Книга - Lutezia

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Lutezia
Anton Barrili




Anton Giulio Barrili

Lutezia





I


La ragione del viaggio. – Un'occhiata a Torino. – Savoia e Borgogna. – Il deserto – Idea luminosa. – Parigi di sera. – Sul marciapiede. – Arabi apocrifi e francesi autentici. – La storia del nastro. – Scaccini e accattoni. – Tolleranza parigina.

Parigi, 15 settembre 1878.

Se d'ogni cosa che si è fatta, o si sta per fare fosse costume di cercar le ragioni, si troverebbe alla stretta dei conti che queste ragioni si restringono a poche, e non tutte sufficienti, come le voleva il Rosmini. Io, per esempio, son venuto a Parigi senza un vero perchè, senza un bricciolo d'interesse, o la scusa di una grande curiosità, solamente per fare come tutto il mondo, in questi tempi d'esposizione universale. Ed eccomi qui, con mezzo mondo alle costole. L'altra metà c'è' già stata, povera lei, con un caldo assaettato, mentre io ci son giunto e ci sto con un fresco che innamora. Appartengo alla gran metà dei soddisfatti, non c'è che dire.

Il mio viaggio può essere il viaggio di tutti, perciò le descrizioni tornerebbero superflue; ciò nondimeno, permettetemi di buttarvi giù quattro righe di storia. Ho passato un giorno a Torino, col rammarico di non poterci rimanere più a lungo. La vecchia capitale del regno si è grandemente abbellita; è florida, operosa e popolata più che mai. Esempio ed insegnamento notevole di una città che pareva condannata alla decadenza, e che ha trovato in sè stessa, nel suo coraggio, nella sua volontà, le forze riparatrici, non sempre facili ad attingersi dalle ricette degli Esculapii ufficiali.

Della galleria del Cenisio ho poco o nulla da dirvi. L'ho dormita tutta quanta, e mi è parsa poca. Mi sono risvegliato in Francia, al suono di un «vos billets, messieurs» profferito allo sportello, da un conduttore gallonato d'oro. Ho visto il gendarme, in luogo del mio prediletto carabiniere; mi han fatto scendere dalla carrozza e traversare il binario; mi han chiuso in una corsia, nel cui punto più stretto un gendarme aggradiva i nostri biglietti di visita e ne faceva raccolta, a mano a mano che gli sfilavamo davanti, o, per dire più esattamente, sul petto; mi hanno trattenuto un'ora nella stia, con una moltitudine di altri infelici, senza darmi neanche licenza di uscire per un minuto all'aperto; e tutto ciò alla gloria de l'administration, de la régularité, des exigences du service. In nome e alla gloria di queste cose, qui si sopporta anche di peggio. In Italia si eserciterebbe la pazienza con qualche dozzina di giaculatorie, non registrate nella Via del Paradiso, nè in altro libro di preghiere alla mano.

Rammento, per debito di giustizia, che a Modane, come in ogni altra stazione ferroviaria, od anche ufficio pubblico di Francia e Navarra, la rigidità della consegna, l'austerità del regolamento, sono temperate dalla gentilezza dei modi. Toccate la molla del «s'il vous plaît, monsieur» e quella del «veuillez avoir la bonté» e fate tutto quel che volete del conduttore, del guardiano, del gendarme, del sergente, del brigadiere, e perfino (almeno, c'è chi lo assicura) perfino del maresciallo.

In grazia dei «monsieur» serviti a tutto pasto e con ogni razza di gallonati, ho potuto uscir primo dalla gabbia, trovare il meno peggio dei posti nel treno francese, e schiacciarmi un altro sonnellino attraverso la Savoia. Nella stazione di Ambérieu, dove giungemmo a giorno chiaro, ho bevuto un latte, che meriterebbe il viaggio da solo. Il paese tutto intorno è bellissimo, colle sue balze che torreggiano impervie come rocche ariostesche, i suoi villaggi mezzo nascosti tra i pioppi, e il Rodano pur mo' nato che gorgoglia (quasi sarei per dire che balbetta) sul greto bianchiccio della vallata.

Che dirvi della Borgogna, attraversata nel giorno, con uno splendido sole? È la campagna meglio pettinata del mondo. I prati, i vigneti, i campi di grano turco, i casolari, i castelli signorili, ogni cosa è lisciata, cincischiata, fatta a pennello; ma badate, a pennello di scuola antica, e non già con certe spazzole da denti che so io, e che voi non ignorate di certo.

Questi prodigi d'agricoltura non vi occorrono mica nel più fertile dei terreni possibili. La campagna, dove è nuda, si mostra sassosa e gessosa, che è una disperazione a vederla. Ma ogni poggio, ogni falda, ogni piano, ha la sua coltivazione più acconcia; l'azoto vi si ficca in abbondanza e sotto tutte le forme più dottamente putride; i corsi d'acqua, numerosi e ben distribuiti, vi dànno de' pascoli così verdi, così ricchi, così appetitosi, da farvi qualche volta desiderare d'esser nato bue veramente, per contribuire, nella calma di una onesta ruminazione, all'incremento, alla prosperità di questo suolo benedetto. Quante volte e per quanti guastamestieri di cui è pieno il mondo, non sarebbe meglio che la natural selection avesse portato un tal giro nella scala degli esseri?

Il pensiero dei cinque miliardi e la dimostrazione sott'occhi del modo in cui poterono esser pagati ai Prussiani senza danno del paese, si alternano nella mia testa con le belle vedute di Macon e di Digione, e con lo spettacolo dei contadini che maneggiano la vanga qua e là, ritti sulla persona alla maniera toscana, quasi eleganti in vista, con la loro camicia bianca, la fascia di lana intorno alla vita e il cappello di paglia sulla testa. La via è lunga; ma, come vedete, non è punto noiosa.

Parigi si annunzia come Roma, con un vasto deserto. Ma questo di Parigi non è desolato come l'agro romano. Scarseggiano i paesi; si vedono a tratti poche case disseminate nel verde: ma la strada ferrata corre in mezzo a vigne, orti, semenzai e frutteti. Ho notato per un cinquanta chilometri di questa coltivazione intensiva.

Partito da Torino alle otto e cinquanta di sera giunsi a passar la Senna, sopra Parigi, dopo le cinque pomeridiane del giorno seguente. Alle sei, o giù di lì, per un ritardo reso necessario dalla affluenza dei treni, smontavo alla stazione di Bercy, o di Lione, se vi piace meglio. Novità inaudita; non un omnibus d'albergo ad aspettare i forastieri, poche carrozzelle, e tutte colla scritta «louée» su d'una banderuola piantata a cassetta, sulla sinistra del cocchiere. Ma non invano si è nati nella patria dei grandi scopritori. Scendo una scala, che mi mette sul boulevard de Mazas; m'imbatto in un piccolo Gavroche, che vuol portarmi la sacca da viaggio per venti centesimi; resisto e gli prometto una lira, se gli dà l'animo di trovarmi un fiacre. Il biricchino stacca un passo di corsa da disgradarne un bersagliere, e dieci minuti dopo, mentre vicino a me, su di un rialto isolato che fa cerchio intorno ad un lampione, quattordici o quindici viaggiatori appiedati rappresentano la scena dei superstiti della Medusa, io ci ho il mio fiacre, col Gavroche trionfante a cassetta. Non invito nessuno a tenermi compagnia; non torno indietro a cercare il bagaglio; infilo Parigi alla corsa.

Parigi è una città… Ma, adagio; debbo proprio descriverla? Smontiamo prima all'albergo, che è abbastanza lontano dalla stazione; intavoliamo coll'albergatore i negoziati preliminari d'ogni trattato; diamo ad un cameriere il biglietto e la chiave del baule, perchè possa andare a ritirare il bagaglio dimenticato; scendiamo, cerchiamo il primo passage, o galleria, che ci metta in comunicazione colla grande arteria parigina; ed eccoci finalmente sul boulevard, anzi proprio su quello famoso desItaliens, che abbiamo intraveduto un po' tutti, all'età di quindici anni, nelle pagine d'un romanzo francese, tradotto da un Enrico Tettoni, o da un Gaetano Barbieri.

