioni di quell’amore non si potevano scardinare con i sensi di colpa, l’eunuco del Re cambiò argomento e chiese:

«Hai detto delle nostre riunioni a quell’infedele?»

«No, non sono così stupida.»

«Perché allora mi hai mentito riguardo a questo luogo?»

«Per non mettere in difficoltà te e i tuoi amici quando avreste scoperto che frequentavo un cristiano.»

«Ciò che paventavi è realmente successo.»

«Lo so, ed è per questo che questa notte mi chiedi di lasciare questa casa.»

«Per questo e perché comprendo che sei cresciuta troppo per tenerti ancora a bada. È stata colpa mia se ti sei infatuata di quel pescivendolo. Io ho creduto che per te, Naila, non arrivasse mai la primavera, ma mi sbagliavo. Sei come tutte le altre e la stagione della monta non ti ha colta impreparata… Tuttavia, sorella, sai bene cosa succede quando una bestia di razza viene lasciata libera durante l’estro… Rischia di incrociarsi con bestie selvagge e indegne. Perciò ti ho combinato la cosa, affinché il sangue della nostra stirpe non venga insozzato da quell’essere selvaggio e indegno.»

«Il tuo discorso vale per le bestie… non per gli esseri umani. Non sposerò nessuno che non sia Vittore!»

«Per darti all’apostasia?»

«Quante figlie di rispettabili credenti hanno cambiato la lingua in cui pregano Dio in nome della convenienza? E in questa terra ci si sposava tra islamici e cristiani anche quando comandavano gli emiri. Me lo hai detto tu, Amjad.»

«In Sicilia i fedeli degni e convinti sono stati sempre troppo pochi… Quell’uomo ti ha già deviata, poiché sai bene che non è una questione di lingua. Tu bestemmi!»

«Tu stesso, fratello, compari davanti al Re indossando una croce d’oro e presenzi a tutte le feste dei cristiani per dare una parvenza di devozione.»

«Non ho scelto io di essere Mattia… prego tuttavia cinque volte al giorno, poiché il canto del muezzin[48 - Muezzin: la persona incaricata al richiamo dell’adhān dalla cima del minareto nelle ore del giorno in cui cadono i cinque ṣalāt.] lo sento nell’anima.»

«E perché allora io non posso fare lo stesso, praticare nel segreto ciò che non do a vedere sotto il sole?»

«Perché tu puoi scegliere!»

«È l’amore che mi costringe.»

«Perciò ti ho data ad un uomo che sappia attenuare i tuoi bollori.»

«Non mi muoverò da questa casa, Amjad; Vittore è già l’uomo di cui parli! Rinnegami davanti ai tuoi amici, se questo serve a cancellare la vergogna che ti ho procurato, ma non costringermi a nulla. So bene quello che è successo sabato al mercato. Vittore mi ha promesso che si scuserà pubblicamente non appena avrà modo di rincontrarti.»

Dunque Amjad sorrise e, colto da una strana soddisfazione, spiegò:

«Quel venditore di gusci di cozze potrebbe essere già morto a quest’ora.»

Naila rimase di pietra. Il volto del fratello improvvisamente cambiò i suoi connotati. Per la prima volta Naila vide un Amjad diverso, un uomo che giudicò semplicemente “malvagio”.

Disperata cercò di passare oltre il fratello e oltre la porta, presumibilmente per correre verso l’uomo che amava. Amjad però la trattenne e, mentre lei si dimenava e gridava, ordinò alla serva di salire in carrozza e al cocchiere di accorrere per dargli manforte. Alla fine Amjad la spuntò. Naila venne domata per mezzo di un abbraccio soffocante, lo stesso gesto che, figurativamente, per tutti quegli anni le aveva impedito di staccarsi dalla morbosa ossessione del fratello.

Dopo non molto la carrozza si trovò a passare per la porta di Sant’Agata. Qui alcuni uomini armati di torce e spade intimarono al cocchiere di fermarsi. Amjad comprese subito che non si trattava di guardie reali e temette l’agguato e la rapina. Sapeva di dover agire con naturalezza, seppure di naturale lui avesse ben poco, essendo chiaramente un ricco eunuco al servizio di Sua Maestà.

Due di quei ceffi aprirono la portiera e fissarono dentro, soffermandosi per mezzo di una lampada sul viso di ognuno. Dunque, accorgendosi che tra i passeggeri non vi fosse chi cercavano, persero l’interesse che dapprima avevano manifestato.

«Sono stata rapita e costui è il mio rapitore!» urlò Naila un attimo prima che quelli chiudessero la portiera.

Perciò uno di quei due, un biondo giovane che aveva le sembianze di un nobile, tornò ad avvicinarsi e chiese ad Amjad:

«È vero quanto dice questa fanciulla?»

«Ella è mia sorella… e sì, Signore, l’ho costretta a seguirmi controvoglia.» spiegò con impareggiabile calma Amjad, consapevole che la verità fosse la cosa più saggia da dire.

«Perché?» domandò di nuovo quello.

«Intende sposare un uomo che non è al pari del nostro lignaggio.»

«Non è vero, Signore… egli non è mio fratello!» sostenne ancora Naila.

Il tizio allora fece segno all’altro di tenerli d’occhio e andò a consultarsi con un’altra figura che si muoveva nell’ombra della notte. Si avvicinò dunque quello che doveva essere il capo, un nobilotto pressoché trentenne che brandiva determinato la sua spada.

«Siete uno degli eunuchi?» chiese.

«Sì.» rispose Amjad, gonfiandosi nel frattempo il petto per mettere in bella mostra il grosso crocifisso che portava al collo.

«Un eunuco del Re che rapisce una giovane donna… Per farne cosa? Per il denaro di cui già è ricco? Per il sollazzo per il quale non possiede nessuna voglia e potenza?» fece riflettere l’ultimo giunto al suo sottoposto.

«Dove siete diretti?» chiese poi questi ad Amjad.

«A Platia[49 - Platia: antico nome dell’attuale Piazza Armerina in provincia di Enna, città famosa per gli straordinari mosaici romani conservati nel vicino sito archeologico. La Platia medievale sorgeva a pochi chilometri dalla sua collocazione attuale.].»

E dunque intervenne l’altro:

«Intendete scollinare i monti con questo mezzo? La strada per Platia diventa per molti tratti impraticabile.»

«Sbriglieremo i cavalli e proseguiremo in sella.»

«Da chi portate vostra sorella? Conosco tutti a Platia.»

Amjad sapeva che non poteva rivelare il nome del saraceno a cui avrebbe concesso la mano di Naila, non dopo aver mostrato il crocifisso.

«Dalle monache! Dove sennò?» intervenne nuovamente il capo, togliendo Amjad dal pericolo.

«La carrozza ci intralcia il passaggio e la visuale… Andate pure!» liquidò spazientito sempre colui che era sopraggiunto per ultimo.

Naila, delusa e spaventata, non disse più nulla. Amjad, invece, non appena ripresero il cammino, fece:

«Mi spezzi ancora una volta il cuore, sorella. È anche per questo che non posso avere pietà. Consiglierò al nostro amico di ammansirti con la verga e con la frusta, per darti quella disciplina che mi rammarico di averti negato.»




PARTE III – LA SPIAGGIA DI MADREPERLA





Capitolo 12


Fine agosto A.D. 1160, dintorni di Balermus



Si dovrebbe stare sempre attenti a parlare di prosperità… La prosperità e la miseria di un popolo sono spesso giudicate in funzione alle alterne vicende dei facoltosi, ma, tristemente, nessun cronista si è mai preso il tempo di valutare il contenuto delle tasche della gente comune. Gli Altavilla avevano creato sì una nazione prospera, ma sarebbe stolto concludere che non esistessero più i poveri.

