Книга - Il Libro Nero

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Il Libro Nero
Anton Barrili






Il Libro Nero





CAPITOLO I



Nel quale si racconta di mastro Benedicite, strozziere, e della gran paura che avea

Il sole era tramontato in mezzo a certi nuvoloni neri neri che ingombravano l'orizzonte marino, minacciando, dopo una molto bellissima giornata, una notte burrascosa. Gli ultimi riflessi dell'astro, costretti sotto quella cappa di piombo, accendevano come una striscia di fuoco lunghesso il mare, che si vedeva nereggiare in lontananza, di là da parecchi ordini di monti e colline, che sono i contrafforti dell'Apennino ligustico.

Le giornate, essendo sul finire d'autunno, riuscivano brevi; l'aria, già fresca per la stagione, si raffreddava sempre più per l'accostarsi del temporale e per il calar della notte. E già nascosto nell'ombra, sebbene fosse murato su in alto, era il castello di Roccamàla, severo edifizio tra il monastico e il feudale, siccome era dimostrato da un campanile, vecchio avanzo di chiesa, dimenticato in mezzo a torrioni e mura merlate, le quali avevano da due lati l'abisso, e un largo fosso dagli altri due, dov'era più dolce il pendìo.

Se la memoria non mi tradisce, questo castello di Roccamàla era stato da principio un convento di frati cirsterciensi, ordine il quale, fondato appena da S. Bernardo, si propagò alla lesta come una nidiata di conigli, e corse in pochi anni a popolare i paesi vicini. In Italia, segnatamente, e' furono come le cavallette d'Egitto. Dappertutto edificarono monasteri, e in parecchi luoghi (poichè allora, a quanto sembra, la novità delle fogge presiedeva eziandio alla prevalenza di questo o di quel sodalizio di frati) si allogarono in que' conventi che altri ordini più non potevano far prosperare, tanto erano andati giù nel concetto delle anime timorate.

Senonchè, i cisterciensi, o bernardoni, come erano chiamati dalle popolazioni ligustiche dal nome del fondatore, fortunatissimi altrove, nol furono del pari nel loro ricovero di Roccamàla. Nocque loro la fortezza naturale del sito e il comandar che faceva a due ottime strade (ottime, s'intende, per i tempi d'allora); laonde, corsi e ricorsi quei monti da gente strana, Roccamàla fu presa e divenne feudo di un valoroso conte, il quale non aveva altro che la sua spada, ma sapeva con quella tagliarsi dalla pezza la sua parte di tela. E intorno a Roccamàla il conte Ugo si tagliò di siffatta guisa un largo dominio, donde appariva, come tanti suoi pari, avvoltoio appollaiato sulla rupe, pronto a calare, se le discordie altrui gliene porgessero il destro, sulla marinaresca riviera. I frati, messi fuori di sella, dovettero quindi andarsene a dimorare più giù, verso il paesello che dipendeva dalla rocca, ma dove furono sempre a disagio, e intisichirono, come una pianta in luogo uggioso, sebbene il conte Ugo non li molestasse per nulla. Il fiero castellano non badava ad altro che a rafforzare e munire la sua rocca; la quale, pochi anni di poi, per una di quelle contese così facili a nascere tra vicini, sostenne valorosamente l'assedio di uno dei signori Del Carretto, e lo rimandò con Dio, conciato, lui e la sua gente, per il dì delle feste.

Ma egli non è di questo conte Ugo, capo stipite dei signori di Roccamàla, che io debbo narrar le gesta ai lettori, sebbene talfiata e' dovrà essere ricordato con distesi ragionari. Narro di forse cento trent'anni dopo di lui, quando quel forte legnaggio faceva bella testimonianza di sè in un altro conte Ugo prode e gentil cavaliere, amante delle giostre, delle cacce, delle tenzoni, dei trovadori e de' geniali convegni, per le quali cose era quasi sempre calato il ponte di Roccamàla e risuonavano le spaziosi arcate di festevoli risa e di liete canzoni.

Gaia gente, allegre mura! Il giovine conte era ricco, potente e bello come un eroe da romanzo, e felice per sovrammercato, come gli eroi da romanzo non sogliono essere.

Il papa lo aveva benedetto, sul nascere, mandando al conte Ruberto suo padre, per sì fausto evento domestico, un sacco d'indulgenze, che potevano bastare al neonato per tutto il tempo della sua vita, e avanzarne ancora un bel gruzzolo per uso della sua gente di casa.

Nella sua rocca convenivano d'ogni parte i più fedeli amici che uomo vedesse mai, innamorati dei modi suoi cortesi, liberali e magnifici; ed erano tali per nobiltà di sangue, e per alto valore e prodezze, da poter rinfrescare intorno a lui, nuovo Artù, l'onorata memoria dei cavalieri della Tavola rotonda.

Egli aveva i più bei falconi d'Europa, che gli erano stati donati da un suo zio materno, gran maestro de' cavalieri di Malta. Della qual cosa era giunta voce perfino al re di Francia, il quale, avvezzo per lo innanzi a ricevere ogni anno da Malta i migliori falconi pellegrini, e non gli parendo più che il gran maestro dell'ordine facesse il debito suo con la usata larghezza, ebbe a tenerne parola co' suoi gentiluomini. E uno di costoro gli rispose: – Sire, j'ai oui dire que le Grand Maistre a un sien neveu, de fort bonne noblesse, qu' il a en grande affection, et c'est lui qui reçoit les plus beaux faucons et les plus gentils que l'on puisse voir. – A cui il re di rimando: – M'est avis que ce jeune homme, puisque il est d'aussi bonne noblesse que vous le dites, vienne chez nous, et nous le ferons notre grand fauconnier, et l'aurons en haute estime, tel éstant notre bon plaisir. Aussi nous ne perarone pas de si nobles et gentilles bêtes, si chères à monseigneur Saint-Hubert, et gagnerons un vaillant chevalier pour notre joyeuse maison de France. —

Ma il conte Ugo non potè, siccome pur era desiderio dello zio, tenere lo invito, in modo tanto cortese a lui fatto dai reali di Francia. Di fama, di potenza e di onore, egli aveva quanto bastasse ad orrevole cavaliero del suo tempo; e poi, conte Ugo non avrebbe lasciata l'Italia per il trono del mondo se mai Domineddio glielo avesse profferto; imperocchè egli era amato dalla più bella tra le creature umane, da Giovanna di Torrespina, da colei che celebravano per leggiadria e valore quanti erano cultori della gaia scienza, e che lasciò ella stessa, a testimonianza del suo ingegno, le più graziose ballate in quella lingua provenzale, che era in fiore per tutta Italia, innanzi che l'amante della bellissima Avignonese facesse della lingua italiana l'idioma d'amore.

Per simiglianti venture il conte Ugo non saliva punto in superbia, che borioso non era, nè sciocco. Prode in armi, aveva combattuto daccanto al padre, e non ne menava alcun vanto; era misurato ne' modi, schietto, umano e gentile. Ed ognuno, ricordando come una indovina, chiamata dalla buona contessa Alda sua madre alla culla del bambino, avesse pronosticato: «tuo figlio sarà un uomo felice», ripeteva che il conte Ugo era felice davvero, e, quel che più monta, era degno di esserlo.

Ma cotesto per l'appunto faceva venire i brividi, ogni qual volta se ne parlasse, a mastro Benedicite, lo strozziere, o falconiere che dir si voglia, dei signori di Roccamàla.

E perchè mo'? Nato e cresciuto nel castello, il vecchio mastro Benedicite amava il signor suo, sto per dire più dei suoi falconi, i quali falconi egli amava più dei suoi occhi medesimi. Egli era un quid tra il servo e il maggiordomo, tra il castaldo e il comandante del presidio; era insomma il ser faccenda di casa; il vecchio arnese della rocca, che aveva libertà di parola come un pazzo. Stato particolare che si spiegherà agevolmente col dire che egli era fratello di latte del vecchio conte Ruberto; che aveva salvata la vita, o quasi, alla contessa Alda, un giorno che il suo ronzino le aveva vinta la mano, e che, nato strozziere, perchè tale era suo padre, e tale suo avolo, aveva pure studiato un po' di latino sui vecchi messali dei frati del paese, tanto da essere creduto uomo di dottrina da tutto il vicinato, e degno di intuonare il benedicite alla mensa dei suoi padroni, alla quale era ammesso, sebbene ad un desco più basso. Ora che i lettori sanno anche per qual ragione il nostro valentuomo si chiamasse mastro Benedicite, noi finiremo il bozzetto col dire che egli sapeva il mestier suo a menadito, e (poichè bisogna confessar tutto, il male come il bene) ne andava superbo assai più che non fosse consentito dalla cristiana umiltà.

E adesso che lo si conosce intus et in cute, co' suoi vizi e con le sue virtù, e non si può dubitare che non amasse il conte Ugo, come va, chiederete, che a mastro Benedicite venissero i brividi, ogni qual volta si toccasse della felicità del padrone?

Qui giace nocco, lettori amorevoli, e se vorrete tirare innanzi a leggere con quella pazienza medesima che io a scrivere, farò di chiarirvi il negozio tra breve, senza guastar l'ordine del racconto, il quale ora mi costringe a prendere una viottola di fianco. Parrà una digressione, un perditempo, e non è che una scorciatoia, per la quale faremo un viaggio e due servizi.