Parigi, per la prima volta, vuol esser veduta sui boulevards e di sera. Immaginate una via, non affatto rettilinea, larga una quarantina di metri, con due marciapiedi, ognuno dei quali occupa un quarto di questa misura, avendo sui margini dei grandi platani malati d'insonnia, frammezzati da chioschi di ferro, con pareti di carta, e un lume dentro, che ve li fa trasparenti, permettendovi di leggere un subisso di annunzi. Uno di questi chioschi non annunzia che spettacoli teatrali, ed è tutto chiuso, come una colonna traiana. Un altro serve di bottega ad un venditor di giornali; un altro ancora, circondato d'un chiuso di ferro, alto forse due metri, nasconde nei fianchi quattro o cinque settori, dove un uomo può stare benissimo in piedi, dando le spalle al prossimo. Ne m'en demandez pas davantage. Accanto ad alcuni di questi chioschi, è una chiave d'ottone con una secchia. I cocchieri aprono la chiave e riempiono la secchia, per abbeverare i cavalli, quando fanno sosta sui margini della strada. I casamenti sterminati, che corrono lungo la via, bucherellati di finestre, gremiti d'insegne, scintillanti di fiammelle di gasse, non formano a pian terreno che un solo caffè, una sola trattoria. Metà del marciapiede è invasa da sedie e deschetti di zinco. Le persone sedute, che mangiano e bevono, sono per lo meno in numero uguale a quelle che guardano e passano. Il gasse, come vi ho detto, è gittato a profusione; della luce elettrica in alcuni punti si fa spreco; per esempio nel crocicchio e nella piazza attigua dell'Opera, dove vi par d'essere nel giardino di Margherita, quando sta per finire il terz'atto del Faust. Qui, per altro, le Margherite passeggiano a migliaia tra la folla, riconoscibili dall'andar sole, perchè, come dice il libretto, «non hanno d'uopo ancor – del braccio d'un signor.»

M'avvedo d'aver rimpicciolito, col paragone d'un giardino, l'aspetto di Parigi notturna. Era un sacrificio fatto alla luce elettrica e al suo carattere teatrale. Parigi non può essere paragonata degnamente che a Babilonia, alla Babilonia del convito di Baldassarre, che abbiamo veduta nelle incisioni del Martin, o di Gustavo Doré. Quella gran luce fa biancheggiare nel fondo le isole gigantesche dei fabbricati. Gli alberi rompono un tratto quella gran mano di bianco; ma sotto gli alberi, la luce dei chioschi, dei caffè, delle botteghe, sforacchia per mille versi la frappa. Poveri alberi, quando dormono? E quando cessa questo viavai di gente, e questo affollarsi di vetture, di omnibus e di tramways?

La moltitudine che si pigia sui marciapiedi è in gran parte di forastieri. La nota dominante è spagnuola; segue l'italiana, con una certa sovrabbondanza d'elemento veneto. Inglesi pochi; tedeschi pochissimi; americani così così; qua e là qualche algerino col turbante, e un'aria di Beni-Mouffetard che consola. Sapete che cosa sono i Beni-Mouffetard? Alessandro Dumas ha raccontato in uno dei suoi mille volumi l'origine di questo nome, appioppato agli Arabi apocrifi, nati nella via Mouffetard, che è, od era, tra le più centrali, tra le più parigine di Parigi. Anche i francesi autentici si conoscono facilmente. La più parte hanno il nastro rosso all'occhiello. Si può credere che tutti i decorati della Legion d'Onore si siano dati la posta a Parigi, per fare una esposizione dell'Ordine.

Dicono molti che il nastro sia necessario qui, per essere trattati con qualche riguardo. Parecchi italiani accettano il consiglio e mettono fuori il nastro verde, o bianco e vermiglio, o tutt'e due di costa. Io credo che non ce ne sia proprio bisogno. Ho anzi sperimentato che il mio scudo e il mio marengo hanno un valore uguale a quello di tanti cavalieri visibili, e che un «pardon» e un «s'il vous plaît» ottengono sempre ogni cosa da questo popolo gentile, anche quando questo popolo s'accorge che siete italiano e ricorda di vedervi volentieri come il fumo negli occhi.

Intorno a questo sarebbe necessaria una parentesi; ma la farò un'altra volta. Vi basti sapere che il francese è pieno di amabilità con tutti e che non occorre di mettere il ruban, salvo che lo si faccia per cavarsi la voglia. Nel qual caso, nessuno ride, come si riderebbe in Italia. Il ruban è la cosa più naturale del mondo e se ne fa qui un grande consumo, come da noi di prezzemolo. Perfino gli alabardieri delle chiese principali sono cavalieri della Legion d'Onore. Andate alla Trinità, come ci sono andato io, per veder tutto, e potrete ammirare un bel pezzo d'uomo, giovane ancora, con la mazza dal pomo d'argento, portare in processione per la chiesa la sua brava decorazione, mentre dietro lui, un prete sagrestano va attorno a raccattare i soldi dei divoti, durante l'elevazione dell'ostia.

A proposito di chiese, noto il particolare abbastanza curioso, ma per contro non abbastanza bello, che, per farvi vedere una cripta, una sagrestia, od anche semplicemente il coro, i preti vi sottopongono ad una tassa di cinquanta centesimi. Anche in questo caso c'è il vecchio sergente giubilato, avanzo glorioso di Magenta e di Solferino, che si adatta all'ufficio di guardia del tempio, per mostrarvi le ceneri di santa Genovieffa, o la tomba del signor di Voltaire. Questi due santi sono uguali, davanti ai cinquanta centesimi; purchè ve li piglino, i custodi del santuario non abbadano al modo. Noi, nelle nostre chiese, ci abbiamo la piaga del cicerone; ma questo si può mandarlo al diavolo come e quando si vuole, e i signori forastieri non si fanno pregare, per appigliarsi a questo espediente. Qui c'è la tassa di veduta, e non c'è modo di salvarsi, bisogna pagarla. A Nôtre Dame accade anche peggio; la porta laterale, unica aperta, strettita a bella posta, è occupata militarmente da venditori di coroncine, da mendicanti ufficiali colla piastra d'ottone, da monache le quali vi chiedono la carità pour leurs pauvres, da sagrestani che ve la chiedono pour l'obole de saint Pierre, e finalmente da un personaggio ambiguo, che intinge un pennello nella pila dell'acqua santa e ve lo mette gentilmente sotto il naso, perchè con una mano possiate dare al segno della croce la quantità d'umido che è necessaria a quest'atto, e con l'altra abbiate occasione di fargli aggradire un paio di soldi. Tutto ciò riesce molesto agli uni, offende il sentimento religioso degli altri. Io, per me, preferisco la beghinella romana, che vi s'accosta vergognosa alla svolta d'una colonna, e vi dice a bassa voce: «signore, la carità; sono una povera madre disgraziata.» Non mi parlino più con tanta sicumera dell'accattonaggio italiano; li ho visti alla prova, e mi tengo cari i miei cenci.

Del resto e dopo tutto, un popolo curioso e grazioso. C'è qui la buona grazia di chi vive allo stretto, e la tolleranza di chi può svoltare la cantonata e trovarsi subito al largo. Pazzie ed atti ragionevoli, virtù e vizi, qualità e difetti, mettono qui ogni cosa in comune, dandosi a vicenda del gomito e dicendosi «pardon.» C'è del buono, vi dico io, c'è del buono. Impariamo.




II


Il cervello del mondo. – Caso e necessità politica. – Una fioritura colossale – L'article de Paris– La virtù del cartellone. – La caccia al compratore. – Gli occhi della padrona. – La scala dei prezzi. – L'arte di pelare un pollo senza farlo stridere.

Che cosa sia questa città lo sanno tutti, anche senza averla veduta. Della sua importanza molti si fanno un concetto più grande del vero, e tra costoro ce ne sono parecchi che l'hanno veduta e ci vivono. Non è forse Vittor Hugo che l'ha battezzata di suo capo «il cervello del mondo?»