Vittore apparteneva proprio ai miserabili di Sicilia. Pescatore figlio di pescatore e discendente chissà fino a quale generazione da gente che aveva praticato lo stesso mestiere. Faceva parte dei cristiani dell’Isola che da secoli parlavano il latino del popolo e che potevano essere giudicati, insieme a quelli che si esprimevano in greco, come i veri indigeni di Sicilia. Inoltre, già ai tempi del primo Ruggero, la famiglia di Vittore era stata tra quelle che avevano abbandonato il rito orientale per abbracciare la stessa confessione praticata dai normanni e dal papa.

Vittore aveva la tempra e il carattere di chi ha dovuto lottare contro tutto e tutti: contro la nobiltà che desidera imporre l’asservimento, contro i dannati alla ricerca di un tozzo di pane, contro le tasse del Re e contro le forze della natura. Era figlio del mare che sostenta la vita, figlio del vento che sospinge le vele e figlio della terra che l’aveva partorito. Sapeva che il fato domina tutto: dai capricci delle correnti marine ai terremoti, dalle eruzioni del Mons Jebel[50 - Mons Jebel: letteralmente “monte monte”. In epoca araba la parola Jebel, usata senza appellativi, indicava il monte siciliano per antonomasia, l’Etna. In epoca normanna si finì per chiamare il vulcano “Mons Jebel”, unendo al termine arabo quello latino con lo stesso significato di monte. Col tempo le due parole si fusero e si trasformarono nel popolare “Mongibello”.] all’alternarsi delle stirpi e dei governanti. Tuttavia, grazie al suo fisico e alle sue abilità, era scampato alla morte un paio di volte; adesso perciò si era convinto che al di là del destino egli potesse dir la sua in ciò che succede sotto il cielo. Vittore era il poveraccio più presuntuoso di Palermo e per tale motivo non tirava solo a campare, ma si dava da fare in tutto e per tutto per ribadire il proprio stato di uomo libero e fiero. Oltre al suo mestiere di pescivendolo e pescatore, quando imperversava la tempesta e le barche restavano a riposo sulla discesa per il mare, si recava sulle spiagge del contado per raccogliere le più belle conchiglie che le onde avevano vomitato sulla battigia. Ne faceva monili e piccole gioie, oggetti di modesto pregio destinati alle ragazze del popolo. Non c’era una sola persona tra la gente comune che non conoscesse Vittore, il “venditore di conchiglie”. Per via dei suoi modi, egli era inoltre l’amico di tutti gli uomini e il sogno di tutte le fanciulle illibate di Palermo.

Gli ultimi giorni di agosto tutti i cittadini rimasero rinchiusi al di qua delle proprie porte e finestre, segregati a casa a causa del meteo avverso. Il forte vento scoperchiava i tetti, le copiose piogge allagavano le vie più basse e il mare grosso impediva a pescatori e marinai di prendere il largo. Un susseguirsi di temporali di fine estate che ogni pomeriggio si ripresentarono funesti, giungendo come tenebre dal mare e a volte prendendo le sembianze di vere e proprie trombe d’aria.

Vittore, com’era solito fare, aspettò che vi fosse mezza giornata di tregua ed uscì per fare il pieno delle sue famose conchiglie. Si recò dunque in una delle calette che risultano schiacciate tra il mare e il fianco settentrionale del Bel Grin[51 - Bel Grin: probabilmente dall’arabo Jebel Grin “monte vicino”. Da questi etimi si è sviluppato l’attuale nome “Pellegrino”, famoso promontorio ai cui piedi sorge Palermo.], la “montagna vicina”, quella che domina Palermo con la sua ombra. Qui vide che le mareggiate avevano disseminato sulla spiaggia, pure a molti passi dalla battigia, una bianca distesa di gusci… preziosa madreperla da rivendere al mercato. Immerso tra le valve iridescenti delle ostriche, che avrebbe intagliato per farne medaglioni, e le complesse spirali dei gasteropodi, con cui avrebbe fatto dei ciondoli, sorrise, comprendendo che il bottino fosse ghiotto. Dopo alcuni minuti si accorse che in un angolo riparato della spiaggia, presso le rocce, era stato stipato un mucchietto di conchiglie pregevoli, le più grosse e belle viste quel giorno. Comprese che qualcuno fosse passato prima di lui, tuttavia, credendosi il padrone della spiaggia e del monopolio delle conchiglie, cominciò ad arraffarne quante ne poté.

«Ehi, ehi!» urlò qualcuno.

Adesso Vittore vide sbucare da dietro la macchia mediterranea due giovani donne. Una di queste veniva correndo per la trazzera che si districava tra le asperità ai piedi del monte.

«Ehi, ehi!» urlò nuovamente questa.

Vittore sembrava non sentirla e continuava imperterrito nella sua opera di scarto e raccolta.

«Ci ho messo un’ora per trovare quei gusci.» argomentò la donna.

Lui perciò sorrise e le rivolse le spalle.

«Ci ho messo un’ora per trovare quei gusci!» ripeté alterata lei.

E Vittore, sbruffone com’era, la guardò e, facendo l’occhiolino, rispose:

«Grazie.»

«Voi mi derubate!» accusò ancora.

Vedendo allora che lui non si curava di niente e che si allontanava con gli oggetti contesi nella sacca, la donna raccolse la conchiglia di una lumaca di mare e gliela gettò addosso, prendendolo sulla nuca.

Vittore smise di sorridere e questa volta, prestandole attenzione, le disse:

«Sono stato educato con voi, Madonna. Vi ho ringraziato per quello che non vi appartiene e vi ho trattato con rispetto nonostante le vostre accuse.»

«Quelle conchiglie le ho raccolte io… ma non per darle a voi!»

«Voi non avete cosa farvene… io ci campo! Ma potete sempre pagarmele se le volete.»

A questo punto l’altra donna, una più adulta e giudiziosa, trattenne la prima per il braccio e la rimproverò in arabo.

«Dovreste ascoltare la vostra serva… meglio lasciar perdere!»

«La spiaggia è di tutti e sono giunta prima io.» rintuzzò tuttavia lei, replicando in tal maniera sia alla serva che al raccoglitore di conchiglie.

«La spiaggia è mia e vi giunsi anni or sono… Ora, se volete scusarmi, Signore mie… io ho da lavorare.»

Improvvisamente un tuono echeggiò su tutta la superficie del mare e per il fianco scosceso del Bel Grin. Si addensarono allora i nuvoloni e qualche goccia di pioggia cominciò a bagnare la rena della caletta.

Dunque le due donne si dettero una mossa per rientrare e passarono a lato di Vittore.

«Spero che abitiate in queste contrade, altrimenti dovete essere impazzite se credete di rientrare a Palermo prima che sopraggiunga la tempesta. Questa mattina ho impiegato quasi due ore per arrivare fin qui, e io porto calzoni e scarpe robuste.»

Le due si consultarono.

«Potete stare lì a discutere quanto volete, ma state perdendo solo tempo.» ribadì Vittore.

«Dove si rintanano quelli come voi in queste occasioni?» chiese la giovane.

E lui indicò la montagna, mentre un forte vento prese a soffiare dalla direzione del mare, tanto forte da scoprire i capelli delle due. Vittore perciò prese ad inerpicarsi sul declivio fino a giungere sull’ingresso ampio e spazioso di una caverna.

«Vostro marito non vi vedrà tornare se non prima di sera.» la buttò lì Vittore, una volta al sicuro.

«Verrà a cercarmi quando non mi vedrà rientrare.»

«O forse si consolerà con le altre sue mogli!» esclamò il venditore di conchiglie, ridendo altezzoso allo scopo di screditare le usanze dei saraceni.