Il dotto strozziere se ne stava nella sua falconeria, comodo edifizio accanto alla seconda porta della rocca, dove erano tutte le generazioni di falchi e d'astori, ed ogni altro arnese attinente alla caccia. Quella nobile famiglia di bestie aveva faticato di molto nella giornata, poichè il conte di Roccamàla era andato con numerosa brigata a falconare, ed aveva cavalcato per una ventina di miglia, fino al castello di Torrespina, facendo gran caccia di uccellame e selvaggina. Il buon nome degli alati cacciatori di Malta era stato nobilmente sostenuto al cospetto di leggiadre dame e cavalieri, e mastro Benedicite raddoppiava il cibo a' suoi figliuoli, com'egli soleva chiamarli, dando loro le interiora, cuori e fegatelli di starne, lepri, ed altri volatili e quadrupedi, che erano stati feriti a morte dai rostri di quelle bestie valorose.

– Optime, fili mi! Tu non hai nessuno che possa starti a paro. Nullus tibi se conferet heros, sebbene tu abbia già i sessanta suonati. Tò, mio dolce amico, questo è per te. —

Queste parole, erano rivolte ad un bel falco randione, che mastro Benedicite s'era recato amorosamente sul pugno, offrendo alle sue allegre beccate uno spicchio di carne sanguinolenta. Era quello il beniamino dello strozziere, e degnamente rispondeva alla preferenza affettuosa di mastro Benedicite, facendo il fatto suo per modo da non toccargli neppure il sommo delle dita, e interrompendo ad ogni tratto il suo pasto (notate gran tenerezza) con un picciol grido di gioia e di gratitudine.

– E tu, che fai costì, manigoldo? – borbottò poco stante mastro Benedicite, facendo la voce tanto ruvida, quanto era stata dolce dapprima. – Metto pegno che ancora non sarà nulla a suo posto, nè lunghe, nè cappelli.

– C'è tutto, zio, ed ho anche ripulito per bene il pavimento; – rispose, senza scomporsi punto per quella infinita ruvidezza, un biondo adolescente, che era venuto allora a stringersi ai fianchi del vecchio falconiere.

– E la lezione?

– La so.

– Tanto meglio per te, se tu di' il vero, fannullone. Orvia, sentiamo un tratto… Quante sono le generazioni de' falchi? —

Il fanciullo stette un po' sopra pensiero; quindi rispose a mezza voce:

– Sono sei…

– Ah, ah! – gridò mastro Benedicite, in quella che proseguiva a dare il pasto alle sue bestie – certuni lo dicono, ma cotestoro, ragazzo mio, non sanno neanco l'abbicì della falconeria.

– Sono sette; – si provò a dire il fanciullo.

– Sette, sì certamente, sette e non sei. La prima?

– Il randione.

– Adagio, adagio a' ma' passi e non mettiamo il carro davanti a' buoi. Si va dal minore al maggiore, de minore ad majorem. Il primo legnaggio sono lanieri, che sono i più vani: molta apparenza e poca sostanza. E il secondo?

– Il secondo, son quelli chiamati pellegrini.

– Sta bene, e perchè?

– Perchè persona non può trovare il loro nido; anzi sono presi come in pellegrinaggio, e sono molto leggeri a nutrire, cortesi e di buon'aria, e valenti e arditi.

– Bene, bene! – borbottò il falconiere – e il terzo?

– Il terzo sono falconi montanini, che si nascondono dappertutto, e quando son nascosti non fuggono più; il quarto falconi gentili; il quinto…

– Non correr già a precipizio! Festina lente, ragazzo mio! Che cosa sono anzitutto i falconi gentili?

Il fanciullo era rimasto a secco. La voglia di far presto gli aveva fatto perdere il filo.

– Ma… – disse egli – i falconi gentili sono… sono…

– Sono quel che tu non sai, per quanto io vedo. E quello che tu non sai, gli è che i falconi gentili sono nobilissimi, prendono la gru, e non hanno che un male, cioè di volar troppo lungo, per modo che si bisogna averne buon cavallo per seguirli, e quassù per i nostri greppi non approderebbero. Ora al quinto, e bada a non incespicare.

– Il quinto – proseguì il nipote – son gerfalchi, li quali passano tutti gli uccelli della loro grandezza, e sono forti, fieri, ingegnosi e bene avventurati in cacciare e in prendere; il sesto è il sagro, molto grande e somigliante allo sparviero.

– All'aquila! all'aquila! – interruppe mastro Benedicite. – Vedi mo', Anselmuccio, questo è appunto un sagro; o dove ti sembra egli che rassomigli allo sparviero? Quello che tu di' è l'astore, non già il falco sagro.

– All'aquila; – soggiunse il ragazzo, risovvenendosi, – ma, degli occhi, del becco, delle ali e dell'orgoglio somigliante al gerfalco. Il settimo…

Mastro Benedicite non aveva messo a tortura il nipote, che per farlo giungere a quel settimo.

– Eccolo, il settimo, – interruppe egli con aria di trionfo – eccolo, il randione, cioè, il signore e re di tutti gli uccelli, che non è niuno che osi volare appresso di lui, nè dinanzi. Vedi, figliuol mio, tu lasci il randione contro qualsivoglia uccello munito di poderose ali, e non c'è verso di fuggirgli; cadono tutti tramortiti in tal guisa, che l'uomo li può prendere, come fossero morti. —

E ciò detto, essendo finito con la lezione il pasto delle sue bestie nobilissime, mastro Benedicite si volse da capo al beniamino randione:

– Non è egli vero, fili mi dilectissime, che voi siete uccello da cosiffatte prodezze? Or via, pigliate il cappello e buona notte. Salve tandem!

Il falcone, con la mansuetudine di tutti i suoi pari, quando siano manieri, e stati da gran pezza a scuola sotto un buon maestro d'arte aucuparia, raffermò con moti quasi soavi le palpebre, si lasciò incappellare come un membro della confraternita della Morte, e coi geti annodati ai piedi si pose chetamente sul bastone a dormire.

Ora, in quella che mastro Benedicite si metteva attorno agli altri falconi per far loro il medesimo uffizio, si affacciò sull'uscio della falconeria un famiglio.

– Ohè, mastro Benedicite, s'ha egli da alzare il ponte, questa sera?

– Che ponte mi vai tu pontando ora? – gridò stizzito il falconiere.

– Sì, il ponte, il ponte! – disse di rimando quell'altro. – Messer lo Conte e tutta la sua gente sono per andare a mensa, e credo non aspettino più altri da fuori.

– Questo sapevo; e poi?

– E poi, mastro Benedicite, io non c'entro. Se a voi piace che il ponte rimanga calato, accomodatevi pure. Voi avete da messer lo Conte ogni autorità, per far questo ed altro…

– Sì certo, e me ne vanto; – rispose lo strozziere, che parlava allora da comandante della guardia – e penso di non essere venuto meno alla fiducia di messere Ugo. Il ponte è alzato.

– È calato, – s'impuntava a dir l'altro – qui siete in errore; è calato.

– Amico, – esclamò mastro Benedicite, dopo aver bene squadrato in viso il famiglio, alla luce di una lanterna che aveva accesa durante quel po' di conversazione, – bibisti quam maxime, a quel che pare.

– Che cosa dite? io non intendo il vostro latino.

– Dico che tu t'impacci de' fatti tuoi, e non mi venga a far l'omo; dico infine che tu se' pazzo, o ubbriaco. —

Quell'altro si strinse nelle spalle, facendo con le labbra l'atto di chi alla perfine non ci ha nè sal nè pepe da metter su. E mentre il vecchio, presa la lanterna, esciva dalla falconeria per avviarsi alla porta della rocca, si fece in tal guisa a proseguire il discorso:

– Io non volevo far altro che darvi un cenno della cosa. Per me, poi, stia calato, o si alzi, non me ne importa un frullo. Ad altri, in cambio, può talentare che l'escita sia libera, e non c'è nissun male. Già, chi ha da venire a darci molestia quassù? Nemici molti, si farebbero scorgere troppo tempo prima. Pochi, avrebbero degna accoglienza. E se pure non si ha paura del diavolo… il quale del resto non ha bisogno…

– Sta zitto là, manigoldo! – gridò Benedicite, e fu ad un pelo di mettergli la palma della mano sui denti. – Tu non sai quel che ti dica, e meno ancora di quello che hai detto poc'anzi del ponte calato.

– Orbene, vedete di per voi; è alzato o calato? Erano allora per l'appunto alla porta, e i buffi dell'aria esterna s'ingolfavano rumorosamente sotto l'androne. Mastro Benedicite non rispose, che non avea tempo da schermire di lingua col famiglio, e con passo deliberato corse da un lato dell'androne a cercare un uscio socchiuso, donde usciva un po' di luce fumosa e un suon di voci avvinazzate.

– Che fate voi qui, pendagli da forca? Giuocate a zara? Avrete tempo a giuocare, quando sarete con Satanasso, che il malanno vi ci porti illico et immediate!Chi ha calato il ponte, che è stato levato pur mo' sotto i miei occhi?

– Mastro Benedicite, – rispose uno degli arcieri, alzandosi dalla panca, – noi non ci siam mossi di qui. Se il ponte era alzato, come voi dite, penso che lo sarà tuttavia.

– No, vi dico; è calato.

– Sarà qualche paggio, – entrò a dire un altro della brigata, in quella che tutti uscivano dalla camera per tener dietro allo strozziere, – sarà qualche paggio randagio, che ne fa qualcuna delle sue.

– Baie! Questi manigoldi si calano giù nel fosso dalle finestre, quando loro metta conto di uscire a far le scorribande nel vicinato. E così si fiaccasse una volta il collo, messer Fiordaliso, che ha introdotto il costume di appendersi alle scale di corda! Ma qui, vivaddio, gatta ci cova, o voi altri avete calato il ponte, ed ora che siete alticci dal vino, non ve ne ricordate più altro. —

Gli arcieri, che ben sapevano di non averci messo mano, ma che pure volevano farla finita con le sfuriate di quell'autorevole personaggio, non risposero verbo. Chi tace acconsente; e per tal guisa fu tacitamente ammesso che il ponte di Roccamàla, la sera del 29 novembre, giorno di san Saturnino, dell'anno del Signore 1284, era stato levato e calato.