Essa non è altro, in verità, che il cervello della Francia e ci si vede il frutto di quattro secoli d'accentramento, tirannico dapprima, indi spontaneo, per forza di consuetudine. Oggi i re e gli imperatori sono spariti; ma tant'è, il popolo francese ci ha fatto il verso e continua a lavorare, a spogliarsi, a levarsi il pan di bocca, per la grandezza di Parigi, come avrebbe fatto nel Medio Evo, per pagare la decima a' suoi gloriosi castellani.

Parigi, prendendola ab ovo, è la figlia del caso, maritato ad una necessità politica di Giulio Cesare. Il vincitore delle Gallie doveva convocare in un punto del territorio conquistato i capi delle varie genti. Le maggiori città erano cadute in sua mano e distrutte; una meschina borgata, costruita di paglia e di mota in un'isola della Senna, ebbe l'onore di accogliere quella prima forma di congresso. L'esempio di Cesare, come molti altri del grand'uomo, fu seguito dagli imperatori romani, taluno dei quali vi pose anche dimora. Costanzo vi fabbricò un palazzo; Giuliano vi fu proclamato imperatore; Graziano vi perdette la vita. Vennero i re franchi, Merovingi, Carolingi e Capetingi. Parigi era diventata il centro religioso e teologico della Francia. In un tempo come quello, che dava tanta parte delle cose umane alla Chiesa, il primato di Parigi fu assicurato. Dapprima col benefizio delle scuole, che attiravano scolari da ogni punto d'Europa, poi con le grandi opere di Francesco I e de' suoi successori, la sua fama e la sua potenza si accrebbero a dismisura. La monarchia dei Valois, rassodandosi in Francia alle spese dei grandi vassalli, fece di Parigi una nuova Atene ed una nuova Roma, alle spese delle provincie, ridotte in obbedienza, o delle terre straniere, saccheggiate quando ne capitava l'occasione. Anche adesso, Parigi si sostiene così, sebbene coi mutamenti portati dalla civiltà; si nutre di provinciali e di forastieri, senza volerlo, quasi senza saperlo, come noi di cavallo, o d'altro animale non destinato agli onori dell'ecatombe alimentaria. In tutta la Francia si lavora e si produce a gran furia; qui solamente si appiccica il bollo della fabbrica. I lavoratori di Francia, nelle settimane di riposo, vengono qua per vedere i musei, i giardini, i palazzi, le luminarie in continuazione, il loro sfoggio, insomma, quello sfoggio che non si farebbero lecito in casa. E ci lasciano allegramente i loro quattrini, qualche volta dell'altro, come a dire la salute, per andarsene via tutti orgogliosi di questa perla, di questo diamante, di questa meraviglia del mondo moderno, che è unica, laddove quelle del mondo antico erano sette.

Madrid non fu così splendida, quando Carlo V poteva credersi il padrone dell'Europa. E si capisce. Madrid era più nuova, come capitale, e comandava con la forza, rinfrancata dalla superbia; mentre Parigi ha sempre comandato con la grazia e con le moinerie, facendosi perdonare perfino la sua gloria, con una cert'aria trionfale che non escludeva il sorriso. Così come l'hanno fatta gli anni, gli uomini e le donne, è una fioritura colossale, sproporzionata per ogni nazione che non chiamasse le altre a goderne la parte loro. Si può maledirla coi filosofi; bisogna riconoscerla coi diplomatici. C'è chi pretende di assegnarle un termine, come a Ninive, a Babilonia, a Persepoli, a Tebe; ma io credo che il parallelismo non corra. Parigi è il fiore della Francia, e la Francia avrà sempre in qualche cosa il primato. Ci saranno delle altre Madrid; Carlo V rinascerà in altri monarchi fortunati; ma Parigi trionferà ancora, perchè cospireranno a sostenerla altri Bajardi, altri Jean Goujon, altri Palissy ed altre madame d'Etampes. Sicuro, anche le donne, e che donne! Anche questa è stata una specialità, un article de Paris, composto di un terzo di bellezza, e di due terzi di grazia. «E la bellezza è vinta dal lavoro» direbbe il poeta.

Parigi ha i suoi barbari, i suoi odiatori domestici, peggiori a gran pezza dei nemici e degli invidiosi di fuori. È da vedersi qui il punto nero; ma, per istudiarlo a dovere, ci vorrebbe tempo d'avanzo, ingegno addestrato a questa maniera d'indagini. E poi, basterebbe ciò, per venire con qualche fondamento ai pronostici? Si ragiona male con certe classi di moralisti, che gridano contro una corruzione da cui non sanno sottrarsi eglino stessi, non si può capire dove mirino certi artefici del lusso, che potrebbero contentarsi di meno, tornando all'aratro, e non vogliono, perchè essi pure hanno nell'anima il baco dei desiderii smodati, e credono di poter domandare come un loro diritto ciò che agli uni concede la fortuna, agli altri il lavoro accumulato di tre o quattro generazioni. Questa confusione di dottrinarii e d'ignoranti sfugge ad ogni esame, manda a male ogni calcolo. Ieri vi hanno sopportato un Dionigi; quest'oggi vi rovesciano un Washington.

Torno all'article de Paris. Qualunque sia, a qualunque industria appartenga, esso è la forza di questa città; ed è qui che la cosa s'intende. La città è tutta un'insegna; ad ogni bottega, ad ogni piano, ad ogni finestra, si vede una scritta in grosse lettere d'oro. Il parrucchiere, il tabaccaio, il liquorista, affittano le loro vetrine alla pubblicità di altre industrie, bisognose di richiamo. Dove c'è un muro maestro che aspetta l'addentellato d'una casa nuova, si legge sempre qualche avviso che ha le lettere alte due palmi. Il Petit Journal, un foglio niente migliore di molti altri, vi annuncia così la sua tiratura di 600,000 copie al giorno. Altrove non ne annuncia che 500,000; in certi luoghi si mette a cavallo delle 550,000; dappertutto fa precedere il numero delle copie da queste parole orgogliose: «le plus grand succès de l'époque». Scommetto che qui farebbe fortuna un giornaletto il quale sapesse spendersi venticinque mila lire per far scrivere su tutte le cantonate disponibili: «_Le plus petit succès de l'époque! Le… n'importe quoi, journal politique quotidien: tirage de 999 exemplaires_». Si riderebbe dei pochi, come si ride dei molti, ma il giornale avrebbe uno spaccio incredibile. Tanta è qui la virtù dell'annunzio!

Che dire del foglietto che si distribuisce a mano su tutti i marciapiedi, su tutti i crocicchi di strada? Il cappellaio che si serve di questo richiamo non vi annunzia mica un cappello da dieci lire; tutt'altro! ve lo annunzia da sedici, o da venti. Voi, che avete appunto bisogno d'un cappello, dite in cuor vostro: – se questo me lo vende a sedici lire, Dio sa quante ne vorrà il cappellaio che non manda attorno i foglietti! – E andate subito da quell'altro e pagate sedici lire, certo di aver cansato una spesa di venticinque. Nè solo per questo, ci andate, ma anche per un poco di gratitudine. Certi foglietti son meraviglie d'arte tipografica, e abbondano di utili indicazioni. L'altro giorno, per esempio, vi davano in questo modo il piano della rassegna militare a Vincennes. Molti, da quattro mesi, vi danno quotidianamente la pianta topografica dell'Esposizione. Un mio amico, presidente d'un Club Alpino dell'Alta Italia, fa raccolta di tutte queste offerte gratuite, con intenzione di custodirle. Ne avrà presto una montagna, e potrà farne l'ascensione.