«In tal caso sappiate che sono la prediletta di un uomo molto potente.»

Vittore, che intanto si era seduto, la guardò dalla testa ai piedi. Effettivamente la ragazza era molto carina… aveva grandi occhi neri e labbra carnose e sanguigne per natura. Era abbastanza slanciata, anche se il benessere le aveva donato dei fianchi rotondi ed un seno prosperoso. Era agghindata e abbigliata come le signore dei ricchi funzionari del Re, ma tradiva il suo stato civile per via di quella disinvoltura tipica di chi non ha conosciuto la costrizione del matrimonio.

«Esco per raccogliere conchiglie e mi ritrovo con una perla tra le mani… Chiederò un riscatto a vostro marito, così anche voi saprete quanto gli state a cuore.»

«Non sapete quello che dite.»

«Non è in mio potere farvi quello che mi aggrada mentre ve ne state nella mia caverna?»

«Non parlate seriamente.»

Vittorie si era fatto serio ed ora si metteva in piedi minaccioso.

Quindi la serva, la quale quasi non se la faceva sotto, spronò l’altra ad andarsene finché ne erano in tempo.

«Dovevate pensarci prima… Adesso, invece di frignare, andate a chiamare il vostro signore e ditegli di portare con sé duecento tarì e cinquanta mute di seta.» ordinò Vittore proprio alla serva.

«Non fate sul serio.» ripeté con un pizzico di fiatone la giovane che era padrona dell’altra.

«Non appena la vostra serva partirà, noi cercheremo un altro rifugio; questa montagna è piena di caverne.»

«Il mio signore può fare dislocare molti uomini armati, tanti da circondare questa montagna e passare al setaccio ogni crepa e vallone.»

«Questo monte, che voi saraceni chiamate Jebel Grin, ha la fama di nascondere chi non vuole farsi trovare. Numerosi sono coloro che ne hanno scalato l’erta via che conduce alle sue cime alla ricerca della vergine figlia di Sinibaldo, per ottenere una benedizione, ma nessuno ad oggi è mai riuscito a trovarla. Se non si riesce a trovare una donna rinchiusa in una caverna, che mai potranno fare contro chi conosce questa montagna come le sue tasche? È più facile che si imbattano in Rosalia de’ Sinibaldi… credetemi. Tuttavia, se voi dite che vostro marito è tanto ricco e potente, allora facciamo quattrocento tarì e cento mute di seta!»

«Lasciateci andare e vi farò avere quanto chiedete.» rispose con un filo di ingenuità la giovane.

Vittore scoppiò a ridere.

«Con quale motivazione tornereste a portarmi quanto vi chiedo? Allora non si tratterebbe più di un riscatto, ma di una vera e propria opera pia da parte vostra. Poco fa, sulla spiaggia, avete chiesto dove si rintanano quelli come me… ma so che intendevate dire dove si rintanano “le bestie” come me. Conosco la considerazione che la gente come voi ha verso il popolo.»

«Vi giuro che non intendevo appellarvi a quel modo. E poi, credete che la mia gente riceva meno disprezzo?»

«Voi lo meritate! Avete spadroneggiato su questa terra per secoli. Tanta prosperità e tanta rovina adesso; la vostra bilancia è colma! Che possiamo dire invece noi poveri cristi? Messi in croce da sempre… noi che conosciamo il sapore delle suole dei sandali saraceni così come dei calzari normanni. Ad ogni modo, affinché sappiate che una bestia, un lupo come me, può anche non sbranare un innocente agnellino come voi solo perché ne ha l’occasione, vi assicuro che non vi torcerò un capello e che vi lascerò andare non appena smetterà di piovere.»

«La vostra anima è trasparente e la vostra fama vi precede. So bene chi siete: Vittore, il venditore di conchiglie! Di voi si parla in bene, perciò non ho creduto un solo momento alla vostra recita.»

«No, invece vi sbagliate… non sulla mia identità, sono davvero Vittore. Voglio però darvi una lezione. Non lasciatevi ingannare dalla fama della gente… un altro non vi avrebbe trattato con lo stesso rispetto, dal momento che l’occasione è veramente ghiotta. Giudicate invece la fame, quella che io non possiedo perché ho troppo orgoglio per dire che mi manca qualcosa che non mi sia riuscito a guadagnare.»

«Vi comprerò le conchiglie più belle!» esclamò d’impulso lei, toccata nel cuore dai discorsi di Vittore.

Tali parole distesero la conversazione, provocando sui visi di entrambi una perpetua espressione di serenità. Fuori intanto il cielo sembrava volersi congiungere col mare per come imperversava il temporale.

«Ecco come fare del bene a qualcuno come me! Come vi chiamate, Madonna?» chiese lui, tornando a sedersi sul sasso lasciato poco prima e invitando le due donne a fare lo stesso di fronte.

«Naila.»

«Cosa ci fa una delle figlie dei saraceni così lontano da casa?»

«Sfuggo alla noia.»

«Godete di un’inusuale fiducia da parte di vostro marito.»

«Egli è in viaggio.»

«Foste stata mia moglie…» accennò la sua contrarietà Vittore.

«Forse vostra moglie non si sarebbe annoiata. Voi non partite in lunghi viaggi di affari…»

«Io però non posso darle lunghi abiti di seta prodotta negli opifici reali e monili in metallo pregiato.»

«Ma forse quello che basta a vostra moglie sono le vostre forti braccia e la vostra intraprendenza.»

«Dite così solo per farmi piacere.»

«Non sminuite la mia analisi. Oggi avete ospitato due povere donne spaventate nella reggia più consona alla situazione. E sappiamo che con la vostra presenza non può accaderci nulla di spiacevole. Vostra moglie, qualora l’aveste davvero, dovrebbe sentirsi molto fortunata.»

La serva si accostò dunque all’orecchio di Naila e le disse preoccupata qualcosa. Giudicava quelle lusinghe eccessive, in quanto rivolte ad un uomo, a qualcuno appartenente ad un partito non alla sua altezza, e per giunta facente parte dei miscredenti.

Naila allora posò delicatamente le dita della mano sulle labbra della serva, indicandogli in tal maniera di tacere.

Vittore aveva già compreso di avere dinanzi a sé una testa calda, una donna raffinata nell’aspetto, ma anche priva di controllo. Una donna rischiosa quindi, di quelle che riescono ad ammaliare gli uomini per poi trascinarli nella pericolosità della loro natura. Vittore provò un misto di attrazione e sospetto. Per certo si trattava di una di quelle donne alla ricerca di svago, ma che non bisogna mai fare entrare nel proprio cuore.

«Venite a trovarmi al mercato. Potrete comprare le conchiglie che mi avete aiutato a raccogliere… collane, bracciali e orecchini. Vi farò un ottimo prezzo.»

