Книга - La plebe, parte III

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La plebe, parte III
Vittorio Bersezio




Vittorio Bersezio

La plebe, parte III





CAPITOLO I


Il marchese di Baldissero, se vi ricorda, aveva recato seco il manoscritto di Maurilio che gli agenti di polizia avevano sequestrato nella perquisizione fatta in casa il pittore Vanardi. Le poche cose che ne aveva lette fugacemente, segnate colla matita rossa dal commissario Tofi ed additategli dal Governatore, lo avevano invogliato, uomo di alto senno e di imparziale giudizio qual egli era, di fare più ampia ed esatta conoscenza, come si suol dire, colle idee ardite insieme, e per lui, ed in quel tempo massimamente, affatto nuove, manifestate dal giovane pensatore.

Sedutosi adunque nel suo severo studiolo, dove siamo già penetrati, il marchese lesse con attenzione gli squarci seguenti:

«Sieyes disse in sul fine del secolo scorso la sua famosa frase: «Che cosa è il terzo stato? Nulla. Che cosa dev'egli essere? Tutto.» Egli con ciò esprimeva la sintesi, la conclusione del movimento di progresso del secolo XVIII nell'ordine politico ed economico, il programma della rivoluzione che ne legava le basi dell'attuazione e ne lasciava compiere l'edifizio al secolo corrente. E questo secolo non si finirà senza che si proclami un'altra formola, od anche non proclamata in parole senza che si cominci ad effettuare nei fatti, la seguente: «Che cos'è la plebe? Uno stromento cieco, una forza senza guida, di cui si ha paura e cui si comprime, capace ora più del male che del bene. Che cosa ha ella da diventare? Una forza consciente ed illuminata, che abbia essa stessa la ragione, e colla sua potenza trascini il mondo nella via del bene.» Ancor essa, la plebe, ha da diventar tutto, perchè nel suo gran seno ha da avvolgere e contenere e confondere quelle separazioni che ora diconsi classi, fatta serbatoio unico e comune di tutte le intelligenze, di tutte le individualità operatrici, in una specie di emanatismo politico, nell'unità di popolo.

«Leggevo l'altro giorno di certe macchine a vapor acqueo che mandano innanzi sopra rotaie di ferro una filza di carri di peso madornalissimo con velocità meravigliosa e fanno muovere i congegni e le ruote d'un intiero opifizio con un movimento trasmesso. Cotal forza di vapore non diretta, mal governata può essere uno sterminio; in quell'organismo meccanico è una benedizione. Ecco l'immagine della plebe nel movimento sociale: ecco la sua parte che oramai viene ad assegnarle il progresso allo stadio in cui si trova. Abbandonata a sè, malamente e a torto compressa, disordina o scoppia con danni infiniti. L'organismo meccanico che deve farne una forza utile è l'assetto politico e sociale che conviene rimutare di molto, non certo per bruschi passaggi, ma per lente gradazioni di miglioramenti.

«Ma quest'organismo politico e sociale deve egli esser quello che attuò l'assolutismo accentratore, per cui la volontà d'un solo dia norma e regola a tutto il movimento della vita pubblica d'un popolo; deve egli esser quello che sognano i comunisti per cui la società assorbendo compiutamente ogni personalità, distrugge la libertà individuale per fare di tutti la ruota d'una macchina agente di forza sotto una specie di legge fatale? No: sono tirannia e il comunismo e l'assolutismo, due forme d'un medesimo errore, d'un medesimo delitto, lo schiacciamento della personalità umana, sul libero sviluppo della quale deve fondarsi il progresso dell'evo moderno. La condizione, l'ambiente in cui e per cui deve aver luogo la rigenerazione della plebe può essere soltanto LA LIBERTÀ…