L'article de Paris è la cosa fatta con maggior garbo, il libro nuovo meglio stampato, il drappo meglio tinto, la veste meglio aggiustata. Una certa grazia biricchina, una certa sprezzatura artistica, un certo modo di presentare l'oggetto, ve ne raddoppiano il valore. E questo è il grande vantaggio. Del resto, qui i prezzi variano secondo le strade. Il boulevard è una ladronaia galante. Entrate in una bottega per comperare una cravatta, o per farvi stampare un centinaio di biglietti di visita; c'è dentro una donnina di garbo, che ragiona a lungo con voi, vi fa strabiliare col suo buon gusto, e con la scoperta del vostro. Non ve ne eravate accorto, ed avevate anche voi un gusto squisito, sopraffine, non plus ultra. La signora, quando vi ha lisciato e ridotto per benino, chiama il commesso, un artista fallito, elegante di aspetto e rispettoso di modi, che è incaricato di darvi il colpo di grazia. Vi si domandano cento lire per ciò che a casa vostra, od anche cinquanta passi lontano, vi costerebbe a mala pena venticinque. Ma come dirgli che è un indiscreto, là, sotto gli occhi della padrona, che vi abbozza con le labbra un sorriso? Rinunziereste al vostro buon gusto, di creazione così recente, vi gabellereste da voi per un barbaro?

Altro esempio. Come ritornare in Italia, non potendo dire di aver pranzato da Bignon, o al caffè Riche? Bisogna dunque passare sotto le Forche caudine; andare al Riche, o da Bignon. Eppure, chiuso là in una di quelle scatole che chiamano sale, pigiato fra venti o trenta persone ad uno di quei deschetti che chiamano tavole, avrete pagato trenta lire, o giù di lì, una scarsa julienne, due piatti di carne, o di pesce, e una bottiglia di vino. Andate in quella vece al Diner parisien o al Diner Valois, e pagate cinque lire un pranzetto più compito di quello, quantunque meno ricco di principii e di frutte che non sia il pranzo a cinque lire d'una trattoria italiana. Andate da Tissot, o da un altro del Palais Royal, e lo stesso pranzo vi costa a mala pena due lire e cinquanta centesimi. In via della Borsa c'è un pulitissimo ristoratore coll'insegna Au Rosbif, che promette di farvi pranzare per una lira e quaranta. Io non ci sono andato, come non sono andato da quell'altro che ieri faceva annunziare i suoi pranzi a una lira e venticinque; ma il timore di essere avvelenato non c'entrava per nulla, bensì quello di non trovare cinquanta centimetri di spazio. Infatti, non crediate che si tratti in queste trattorie (parlo di quelle a cinque lire, e di quelle a due e cinquanta) di mangiare della roba avariata. Ve la danno misurata, ecco tutto; vi obbligano a sceglierne due o tre piatti in una carta che ne ha tre o quattro di entrées, due o tre di pesce, due o tre di arrosti, e che manca di certe primizie, di certe ghiottonerie peccaminose. Le frutte sono pochine; potete scegliere tra una bella pera, una brutta pesca e un mezzo grappolletto d'uva. Ma infine, anche da Bignon, o al caffè Riche, se siete una persona a modo, non mangerete mica tutto quello che vi portano in tavola. E il vino? Qui i vini, poco più, poco meno, si somigliano tutti. Grossi e piccoli ristoratori, vi servono una piquette corrigée, che deriva la sua maggiore o minore bontà dal cartellino. Ed anche qui bisogna far l'atto di fede che si fa in Italia, quando si prende per vin di Chianti il Toscanello, il suo vicino della campagna pisana.

Dunque io dico, l'article de Paris varia secondo le strade e le insegne. Potrei parlarvi dei libri, che comperate a caro prezzo dal libraio, e che avete a stracciamercato sui muricciuoli, quantunque si tratti della medesima edizione, e spesso della medesima freschezza; ma il capitolo si è fatto lungo oltre misura. Ritenete questa verità apodittica, che dappertutto si pela, ma che soltanto a Parigi si conosce l'arte di plumer un poulet sans le faire crier. Al gran prezzo ed al piccolo; e nessuna borsa si salvi.




III


Poliglottismo commerciale. – Eccezioni alla regola. – Orgoglio legittimo. – La fratellanza dei popoli e la razza latina. – Non e ne 'ncaricà. – Retorica onesta. – La parabola del buon levatore. —Laboremus.



English spoken, Man spricht Deutsch, Men spreeckt hollands, Se habla español,


e chi più n'ha più ne metta; io ci rinunzio, avendo dimenticato il testo preciso della medesima frase in russo, in polacco e in ungherese, che ho avuto la fortuna e il piacere di leggere su certe vetrine di via Lafayette.

In questo poliglottismo commerciale di Parigi tutte le nazioni sono rappresentate, ove se ne eccettui la nostra. Non mi è occorso di vedere in nessun luogo il desiderato «si parla italiano», salvo in via Castiglione, entro l'insegna d'un fotografo…italiano. L'eccezione conferma la regola.

Lo fanno apposta? Non credo. Quando un francese sa scrivere «come statte?» o farvi sapere che l'italiano «attrapare» corrisponde al francese attraper (preziosa notizia che ho trovata sul Pays, in un articolo filologico di Granier de Cassagnac padre) si suol dire a Parigi che costui parla l'italiano «comme le Dante». È dunque da credere che il desiderio di parer versati nella nostra lingua, evidente in certuni, escluda la possibilità del dispregio. Aggiungerò una prova convincente. Ieri il mio parrucchiere mi domandava con aria di profondo interesse: «est-ce vrai, monsieur, que l'italien ressemble beaucoup au latin?» – «A quelque chose près;– gli risposi; —et c'est vraiment dommage que ce ne soit du latin tout pur.» —

Il fatto è questo, che i francesi ignorano la nostra lingua e non sentono il bisogno d'impararla. L'italiano, quando esce fuori di casa sua, s'ingegna come può; bene o male, ma più spesso con mediocre infamia, spiccica la lingua degli altri. Ogni altro popolo d'Europa, quando varca i suoi naturali confini, parla volontieri la propria e mostra di stimar poco coloro che, interrogati, non gli rispondono in quella. È un nobile orgoglio, secondo certuni; ma io lo definisco l'orgoglio dell'ignoranza. Quando sono in un paese che non è il mio, amo parlare la lingua di quel paese; quando sono in casa mia, m'ingegno di farne gli onori, parlando al forastiero la lingua sua, se ho la fortuna di masticarne un pochettino. Questo era, dopo tutto, anche il gusto di Byron, che scriveva mirabilmente nella lingua di Shakespeare, ma si sarebbe vergognato di parlarla sul continente, avendo l'aria di imporre ai forastieri l'idioma di Wellington e di Hudson Lowe. Al diavolo dunque l'orgoglio della lingua patria, del non volerne saper altra e del pretendere che tutti parlino la nostra. Superbia per superbia, teniamoci quella del sapere qualche volta la lingua degli altri, del potere dare, col Mazzini e col Ruffini, degli scrittori all'Inghilterra, col Fiorentino e con altri parecchi, alla Francia. Qualche volta abbiam fatto di più, dando ai nostri vicini degli uomini di Stato, come il Mazzarino, degli imperatori, come il Buonaparte, dei dittatori, come il Gambetta.

C'est nôtre orgueil à nous, anche quando di questi uomini si dicono corna. Bisogna leggere per esempio ciò che si scrive qui del Gambetta, trionfante a Romans. Le rusé gênois, l'opportuniste italien, sono i titoli più alla mano. E non sanno il piacere che ci fanno, quando scrivono e dicono di queste cose. A buon conto scoprono il loro mal talento e rendono a noi ciò che è nostro.

Ritorno al mio tema. I francesi, dirà taluno, non conoscono la nostra lingua perchè non hanno interesse a studiarla. Per una parte è vero, amando noi di parlare il francese, quando siamo in casa dei nostri vicini. Per l'altra non lo è più tanto, dovendosi ammettere che un po' d'obbligo dovrebbero sentirlo anche loro, e notando inoltre questa sollecitudine con cui tanti bravi bottegai si affannano a notificare urbi et orbi che essi hanno il dono delle lingue, meno la nostra. E perchè questa esclusione, di grazia? Non è lecito di conchiudere che ci amano poco?