Naila accolse l’invito ad uscire da casa per recarsi al mercato dei pescivendoli come la cosa più eccitante che le fosse accaduta negli ultimi tempi. Vittore certo era un bell’uomo e a Naila non erano sfuggiti i robusti bicipiti e i lineamenti virili, tuttavia non le sarebbe mai saltato in mente di guardarlo come se fosse più di un conoscente. Amjad non le avrebbe perdonato neppure quelle poche ore passate insieme a causa del maltempo, figuriamoci se avesse supposto che ci fosse dell’altro… E poi Naila non era così ingenua da non considerare tutte le differenze che intercorrevano tra lei e quell’uomo del popolo. Non fu quindi l’ingenuità la causa che pochi mesi dopo avrebbe fatto deragliare interamente i sentimenti della sorella dell’eunuco e pure il suo buonsenso. Naila era completamente consapevole di dove stesse andando a parare volta dopo volta nelle sue frequentazioni al mercato del porto. Per certo l’assenza di educazione genitoriale aveva formato un carattere poco incline alle inibizioni e alle proibizioni. Inoltre Amjad l’aveva viziata e con il suo esempio l’aveva resa vulnerabile alle tentazioni. Dopo anni passati ad ascoltare le confidenze lussuriose del fratello, a poco erano serviti gli sforzi fatti negli ultimi tempi per impartirle la retta via della fede. Naila aveva infatti recepito con entusiasmo intellettivo il risveglio islamico di Amjad, ma nel suo cuore non avevano mai smesso di albergare i desideri mai sopiti del suo risveglio come donna. Naila sognava l’amore e le forti braccia di un uomo sin da quando aveva compreso che l’affetto per Amjad fosse solo un pallido surrogato del sentimento di passione che nasce tra due esseri umani in età adulta… ora il venditore di conchiglie ricalcava perfettamente ciò che aveva desiderato.

Vittore, d’altro canto, ritenne dapprima innocue le timide visite di Naila al mercato, e successivamente, ormai preso da quella costante presenza, non seppe né volle più respingerle in cuor suo.

Così Naila imparò a disfarsi della presenza della serva e Vittore cominciò ad invitare la sorella dell’eunuco del Re ad incontrarsi in luoghi più appartati e ad orari in cui era più difficile essere visti.

I primi giorni di novembre la coscienza di Naila parlò poi per la prima volta al suo buon senso. Fu allora che comprese che la presenza dei cospiranti in casa sua avrebbe potuto minacciare la vita di Vittore e che l’amore con l’uomo delle conchiglie avrebbe potuto compromettere la posizione di Amjad tra coloro che seguivano la rivolta. Decise perciò di disfarsi della cosa a cui le era più facile rinunciare e pose fine alle riunioni del fratello. Tuttavia, nascondere qualcosa a Palermo, città in cui a tutte le ore e i luoghi vi erano occhi indiscreti ed orecchie testimoni, era impossibile… Le cose erano andate storte e l’amore di Naila e Vittore aveva innescato la gelosia di Amjad.




Capitolo 13


Notte del 10 Novembre A.D. 1160, Balermus



Ignaro di quale sorte fosse toccata alla sua amata, Vittore fece un passo avanti verso Majone e richiese:

«Vostra Eccellenza, il greco ci ha a lungo pregato di lasciarlo andare; che avremmo riscosso da lui la nostra ricompensa. Tuttavia a noi è parso giusto onorare la legge del nostro rispettato Ammiraglio.»

Majone finì di guardare Alessio scomparire dietro l’angolo, dunque sorrise e rispose:

«Perché me lo dite? Non è stato forse il vostro dovere?»

«Anche gli uomini in armi di Sua Maestà assolvono il loro dovere, tuttavia ricevono il soldo.»

A ciò Majone, stizzito, guardò i suoi, i quali intanto si erano avvicinati al suo livello.

«Il nostro amico chiede il soldo dei mercenari!» esclamò, rivolgendosi proprio agli uomini della sua guardia personale.

Majone era molto nervoso… a giudizio di chi lo conosceva da vicino, più del normale.

«Chiediamo solo l’offerta dei poverelli…» spiegò Mamiliano, volendo correggere il tiro di Vittore.

«L’offerta dei poverelli…» ripeté Majone, sorridendo a sprezzo di quell’affermazione.

L’Ammiraglio tirò fuori dalla tasca una manciata di monete d’oro e d’argento e le gettò oltre i suoi interlocutori, proprio nel bel mezzo dell’incrocio.

Uno della combriccola del porto si mosse per andare a raccattare quel denaro, ma Vittore lo trattenne prontamente per un braccio e commentò serio:

«Non mi sono mai inchinato a raccogliere l’elemosina di nessuno! Ma avete ragione… consegnare quell’uomo era nostro dovere.»

Dunque il venditore di conchiglie concluse piegando un ginocchio e accennando un inchino.

«Vostra Eccellenza…» salutò infine prima di congedarsi.

«Te l’avevamo detto che non avremmo dovuto avere a che fare con l’Ammiraglio.» commentò Duccio a bassa voce non appena ebbero girato le spalle.

Vittore intanto stringeva i pugni.

«Pagherò vostra sorella… Vittore, venditore di conchiglie!» urlò uno di quelli che stava accanto a Majone, uno che evidentemente conosceva il mercato del porto.

L’obiettivo dell’Ammiraglio era quello di umiliare coloro che recalcitravano alla sua imposizione di potere; ora lasciava perciò che uno dei suoi insultasse colui che si era mostrato più coriaceo. Majone si defilava e si dirigeva verso il suo cavallo, mentre alcuni del suo seguito si avvicinavano minacciosi ai compari del porto.

«Non hai sentito, pescivendolo? Pago tua sorella!» urlò ancora quello che aveva cominciato.

Vittore si fermò.

«Lo ammazzo!» sentenziò a bassa voce.

«È già tanto che ti sia andata dritta con quell’eunuco. È già tanto che non ti abbia mandato gli uomini del Re.» disse la sua Mamiliano.

Dissuaso dai suoi amici Vittore riprese il passo.

«Sappiamo dove abiti.»

Udita l’ultima frase, Vittore si voltò e, comprendendo che non avrebbe risolto nulla con l’indifferenza, chiese:

«Che cosa volete da me?»

«Non potete rifiutare il dono di Sua Eccellenza. Raccogliete quelle monete e ringraziate la mano che ve le ha concesse.»

Vittore sapeva che dopo quel gesto l’Ammiraglio e la sua guardia più fidata ne sarebbero usciti soddisfatti, nondimeno una forza più grande di lui gli impediva di piegarsi.

«È davvero poca cosa.» incoraggiò qualcuno tra i pescivendoli.

«Se la prenderanno con la tua famiglia.» aggiunse Duccio.

Vittore emise un lungo respiro e commentò bassa voce:

«Ammiraglio, è così che ti ingrazi il popolo?»

«Taci Vittore… siamo solo dei poveracci! Me lo hai detto tu, ricordi?» rimproverò ancora Duccio.

Intanto Majone e il grosso del suo seguito lasciavano quel luogo per rincasare.

Ora una folata di vento colpì alle spalle Vittore, e questi avvertì come la sensazione che sulla piazza restasse solo lui a fronteggiare l’uomo dell’Ammiraglio.

«Se non conoscessi la vostra natura… l’infamia di quelli che derubano chi già non ha e maltrattano chi non può difendersi… se non fossi sicuro che di fronte alla sconfitta cerchereste soddisfazione sui miei cari… allora vi proporrei un duello… Anche se non so se avreste il coraggio di accettare!» sfidò l’uomo delle conchiglie.

«Non vi sarebbe più facile raccogliere quel denaro?» chiese perplesso il soldato che scortava il primo ministro, il quale quella sera non aveva proprio voglia di far scorrere del sangue.

«Mi sarebbe più facile se voi mi lasciaste andare in pace. Altrimenti sarebbe più conveniente che voi non mi incontriate mai in un’altra circostanza… da solo, in altri abiti e senza la possibilità che qualcuno si rivalga sulla mia casa.» spiegò e minacciò Vittore, consapevole che in qualunque caso quella sera ne sarebbe uscito sconfitto, ma non volendo comunque far passare la cosa come una ritirata.

«Quando potrete permettervi una spada… forse…» rispose provocatoriamente l’altro, ridacchiando per sottolineare la differenza sociale che intercorreva tra loro due.

«Io impugno il coltello da pescivendolo; battetevi ad armi pari e vi farò vedere!»