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«L'umanità cominciò per essere tutta schiava, perchè tutta ignorante: schiava delle forze della natura che non aveva imparato ancora a vincere e guidare, schiava dei proprii istinti animali che non aveva ancora imparato a dominare e farne virtù ed affetti. Dalla profondità di questo abisso di tenebre intellettuali e morali, cominciarono a sorgere gradatamente ad una luce relativa sempre via via crescente i pochissimi, poi i pochi; cominciano ora ad essere i molti; non sono ancora i più, conviene che sieno tutti. I sacerdoti prima, che usarono la forza del pensiero a consolazione e terrore insieme dell'universale, approfittandosi del sentimento religioso, primo sintomo di progresso nell'uomo uscito appena dall'efferatezza della barbarie; poscia i guerrieri che usarono la forza dell'animo e del braccio in difesa dell'associazione comune; quindi coloro che col commercio e coll'industria usarono delle forze della natura per accrescere la ricchezza della sociale agglomerazione. Al di sotto sta ancora l'immensa massa di coloro che usano le forze tutte della loro vitalità nella lotta della produzione, ad effettuare benefizi economici, sociali e intellettuali a cui essa troppo poco o nulla affatto partecipa. La società dell'India ha da secoli arrestato il movimento progressivo ascensionale delle classi, cristallizzandone per così dire l'assetto nella stabilita fatalità delle caste: a qual punto erano allora arrivati i differenti strati sociali dovevano fermarsi in eterno colla varietà immutabile dei loro diritti e vantaggi maggiori o minori misurati dall'ingiusta casualità della nascita: sacerdoti, guerrieri, trafficanti, ultimi i paria che non dovevano aver mai diritto, nè vantaggio nessuno. Ma quella società in tal modo s'è tolto l'elemento e la ragion della vita; immobilitando il suo organismo ne impedì la funzione migliore, quella del migliorarsi; ogni corpo sociale che non progredisce, decade; quella società da secoli sta lentamente morendo.

«Ma in Europa eziandio, anche dopo il fiero scuotimento della rivoluzione di Francia sono troppi ancora i paria! Il risultamento della gran rivoluzione, fu l'esecuzione la più compiuta possibile del programma di Sieyes: l'emancipazione, anzi il trionfo del ceto medio. L'impero stesso napoleonico non rappresenta altro a' miei occhi. È la democrazia del terzo stato che si afferma mercè la forza contro l'antica monarchia del diritto divino, contro l'antica aristocrazia dei privilegi, contro l'antica supremazia del papato; tre forze del mondo andato a fascio colla rivoluzione, le quali tenevano schiava l'umanità. Napoleone è un parvenu della borghesia che invano cerca coprirsi col manto del sacro romano impero di Carlomagno per illudere il monarcato e i vecchi patriziati d'Europa; che riesce a circondarsi d'una specie di Cesarismo democratico per trascinar seco le masse. In Roma non v'era ceto medio, e Cesare per abbattere l'aristocrazia si fece l'uomo della plebe; in Parigi, dopo la rivoluzione, Buonaparte si servì del militarismo e della conquista per ispandere le affermazioni politiche ottenute dal terzo stato e che erano sornuotate all'anarchia, dopo la sconfitta del demagogismo plebeo. L'opera di Napoleone, politicamente e socialmente parlando, è tutta nel Codice civile: il vangelo della società moderna. Dopo l'impero non fu possibile più che un monarcato borghese. I Borboni, tornati, dovettero acconciarsi a regnare in tal modo, e poichè Carlo X non seppe adattarvisi a dovere, la rivolta del 1830 lo cacciò per far luogo ad un re secondo il cuore dell'epoca: un re, come lo chiamano al di là delle Alpi, un re di bottegai[1 - Badino i lettori che queste cose scriveva Maurilio parecchi anni prima del 1848.].