Ma quel ch'era stato disfatto bisognava rifare. E già si appigliavano alle manovelle per trarre le catene, allorquando si udì dall'altro lato del fosso lo scalpito di un cavallo che risaliva galoppando il pendìo, e, subito dopo, lo squillo di un corno che domandava ospitalità al conte Ugo di Roccamàla.

– Chi diamine giunge a quest'ora? – esclamò uno degli arcieri.

– Proprio a tempo, – soggiunse un altro, – per farci risparmiar la fatica!

– E come ha fretta, il sere! E' suona alla disperata.

– Su, su, tirate, alla croce di Dio, e non mi state a far chiacchiere! – interruppe lo strozziere.

– O perchè volete voi che si alzi il ponte, ora, per calarlo da capo? E l'ospite che giunge, per dove volete che passi?

– Che ospite del malanno! Vada a farsi impiccare per la gola…

– Ma… e messer lo Conte, se giunge a risaperlo…

– Messer lo Conte… messer lo Conte… vi comando io, e pagherò io per tutti. —

E dicendo queste parole, il vecchio strozziere tremava a verghe.

– Poffarbacco! – esclamò uno degli arcieri – si direbbe che avete paura di una visita di messer Satanasso in persona. Basta, sia come vi talenta, o, per parlar latino alla vostra guisa, fiat volontas tua, mastro Benedicite. Orsù, figliuoli, alle manovelle!

– Sì, sì, alle manovelle! – ripetè lo strozziere, più morto che vivo, senza stare a piatire coll'arciere, e mettendosi all'opera egli stesso con le braccia tremanti.

– Ohè! ohè! messeri! In tal guisa si ricevono gli ospiti, dalla gente costumata?

Queste parole, accompagnate da un riso sarcastico, venivano dall'altra banda del fosso. Mastro Benedicite non poteva scorgere chi fosse, essendo egli sotto la luce della lanterna, e il nuovo capitato fermo di là dal ponte nella oscurità della notte; ma tant'è, gli parve di scorgere un paio d'occhiacci fiammeggianti, e per moto naturale si recò le dita alla fronte, per farsi il segno della croce.

– Domine salvum fac… Vade retro Satana… – borbottò egli tra i denti. – Alzate, alzate, in nome di Dio!

Intanto il riso sarcastico si faceva udire da capo, e la voce con esso.

– Ah! ah! grazie, grazie, per mia fe', mastro Benedicite! Un povero romèo è egli dunque un cane tignoso, che gli si chiudano le porte sul muso? In verità ch'io mi facevo più ospitali i signori di Roccamàla. —

Tocco nel vivo, lo strozziere si fe' qualche passo innanzi, ma senza por piede sul tavolato del ponte, e tirando intorno a sè tutti gli arcieri, perchè gli facessero buona difesa; quindi, con voce che si provava a far parere sicura, rispose:

– I signori di Roccamàla furono sempre e saranno i più ospitali cavalieri della cristianità, messer pellegrino, e cotesto abbiatevelo per fermo. Appunto in quest'ora c'è corte bandita a tutti i più riputati che portino spada e cappa in questi dintorni, e scorre il vin di Cipro, che alla mensa del serenissimo doge di Venezia non se ne bee del migliore. Ma gli ospiti del magnifico conte Ugo son persone a modo, e non hanno la vostra meschina figura, messer pellegrino, sebbene io la scorgo attraverso questa mezza oscurità.

– Ah, voi giudicate l'uomo dalla apparenza? Io dovrei pigliarvi allora per un otre, se bene vi scorgo a mia volta. Andate là, mastro Benedicite… e non vi faccia meraviglia ch'io vi chiami col vostro nome, poichè l'hanno pur mo' gridato gli uomini vostri. Andate là, ed annunziate al magnifico conte Ugo la venuta di un povero pellegrino di Roma.

– Di Roma! – ripetè con piglio d'incredulità lo strozziere, in quella che dentro di sè si raccomandava a tutti i santi del calendario.

– Ne dubitate? Ci ho gusto. L'uomo che dubita è l'uomo che pensa. Ma io ci ho di buone testimonianze a mettervi fuori, che potranno acquetare la vostra timorata coscienza. Vengo da Roma, dove ho visto il Papa e la Santa Madre Chiesa, che fanno insieme una buonissima vita. Peccato che non abbiano figliuoli! Basta, io porto qui, sulla sella del mio magro ronzino, una gerla di coroncine benedette e d'indulgenze plenarie, e poi le più succose dispense che ogni buon cristiano possa desiderare; dispense di sgravarsi senza dolore, checchè sia stato decretato in contrario; dispense di mangiare il proprio simile, quando si abbiano buoni denti, e di bere senza ubriacarsi, mettendo acqua nel vino. Che ve ne pare, mastro Benedicite? son io degno di entrare?

– Su, su, arcieri! – urlò il vecchio strozziere. – Alle catene, alle catene!

Ma sì, a persuaderli che gli tenessero bordone! Gli arcieri erano rimasti stregati dalle bizzarrie del pellegrino, e sghignazzavano ereticamente, senza badare alle furie di mastro Benedicite. Ed egli a gridare, a tempestare, a pigliarli pel collo (che la paura gli raddoppiava le forze), fino a tanto non li ebbe ridotti all'obbedienza. Ma, sebbene ci si mettessero tutti, ed egli medesimo si provasse ad aiutarli, le catene non iscorrevano punto.

– Voi non fate il debito vostro, manigoldi; tirate a voi con quanta forza avete!

– Mastro Benedicite le catene hanno la ruggine. Intanto quell'altro continuava a ridere.

– Mastro Benedicite, la ruggine è molto più cortese dama che voi non siate cavaliero. Ora, voi vedete, già venti volte, non una, avrei potuto passare, e nol fo, per non usare villania al vostro signore. Ma se egli non è malnato castellano, udrà i tre squilli di corno che si mandano alle porte della sua rocca. —

Così parlò il pellegrino di Roma, e, posto mano al corno che gli pendeva da fianco, suonò con esso tre volte.

– Misericordia! – esclamarono gli arcieri. – Questa è la tromba del giudizio universale.




CAPITOLO II



Dove si legge della felicità di conte Folco, come fosse celebrata dal biondo Fiordaliso

Al primo squillo di corno, quel tale squillo che avea fatti rimanere sospesi con le braccia in aria gli arcieri, conte Ugo stette egli pure sospeso, con la coppa d'oro alle labbra.

– Un ospite! – esclamò egli, voltandosi alla brigata. – Sia il ben venuto a Roccamàla.

E bevuto un sorso, mandò attorno la tazza, quella tazza d'oro lavorato con la quale i suoi antenati, da Ugo il negromante, fino a Ruberto il taciturno, avevano avuto costume di far le loro libazioni ospitali.

– Messere, – disse Fiordaliso, – io mi penso che questo sconosciuto visitatore rimarrà un pezzo alla porta e morrà anche a ghiado, se aspetta che gli apra mastro Benedicite. —

Colui che parlava in tal guisa era un giovine sui vent'anni, vestito di un farsetto azzurrognolo listato di bianco e di vermiglio, e con una zazzera bionda le cui ciocche scompigliate scendevano a nascondergli mezza la fronte e le guancie. Il viso roseo e la delicatezza dei contorni lo avrebbero fatto togliere agevolmente per una leggiadra donna travestita da paggio, se certi peli vani che ombreggiavano il labbro superiore e il basso delle guance, non avessero fatto manifesto che egli avea dritto a portare il nome mascolino di Fiordaliso, col quale era chiamato a Roccamàla, e conosciuto da tutte le graziose femmine della contèa, nel giro di venticinque miglia, ed anche più oltre.

Il conte Ugo sorrise con aria affettuosa alle parole dell'adolescente.

– Che vuoi dir tu, Fiordaliso?

– Dico, messere, che con mastro Benedicite non si può uscir mai, quando s'è dentro, nè entrare, quando s'è fuori. Egli è sospettoso come una lepre, e mal per noi se gli somiglia san Pietro, o se va egli un giorno a far da portinaio in sua vece.

– Per ora, – soggiunse il Conte, – e' bisognerà che se la tolga in pace e metta mano alle chiavi. Roccamàla non è un paradiso; ma essa non è mai stata chiusa a nessun viandante che domandasse ospizio per amor di Dio, o del valoroso barone san Giorgio che l'ha in guardia. I miei antichi furono gente melanconica e contegnosa, ma a questo debito non hanno fallito mai, e non lo dimentica di certo il mio vecchio strozziere, che è il cronista della famiglia.

– Ah! gli è dunque un uomo di dottrina, il vostro Benedicite? – chiese Ansaldo di Leuca.

– Altro ci è! Non parlo dei suoi testi latini, che n'ha sempre una serqua tra i denti, parati ad uscirne fuori. Ma e' vi sa dire quando e come fu murato il castello, e poi giù giù una infilzata di storielle, che a udirne la metà v'intronerebbero il capo per un giorno e non vi lascerebbero più dormire la notte. Ma lo so ben io, che da bambino gli ero sempre sulle ginocchia e pendevo dalle sue labbra; lo stuzzicavo sempre a narrarne di nuove, e poi non c'era più verso che potessi pigliar sonno, tante erano le immagini del tempo antico, che scendevano a popolare la solitudine della mia camera. Ma questo ospite non giunge…

– Io ve l'ho detto, messere; mastro Benedicite vorrà sapere anzitutto il nome, la patria e la condizione, se scapolo o ammogliato, e Dio sa quant'altre cose di quella fatta.