Mentre l’ansia saliva tra quelli del porto e tra gli uomini dell’Ammiraglio aumentava la consapevolezza che Vittore facesse sul serio, dall’angolo della via che costeggia le mura più esterne del Palazzo Reale cominciò a presentarsi un folto numero di uomini in armi e a cavallo. L’aspetto di questi era nobile e l’andatura con la quale spronavano i propri destrieri sicura. L’inconsueta presenza di quei tizi fece rimandare duelli e malumori a quelli che se ne stavano già sull’incrocio opposto.

Una parte dei nuovi giunti si avvicinò perciò agli uomini dell’Ammiraglio ed uno disse a gran voce:

«Dichiaro Majone di Bari decaduto! L’epoca dei tiranni è finita! Da che parte state?»

Gli uomini dell’Ammiraglio, dal basso della loro posizione di appiedati, si guardarono l’un l’altro. Era chiaro che contro i nuovi non avrebbero prevalso.

«Risparmiateci le vite, Signori!» implorò terrorizzato il tizio che finora si era mostrato tracotante con Vittore.

La spada gettata sul selciato fu il segno lampante della frettolosa resa degli scagnozzi di Majone.

«E voi, da che parte state?» chiese sempre lo stesso a Vittore.

«Abbasso la tirannia! A morte Majone!» gridò tutto d’un fiato il venditore di conchiglie, come a volersi liberare di tutta la tensione accumulata finora.

«Bene! Alla porta di Sant’Agata anche voi!» concluse il tipo a cavallo.

Vittore non aveva la men che minima idea di cosa stesse succedendo, tuttavia, comprendendo che quello fosse un comodo pretesto per risolvere la questione con i tirapiedi di Majone senza cedere e umiliarsi, corse alla spada gettata dall’uomo dell’Ammiraglio e la raccolse. Gli altri dei suoi fecero lo stesso con le armi gettate dagli sconfitti. Nessuno degnò più le guardie di Majone d’attenzione.

Vittore adesso correva per stare al passo dei nobili a cavallo, correva e immaginava che quella notte, andando dietro a quegli uomini, sarebbe stato possibile agguantare un guadagno maggiore. D’altronde l’aspetto fiero e autorevole di quelli gli dava la certezza che la caduta della tirannia del perfido Ammiraglio si sarebbe concretizzata davvero quella notte.

Dalle finestre del palazzo dell’Arcivescovo cominciarono ora ad apparire lumi e volti della servitù, gente che sembrava essere già preparata allo spettacolo che stava per consumarsi per le strade di Palermo.

Percorsero il Cassaro da una parte all’altra costeggiando le mura del Regio Palazzo, passarono il Kemonia e giunsero in prossimità della porta di Sant’Agata. Qui molti di quelli che in precedenza accompagnavano Majone ora fuggivano nelle più disparate direzioni, alcuni incalzati dai rivoltosi. Un cavallo imbizzarrito sbucò dall’oscurità e quasi non travolse Vittore e i suoi, i quali dovettero assottigliarsi alle mura dei palazzi sul bordo della via.

La scena che si era appena consumata giusto fuori dalla porta era qualcosa che fino a poco prima nessuno avrebbe immaginato. Majone se ne stava disteso al suolo, trafitto dalla spada del capo dei cospiratori, ovvero di quel giovane nobile che aveva interloquito con Amjad nemmeno mezz’ora prima. Questi aveva infatti supposto che in quella carrozza potesse esserci proprio l’Ammiraglio, inconsuetamente privo di scorta dal momento che intendeva filarsela senza dare nell’occhio, spaventato dalla voce di possibili rappresaglie. L’uomo che attentava alla vita di Majone si era sbagliato, tuttavia adesso, riuscito finalmente nel suo intento e attorniato dai suoi fedelissimi, annunciava a gran voce:

«La tirannide che affliggeva il Regno è caduta, il sangue innocente che quest’uomo ha versato è stato vendicato!»

Intanto cominciavano ad avvicinarsi uomini e donne della cittadinanza, gente facente parte delle ombre che la notte si aggirano tra il vizio e il malaffare per le vie della città. Il numero divenne sempre più folto minuto dopo minuto e ben presto si diffuse la voce che Matteo Bonello, Signore di Caccamo, aveva ucciso l’Ammiraglio.

Non appena i nobili che avevano cospirato contro Majone si furono allontanati dal luogo del delitto, il cerchio degli spettatori del popolo si strinse sul cadavere. Alcuni, come sfregio oltre la morte, e potendo permettersi solo questo, presero a sferrare calci sul corpo dell’Ammiraglio. Altri lo ingiuriarono sputandogli e trascinandolo ora a destra e ora a sinistra.

Vittore, a differenza di molti altri, era rimasto per lungo tempo indifferente di fronte alle malefatte di Majone. Tuttavia l’umiliazione che si era consumata presso la cattedrale era ancora troppo fresca e lui quel tipo di offese non era mai riuscito a digerirle. Per di più Majone rappresentava il potere, quello stesso potere di cui, nella sua immaginazione, faceva parte anche l’eunuco che ostacolava il suo amore con Naila. Sapeva d’altronde che Amjad prima o poi avrebbe cercato la sua vendetta, e dunque, adesso che era arrivato il momento in cui il sovvertimento dell’ordine poteva giocare a suo vantaggio, bisognava cogliere l’occasione al volo.

Vittore guardò alla sua destra e si accorse che dall’alto dei loro destrieri stazionavano ancora un paio di quelli che avevano dato inizio alla cosa. Questi osservavano curiosi la scena, volendo accertarsi fin dove arrivasse l’odio del popolo. Il venditore di conchiglie concluse che se si fosse messo in evidenza agli occhi di quegli spettatori, si sarebbe fatto degli appoggi importanti per tutelare la sua sopravvivenza di uomo libero e il suo amore per Naila. Dunque si fece avanti e, armato del suo coltello da pescivendolo, si mise all’opera per dilaniare le carni dell’Ammiraglio. Conosceva i tagli con cui si prepara il tonno – la testa, il filetto, la ventresca, la codella – ed ora immaginò Majone come se fosse proprio un grosso tonno. Lo smembrò alla base del collo e degli arti, bagnandosi nel sangue ancora caldo dell’ucciso, intanto che la gente attorno a lui continuava a tirare e strappare, quasi come se il lavoro di Vittore volessero farlo a mani nude.

«Che le membra di questo maledetto giungano ai quattro angoli della città, dalla Khalesa[52 - Khalesa: in arabo letteralmente “la pura”, “l’eletta”. In epoca islamica la Khalesa era la cittadella fortificata dell’emiro e si trattava di una zona separata dalla parte vecchia della città. Ancora oggi il rione o mandamento che corrisponde all’antica Khalesa si chiama Kalsa.] infino al Regio Palazzo, cosicché ognuno veda e sappia che da oggi Palermo acclama un nuovo salvatore!» urlò Vittore, gettando un’occhiata ai due a cavallo.

«Viva Bonello, Signore di Caccamo!» rispose a tono uno tra la folla.

Perciò Vittore prese con sé la testa dell’Ammiraglio e si diresse verso il Palazzo Reale, intento a mostrare ad Amjad con chi avesse a che fare. Qui, proprio sulla piazza della cattedrale, la quale si apre alla base dei cancelli del Palazzo, Vittore issò la testa di Majone su un’asta e prese ad urlare:

«Abbasso la tirannia, viva il Re!» intendendo sottolineare come con il suo gesto non volesse minare il potere regio degli Altavilla, fondamento stesso dell’esistenza del Regno di Sicilia.