Per me, e senza mestieri di tante licenze, conchiudo addirittura così. L'ho accennato in uno dei capitoli precedenti e lo ripeto in questo. Chiacchiere di fratellanza, di razze latine, d'interessi paralleli e via discorrendo, ne sentirete molte anche qui; ma non c'è da crederne un frullo. Sono i giornalisti che svecchiano queste anticaglie, e noi, qui, dobbiamo accordare ai giornalisti quella fede che ottengono qui. Consentitemi la ripetizione dell'avverbio; è proprio qui che si sente questo difetto d'amore per noi; esso traluce, trapela, traspira e trasuda per ogni verso, nella sua forma più naturale e più schietta. Non è odio, non è malumore, è freddezza.

Che cosa importa a voi della donna che non vi piace? Può passarvi a lato quanto vuole, ma non avrà da voi che un'occhiata distratta. Può esser bella come pare a lei e agli altri, ma a voi non farà nè caldo, nè freddo; non negherete la cosa, ma non penserete neanche ad ammetterla; farete come Mastro Raffae', consigliato dalla canzone a non incaricarsene punto.

Ho parlato di freddezza, intendiamoci; ho detto che l'odio e il malumore non c'entrano. Qui non odiano nessuno di fuori via, neanche i tedeschi. Quando leggete su pei giornali o nei libri, i dolorosi accenni alla guerra del 1870, non vi fidate di certe frasi; sono abbellimenti rettorici. I tedeschi, forse, odieranno questo popolo, che si è rialzato così presto, troppo presto, mostrando di possedere una vitalità straordinaria; ma questo popolo non odia loro. Potrà darsi che un nuovo padrone lo spinga a tentare la rivincita, soffiandogli in cuore uno sdegno che giovi alle proprie ambizioni; ma sarà uno sdegno fittizio, un semplice innesto, come quello del vaiuolo. Per il momento, il nuovo padrone non c'è', nè sembra vicino, checchè ne dicano i giornali monarchici e i bonapartisti; c'è la repubblica con l'esposizione universale e la pace. Man spricht Deutsch! Chi avrebbe potuto prevederlo sette anni fa?

Aspettando che altri preveda il giorno e l'ora del «si parla italiano», diciamo dunque che delle lingue ignorate a Parigi la più ignorata è la nostra. Per chi aspetta la fratellanza dei popoli, questo è un cattivo segno, sicuramente; ma restringendo la nostra prospettiva, e contentandoci di restar parenti in dodicesimo grado con tutti (che sarà sempre abbastanza e a taluni parrà anche d'avanzo) si può ammettere che il male non sia poi così grave. Non dimentichiamo che i francesi, se non istudiano ora la lingua nostra, l'hanno pure studiata in illis temporibus, e la loro letteratura se ne è tanto imbevuta da portarne i segni entro e fuori, nella sostanza e nella forma, nelle frasi e nella ossatura dei periodi. Gli scrittori francesi del Cinquecento riboccano d'italianismi, e i più famosi tra loro sono anche i meglio formati sul gusto italiano. Inoltre, l'arte francese non è suppergiù che una derivazione dell'arte nostra. Come corteggio alle nostre principesse fiorentine, abbiamo mandato a Parigi i nostri pittori, i nostri scultori, i nostri orafi, i nostri architetti, e via via gl'insegnatori di tutte le utili discipline. La seta, i velluti, le maioliche, industrie italiane trapiantate in Francia; la pittura e la scoltura anche oggi sono studiate a Roma; per l'architettura si è formata qui una vera scuola, italiana nel complesso delle forme, sopraccarica negli accessorii, a cui giovano i facili insulti del clima, che annerisce e confonde nelle linee generali quell'abuso di ornati, non imitato certamente da noi. Emancipati dall'Italia nell'industria e nell'arte, hanno un pochino dimenticato la balia, ecco tutto. Saliti su su, mentre noi cadevamo sempre più in basso, e non al tutto per colpa nostra, pensarono per lunga pezza che noi non fossimo più necessarii nel mondo. Ad onor loro, va notato che furono i primi ad accorgersi dell'errore e che in un buon quarto di luna ci hanno anche data una mano a risorgere. Se ricompensati ad usura, non importa cercare; il benefizio è di quelli che non si possono attenuare, rammentando ciò che costano. Nè vuolsi andare ad almanaccare come e perchè, ad ottenerci il benefizio, ci volesse un tiranno, dopo che i nostri vicini, costituiti in repubblica, avevano aiutato a ribadirci le catene. Non siamo noi che dobbiamo guardare in bocca al cavallo donato; alla fin fine, i torti della seconda repubblica francese li ha cancellati la terza.

Questa è rettorica onesta; ma intanto l'amicizia non c'è, e l'ignoranza delle cose nostre rimane all'ordine del giorno. È un bene? è un male? Vediamo il bene; io non credo inutile questa indifferenza per noi, da parte del cervello del mondo; riconosco che c'è del buono, del gustoso, in questo risveglio non osservato del nostro paese. Meno abbaderanno a noi, e meglio faremo i fatti nostri. Le donne di cui tutti parlano, a cui tutti tengono dietro, non sono quelle che vantaggiano di più la famiglia.

Vedete il buon levatore; è desto e lavora, mentre tutti gli altri dormono ancora della grossa. È quella l'ora più felice della casa, senza faccie torbide e coi sorrisi dell'aurora al balcone; ogni cosa si fa presto e bene, quando non ci sono fastidii, nè inciampi. Chiunque ama il mattino (e tutti i lavoratori lo amano), m'intenderà facilmente, e vedrà di primo acchito l'utilità di lasciar dormire chi vuole, e di lavorare inosservati al nostro risorgimento politico ed economico.

Godiamoci dunque la nostra mezza solitudine e approfittiamone per rimetterci all'opera. Ci guadagneremo di sicuro qualcosa; per esempio di non avere a concorrer più all'Esposizione mondiale come abbiam fatto quest'anno, pochi, dappoco e mal serviti per giunta.

Ci siamo, all'Esposizione, direte; il salmo doveva finire in gloria. No, lettori umanissimi; sarà per un'altra volta. Oggi s'è fatto per celia.




IV


All'Esposizione mondiale. – Il Trocadero. – Le branche dell'astaco. – Babilonia veduta di giorno. – L'insalata dei popoli. – Tentazioni e ritegni. – La Via delle nazioni. – Le sezioni industriali – Il caos.

Ho promesso, ed ogni promessa è debito; andiamo all'Esposizione.

Ve ne hanno parlato tutti ed io non potrò dirvi nulla di nuovo. Ma, Dio buono, che cosa c'è egli di nuovo sotto il sole? Neanche il Trocadero genuino ed autentico, che, se non m'inganno, è a Cadice ed è stato preso anche un pochettino dal re Carlo Alberto, in penitenza de' suoi peccati di gioventù.

Perchè abbiano dato il nome di Trocadero al palazzo delle feste, edificato sulla riva destra della Senna, davanti al Campo di Marte, che è sulla riva sinistra, non so e non mi son presa la briga di chiedere. Forse lo hanno chiamato così, perchè il nome suonava bene, come quell'altro di Alcazar, già entrato nelle grazie e nelle consuetudini di Parigi. Lasciamola lì e diciamo che fa un bel vedere, con la sua massa tondeggiante a varii piani e con le sue braccia allargate a semicerchio, di rincontro all'Esposizione. Lo spazio che corre tra i due fabbricati è immenso, circa cento cinquantamila metri quadrati. Il Trocadero ha un acquario nelle viscere, smisurata esposizione di pesci, che si vedono nella piena libertà delle loro occupazioni domestiche girando i meandri di una grotta; ha una cascata che gli esce dal grembo, una gran sala di concerti, di balli e di conferenze nel petto. Che cos'abbia nella testa non rammento più bene; so invece che ha nelle braccia una esposizione retrospettiva dell'arte europea, dall'età della pietra lavorata fino ai tempi moderni, e ci ho ammirato le incisioni fatte dai pastori di venti mil'anni fa sulle corna delle renne e sui denti di mammutte, gli elmi dei Galli, i coltelli dei Druidi, i bronzi e le terre cotte dei Romani, il giaco del Conte Verde, l'armatura di Cristoforo Colombo, l'elmo di Boabdil, ultimo re di Granata; insomma, un mondo e mezzo di curiose e preziose anticaglie.