– Se egli fa ciò, vuol levarmi il mio buon nome, e noi dovremo dargli una strapazzata, appena ei venga quassù. Messeri, questo vin di Cipro… Ma che diamine fa egli, quel vecchio scimunito? Ho io ad esser chiamato per cagion sua il più tristo cavaliero d'Italia?

Questa sfuriata del conte Ugo era cagionata, siccome i lettori hanno indovinato per fermo, dai tre squilli di corno che metteva il forastiere, stanco di attendere e di piatire con mastro Benedicite.

– Al nome di Dio! – esclamò Ansaldo di Leuca. – Questi è uomo di vaglia.

– E quel vecchio pazzo non se ne dà per inteso! Suvvia, Fiordaliso, scendi tu alla porta, e vedi che cos'è egli mai che ha intorpidite le gambe al nostro falconiere. —

Fiordaliso corse con quella baldanza che è propria de' giovani e che a lui era accresciuta dieci cotanti dalla amorevolezza del suo signore. Ma egli era appena sulle scale, che vide giungere ansante, trafelato, mastro Benedicite; laonde, aspettatolo sul pianerottolo, rientrò con esso lui nella sala, con una curiosità in corpo da lasciarsi indietro una dozzina di femmine. Intendiamoci bene, di femmine e non di donne, poichè tra queste e quelle, sebbene non ammessa dal vocabolario, corre una differenza grandissima.

– Orbene, mastro Benedicite, – gridò conte Ugo, appena ebbe scorto da lunge lo strozziere, – e come va che i forastieri chiedono ospitalità e non l'ottengono, a Roccamàla? —

Senonchè, fatto questo rimprovero in forma di domanda, egli vide la faccia dello strozziere, e, buono com'era, tosto raddolcì la sua voce per dirgli:

– Ma che è, Benedicite? Che cosa sono quegli occhi stralunati, e quel viso smorto?

– Egli è, messer lo Conte… – balbettò il vecchio – egli è… ho calato il ponte… cioè, l'avevo alzato e poi lo rinvenni calato… Un pellegrino, che afferma giunger da Roma… e mi pare che venga piuttosto da casa il diavolo…

– Potrebb'esser tutt'uno! – esclamò Ansaldo di Leuca.

– Sarà come voi dite, messere Ansaldo; ma io penso che questo forastiero del malanno… insomma, io so quel che mi dico…

– Sì, sì! – interruppe ridendo il conte Ugo, dopo aver fatto cenno degli occhi a Fiordaliso, il quale fu sollecito ad uscire da capo. – Ma voi avete a sapere eziandio, mastro Benedicite, che il nostro castello, anco a voler partecipare alle vostre superstizioni, non ha paura del diavolo. Qui c'è stato parecchi giorni il santissimo Bernardo di Chiaravalle, quando Roccamàla era convento del suo ordine, e la benedizione di un tanto uomo non basta ella a raffidarvi?

– Essa, con vostra licenza, messer lo Conte, non ha impedito…

– Ah, ah! vecchie storielle da raccontarsi quest'inverno accanto al fuoco. Ma dove lasciate voi, uomo di salda memoria, le benedizioni di due papi? Dove la visita del vescovo Gualberto? Macte animo, generose senex! vi dirò io, imitandovi; noi siamo armati di bolle, d'indulgenze e d'acqua santa, per ricevere anco una visita dello spirito maligno. Portae inferi… come dite voi, che io non lo ricordo più, il vostro latino?

– Non praevalebunt, messer lo Conte; e così Dio v'ascolti! – soggiunse mastro Benedicite, che, vedendosi là, al cospetto del suo signore e di tanti allegri cavalieri, incominciava a stupirsi d'avere avuto paura.

– Ben venga il diavolo, se pure è egli che giunge! – disse Ansaldo di Leuca.

– Egli è alla perfine un cavaliero di alto legnaggio, sebbene caduto in disgrazia del più possente barone del mondo, – soggiunse Enrico Corradengo, – e noi ci terremo ad onore di averlo commensale.

– Ecco un forastiero che fa parlar molto di sè, – conchiuse il conte Ugo, – e noi vedremo se la persona sua risponderà alla nostra aspettazione. Ad ogni modo, sia il benvenuto tra noi. Mastro Benedicite, aprite, vi prego, al vostro spauracchio. —

Il falconiere andò verso l'uscio della sala e la spalancò. Frattanto si udiva lo scalpiccìo dei piedi nel corridoio, e la gaia voce di Fiordaliso.

– Entrate, messere pellegrino; venite a scaldarvi e a rifocillarvi un tratto in buona compagnia. —

Allora fu veduto entrar nella sala un uomo smilzo e lungo come… dove pescherò io il paragone? come le speranze dell'autore di questo racconto.

Egli si fece innanzi, rasentando una ricca mensa, intorno alla quale erano seduti dieci o dodici convitati. La sua cappa di bigello, tutta sgualcita e rattoppata in più luoghi, il sarrocchino coperto di nicchi marini e il largo cappello che s'era lasciato ricadere dietro le spalle, facevano contrasto co' farsetti e giustacuori di velluto variopinto, con le berrette piumate, e le collane d'oro alle quali accresceva splendore la luce riflessa dei doppieri. Ma più assai che le vesti, contrastava la sua pallida faccia coi volti allegri degli ospiti di Roccamàla.

Chi era costui? Un romèo, cioè un pellegrino che veniva da Roma. Pellegrini si dicevano coloro i quali andavano a sciogliere il voto ai luoghi santi, e segnatamente al sepolcro di Cristo; romèi più propriamente coloro i quali andavano alla eterna città, per baciare il piede al Giove di bronzo, ribattezzato San Pietro, e per ottenere la benedizione del papa. Ma quello del romèo non era un mestiero, sibbene uno stato accidentale e transitorio dell'uomo; ora, che altro fosse, e a qual ceto appartenesse il nuovo venuto, non era dato d'intendere. Poteva essere un povero diavolo, che, stanco di servire gli uomini, si fosse accomodato ai servigi di Dio, od anco un barone, carico di peccati, che fosse andato a pentirsene a Roma, col cilicio alle reni e col bordone tra mani.

La cera del pellegrino non lasciava intendere se egli fosse di questa o di quell'altra specie; ma certo non era d'uomo da poco. Il viso, un tal po' allungato e scarno, mostrava que' fini contorni che non sono oggi, e per fermo non erano allora, di gente rozza e villana. Assai meno poteva indovinarsi l'età, imperocchè quel suo viso era tale da rispondere ad ogni congettura, e si poteva dargli trenta come sessant'anni; privilegio dei vecchi e dei giovani invecchiati, allorquando gli uni e gli altri abbiano membra asciutte, e carni e peli senza un colore spiccato.

Per farla finita con le dipinture, diremo ch'egli era aitante della persona, e per avventura oltre la comune degli uomini, che infine i suoi modi erano d'uomo punto impacciato nel farsi innanzi ad una nobile brigata.

Egli entrò diffatti con passo fermo e sicuro, affrontando gli sguardi curiosi; e rasentando, come ho già detto, la mensa, andò difilato verso il conte Ugo, che al suo apparire s'era cortesemente alzato da sedere, per farglisi incontro.

– Entrate, messer pellegrino; – aveva detto quest'ultimo, accompagnando le parole con atti graziosi. – Deponete il vostro bordone e il cappello, e sedete qui daccanto a me. Il nostro Fiordaliso cederà di grand'animo il suo posto al nuovo ospite che la nostra buona ventura ci manda.

– E non gli chiede nemmanco il suo nome! – borbottò fra i denti mastro Benedicite, in quella che andava a sedersi al suo posto consueto, nel basso, della tavola. – Già, egli è sempre stato così, come tutti i suoi vecchi! Suo padre, il taciturno, non apriva la bocca che cinque o sei volte all'anno, e ci volevano proprio i forastieri, per fargliele metter fuori, quelle quattro parole! —

Il pellegrino, intanto, si era seduto a fianco del conte Ugo, e dalle sue mani aveva ricevuto la coppa ospitale; ma in cambio di recarsela alle labbra, stava curiosamente a guardarla.

– Vi piace questa coppa, messer pellegrino? – ripigliò a dire il conte Ugo. – A me duole di non potervela offerire in presente, dacchè essa è la coppa dei signori di Roccamàla, la coppa di un mio famoso antenato, che portava appunto il mio nome, or sono forse cento e trent'anni. Non è egli vero, mastro Benedicite?

– Sì, messere; – rispose il vecchio, – Ugo il negromante mori nel 1150. E la coppa, narrano le cronache, fosse quella di Borman, gigante che i Liguri adorarono poscia come un dio, la quale fu donata al conte Ugo dalla fata Melusina. Il santo vescovo Gualberto voleva buttarla giù nel torrente, ma il vostro trisavo Aleramo…

– Basta, basta! – interruppe il Conte. – Ecco già un monte di parole per una coppa che non ne franca la spesa, quantunque sia d'oro. Ella ha un sol pregio, messer pellegrino; vo' dire l'amorevolezza con la quale io la presento a' miei ospiti.

– Lo so, messer lo Conte, lo so; – rispose il romèo. – Questa è la fama che di voi corre nel mondo.

Quindi, rivoltosi alla brigata, soggiunse, innanzi di recar la coppa alle labbra:

– Nobili messeri, io bevo alla vostra felicità, se pure è possibile che un uomo sia al mondo felice.

– Grazie dell'augurio, messer pellegrino; – disse Ansaldo di Leuca; – ma voi m'avete l'aria di dubitarne. O perchè non potrebbe uomo esser felice in questo mondo?