Fu ora che chiese a Duccio e Mamiliano, suoi vicini di banco al mercato e da adesso suoi bracci fidati, di raggiungere la casa di Naila e di portagli la ragazza, affinché l’eunuco Mattia, affacciandosi, comprendesse che ciò che non voleva essere concesso con il suo benestare lui se lo prendeva con la forza.

Nella notte in cui l’ordine delle cose veniva improvvisamente sovvertito dalla nobiltà invisa all’Ammiraglio, Vittore coglieva l’occasione per sovvertire la sua condizione, quella della povera gente che non può mai cambiare, se non, forse, proprio per mezzo della rivoluzione.




Capitolo 14


13 Novembre A.D. 1160, Balermus



Le torce accese attorno al Palazzo fecero temere alla Regina e ai servitori la rivolta e l’assedio. Margherita di Navarra, la quale aveva sperato per tutta la notte che la nefasta notizia riguardante la morte del suo amato fosse infondata, dovette sorreggersi alle braccia delle sue ancelle quando vide, alle prime luci dell’alba, la testa di Majone infilzata su un’asta. Il suo pianto disperato inquietò gli animi di chi sapeva e confermò il sospetto di chi immaginava; solo il Re, il quale soggiornava in una delle residenze fuori città, poté risparmiarsi la vista delle lacrime che la moglie riversava per un uomo che non era lui.

Non poté invece tremare Amjad, dal momento che non era a Palazzo, così come Vittore non poté riabbracciare Naila, dal momento che questa non era in casa. Quando il venditore di conchiglie si rese conto, poiché gli fu riportato dai vicini curiosi che avevano assistito all’evento, che quella notte l’eunuco avesse portato via su una carrozza la giovane sorella, il pianto della sua anima non fu meno triste e doloroso di quello della Regina.

Ad ogni modo c’era da portare avanti l’opera che era cominciata quella notte, e così Vittore continuò a gridare a gran voce che era giunta una nuova era, che il tiranno era stato ucciso e che si avvicinava il tempo in cui non si sarebbero più pagate le tasse. Ovviamente per la maggior parte si trattava di promesse irrealizzabili; in quel momento tanta era la foga che Vittore avrebbe creduto che l’uomo fosse in grado di raggiungere la luna.

Il subbuglio a Palermo era enorme e presto la nobiltà cominciò a temere che quel tumulto spontaneo generato dall’odio per Majone potesse trasformarsi in una rivolta popolare, contro l’indifferenza del Re e contro l’aristocrazia che affama. Così, tre giorni dopo i primi fatti di sangue, Matteo Bonnel, conosciuto come Bonello, l’uomo che aveva ucciso l’Ammiraglio e che intanto si era rifugiato nella sua Caccamo, inviò delegati per parlare ai capi del popolo, affinché quella sollevazione non si trasformasse in qualcosa di violento e incontrollato. Poco prima di mezzogiorno un tale Manfredo, accompagnato da altri tre, si fece largo tra la folla e giunse al cospetto di Vittore, il quale in quei giorni aveva sfilato per le vie della città per poi ritornare innanzi al Regio Palazzo numerose volte.

«Credo che coloro che osservano da oltre i cancelli del Palazzo abbiano ricevuto il messaggio. Date riposo a quella testa e venite con me.» esordì l’uomo che sosteneva Bonello.

Vittore riconobbe immediatamente nel giovane Manfredo uno dei cavalieri che durante la notte del dieci se ne stava presso la porta di Sant’Agata ad osservare il popolo offendere il corpo di Majone. Calò perciò la testa dall’asta e, accompagnato da Mamiliano e Duccio, seguì gli uomini a cavallo. Intanto la folla agguantava ciò che restava dell’Ammiraglio e si azzuffava per far proprio quel nauseabondo trofeo.

Vittore venne condotto nell’atrio di un palazzo e qui, richiuse le porte, venne invitato ad accomodarsi sui gradini di una scala.

«Il Re ha accolto con giubilo la notizia che giustizia è stata fatta sull’odiato ministro che opprimeva il popolo e che desiderava usurpare il trono. Dunque non serve che voi continuiate l’opera che ha avuto inizio l’altra notte.»

In realtà Majone aveva oppresso più la nobiltà che il popolo spiccio, imprigionando i baroni ribelli di Puglia e Calabria, rendendo schiave le loro figlie e prostitute le loro mogli. Inoltre, sebbene fosse vero il fatto che il Re gioisse per l’uccisione di Majone, benché in un primo momento fosse rimasto sbigottito da tanta violenza, il motivo andava ricercato nella paura che Guglielmo provava per Bonello e per i cospiratori. Un tempo, prima che il giovane Signore di Caccamo fosse scelto per quell’opera, si era addirittura cercato di coinvolgere lo stesso Re, ma questi, all’idea di dover essere responsabile di un tale atto di sovvertimento, aveva fatto sapere di essere contrario. Nondimeno adesso, a giochi fatti, Guglielmo non poteva far altro che cercare di ingraziarsi coloro che avevano liberato la corte dalla pesante presenza dell’impopolare Ammiraglio. La nobiltà calabrese, in rivolta da qualche mese, faceva quindi sapere al Re che era disposta a deporre le armi, sempre a condizione che la giustizia regia non colpisse Matteo Bonello per il reato commesso.

Ancora pieno di zelo e preso dall’inerzia degli ultimi spaventosi avvenimenti, stringendo il pugno al cielo, Vittore rispose:

«Viva il Re e viva Matteo Bonello!»

«Ho visto come la folla vi segue… notevole per un pescivendolo e venditore di conchiglie!»

«Dunque sapete chi sono, mio Signore?» chiese lusingato Vittore.

«Ci sarà ancora bisogno di voi. Il popolo ha bisogno di eroi che vestano i loro stessi panni.»

«Ho solo smembrato un cadavere.»

«Il cadavere del Grand’Ammiraglio… un crimine per cui meritereste il patibolo; secondo per gravità solo a quello del Signore di Caccamo. Ma questo fa di voi un uomo che non si volta di fronte alle ingiustizie… un uomo valoroso.»

Vittore gongolò. L’aveva sempre saputo che prima o poi la vita avrebbe ripagato il suo modo di essere così diverso dal resto della popolazione sottomessa.

«Signore, possediamo un banco al mercato; chiediamo di essere ricompensati non pagando più la tassa per la vendita.» intervenne Mamiliano, volendo approfittare del momento positivo.

Manfredo stava per dire che non stava a lui concedere qualcosa del genere, tuttavia Vittore intervenne.

«No, Signore, niente di tutto questo. Non ho portato in processione la testa dell’Ammiraglio per un compenso o per il desiderio di potere, ma affinché il mio nemico potesse vedermi e tremare… tremare e concedermi quello che chiedo. Un malvagio eunuco si frappone fra me e la sua giovane sorella.»

Manfredo pensò immediatamente all’incontro avvenuto poco prima che Majone passasse per la porta della città e che Bonello lo ammazzasse. L’eunuco in carrozza intendeva infatti allontanare sua sorella da un uomo che non era al loro stesso livello, un uomo di cui la giovane donna si era infatuata.





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notes



1


Saraceni: nome con cui erano comunemente conosciuti i musulmani nel Medioevo. Altri sinonimi utilizzati nel romanzo sono: mori, islamici e arabi. Alcuni di questi termini sono chiaramente impropri, tuttavia rispecchiano la conoscenza e la cultura della società dell’epoca. Oggi il nome “saraceni” viene utilizzato esclusivamente quando si devono indicare i pirati arabi e berberi che infestavano le coste del Mediterraneo, ma in questo romanzo indica tutti i musulmani. Il termine “musulmani” invece non è presente perché è di introduzione posteriore all’ambientazione del romanzo. Per lo stesso motivo non sono utilizzati mai i termini “bizantini” ed “ebrei”.