Quella del Trocadero è un'architettura tutta bucherellata, che mi piace poco, veduta ne' suoi particolari; le lunghe braccia dell'edifizio son molto, ma molto, lontane dalla dignità di quel doppio colonnato in cui il Bernini ha rinchiusa la basilica di san Pietro, e arieggiano piuttosto le branche sottili di un astaco. Se il Trocadero fosse dipinto di rosso, vi parrebbe infatti di vedere un homard. Ma collocate tutta quella massa su d'un poggio, seminate qua e là, per l'immenso declivio, delle cascate, delle fontane, dei chioschi, dei castelli algerini, la cui grandezza è un nulla a petto di quella mole gigantesca, ed essa finirà col piacervi, come è piaciuta a me. Aggiungo che il Trocadero, essendo nuovo, è bianco; cosa rara a Parigi, dove ogni superficie di marmo, o d'intonaco, annerisce nello spazio d'un inverno; donde la necessità d'imbiancare di tanto in tanto le case, ma non già col pennello, sibbene col rastiatoio.

La qual cosa non è punto piacevole all'orecchio; experto crede Ruperto. Appunto ora, mentre scrivo, cinque o sei muratori, sospesi a certe funi spenzolanti dal tetto, rastiano la facciata d'una casa vicina, e cantano in coro la canzone alla moda: —Madame Langlumé, j' viens demander vot' fille. Non so quale dei due suoni sia più… laceratore. E la mia prosa ne risente, come vi sarà facile di riconoscere.

Dunque, dicevamo… Ma badate, qui si salta di palo in frasca, senza tanti complimenti; la vita, come il discorso, è tutta lardellata di parentesi. Da principio ci si confonde un pochino; questi indugi, questi perditempi su d'ogni marciapiede, ad ogni canto di strada, vi fanno bestemmiare perfino Giulio Cesare, che ha fatto di Lutezia una città importante, e Giuliano che aveva la debolezza di starci volentieri; ma poi ci fate la piega, vi accomodate all'indugio, che vi trattiene così poco, alla, noia incontrata, che ve ne fa cansare un'altra, aspettata pur troppo. In questa benedetta città potete dare un appuntamento e dimenticarlo, senza pericolo di passare per uno screanzato. C'est la règle; mentre l'andarci, composto di ricordarsene e di venirne a capo, in questo viavai di gente, in questa rete tessuta d'ostacoli inopinati e d'incontri fortuiti, c'est l'exception. Riuscite a mantener la parola data? Siete una exception. Non riuscite? Siete en règle.

Esco, se Dio vuole, da questa parentesi e ritorno al Trocadero. Vi ho detto in una delle mie lettere precedenti che sul boulevard, al crocicchio dell'Opera, con tutta quella illuminazione elettrica, par di vedere Babilonia di notte. Orbene, sul ponte di Jena, guardando un po' al Trocadero, un po' al palazzo dell'Esposizione, avete Babilonia di giorno; Babilonia per le grandi linee in distanza, Babilonia per tutti quei ciuffi di verde, che, disseminati a varie altezze, vi dànno un'idea degli orti pensili, Babilonia finalmente per la gran confusione di gente che va e che viene, parlando, fischiando, cincischiando, latrando, cinguettando tutte le lingue della terra.

Disegni del palazzo dell'Esposizione non cercherò di farvene; in primo luogo, perchè tutti i giornali illustrati li dànno, secondariamente perchè non credo nella efficacia delle descrizioni. Bevuta una tazza di cioccolata al caffè spagnuolo, o di cicoria al caffè algerino, m'inoltro sul ponte di Jena, allargato del doppio con possenti travature laterali, e ammiro il gran palazzo che non vi descriverò; noto che è quasi tutto di ferro e di cristallo, che quei grandi padiglioni del mezzo e degli angoli, con le loro ampie lunette invetriate, arieggiano gli archi a tutto sesto della facciata di San Marco; dò una guardata distratta ad una ventina di nazioni, allegoricamente rappresentate in colossali statue di creta; non mi commovo per una tozza Repubblica francese, di marmo bianco, seduta su d'una cattedra ateniese in capo alla gradinata che è davanti all'ingresso, e di là mi volgo indietro, come il naufrago dantesco, a guardare la sponda opposta. Quello è davvero uno spettacolo meraviglioso. Chioschi, fontane, praterie, castelli africani, padiglioni di zinco, baracche, depositi di marmi francesi, anche lavorati a statue, per far vedere a tutti che l'unico marmo statuario possibile è quel di Carrara; giù giù, sui lati, le tettoie dell'esposizione agricola, le stufe per le piante esotiche, e i fortieri delle ostriche, detti alla francese parchi d'ostricoltura; la testa dell'Indipendenza americana, principio d'una statua arcicolossale in bronzo, che i francesi regaleranno agli Stati Uniti nell'anno… vattelapesca; poi il gran maglio della fonderia del Creuzot; poi un altro acquario per l'ittiologia marina, e finalmente una fabbrica di sidro di Normandia col suo banco di vendita al minuto, che io, feroce bevitore di sidro al cospetto di Dio, rammenterò sempre con gratitudine; eccovi la decima parte di quello che si vede, e la ventesima di quello che non si vede, accatastato, ammonticchiato, pigiato, in un disordine che non manca d'eleganza, sul vasto pendio del Trocadero e sulla riva sinistra della Senna, in giro all'Esposizione e sempre fuori del suo magno recinto.

Vorrei dirvi qualche cosa delle aiuole di fiori, vere esposizioni orticole, di cui non si potrebbero immaginare le più splendide; ma qui c'è proprio da confondersi, tra i pelargonii dalle foglie tricolori, le araucarie imbricate, le creste di gallo sesquipedali, le jucche, le latanie, i bambù giganteschi, lo vigne nane sopraccariche di grappoli. Cesso da inutil opra, come direbbero i classici; rinunzio a questa fatica da cani, come si dice in volgare.

Entriamo, se vi piace, nel gran palazzo di cristallo, detto del Campo di Marte, perchè ne occupa tutto lo spazio, cioè a dire una superficie di quattrocento ventimila metri quadrati. Questo palazzo ha due facciate, l'anteriore e la posteriore, e per conseguenza due grandi vestiboli, ognuno dei quali è largo ventiquattro metri e lungo trecento cinquanta, cioè quanto la facciata medesima, «sotto le cui tre cupole – ei corre e si dilata – fiume di cento popoli – che fanno… un'insalata».

L'insalata dei popoli è un'immagine che il Preti e l'Achillini m'invidieranno dalla tomba. Ma per descrivere questa roba ci vuole a dirittura lo stile del Seicento. In mezzo al vestibolo, davanti all'ingresso, c'è un orologio monumentale, che fa fronte da quattro lati ed ha quattro statue, rappresentanti i quattro elementi degli antichi. Il pendolo, indipendente dall'orologio, ma pendente dalla cupola, ha una lunghezza di ventiquattro metri, e consta d'un complesso di sfere, collegate in modo da formare una specie di bilanciere. Scusate la rima; qui si diventa poeti senza volerlo.