– In hac lacrymarum valle; – borbottò mastro Benedicite. – Ora vediamo che cosa gli sa risponder costui. A' suoi pari non hanno di certo a mancar le ragioni! —

Ma il pellegrino li lasciò a bocca asciutta ambedue, contentandosi a rispondere:

– Messere, a chiarirvi cotesto per bene, si vorrebbe una troppo lunga dissertazione.

– E voi sarete stanco; – entrò a dire il conte Ugo.

– Oh, non già, messer lo Conte! – rispose il pellegrino. – Vengo da Roma a piccole giornate, e non fo molta fatica. Oltre di che, il còmpito ch'io m'ho preso laggiù, mi ha consentito di giovarmi dell'opera di un ronzino; e Lutero, comunque non faccia gran mostra di membra, è un animale che sa il debito suo.

– Che nome! Lutero! – esclamò Enrico Corradengo.

– Un nome greco; – rispose il pellegrino – a Roma si studia molto il greco, oggidì.

– Gran città, quella Roma! non è egli vero, messer pellegrino?

– Sì, davvero, gran città; e chi non l'ha veduta, sia detto con vostra licenza, nobili messeri, non ha veduto nulla. E dire che di presente ella non è ancor giunta a quel tanto di grandezza che papa Leone X ha in mente!

– Leone X! – non potè rattenersi dallo interrompere mastro Benedicite. – O non è più papa Onorio IV?

– Ah! voi siete forte di cronologia, a quel che pare, mastro Benedicite! – rispose il pellegrino. – Onorio IV se ne è salito diritto al cielo, dove sta pregando per la conservazione di Santa Madre Chiesa e pel suo trionfo sui tristi che le fan guerra. Ora abbiamo pontefice il sant'uomo Leone X, munificentissimo principe, il quale dà opera a grandi e laudabili novità. Vedrete la basilica di San Pietro, quando sarà riedificata, e mi saprete dire s'ella non sarà divenuta la più gran meraviglia del mondo cattolico. —

Così dicendo, il pellegrino fece col capo il cenno di chi ha nominato una cosa sacra. Mastro Benedicite non aggiustava fede a' suoi orecchi medesimi. Quell'umile e costumato pellegrino, che parlava con tanta reverenza cristiana, era egli colui che di là dal ponte levatoio di Roccamàla gli aveva pur dianzi parlato, a lui mastro Benedicite, in sì beffarda maniera? Un uomo avveduto avrebbe, a dir vero, notate sulla faccia del pellegrino, segnatamente ai lati delle labbra, alcune rughe, nelle quali usa nascondersi l'ironia, e in certe guardature, che accompagnavano le parole, sarebbe colto in flagranti lo scherno. Ma il buon falconiere, quantunque sapesse di latino, non era uomo da intendere questi nonnulla; argomentate poi se potesse coglierli a volo! Egli era come trasognato, e già si pentiva in cuor suo di aver così male inteso, e peggio giudicato, un uomo che faceva testimonianza di tanta religione.

– E come si vive a Roma? – domandò Fiordaliso. – Chi non ha sulle spalle i gravi carichi della santa religione, non ci morrà mica di noia?

– Dio ne guardi, messere! Roma è l'Atene d'Italia. Sua Santità è un uomo co' fiocchi; vo' dire un degno vicario di Dio. Il redentore del mondo è rappresentato laggiù come si addice a così alto barone. E il Machiavelli, con la sua Mandragora! Quella è una commedia! Il papa ha già voluto udirla recitare due volte. E il Bembo! Che piacevole uomo e che latinista di vaglia! Figuratevi, nobili messeri, ch'egli ha scritto ad un amico suo, non avesse a leggere le epistole di san Paolo, per non guastarsi la buona latinità! La mercè di questo valentuomo, che è segretario ai brevi, gli oracoli del Vaticano sono espressi con una eleganza, che non fu mai la maggiore. La vergine Maria si chiama Dea Lauretana; papa Leone è assunto al pontificato jussu deorum immortalium; celebrar la messa da morto si chiama litari Diis manibus, ed altre frasche simiglianti, che capirà per bene mastro Benedicite, il quale ho udito essere molto intendente della lingua del Lazio. —

Lo strozziere, toccato nel suo debole, chinò gli occhi modestamente sul tagliere. La diffidenza, che gli era nata in petto contro il forastiero, incominciava ad andarsene in fumo.

– Voi dicevate, messer pellegrino, della basilica di San Pietro.

– Affè, sarà quella un'opera stupenda. Figlio di Lorenzo il Magnifico, Leone X non farà che cose magnifiche. Ma ci bisognan danari.

– Nulla res sine pecunia! – sentenziò Benedicite.

– Sì, veramente, e a cotesto si pensa per l'appunto ora, e chiunque aiuterà alla grand'opera avrà indulgenze a macca.

– E voi, messer pellegrino, – entrò a dire il Conte, – se ben m'appongo, ne avete in buon dato.

– Sì, messer lo Conte, ne porto attorno per cui piacciono. Vo in Monferrato; di là passerò in Lamagna, dove spero il negozio abbia a prosperare più assai che in ogni altra parte d'Europa. Ahimè, sono stato un grande scioperato fino ad ora, e mi bisogna racquistare il tempo sprecato, con qualche opera buona. Ma già questi non sono discorsi da farsi a mensa, e in compagnia di tanti orrevoli cavalieri. Proseguite, di grazia, i vostri interrotti ragionari, se pure ad un forastiero è permesso di udirli.

– Che diamine! Noi stavamo appunto per chiedere una ballata a Fiordaliso, il nostro bel paggio, che la pretende a poeta, e, in fede mia, non senza ragione.

– Mi sarà grato udire ciò che bisbigliano le Muse nell'orecchio di un sì leggiadro garzone.

– Oh, non vi aspettate grandi cose, messer pellegrino! – rispose Fiordaliso, che si era fatto rosso come una brace. – Io non ho studiato d'arte poetica, e vo strimpellando il liuto come un menestrello villereccio.

– Suvvia, Fiordaliso, non ci buttiamo giù di questa guisa! Il nostro ospite avrà forse udito più valorosi trovatori che tu non sia; ma io metto pegno che egli non rimarrà al tutto scontento dei fatti tuoi. Sentiamo dunque la tua ballata! —

Il paggio non si fece pregare più oltre, e andato a pigliare in un cantuccio il liuto, incominciò a trarne parecchi accordi, i quali volevano proprio dimostrare come il suonatore fosse stato troppo modesto, paragonandosi ad un menestrello giramondo. Quindi, giusta il costume degli antichi trovatori, non ancora perduto in que' paesi feudali, si fece a cantare in questa maniera:

– Conte Folco è prode e bello,
Esemplar de' cavalieri.
Fido albergo è il suo castello
Di dugento balestrieri.
Cento lance ei mette in guerra.
È possente e paventato;
Ma più ancora avventurato
Dell'affetto d'ogni cor.

S'è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor. —

– Bene, Fiordaliso, bene! – gridò Ansaldo di Leuca.

E tutti in coro ripeterono il ritornello:

S'è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor.

Il giovinetto proseguì, accompagnandosi cogli accordi del suo liuto:

– Sulla preda all'aure scaglia
I falcon più peregrini;
Pronti in giostra ed in battaglia
Ha cavalli saracini.
Lieto il fan di censo opimo
Le vitifere pendici;
Ma più lieto i fidi amici
Che gli fan corona ognor.

L'uom felice in terra estimo
Fin che regni in terra amor. —

– Gli amici, Ugo, tu l'hai udito, gli amici! – disse Enrico Corradengo, dopo che ebbero ripetuto il ritornello.

– Sì! – rispose Ugo. – L'amicizia è la più bella cosa e la più cara che al mondo sia.

– Adagio, messere! – gridò Fiordaliso. – Io non ho anche finito.

– Tira innanzi, dunque, da bravo!

Incuorato dal plauso della brigata il paggio intuonò la terza strofa:

– Carlomagno invidia a lui
Così dolce e lieto stato;
Ch'ei non è tra' prodi sui
Più securo e più beato.
Conte Folco a regio impero
Ben potria levar le brame;
Ma più grato a lui reame
Parve ognora un fido cor.

Più felice è l'uomo invero
Se gli arrida in terra amor. —

– Hai ragione, Fiordaliso! – esclamò conte Ugo. – L'amore accanto all'amicizia, ma un grado più in su. Questo è nella natura delle cose, e voi non ve ne dorrete, amici miei, non è egli vero?

– No, per mia fè! – rispose Ansaldo di Leuca. – E' bisognerebbe essere egoisti di tre cotte, per dolersene. Le dame anzitutto! Ma ci ha da essere ancora una strofa…

– Sì, messere; – soggiunse il paggio, – ed eccola appunto:

– Per lui sol non disumana,
Disdegnò d'un re l'omaggio
Valorosa castellana
Di gran cor, d'alto legnaggio.
È regina e imperatrice,
Se tien Folco in suo governo,
Se per lei d'affetto eterno
Per lei palpita il suo cor.

Sulla terra è l'uom felice
Fin che regni in terra amor.

– Bene! benissimo! – gridarono tutti, e ripeterono in coro, siccome avevano fatto per l'altre strofe:

Sulla terra è l'uom felice
Fin che regni in terra amor.

– Questo conte Folco era un uomo felice davvero – disse Ugo, in quella che si toglieva dal collo la sua collana d'oro, per cingerne il suo paggio prediletto. – Felice davvero! e a tutte le sue venture s'aggiunge questa, di essere cantato da sì gentile poeta. Che ne dite voi, messer pellegrino?

– Che avete ragione, per quanto si riguarda al poeta. I suoi versi sono graziosi, e meritano il presente che avete sì nobilmente fatto all'artefice. Ma il concetto, con sua e vostra licenza, non mi par giusto del pari.