2


Giudei: nome con cui venivano chiamati gli ebrei in epoca medievale.




3


Cufico: stile calligrafico della lingua araba.




4


Egira: letteralmente “emigrazione”. Indica l’esodo di Maometto da La Mecca a Medina. L’anno di tale episodio, avvenuto nel 622 d.C., segna l’inizio del calendario musulmano.




5


Longobardi e Lombardi: il termine longobardi indica in senso stretto i discendenti del popolo germanico che invase la penisola italiana nel VI secolo, ma in senso lato tutti gli abitanti d’Italia che, da nord a sud, furono soggetti a tale popolo, e quindi anche a coloro che erano di origine italica (campani, lucani, ecc…). Nel XI secolo i longobardi parlavano ufficialmente il latino, ma si esprimevano nei dialetti romanzi dei luoghi in cui risedevano. Dopo la conquista normanna del sud Italia il termine derivato “lombardi” cominciò ad indicare solamente gli abitanti dell’Italia settentrionale.




6


Anno Mundi: nel calendario bizantino la locuzione Anno Mundi, abbreviato A.M., indica che il conteggio degli anni inizia dalla data della creazione del mondo, che secondo tale calendario sarebbe avvenuta l’1º settembre del 5509 a.C. In questo romanzo gli anni riportati nell’intestazione dei capitoli sono indicati secondo il calendario giuliano/gregoriano e secondo quello dell’etnia del protagonista di ciascuna parte.




7


Nicea: importante città dell’Impero bizantino, oggi parte della Turchia e conosciuta col nome di İznik.




8


Corcira: nome con cui era conosciuta un tempo l’isola greca di Corfù.




9


Faro di Messina: nome con cui veniva indicato l’attuale Stretto di Messina.




10


Eubea: grande isola del mare Egeo appartenente oggi alla Grecia. In passato era conosciuta anche come Negroponte.




11


Val Demone: uno dei tre Valli in cui era divisa un tempo la Sicilia. Il Val Demone corrisponde al triangolo nordorientale dell’Isola. Gli altri due sono il Val di Mazara ad ovest e Il Val di Noto a sudest.




12


Romei: appellativo con cui venivano chiamati i bizantini nel medioevo. Letteralmente “romani”, essendo Bisanzio proprio l’Impero Romano d’Oriente. Il termine “bizantini” fu coniato in un’epoca successiva. In questo romanzo sono anche chiamati col termine generico di “greci”, da non confondere con i greci propri della Sicilia, ovvero quella parte di popolazione indigena di lingua greca e osservante il rito orientale nella religione.




13


Stratigò o Strategoto: sorta di governatore della città di Messina con compiti esecutivi e giudiziari. La figura dello Stratigò risale all’epoca bizantina, ma si mantenne durante la dominazione normanna, a testimonianza del retaggio greco-bizantino della città.




14


Basiliani: monaci seguaci della regola di San Basilio. Possono essere di rito sia greco che latino, ma in questo romanzo si intendono soltanto quelli di rito orientale.




15


Logotheta: dal greco “colui che conta, calcola”. Dignitario del Regno di Sicilia e dell’Impero Bizantino che attendeva ai bilanci statali.




16


Balermus: nome di Palermo durante il periodo normanno. Si tratta della latinizzazione del nome arabo Balarm, che differisce tuttavia dall’antico nome latino Panormus. Da Balermus deriva l’attuale Palermo. Nelle intestazioni dei capitoli il nome delle città è pressoché quello in latino degli atti ufficiali dei normanni di Sicilia.




17


Amiratus: latinizzazione dell’arabo ‘amir (emiro). Era il titolo riservato al primo ministro del Regno di Sicilia in epoca normanna, chiamato per esteso anche Emiro degli Emiri (ovvero Amiratus Amiratorum), o Arconte degli Arconti (dal termine greco che significa primo magistrato). La parola italiana Ammiraglio deriva appunto dall’arabo ‘amir, avendo subito alla spiccia i seguenti passaggi: ‘amir > Amiratus > Amiralius > Ammiraglio. Tali trasformazioni linguistiche e semantiche avvennero alla corte siciliana. Proprio qui, infatti, la parola Ammiraglio, che inizialmente indicava una sorta di primo ministro con poteri plenipotenziari, finì per indicare il comandante generale della marina militare.




18


Joharia: dall’arabo al-jawhariyya, col significato di “ingioiellata”.




19


Fatimidi: potente dinastia musulmana (sciita ismaelita) che dominò il Nordafrica dal X al XII secolo.




20


Jannat al-ard: letteralmente “paradiso della terra”. Da questa parola deriva Genoardo, termine con cui si indicava il parco dei re normanni di Sicilia.




21


Opus sectile: antica tecnica artistica che utilizza marmi e paste vitree tagliate ad hoc per realizzare intarsi pavimentali e parietali.




22


Archimandrita: superiore di un monastero di rito greco ortodosso.




23


Gaito: dall’arabo qā’id, letteralmente “capo”, “leader”. Nella Sicilia normanna indicava i funzionari di Palazzo e i membri della Regia Curia. Di norma i gaiti erano musulmani convertiti al cristianesimo e poteva trattarsi di eunuchi. La parola entrò nella lingua latina come gaytus, volgarizzato gaito.




24


Papireto: chiamato anche “torrente Danisinni”, è uno dei fiumi che scorreva a Palermo. Questo era il fiume occidentale, quello che delimitava ad ovest l’antica città punica. Gli altri fiumi sono il Kemonia, deviato poi in modo da sfociare nell’Oreto, e appunto l’Oreto, chiamato in questo romanzo col nome arabo di wādī al-‘Abbās. Il Papireto e il Kemonia lambivano ad ovest e ad est il quartiere del Cassaro, per poi sfociare entrambi nell’enorme porto cittadino.




25


Cassaro: dall’arabo al-Qasr, fortezza. Durante la dominazione islamica il termine indicava la zona fortificata della città. Col tempo finì per dare il nome alla stessa strada principale di Palermo, ovvero l’al-Balat degli arabi (propriamente lastra di pietra, marmo, da cui il termine siciliano “balata”), chiamata anche via Marmorea durante il periodo normanno, ed appunto Cassaro in epoca successiva. Oggi corrisponde alla via Vittorio Emanuele.




26


Ducale: moneta d’argento coniata dai Re normanni. Il ducale era uno scifato, ovvero una particolare moneta a forma di scodella. Per tale motivo nel Regno di Sicilia ducale e scifato erano ritenuti sinonimi.




27


Wādī al-‘Abbās: nome del fiume Oreto durante il periodo arabo.




28


Khitān: circoncisione rituale islamica.




29


Sfax: città costiera dell’Ifrīqiya (Africa), ubicata nell’attuale Tunisia e chiamata in arabo Safaqīs.




30


‘Amil: letteralmente “agente”. Incaricato governativo che riscuoteva la jizya e le altre tasse.




31


Shahādah: testimonianza di fede islamica che corrisponde alle parole “Testimonio che non c’è divinità se non Allah e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero”.




32


Favara: palazzo reale in stile islamico, fatto edificare dall’emiro Ja’far e riadattato da Re Ruggero. Il suo nome risale all’arabo “Fawwara”, che significa “fonte che ribolle”. Oggi è conosciuto anche come castello di Maredolce ed è ubicato ai piedi del monte Grifone, ad est dell’antico nucleo di Palermo. Era ritenuto una delle residenze più raffinate dei sovrani normanni e i suoi giardini erano famosi per bellezza e splendore.