«La plebe dalla grande rivoluzione, a dispetto delle audacie demagogiche e delle utopie sociali che si presentarono alla luce del giorno, non ebbe, nella divisione dei benefizi, che una menoma parte: appena se la ricognizione di alcuni diritti, la concessione di pochi; la precarietà delle sue condizioni non fu mutata, la sua emancipazione dalla miseria, o tentata soltanto e male, o pretesa attuare con ispedienti più nocivi e minacciosi dei diritti d'altrui. Il torto non fu degli uomini nè degli avvenimenti: fu della necessità delle cose. Il nostro ceto non trovavasi ancora in condizione da approfittare della rovina della società antica per farsi, nella ricostruzione della nuova, un posto migliore. Era giusto che il ceto medio ne vantaggiasse egli primo e quasi esclusivamente, perchè quella rivoluzione era opera sua, da lunga mano egli ci si era preparato, nel suo seno era sôrta quell'agitazione filosofica di criticismo che aveva arrivate ed affascinate anco le sfere superiori e preparava nell'ordine delle idee quella distruzione del vecchio che doveva poi aver luogo così meravigliosamente ne' fatti. A tutto ciò la plebe non aveva collaborato che con qualche tumulto suscitato dalla miseria, andando a gridare, sotto alle finestre di quella che era ancora per lei la Provvidenza incarnata, voglio dire la monarchia, che aveva freddo e che aveva fame. Quando la rivoluzione, facendo come Saturno, ebbe divorato i migliori suoi figli, ella era entrata un momento nel campo lasciato libero, ma con non altro concetto direttivo che le follie o tristi o puerili degli Hebert, dei Babeuf e dei Clootz, col tristo corteggio delle tricoteuses della ghigliottina, allo sciagurato lampo della lama sanguinosa di quello stromento di morte.

«La rivolta del 1830 non giovò molto di più all'emancipazione della plebe. Non fu che una vendetta della borghesia verso la ristaurazione che aveva creduto poterla rigettare di nuovo sotto la dominazione delle vecchie schiatte feudali.

«Poi la quistione si complicò sventuratamente con quella della forma politica. Gli amici della plebe credettero che il vantaggio di essa più facilmente si otterrebbe col trionfo del partito repubblicano; e questo non ha tuttavia guadagnato la maggioranza delle coscienze e delle opinioni in Europa.

«La forma politica non vi ha da che fare. Anche la monarchia può soddisfare a ciò che pretendesi dalla giustizia verso le basse classi, che queste cominciano anche inconsciamente a domandare, che esige la legge medesima del progresso umano. Per questo è necessario oramai entri in azione l'elemento della plebe: quella forma politica qualsiasi, monarcato o repubblica, che saprà sinceramente accettare ed aiutare siffatta entratura e fondarcisi, avrà assicurate le proprie sorti soddisfacendo al bisogno dell'epoca…


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«Quella classe che alla plebe dovrebbe tendere la mano è la borghesia. Uscita da poco, da ieri soltanto, fuor di quel baratro di soggezione, d'ignoranza e di miseria dove s'agita ancora il volgo, dovrebbe facilitare il cammino ai suoi fratelli. L'onda del progresso manda i derelitti a battere alla porta dell'edificio della civiltà dove banchettano i gaudenti, dov'è sapere e ricchezza: gli arrivati dovrebbero aprir loro il varco perchè colla violenza non lo dischiudano: colla violenza che tutto manda sossopra. Lo dovrebbero per generosità, lo dovrebbero per interesse: la borghesia, appena arrivata, lotta ancora coi tronconi tuttavia potenti dell'idra del passato che la scure della rivoluzione ha infranto, non ha spento del tutto. Le stanno a fronte più che tenacissimi, risuscitati a nuova vitalità, i resti del feudalismo, il militarismo, la teocrazia uniti in istretta lega dall'esperienza del comune pericolo a cui soggiacquero: un'alleanza fida, sicura, potentissima la troverebbe nella plebe.