– Oh! oh! – sclamò Fiordaliso, turbato nel suo trionfo poetico.

– Non c'è oh che tenga! soggiunse il pellegrino. – Recatevelo in santa pace; voi non avete, messer Fiordaliso, fatto prova di molta filosofia; laonde io mi fo' lecito di consigliarvi a studiare qualche buon libro intorno a questa materia, e in particolar modo il libro della vita, che le Sacre Carte hanno simboleggiato nell'albero della scienza del bene e del male.

– Fiordaliso, tu se' spacciato! – gridò Ottone di Cosseria.

– Periisti! – aggiunse il latinista Benedicite, dal fondo della tavola.

– Orbene, – disse, dopo una breve sosta il poeta, messo in puntiglio – correggete voi con la vostra scienza, messer pellegrino, quel che c'è di errato nei miei grami concetti!

– E perchè no? Tengo la giostra. Date qua il vostro liuto e vedremo di cavarne un costrutto. —




CAPITOLO III



Come il biondo Fiordaliso fu vinto in tenzone poetica, e del rammarico ch'ei n'ebbe

Allora, in mezzo alla aspettazione universale, lo strano ospite di Roccamàla pose le mani sullo stromento di Fiordaliso, che più non parve lo stesso. Le sue dita, adunche come gli artigli d'un falco, cavarono dalle corde una tempesta di suoni, striduli e sto per dire non umani; strano preludio che fece correre un brivido di terrore per l'ossa a quella nobile udienza.

– O come suonate voi, messer pellegrino? – chiese Enrico Corradengo.

– Come il Paganini.

– E chi è il Paganini? – dimandò un altro della brigata.

– Un gran trovatore, messeri, un gran trovatore.

– E… – si provò a dire Fiordaliso, che udiva toccato il liuto da mano maestra e già si sentiva una spina nel cuore, – e vi ha insegnato egli?..

– No, io a lui; – rispose asciuttamente il pellegrino.

– Ah! noi siamo dunque al cospetto di un maestro… – disse il conte Ugo.

– Oh, questo poi no, messer lo Conte! Pizzico un tratto, per mio logorare, ma non la pretendo a maestro nella gaia scienza, come fa qualcun altro. Ora, ecco, magnifici messeri, vi canterò la ballata dell'uom felice, la ballata di Giobbe.

– Vuol essere allegra! – disse mastro Benedicite fra i denti; e frattanto di sotto alla tavola fece il segno della croce, imperocchè, dopo quel preludio indiavolato, gli era tornata la paura in corpo.

Per tutta la comitiva si fece un gran silenzio, appena il pellegrino ebbe annunziato il titolo della sua ballata. E l'ospite di Roccamàla, con voce ingrata, ma che costringeva ad ascoltare, così diede principio al suo canto:

Era su in alto splendida festa,
Chè avea l'Eterno corte bandita.
Calici in mano; corone in testa;
Tocche le cetre da rosee dita.
Tutti raccolti nel ciel natio
Eran gli alati figli di Dio.

– Il cominciamento è bello! – gridò Ansaldo di Leuca. – Pare una copia della nostra brigata, salvo che noi non abbiamo corona in testa e non siamo figli di Dio, e voi non avete le dita rosee, messer pellegrino! —

Il cantore rispose alla celia di Ansaldo con un sorriso che mise in mostra trentadue denti nitidi ed acuti come quei d'una sega, e, ripigliato l'arpeggio, prosegui:

C'eran tutti, chè in lieto accordo
Venner da' chiari regni e da' bui;
E quell'astuto, cui non fu sordo
D'Eva l'orecchio, c'era pur lui,
Da Dio colpito già d'anatema,
D'alta scienza mastro Aporèma.

– Aporèma! È un nome saracino? – esclamò Ansaldo di Leuca.

– No, – soggiunse Corradengo – un nome greco.

– Greco, o saracino, – borbottò mastro Benedicite, – gli ha da essere sinonimo di Satanasso. —

Il pellegrino rispose con un altro dei suoi tetri sorrisi, e continuò cantando:

Spirto del dubbio, spirto che indaga,
Che viver sdegna contento al quia,
Nè di fallaci larve s'appaga,
E l'uom da' stolti sogni disvia.
Com'ei da sezzo giunto s'assise,
Lo vide il vecchio Sire e sorrise.

– Che vuoi Satanno? –  Buon sire Iddio,
Un posto al vostro gaio banchetto!
Vostra fattura, padre, son io,
Sebben m'abbiate poi maledetto,
E qual maestro lasciato all'uomo
Dopo la biblica scena del pomo.

– Sì veramente, spirto malnato,
E aver ciò fatto mi seppe reo!
Ma non hai tutti pure ingannato…
Ti sfugge il giusto prence Idumeo…
– Ve' gran fatica! Voi lo volete…
Ma lo lasciate solo, e vedrete! —

– Sì, tenta! io tolgo da lui la mano…
Ma inver sovr'esso fai mala prova,
– Perchè? fors'egli fuor dell'umano,
Oltre la terra sue gioie trova?
Hollo a far tristo, buon sire Iddio,
O ch'io, Satanno, non son più io! —

Qui il pellegrino fece una sosta, che nessuno degli astanti volle turbare co' suoi ragionari, tanto erano ansiosi di udire la continuazione. E questa non si fece attender molto, poichè, dopo un altro arpeggio più cupo del primo, e con voce più stridula, il cantore di Aporèma venne alla seconda parte della ballata.

Il vecchio di lassù tenne la fede,
Perchè sillaba sua non si cancella,
E l'uom felice in potestà gli diede.

Ratta sui vanni allor d'atra procella,
Scende sventura all'idumee pendici,
Strugge i campi, gli armenti e le castella.

Ve' subito oscurarsi i dì felici
Del prence, e ve' dalle dolenti case
Ad uno ad uno disparir gli amici!

Nè il vinse ciò, nè l'ira al cor süase.
Guardò la donna sua, baciolla, al core
Forte la strinse, e impavido rimase.

Ma passa ancora il nembo struggitore
E a lui, che nulla sembra aver sofferto,
Della salute inaridisce il fiore.

Già bellezza e vigor l'hanno deserto,
E tabe ria da cento piaghe stilla
Onde apparisce il corpo suo coverto.

Ve' donna innamorata! Amor vacilla.
Ve' cor cui l'uomo non mutevol creda!
Torse il piede ad un tempo e la pupilla.

Solo, ognor solo, parta il giorno o rieda,
Alla brina gelata, al sol cocente,
Solitario carcame a' vermi in preda!

Pur gli rimase il raggio della mente…
Ma udite qual ne fece uso sennato;
Maledisse all'Eterno, e irriverente

Gli domandò: «perchè m'hai tu creato?»

Giunto alla fine della seconda parte, la quale, anzi che un canto, fu una recitazione drammatica, accompagnata da rauchi suoni di corde, il pellegrino fece la seconda sosta.

La brigata non fiatava; ma il suo silenzio non era per fermo testimonianza di freddezza; chè ben dimostravano il contrario gli sguardi fisi e le labbra ansiosamente tese verso il cantore.

La imprecazione di Giobbe era stata resa con un accento da mettere i brividi, e più paurosa l'avea fatta il liuto, con un suo accompagnamento beffardo. Poco stante, il pellegrino, facendosi da capo alla cantilena delle prime strofe, ripigliò in questa guisa a cantare:

Era su in alto splendida festa
Ed Aporèma fu del cortèo.
– Orben, signore, dite, che resta
Del vostro lieto prence Idumèo?
Povero, infermo, solo, reietto,
Al suo fattore grida così:
«Perchè mi desti core e 'ntelletto?
«Perchè m'apristi le luci al dì?»

Affè, gran cosa l'esser felice
Se un sogno all'uomo la vita infiori,
E raggio d'iride l'ingannatrice
Zona vi stenda de' suoi colori!
Felice è l'uomo fin che la fede
Inviolata nel cor gli sta,
E il primo intonaco di ciò che vede
A brani a brani non se ne va. —

– E tu, Aporèma, forse più lieto
Sei tu che 'l negro dubbio diffondi,
Tu che turbandomi l'alto secreto
Ogni parvenza scuoti e disfrondi?
Dimmi, te stesso non hai dannato
A lutto eterno fin da quel dì
Che in questo sogno viver beato
Sdegnasti e l'ira mia ti colpì?

– Il ver parlate, buon sire Iddio;
In cor non sente gioie Aporèma.
Nel duol mi cruccio, ma il duolo mio
Non può speranza vincer, nè tema.
Quanto la vostra mano dispone
Per me segreti, sire, non ha:
So quanto valgono cose e persone,
E niun sul prezzo gabbo mi fa.

La ballata del pellegrino, e la sarcastica chiusa, fecero una grande impressione sulla nobile comitiva. Gli amici del conte Ugo e i suoi vassalli si guardarono in viso trasognati; indi tornarono a guardare il pellegrino, sulle cui labbra scorgevasi ancora il sogghigno di Aporèma. A mastro Benedicite, allora più che mai ricaduto in balìa delle sue superstiziose paure, venne in mente che fosse proprio lui quello spirito maligno del quale aveva cantate le imprese; epperò il degno strozziere se ne rimase mutolo, a capo chino, fantasticando sulle conseguenze di quella visita notturna, e non badando punto a citazioni latine; segno che il suo turbamento era grave.

Anche il conte Ugo era muto, sebbene non partecipasse alle ubbìe del suo fidato vassallo e non vedesse nell'ospite di Roccamàla che un uomo come tutti gli altri suoi commensali. La filosofia dello sconosciuto lo aveva profondamente commosso, ed egli era rimasto inerte sulla scranna, con lo sguardo fiso ma disattento, come di chi sembra aguzzar l'occhio verso un punto dello spazio, e non fa in quella vece che seguire il corso vagabondo d'immagini confuse, le quali non hanno per anche presa la forma di un pensiero.