Amate meglio diventar milionarii? Tentate un colpo su quella vetrina ottagona che si vede alla sinistra dell'orologio, sormontata da un baldacchino rosso. Ci sono dentro i diamanti della corona; il Reggente, che pesa cento trentasei carati e vale cinque milioni, non un soldo di meno; i sette diamanti del cardinal Mazarino; un diadema in diamanti e perle, che valgono cinquecento mila lire l'una; poi turchesi e brillanti; collane di perle; diamanti e rubini; stelle in diamanti, ricevute da Napoleone III in regalo da parecchi sovrani; la Giarrettiera; l'Elefante di Siam; un'impugnatura di spada, eseguita per Carlo X; un orologio tempestato di diamanti, destinato in principio al Dey di Algeri, che fu poi tempestato (il Dey, non l'orologio) di palle da trentasei e di altri oggetti sferici dello stesso valore; finalmente un diadema in diamanti che può all'occorrenza trasformarsi in collana. Vi avverto, per altro, che ad una cert'ora di sera la preziosa vetrina discende sotto il pavimento, in un misterioso nascondiglio, il cui orifizio si ricopre con spesse lastre di ferro fuso. Uomo avvisato, mezzo salvato.

Non ci perdiamo nel vestibolo d'onore, detto del ponte di Jena; usciamo all'aperto, nella via interna, detta la via delle Nazioni. Essa corre rasente alla sezione centrale, dove è l'esposizione di belle arti di tutti i popoli d'Europa, ed ha sull'altro fianco l'esposizione industriale di tutti i popoli dell'Europa, suddetta, e di parecchi dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Australia. Ognuna delle nazioni che concorrono all'esposizione ha la sua facciata su questa via. L'Inghilterra ci ha riprodotto lo stile della sua architettura ai tempi della regina Anna, o giù di lì; gli Stati Uniti un quid medium tra il dock e lo scalo di ferrovia; la Svezia e la Norvegia due casette di legno in stile romando del XII secolo; l'Italia un portico di palazzo milanese del Cinquecento; il Giappone una casa di campagna; la Cina una porta del palazzo imperiale di Pechino; la Spagna un frammento dell'Alambra; la Russia una casa di Mosca, quella stessa in cui è nato Pietro il Grande; la Svizzera una casa del cantone d'Argovia, nello stile suo del XVII secolo; il Belgio un palazzo magnifico, nello stile del Risorgimento, e in marmi e pietre delle sue cave; la Grecia una casa Policroma del tempo di Pericle; l'Austria un palazzo ad archi e colonne, che è suo come il Trentino, o come l'Istria, con una facciata a graffiti, elegantissima, di cui si potrebbe vedere il tipo originale a Pistoia, o in qualche altra città della Toscana.

Ho detto che a tutte questo facciate, e ad altre che ommetto per brevità, corrispondono le rispettive sezioni industriali. Ho detto altresì che nel mezzo dello sterminato edifizio è la corsia delle belle arti di tutti paesi, ed aggiungo che essa s'interrompe nel centro, per dar luogo al padiglione speciale della città di Parigi. Aggiungo ancora che dall'altro lato di questa corsìa, e parallela alla via delle Nazioni, corre la via di Francia, con tutta l'esposizione delle industrie francesi, che costituisce la metà di tutto il palazzo. Ve ne siete formati un'idea? No. Lo capisco; ma non è colpa mia.

Lo ripeto, qui c'è da confondersi. Vorrei veder voi, lettori umanissimi, dopo una prima gita, tutta consacrata a formarvi un'idea del complesso, ed anche dopo una seconda, tutta spesa a vedere di corsa statue e gruppi di zinco, stivalini, manipoli di grano, ombrelli, aratri, velluti, ostriche, porcellane, lenti telescopiche, pelliccie, rastrelli, molini a vento, borse, bauli, pietre dure, scatole, mobili, bacheche, paraventi, conserve alimentari, arnesi scolastici, sottane, guanti, concimi, seghe, farine, carboni, diamanti… e quasi quasi sarò per aggiungere, col Burchiello,

… Zaffiri ed ova sode
Nominativi fritti e mappamondi.

Io, dopo aver fatto il viaggio e perduta la bussola, sono andato a rifugio nella corsìa delle belle arti, e in quell'altra, che non è molto lungi, delle industrie italiane.

Giunto là, ho sentito il bisogno, come ora, di ricogliere il fiato.




V


Industrie italiane. – Lombardi e Genovesi. – I canditi del Giappone. – Libri e pianoforti. – Scoltura piccina. – Un primato in pericolo. —Exemplaria graeca. – Un pronostico al condizionale.

C'è del buono, mi affretto a dirlo. Non sono pessimista per progetto ed amo render giustizia a tanti bravi industriali, che modestamente, ma indefessamente, lavorano a rialzare il credito delle manifatture italiane. Gran lode va data, per esempio, a tutti quei valenti setaiuoli comaschi e milanesi che hanno esposto i loro prodotti, mirabili per bontà di tessuto e per vivezza di colore, sotto il titolo comune di Associazione della tessitura serica italiana; allo Schlöpfer di Salerno pe' suoi tessuti ad uso di vestiario; al Piccaluga di Gavi e al Bancalari di Chiavari pei loro filati di seta, veramente notevoli; ai Gérard e ai Casa, genovesi, per la bellezza e la solidità delle loro tele; al Trapolin di Venezia e al Levera di Torino per la sfoggiata magnificenza dei loro damaschi. Firenze e Roma si sono mantenute al primo posto, per l'artistica lavorazione delle pietre dure. Nei mobili siamo giunti ad una bella altezza, e tutti, italiani e forastieri, ammirano lo stipo intarsiato del Bertolotti di Savona; il quale stipo, appunto perchè è la cosa artisticamente meglio riuscita di questo genere, che sia nella esposizione italiana, non ha avuto dal giuri, che una medaglia di terz'ordine.

Ma passiamo oltre, che i giurì son tutti compagni. Ricordo a titolo d'onore le belle mostre ceramiche e vetrarie, del Ginori di Firenze, della Società Faentina, della Società di Murano e del Salviati di Venezia; non senza notare che, rispetto a queste industrie gentili, siamo rimasti un po' stazionarii di rimpetto ai francesi. Sèvres e il Baccarat informino! Non così per l'industria dell'orafo e del gioielliere, che corre gloriosa e trionfante, con Alessandro Castellani ed altri parecchi. Le filigrane son belle, ma poche, come i versi del Torti e come in genere gli espositori genovesi, che io cito qui per ragione di cittadinanza.

A proposito di genovesi, e le paste? e i canditi? Ho veduto una piccola mostra di quelle, mandata dal Ghigliotti, ed una piccolissima di questi, mandata dal Ferro. La più parte dei canditi, di Genova e d'altre parti d'Italia, sono giunti in pessimo stato, e non sostengono il paragone dei giapponesi, che pure son venuti… dal Giappone. Ma qui bisogna osservare una cosa. Coi saggi delle industrie giapponesi son venuti a Parigi anche gli autori, che si sono presi una cura gelosissima dei loro prodotti e vi esercitano su una vigilanza quotidiana. I nostri espositori (e non parlo solamente di quelli che mandarono conserve alimentari) hanno il torto di non esser venuti loro a Parigi. I francesi sono quasi sempre davanti ai loro banchi, alle loro vetrine; e ciò si capisce, poichè questa è casa loro. Ma anche gli espositori delle nazioni vicine son tutti qui, intenti a ripulire, a cambiare, a rinnovare. La Spagna ha fatto qualche cosa di più; ha mandato un paio di soldati di tutte le armi del suo esercito, vera esposizione ambulante della sua eleganza in materia d'uniformi, e lusso non indegno di un paese che si rispetta.

Per ritornare all'Italia, il ministero della marina ha mandato qua un modello del balipedio di Muggiano, cavi, cordami, sagome di bastimenti, e un bel saggio d'attrezzatura di nave da guerra, che forma l'ammirazione di tutti i visitatori. Quello della guerra (almeno, credo che sia lui) ha spedito il cannone automatico dell'Albini e una stupenda carta fisica dell'Italia, eseguita in rilievo dal capitano Cherubini. Ma queste medesime citazioni mi obbligano a ricordare che si poteva far molto di più. Cito ancora una volta, come termine di confronto, la Spagna, che ha inviati parecchi cannoni delle sue fonderie, e molti modelli di fortificazioni, campi trincerati, cantieri, bacini, arsenali, eseguiti in notevoli dimensioni e con una accuratezza superiore ad ogni elogio, dalla sua Academia de Ingenieros del Ejército.