33


Ifrīqiya: regione corrispondente all’attuale Tunisia e ad alcune parti dell’Algeria e della Libia. Letteralmente “Africa”, essendo il termine derivato da ciò che i romani e poi i bizantini definivano Africa (provincia d’Africa).




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Ṣalāt: la preghiera canonica islamica, recitata obbligatoriamente dai musulmani osservanti cinque volte al giorno ed anticipata dall’adhān (il richiamo alla preghiera) del muezzin.




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Gerba: isola dell’Ifrīqiya, oggi ubicata nella Tunisia meridionale.




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Tripoli: in arabo Ṭarābulus. Città storica dell’Ifrīqiya ed attuale capitale della Libia. Chiamata anche Tripoli al-Gharb o Tripoli d’Occidente per differenziarla dall’omonima città libanese.




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Mahdia: città costiera dell’Ifrīqiya, ubicata nell’attuale Tunisia. Antica capitale della dinastia ziride, chiamata in arabo Mahdiyya.




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Almohadi: dinastia berbera di religione musulmana che dominò il Maghreb e la Spagna dal XII al XIII secolo.




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Andalus: nome con cui gli arabi chiamavano la Spagna musulmana. Il termine si è conservato nel nome della regione più a sud della penisola iberica.




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Maghrib: in arabo letteralmente “occidente”. Oggi il termine indica tutta la metà del Nordafrica occidentale, ma nella lingua araba si intende in senso stretto il Marocco.




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Ziridi: dinastia berbera di religione musulmana che dominò l’Ifrīqiya dal X al XII secolo.




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Allahu Akbar: letteralmente “Dio è il più grande”. Si tratta di un’espressione araba comune nel mondo islamico e presente nel Corano, nel ṣalāt e nell’adhān.




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Magna Curia: organo centrale dell’amministrazione pubblica nel Regno di Sicilia.




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Tunis: Tunisi




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Jihad: parola araba che significa letteralmente “sforzo”. Può indicare la lotta interiore per raggiungere la fede perfetta, ma generalmente con questo termine si indica la guerra santa compiuta dai musulmani in difesa della propria fede.




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Tarì: fu una delle monete principali utilizzate in Sicilia dal periodo arabo sino al XIX secolo. Letteralmente significa “fresco di conio”.




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Balarm: nome della città di Palermo durante il periodo arabo.




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Muezzin: la persona incaricata al richiamo dell’adhān dalla cima del minareto nelle ore del giorno in cui cadono i cinque ṣalāt.




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Platia: antico nome dell’attuale Piazza Armerina in provincia di Enna, città famosa per gli straordinari mosaici romani conservati nel vicino sito archeologico. La Platia medievale sorgeva a pochi chilometri dalla sua collocazione attuale.




50


Mons Jebel: letteralmente “monte monte”. In epoca araba la parola Jebel, usata senza appellativi, indicava il monte siciliano per antonomasia, l’Etna. In epoca normanna si finì per chiamare il vulcano “Mons Jebel”, unendo al termine arabo quello latino con lo stesso significato di monte. Col tempo le due parole si fusero e si trasformarono nel popolare “Mongibello”.




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Bel Grin: probabilmente dall’arabo Jebel Grin “monte vicino”. Da questi etimi si è sviluppato l’attuale nome “Pellegrino”, famoso promontorio ai cui piedi sorge Palermo.




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Khalesa: in arabo letteralmente “la pura”, “l’eletta”. In epoca islamica la Khalesa era la cittadella fortificata dell’emiro e si trattava di una zona separata dalla parte vecchia della città. Ancora oggi il rione o mandamento che corrisponde all’antica Khalesa si chiama Kalsa.



Il Regnum è un enorme mosaico variopinto in cui gente di culture, lingue e religioni diverse convive l’una accanto all’altra. Siamo intorno alla metà del XII secolo e sul trono di Sicilia siede Guglielmo il Malo. In questa storia si muovono sei protagonisti, ognuno facente parte di una delle razze che compongono l’enorme mosaico del Regno. Alessio, maestro d’arte bizantino, dal carattere remissivo e alla ricerca dell’amata figlia; Amjad, potente eunuco saraceno, votato segretamente alla causa dell’Islam; Vittore, figlio del popolo di Palermo, innamorato di una donna musulmana; Manfredo, nobile lombardo ambizioso e vendicativo; Chana, vedova di un prestadenari ebreo, alla ricerca di giustizia per l’assassinio del marito; e Roberto di Rossavilla, ago della bilancia delle controversie del Regno. In particolare quest’ultimo viene messo di fronte ad una complicata scelta: sposare la bella Rocca, figlia del dissidente Eraldo, oppure accettare l’offerta del Re, ripudiando la promessa spos Il Regnum è un enorme mosaico variopinto in cui gente di culture, lingue e religioni diverse convive l’una accanto all’altra. È stato il potere forte e accentrato dei sovrani normanni a rendere possibile tale creatura unica al mondo, prospera e potente. Pende tuttavia sul Regno una pericolosa legge di natura: ciò che è bello è spesso anche fragile… ciò che riesce è spesso anche precario! Siamo intorno alla metà del XII secolo e sul trono di Sicilia siede Guglielmo, detto “il Malo”. Questi preferisce l’ozio e il vizio all’esercizio di governo. Emergono perciò uomini senza scrupoli intenzionati ad accrescere il proprio prestigio. Majone, Ammiraglio del Regno, punta subdolamente al trono, mentre Matteo Bonello, giovane e valoroso barone, intende sovvertire il sistema con la forza. Le tensioni sfociano in una vera e propria guerra tra razze, che mette contro i saraceni, rappresentati dai potenti eunuchi di corte, e i lombardi, interessati al potere degli eunuchi e capeggiati dalla nobiltà dissidente. Intanto approfittano di questa debolezza le potenze confinanti, il papa così come i musulmani d’Africa, pronti a colpire al cuore il regno più avanzato d’Europa. In questo contesto si muovono sei protagonisti, ognuno facente parte di una delle razze che compongono l’enorme mosaico del Regno. Alessio, maestro d’arte bizantino, dal carattere remissivo e alla ricerca dell’amata figlia; Amjad, potente eunuco saraceno, votato segretamente alla causa dell’Islam; Vittore, figlio del popolo di Palermo, innamorato di una donna musulmana; Manfredo, nobile lombardo ambizioso e vendicativo; Chana, vedova di un prestadenari ebreo, alla ricerca di giustizia per l’assassinio del marito; e Roberto di Rossavilla, ago della bilancia delle controversie del Regno. In particolare quest’ultimo viene messo di fronte ad una complicata scelta: sposare la bella Rocca, figlia del lombardo Eraldo, oppure accettare l’offerta del Re, ripudiando la promessa sposa ed infrangendo gli accordi col nobile dissidente. Roberto potrebbe lasciar decidere il cuore, ma c’è un problema: non ama Rocca! Si sviluppa così una storia piena di colpi di scena, in cui le vicende dei singoli influenzeranno il destino di tutti. Sarà qualcuno dei sei protagonisti a salvare il Regnum dall’odio e dall’intolleranza, o forse finalmente il Re si renderà conto che il futuro del suo trono passa dalle sue mai compiute scelte? Nel frattempo, in una delle sale del Palazzo Reale, tessera dopo tessera, un abile mosaicista sta per portare a termine una delle opere più emblematiche del periodo normanno. Su quelle mura è raffigurato il Paradiso, meta che accomuna tutti gli uomini di ogni razza e cultura, e immagine stessa del Regnum. Un romanzo storico di ambientazione medievale moderno come pochi. Capace di affrontare in chiave diacronica argomenti attuali come l’integralismo islamico, il suprematismo razziale e la tutela dei diritti individuali; a dimostrazione che nella storia umana non si inventa mai nulla di nuovo.

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