Il primo a rompere quel silenzio, e direi quasi quell'incantesimo, fu il biondo Fiordaliso, pieno il cuore della sua giovanile baldanza.

– Leggiadra è la vostra ballata, messer pellegrino; ma egli mi sembra che la storia da voi narrata non sia molto d'accordo con la Bibbia, segnatamente nella chiusa. —

La nota del paggio era girata per la mente a tutti i commensali; epperò eglino, udendola espressa dalle parole dell'adolescente, gli tennero bordone con un cenno del capo.

Ma il pellegrino non era uomo da darsi vinto per simili frasche. Crollò le spalle, fece una smorfia e rispose con aria benigna e compassionevole:

– Ah! perchè voi non avete letto che la Volgata, messer Fiordaliso. La storia vera è quella che v'ho raccontata io, e si legge nel testo caldaico della Vaticana. Nella Volgata s'è tenuto altro metro, per tema che la lettura avesse a riuscire troppo sconsolante; della quale sollecitudine per le coscienze timorate vuolsi saper grado alla Chiesa.

– Per ventura le sono finzioni poetiche dei tempi andati! – disse Ottone di Cosseria.

– Sì, e non possono mutare il verace aspetto delle cose; – soggiunse Enrico Corradengo. – L'amicizia, a malgrado dei vostri biblici esempi, è un alto e durevole affetto.

– Giobbe lo sa, mio nobil sere! – esclamò il pellegrino.

– Ah, lasciamolo in pace! – rispose il Corradengo. – Io, per me, tengo che se egli avesse vissuto ai tempi nostri, tra cavalieri, nessuno degli amici suoi lo avrebbe abbandonato nella disgrazia, e ognuno si sarebbe recato a ventura di spartire con lui. —

Il sogghigno di Aporèma si dipinse anco una volta sulle labbra del pellegrino. Il Corradengo, turbato, non disse più altro.

– E non si dirà nulla della donna del principe d'Idumea? – entrò Ansaldo di Leuca. – Io mi penso che questa dama, se pure c'è stata, ed ha operato secondo il detto della vostra canzone, messer pellegrino, non era donna di gentil sangue. L'amore è fortissimo e nobilissimo affetto, che vince ogni ostacolo, che sopravvive ad ogni sciagura, come c'insegnano esempi molti e recenti. Io vi prego, messere, se avete caro il vostro buon nome di trovatore, a non farvi udire nè da Matilde, contessa di Sciampagna, nè dalla marchesina di Monferrato, nè da Giovanna di Torrespina, la più savia come la più leggiadra gentildonna di cui cavaliero portasse mai i colori. —

Al nome della castellana di Torrespina, l'ospite sconosciuto fece un volto più umano, come chi intenda ad entrare nelle grazie di qualcheduno, o non voglia, per cortesia, far contro a giudizii che risguardano le persone.

– Tolga il buon sire Iddio, – rispose quindi ad Ansaldo, – che io voglia farmi udire a cantar sul liuto fuori di questa nobil brigata. Vi ho poi detto, messeri, che io non sono trovatore. La canzone di quel biondo alunno delle Muse mi ha messo in vena, e mi sono provato anch'io a dirvi la mia, tanto per fargli intendere quello che una lunga esperienza ha insegnato ad un povero vecchio; che tale io mi sono da lunga pezza, e abbandonato da tutte quelle dolci fantasie che illeggiadriscono la vita ai giovani cavalieri. Ma io so bene che i miei canti non potrebbero andare a grado di tutti, come so che la verità non è mai bella, nè lieta ad udirsi. —

Il conte Ugo uscì finalmente allora dal suo silenzio.

– Messer pellegrino, – diss'egli con molta gravità, – la vostra ballata è triste assai, ma bella del pari, e vi pone così alto nella mia estimazione che io non saprei dirvi di più. Voi siete il mio ospite per tutto quel tempo che a voi piacerà, e quando la mia casa vi riesca troppo uggiosa dimora, della qual cosa io sarò dolentissimo, il miglior ronzino, o palafreno di Roccamàla rimarrà vostro, e vostro il migliore de' miei falconi, se il passatempo di sant'Uberto v'è grato.

– Voi siete, messer lo conte, – disse il pellegrino inchinandosi profondamente, – il più magnifico e liberal cavaliero che al mondo sia. —

A Fiordaliso si sbiancarono le guancie; delle labbra non saprei dirvi, perchè il biondo adolescente, vinto nella sua poetica tenzone al cospetto e per sentenza di conte Ugo, le aveva raccolte tra i denti, e premea forte, in atto dispettoso. Era quello il primo giorno di sua vita che cosa alcuna gli avesse a dolere; e il cominciamento fu amaro.

Tanto per fare alcun che, e per non addimostrare il suo broncio, il povero paggio andò a togliere il liuto dalle mani del pellegrino e lo recò fuor della sala.

– Va, stromento d'inferno! – gridò egli stizzito, buttandolo su d'una cassapanca che era nella sua camera. – E adesso aspetta che io ti ripigli!

Il povero liuto, che non ci avea colpa, risuonò alla percossa; le corde mandarono un gemito, quasi un accento di rimprovero. Ma il paggio non si pentì dell'opera sua, e chiusosi l'uscio dietro le spalle, se ne andò a parare il vento su d'un terrazzo, molto lunge dalla sala dov'erano i convitati del conte.




CAPITOLO IV



Che cosa fosse, e perchè temuta, la torre del Negromante

Levate le mense a notte alta, conte Ugo accomiatò gli amici, non già dal castello, perchè erano ospiti suoi, ma dalla sala del convito. Allora si fecero innanzi i famigli, che già stavano pronti con le torce di resina in mano, e scortarono ognuno dei nobili cavalieri nelle stanze a lui assegnate.

Per tal modo, non rimasero presso il conte Ugo che il pellegrino e mastro Benedicite, strozziere, maggiordomo, ser faccenda di Roccamàla.

Ugo era sopra pensieri, poichè la conversazione e il canto del suo nuovo ospite lo avevano fortemente turbato; ma siccome egli era gentil cavaliere, la mestizia non poteva fargli dimenticare il debito suo verso gli ospiti.

– Messer pellegrino – diss'egli – a me duole di non potere usarvi tutta quella cortesia che si vorrebbe per un uomo della vostra levatura. Roccamàla è un ampio maniero, ma pieno d'amici, ed io non posso offerirvi che un alloggiamento indegno di voi… salvo il caso che vi acconciate a riposare nella torre del Negromante.

– Che dite voi, messer lo conte? – gridò mastro Benedicite. – Farlo alloggiar nella torre…

– No, io non ho detto questo; sibbene ho voluto far intendere al nostro ospite come io non possa offerirgli una stanza degna di lui.

– Che cos'è questa torre del Negromante? – domandò il pellegrino.

– Ah, per darvene una giusta notizia, mi bisognerebbe raccontarvi una storia troppo lunga, e tale da farvi addormentare sulla scranna. Roccamàla, messer pellegrino, è un triste luogo, ed io mi penso che la tristezza sua entri in gran parte nell'umor nero che ha regnato su sette generazioni de' miei antenati. Si narrano di questo castello le più paurose leggende… Figuratevi! Il conte Ugo, primo dei Roccamàla, nella sua vecchiaia si era dato anima e corpo allo studio delle scienze naturali, e la buona gente dei dintorni fantasticò che egli avesse commercio con lo spirito maligno. Quando egli venne a morte, quella torre, dov'egli era uso dimorare, e che ha tolto da lui il nome di Negromante, fu argomento di terrore per tutti, e pochi ardirono d'allora in poi di passarvi la notte.

– Ah, ah! – disse, ridendo, il pellegrino. – Storielle da metter paura ai bambini!..

– Lo dico anch'io, – rispose il conte – ma tant'è; la cosa è passata in consuetudine, e non si può levar dal capo a nessuno de' miei vassalli che in quella torre ci sia un incantesimo, un diavoleto e che so io… Ma che cosa volete dir voi, mastro Benedicite, che mi fate quegli occhi da spiritato?

– Dico, messer lo conte, che voi mi sembrate pigliare a scherno la cosa più vera del mondo; dico che il diavoleto c'è, e che la storia non mente…

– Sì, la storia… tutto quello che vorrete, ma intanto il libro nero non s'è mai potuto trovare.

– Che prova ciò, messere?

– Prova che le sono ubbie da bambini, o da vecchi rimbambiti; e ciò sia detto senza far torto a voi, che siete un uomo a modo, quantunque troppo facile a credere certe stramberie della gente volgare.

– Ah! ci abbiamo dunque a Roccamàla una vecchia leggenda? – soggiunse il pellegrino. – Io son ghiotto di simili novità. Narratemi questa leggenda, Benedicite mi dilectissime! Se debbo andare a dormir nella torre, è pur ragionevole che io sappia…

– Ci andrete? – dimandò lo strozziere, guardando il pellegrino con atto di maraviglia.

– Se ci andrò? Lo chiedo per grazia profumata dal conte di Roccamàla. E chi sa che io, con le sante reliquie e le indulgenze che porto da Roma, non venga a capo di togliere dalla torre del Negromante…

– Ah! così voi diceste il vero! – interruppe mastro Benedicite. – Io, per me, con buona pace del magnifico conte Ugo, credo che ne sia grande il bisogno.

– Ma raccontatemi dunque, ve ne prego in nome dei vostri diletti falconi, o nobile accipitrario – disse il pellegrino, alludendo alla professione del falconiere – che cosa avviene egli in quella torre del Negromante?