«Anche la monarchia potrebbe avvantaggiarsene. Quel dì ch'essa apertamente si facesse redentrice delle plebi avrebbe schiacciato ogni rimasuglio di resistenza aristocratica, avrebbe scongiurato ogni rischio del dottrinarismo liberale borghese. E l'aristocrazia? Quando chiamasse ella stessa al desco fraterno della civiltà le classi tenute finora da esso lontane, nulla avrebbe a temer più della rivalità del ceto mercantile. Avrebbe trovato una forza nella dignitosa clientela di diritti che dimani avranno la foga di passioni e la terribile ragione del numero. Ma per ciò l'aristocrazia avrebbe da mutarsi del tutto d'indole e di essenza. E ciò, com'è oggidì, non vuole, non ha il coraggio da tanto, non ne ha neppure l'intelligenza. La borghesia liberale è ancora più adatta a quest'opera eccelsa e fatale, da cui ha da sorgere la società novella del venturo secolo; ma la borghesia in un accesso di cieco egoismo diffida e teme dei fratelli da cui si è separata da un giorno soltanto; e l'occhio volto esclusivamente alla ragion del guadagno ed alla materialità del suo benessere, dimentica la sua missione e i suoi veri interessi medesimi.

«Guai, guai a chi volesse di questa forza servirsi come d'una leva pel conseguimento de' suoi fini particolari, e di poi gettarla od infrangerla! Una volta affrontato il problema, o il suo scioglimento graduato ma logico e fatale, o la crisi la più spaventosa che abbia mai attraversato l'umanità.


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Il marchese cessò un istante dal leggere e stette meditando.

– C'è molto da riflettere, disse fra sè, in queste pretese fra ingenue ed orgogliose della moltitudine, che ha trovato un ingegno ed una erudizione per dar voce all'inconscio lavorìo che si fa nel suo seno, e cui imprudentemente hanno solleticato ed aiutano le ambizioni malconsigliate dei rivoluzionari. È un sintomo dell'epoca. Codeste aspirazioni hanno bello ammantarsi delle sembianze generose di temperati richiami ad una ipotetica giustizia; le non sono altro che un mascherato desiderio dei godimenti materiali, cui soltanto i poveri vogliono vedere nella vita delle classi superiori. Sotto lo specioso nome di progresso, inventato dall'irrequieta ambizione de' moderni sovvertitori, non intendono in realtà altro che lo spogliar noi dei vantaggi sociali per goderne essi: l'ufficio alto e necessario ad un buon assetto dello Stato, cui esercita l'aristocrazia, disconoscono o fingono disconoscere: essi non pensano neppure ad assumersene il carico e non ne sarebbero capaci; e frattanto, togliendo alla classe superiore i privilegi, la riducono ancor essa nella impossibilità di compiere il suo mandato. Così la società rovinerebbe. A beneficio di chi? Delle più indegne passioni.

Curvò il capo fissando la fiamma vivace della legna che ardeva nel caminetto. Un penoso pensiero gli fece corrugare quella sua nobile fronte.

– Ma la nobiltà d'oggidì, soggiuns'egli con un sospiro, ma noi adempiamo ancora veramente ed efficacemente a quell'alto ufficio?

Non diede a se stesso risposta, come se non osasse, non sapesse; voltò una pagina del manoscritto e riprese a leggere un altro passo segnato dalla matita rossa del Commissario.

«Il vero fondamento d'un buono organismo sociale è la libertà: sarà migliore quel sistema, farà più felici i suoi popoli quel governo, effettuerà quanto più è possibile l'uguaglianza civile quel complesso di leggi e di amministrazione che guarentirà come l'arca santa di tutte le libertà, la libertà individuale.

«Gli antichi usarono molto il vocabolo di libertà, ma di essa non ebbero il menomo giusto concetto, sacrificando il cittadino allo Stato, schiacciando sotto l'ente collettivo l'ente individuale. Non formiamoci un idolo di quest'essere collettivo, la cui personalità, risultando dal complesso di tutte quelle che la compongono, deve cercare la sua prosperità in quella delle singole monadi che la costituiscono. Lo Stato ha la sua ragion d'esistere nell'obbligo e nel fatto di ottenere la maggior felicità dei membri tutti ond'è composto: dico di tutti, non di una classe – di tutti secondo la loro capacità e condizione. Quando manca a codesto dovere, o tutto il popolo tenuto in malessere, o quelle classi che sono oppresse hanno diritto di sovvertirlo: rimedio certo estremo, cui e popoli e Governo dovrebbero impiegare tutta la prudenza per evitare. Se il diritto insorge e non trionfa, si ha il fatto della tirannia.