Non prendete queste note per un esemplare di diligenza, a cui abbia dato rincalzo il catalogo. Tocco solamente e di volo le cose che mi hanno colpito di più, che mi offrono appiglio a qualche modesta osservazione, e non pretendo di fare un esame minuto, nè una scelta ex cathedra di tutto ciò che l'Italia ha esposto nella sua sezione industriale. Dimenticavo, per esempio, la bella vetrina di libri esposta dal Sonzogno, e meritamente lodata da tanti; la mostra del Civelli, che ha ottenuto il primo premio, a cagione d'un gran vocabolario italiano stampato a proprie spese e cent'anni prima di quello della Crusca; le edizioni del Casanova, dello Zanichelli, del Salmin, e via discorrendo; gli strumenti musicali del Pelitti e i pianoforti di non so chi, ai quali non mi sono accostato, et pour cause. Figuratevi che ogni giorno, dalle dieci del mattino fino alle cinque di sera, eccettuate poche battute d'aspetto dedicate alla colazione, un professore vi suona continuamente laggiù la medesima arietta. Mi hanno detto che si tratta d'un valzer nuovissimo, l'Exposition-Valse, che tutti vogliono sentire e comprare. Tutti, meno il sottoscritto, che, perseguitato, rincorso da quel motivo per tutte le sale attigue, non ha voluto saperne di avvicinarsi alla nicchia dei pianoforti, per leggervi i nomi dei fabbricanti e tramandarli alla più prossima posterità.

C'è del buono, lo ripeto, in questa esposizione italiana, e pare anche meglio quando si è data una corsa in altre sezioni industriali; che non tutte possono avvicinarsi per merito alla Francia, all'Inghilterra, al Giappone, al Belgio, all'Austria-Ungheria, alla Cina. Nuovi in tante arti e mestieri, o scaduti per colpa non nostra dall'antico primato, non possiamo far miracoli in tutto, e a questi lumi di luna. Si aggiunga, per molti industriali italiani, la poca voglia che avevano di mandare i saggi delle loro manifatture in paese lontano; si badi alla ristrettezza del luogo assegnato all'Italia; non si dimentichi la sonnolenza proverbiale di chi avrebbe dovuto e potuto dare a tanti oggetti una migliore collocazione, e si converrà facilmente che, date tante circostanze contrarie, l'esito non è stato infelicissimo. Ma io, dopo tutto, sostengo e dico che se, in parecchie cose, anzi in molte, si poteva dicevolmente restare in terza e in quarta fila, almeno in talune non dovevamo restar secondi a nessuno, e in una di queste secondi a noi stessi, che è peggio.

Vi sembrerà un indovinello, ma non lo è. Dico che ci fa torto di esser rimasti secondi in pittura, poichè nessuno dei nostri grandi pittori ha mandato un palmo di tela; dico che ci fa torto di non aver fatto meglio in scoltura, e di apparire i primi, sì, ma inferiori alla nostra fama del 1867.

Sia lodato il cielo, esclameranno gli ottimisti; in qualche cosa abbiamo il primato. Sicuramente, ma perchè ad altri non è ancora balenata l'idea di strapparcelo, battendoci colle nostre medesime armi. La Francia, verbigrazia, la Francia che ci ha raggiunti da cinquant'anni nel campo della pittura, perchè ci ha oltrepassati da venti? Perchè, impadronitasi dei meccanismi dell'arte, ha avuto il coraggio di rifarsi dallo studio del vero, aggiungendovi poi tutte le grazie della modernità, tutti i lenocinii del pennello. Ora, lasciate che essa intenda nella scoltura tutti i meccanismi dell'arte e tutti i lenocinii dello scalpello; anzi, fate che voglia andar per le spiccie, a pigliarsi a cottimo un centinaio dei nostri bravi finitori, di quei tali che fanno i capegli, i pizzi, i rasi, le sete, i velluti, e vedrete che non tarderà molto a raggiungerci. Non ci oltrepasserà, lo capisco; non ci oltrepasserà, perchè la scoltura non è come la pittura, che sembra contentarsi solamente del vero, ma vuole anche dell'altro, cioè l'idealità, la grandiosità, la magnificenza, compagne inseparabili di un'arte essenzialmente monumentale, e perchè, grazie al cielo, ci sono ancora in Italia degli scultori giovani, che, non disdegnando di fare la mammina, il bambino, il cagnolino (esemplari eccellenti per le terre cotte, che un giorno o l'altro vinceranno la mano a questo genere di scoltura da salotto), sentono ancora e mantengono il culto dell'ideale, del grandioso, del magnifico, a cui l'arte divina s'informa.

Disgraziatamente, all'odierna esposizione di Parigi, gli artisti di questa fatta son pochi, o bisogna dire che quasi tutti si sono contentati di entrare in lizza con lavorucci di poco momento. C'è qui in abbondanza l'arte piccina, l'arte da salotto, la roba da vendere. L'arte grande, l'arte monumentale, l'arte che mira alla gloria, si è fatta viva con pochi e direi quasi timidi saggi. Che cosa ha esposto il Monteverde? Lo Jenner, bellissimo, pieno di verità, ma non certo rispondente all'ideale dell'arte; l'Architettura statua destinata al monumento Sada, opera magistrale, ma che bisognerà giudicare messa a posto, mentre qui non è altro che una donna seduta. Il modello in gesso del monumento Massari col suo angelo poggiato sulle palme al sarcofago, non finisce di contentarmi. Anche lasciando da parte quello sconcio di due linee che s'incontrano ad angolo retto (l'angelo e il morto), che cosa significa quell'appoggiarsi dell'angelo, a cui, per star ritto, dovrebbero bastare le ali? Si dirà che il vero vuol proprio così, ed io non son qui per negarlo. Ma allora, perchè le ali, che non son vere, fuorchè per gli uccelli e per le nottole? A concepimento ideale mezzi ideali; è la regola dell'arte greca, che ha sentito così intimamente ed espresso così efficacemente il vero, ma che, quando effigiava gl'Iddii, non li faceva mai colle estremità del bipede implume, da cui pure toglieva a prestanza le forme.

Parlo con libera schiettezza al Monteverde, perchè lo amo e lo stimo. È un artista con cui si possono citare i Greci, senza essere sospettati di voler fargli dispiacere, nè torto. La quistione del resto non risguarda punto la valentia dell'artista; risguarda semplicemente la scuola, i confini in cui deve restringersi lo studio e l'imitazione del vero. Rammento qui, poichè mi viene a taglio, un altro grande artista italiano, di cui ho ammirato, a Genova, nella necropoli di Staglieno, un bellissimo genio, anch'esso colle ali e coi piedi da biricchino scalzo. Quei piedi erano copiati dal vero; non si poteva far meglio di così, volendo fare dei piedi di ragazzo dodicenne, che dimentichi troppo spesso le scarpe a casa. Ma, per un angelo, quei piedi mi stonano un poco. Imitate il vero dalla testa ai piedi, non dico di no; ma, nel caso di cui sopra, bisogna toglier le ali; anzi, meglio, non far angeli, mai, nè altre figure allegoriche. I Greci, a cui mi piace di ritornare, i Greci, che erano naturalisti in arte quanto noi, se non per avventura più di noi (me ne appello alla Venere di Milo), davano estremità convenienti, e per conseguenza men vere, agli immortali abitatori dell'Olimpo. E la ragione s'indovina: corpo nutrito d'ambrosia non può pesare ottanta chilogrammi, o giù di lì. Il dio pesante non va. Negate Dio, in vostra malora; ma in tal caso astenetevi anche dal modellarlo in creta, com'egli ha modellato voi, in un momento di soverchia bontà. Se lo fate, ammettetelo qual è, o quale lo ha immaginato un popolo di credenti.





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Видео по теме - Lutezia (by Igor Caiazza)
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  • константин александрович обрезанов:
    3★
    21.08.2023
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    11.08.2023
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