– La è una storia lunga – rispose mastro Benedicite – siccome vi ha detto messer lo conte pur mo', ed ha cominciato da Ugo il Negromante, che dopo aver preso il convento ai monaci di San Bernardo, per farne una rocca, si trasse il diavolo in casa con le sue stregonerie.

– Cioè – soggiunse il conte – furono i monaci che inventarono questa storia del diavolo, per vendicarsi della perdita del convento. Ma basti, ve la dirò io, questa leggenda, poichè il mio falconiere ci menerebbe troppo per le lunghe. Si narra adunque che, dopo la morte di Ugo il Negromante, in certe notti dell'anno si vedessero apparir fiamme dalle finestre della torre che sta sul burrone; che poi queste fiamme si vedessero ogni notte; e v'ebbe chi giurò d'aver veduto nel bagliore il profilo del mio antenato. Altri disse del diavolo; altri di tutt'e due, che stessero amichevolmente a colloquio. Comunque sia, cose strane si vedevano; e frattanto, chi dormiva nelle stanze della torre non udiva mai nulla, non si addava di nulla; che anzi, appena postosi a letto, era côlto da sonno così profondo che fino a giorno inoltrato non c'era più verso di svegliarlo. Notate, messer pellegrino; non sono io che vi narro queste cose; è la cronaca di Roccamàla. Ed essa narra eziandio che, dopo molti anni di queste paurose apparizioni, uno dei miei maggiori, Aleramo il biancamano, mandò pei monaci, e con donativi alla loro comunità cercò di renderseli benevoli, affinchè cacciassero il demonio dalla torre del Negromante. Ma, o fosse che i loro scongiuri non approdassero, o che non bastassero i presenti del mio trisavolo, fatto sta che il demonio non volle uscir fuori, e bisognò chiamare quassù il santo vescovo Gualberto, uscito dall'ordine de' Cisterciensi medesimi, il quale una notte si chiuse nel luogo maledetto, dopo essersi fatto dare un foglio di pergamena, chiuso in una fascia di pelle nera, e non ricomparve che la mattina seguente. Ma egli pare che il santo vescovo avesse sfruttato per bene il suo tempo, imperocchè corse la voce che egli avesse parlato con lo spirito maligno, e trovatolo duro anzichè no, avesse pure ottenuto da lui la promessa di non rimetter più piede in Roccamàla, sotto certe condizioni, le quali furono scritte nella pergamena e sottoscritte dai due in formis ed modis. Dico bene, mastro Benedicite?

– Benissimo, messer lo conte, benissimo!

– E queste condizioni, – disse il pellegrino, che aveva mostrato di udire con molta attenzione la leggenda del suo ospite – quali erano esse?

– Affè, ch'io non saprei dirvele ora! – rispose il conte. – Ma egli mi par di aver udito che tra l'altre ci fosse questa di rinunziare a' suoi diritti di possesso su Roccamàla, fino a tanto non ci fosse tra i suoi signori un uomo contento. —

– Bizzarro, quel demonio! – esclamò il pellegrino.

– Ve l'ho detto, messere; questa favola deve essere stata messa fuori dai nostri ottimi frati, e resa poi più credibile dal fatto che tutti i signori di Roccamàla furono gente malinconica oltremodo. – Che ha il castellano che non lo si vede mai a sorridere? – Non sapete? i signori della rocca non possono essere lieti mai; il santo vescovo Gualberto sapeva pure il fatto suo, quando accettò il patto del diavolo. O come volete che faccia egli a tornare, se questi castellani, di padre in figlio, son sempre così rannuvolati? E così, una storia siffatta ha potuto essere creduta, e sopra tutto accresciuta dalle superstizioni del volgo.

– E il libro?..

– Ah, il libro nero? Benedicite vi potrà raccontare com'è scritto, come legato, e quante borchie, quanti fermagli ci avesse sulla negra coperta; ma ohimè, vedete leggenda sciagurata! nè egli l'ha visto, nè altri al mondo.

– Messere… – esclamò Benedicite, con accento di rispettoso rimprovero.

– Sì, sì, – ripigliò il conte sorridendo – la nota cronaca racconta che il libro nero fosse chiuso in un armadio di legno, rivestito di ferro, che sta ancor di presente nella torre. Ma si è rovistato ogni cassettone, ogni ripostiglio, e il libro non è comparso. S'è picchiato su per le pareti, cercando se si sentisse alcun vuoto, ma le furono novelle. Chi vi dirò io di vantaggio? Da Aleramo biancamano in poi, nessuno mai seppe di questo negozio, chè certo ha da essere stato inventato più tardi dal convento vicino. Infatti il mio trisavolo non ne tramandò memoria veruna, e non ne seppero nulla, almeno per diretta via, nè Corrado senza paura, nè Ingone il rosso, nè Roberto il taciturno, che fu mio padre. Ora, voi sapete tutto, cioè quanto rileva, della leggenda di mastro Benedicite, la quale vuol essere compiuta col dirvi che nella stanza della torre, e sempre a cagione di questa favola, non ci dorme più alcuno, sebbene ella sia una delle migliori di Roccamàla.

– Orbene, con vostra licenza, messer lo conte, andrò io a dormire colà; – disse il pellegrino; – per dove ci si va egli?

– Benedicite vi accompagnerà, che ben vi è debitore di tanto, dopo avervi fatto aspettare così lungamente alla entrata del castello.

– Oh, io non gli tengo il broncio per cotesto! – soggiunse l'ospite, mettendo con dimestichezza una mano sulla spalla del falconiere. – Ma che avete voi, mastro Benedicite? Si direbbe che un povero pellegrino vi fa paura! Non son bello, lo so, ma non avrei creduto mai che voi, vir sapiens, giudicaste gli uomini dalla loro apparenza.

– Diminguardi, messere! Quod Deus avertat… – rispose lo strozziere, provandosi a ridere.

E intanto tremava a verghe. La torcia di resina gli ballava la danza macabra nel pugno.

Qui, fatta riverenza al conte Ugo, il pellegrino si ritirò, accompagnato dal povero strozziere.

Rimasto solo, il conte si diede a passeggiare per la sala, senza ricordarsi dell'ora tarda e dei famigli che lo attendevano sul limitare, per rischiarargli la via fino alle sue stanze. Egli, già se n'è accorto il lettore, non era più di quel gaio umore, col quale si era seduto a mensa; molte cose erano avvenute nel picciol mondo della sua mente, molti e svariati pensieri vi turbinavano per entro.

Per la prima volta in sua vita, Ugo di Roccamàla incominciava a dubitare del lieto aspetto in cui solevano apparirgli le cose; il sottile veleno della filosofia d'Aporèma gli si era filtrato nel cuore, ed egli già sentiva quell'interno disagio, quel turbamento, quella inquietudine, che sono i segni precursori di tutte le infermità, siano esse del corpo o dell'anima.

Nel canto del pellegrino, a dir vero, non era nulla che egli già non avesse udito, o fatto argomento di controversia nella sua mente; chè anzi, discusse tra sè, o con altri, le ragioni del dubbio e quelle della fede, già da lunga pezza egli aveva data la palma a quest'ultima, e non era uomo da mutarsi così facilmente per ragionamento d'altrui. Ma egli bisogna pur dire che strane oltremodo erano le circostanze tra cui gli era apparso il pellegrino. Quello smilzo personaggio, che non si sapeva chi fosse, che parea contraddirsi ad ogni istante, che diceva le cose più gravi e malinconiche con bocca da ridere e che rideva con cera da funerale, gli aveva fortemente colpita la mente. Egli poi non se ne era anche fatto accorto, ma le paure del suo falconiere gli giravano confusamente per la fantasia: e tutte queste cose, mettendo l'animo suo in uno stato particolare, davano risalto ad una tesi che gli si offriva per la prima volta armata di beffardi sillogismi, di cupi dilemmi e di paurose interrogazioni.

Il suo raziocinio non s'era anche ficcato in quel ginepreto; sto per dire che gli occhi della sua mente non avevano ancora misurato il pericolo. Sentiva, non pensava per anco, o, per dire più veramente, i pensieri gli erravano ancora nel cervello, incerti, pallidi, senza contorni, sformandosi ad ogni tratto e in cento guise, a mo' di quelle fantastiche immagini che visitano i sogni dell'uomo, allorquando la febbre scorre nel sangue ed agita i polsi.

A toglierlo da quello stato, giunse in buon punto la voce di un famiglio. Veduto che il conte non pensava ad uscire, egli si era affacciato sul limitare, con la sua torcia in mano, per chiedergli se volesse ritirarsi nelle sue stanze.

– Ah! gli è vero! – disse Ugo, risovvenendosi dell'ora tarda e dell'esser solo oramai nella sala.

E portatasi una mano nei capegli, come per ravvivarli sulla fronte e cacciare nel tempo medesimo un importuno pensiero dal capo, conte Ugo s'innoltrò tra due file di servitori fino al suo appartamento.

– Era tardi davvero! – esclamò egli, vedendo nella camera innanzi alla sua il paggio Fiordaliso, che si era addormentato vestito daccanto al suo letticciuolo.

– Questo povero ragazzo non ha potuto aspettarmi più oltre. Svegliatelo, e ditegli che vada a letto e dorma a suo bell'agio, ch'io sono già nelle mie stanze e non ho bisogno di lui. —




CAPITOLO V



Nel quale è detto di ciò che vide il conte Ugo guardando la torre del Negromante

Il giovine signore di Roccamàla, come fu giunto nella sua camera, licenziò i famigli e andò difilato verso il letto, superba mole di legno intagliato, con un largo padiglione di damasco rabescato, che era sorretto da quattro svelte colonne.





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