«Il mezzo più sicuro di ottenere la maggior felicità di cui sia capace un popolo è la libertà, la quale ancora è mezzo unico efficace perchè questo popolo si renda degno di felicità maggiore e la conseguisca. La libertà accompagnata dalla giustizia, che genera infallibilmente la moralità. La libertà è la responsabilità di ciascuno e di tutti in faccia a tutti ed a ciascuno ed a se stesso: è la possibilità e l'incoraggiamento di svolgere ed impiegare tutte le forze individuali nel comune lavorìo onde risulta la coltura: e questo svolgimento e questo impiego trovano così limite soltanto ed arresto nello svolgimento e nell'uso di altre forze individuali più meritevoli, più potenti più logiche e quindi più degne d'espansione e di successo. Alcuna forza buona in codesto urto di attriti rimarrà soffocata fors'anco, alcuna cattiva, per audacia e pravità della natura umana riuscirà a trionfare; ma sarà un'eccezione che andrà sempre via via diminuendo a seconda che durerà l'esercizio della libera vita.

«Ma la risponsabilità dell'individuo presuppone nel medesimo la facoltà dell'apprezzamento e gli elementi del giudizio. L'uomo è tanto più libero e tanto più risponsabile, quanto più è istrutto. L'istruzione è primo elemento della libertà: l'educazione della coltura. Volete mantener serva una gente? Fate che sia ignorante. Volete chiamarla alla libertà? Obbligatela ad aprir gli occhi alla luce. Fondamento sul quale innalzare l'edificio d'un libero vivere, l'istruzione e l'educazione obbligatoria pei fanciulli di tutti. «Obbligatoria? Questa parola sembra stonare col tenore del mio concetto. Libertà ed obbligo, come s'accordano? S'accordano sì. Sono due termini di un'antinomia che si risolve in una proposizione dialettica, recando la quistione sul suo vero terreno.

«La libertà individuale consiste in ciò che l'uomo possa fare tutto ciò che spetta alla sua azione, tutto ciò che gli piace ed ommettere eziandio a suo talento tutto ciò che non ha voglia di fare, quando col suo fatto colla sua ommissione non urti nella libertà degli altri, non leda i diritti altrui. Se ad un uomo piace l'essere ignorante, che diritto ha la società di dirgli: rompiti la testa a studiare, perchè io voglio che tu sia istrutto? Potrebbe dirsi che la società da un uomo istrutto ricava utile assai più che da un ignorante, ed ha perciò diritto di pretendere che quel suo membro le dia tutto ciò che può darle di sua capacità; ma questo a mio vedere è un sofisma. L'uomo dev'essere accettato dalla società quale si trova: ricco o povero di talenti, ricco povero di cognizioni, ella non può pretender altro se non che non violi i diritti altrui, non minacci la sicurezza comune. Con diverso criterio bisognerebbe ammettere che la società avesse diritto di scrutare se l'individuo può dare maggior lavoro di quello che dia effettivamente, maggior virtù, maggior senno e che so io, ed obbligarlo a dare questo tanto di più: il che sarebbe non che tirannico, assurdo.

«Ma quand'è che l'individuo ha da godere di questa sua libertà che è per così dire un santuario in cui nessuno deve osarlo turbare? Quando esso n'è fatto capace: quando la sua personalità è arrivata a quella maturanza per cui è risponsabile de' suoi atti, quando insomma è veramente uomo. Il fanciullo non ha la pienezza di questa libertà perchè non ha la possibilità di usarne: gli manca la responsabilità perchè gli manca la ragione; l'infanzia fisicamente e moralmente ha bisogno di sostegno; il diritto ch'essa ha, quasi per inversione, è appunto quello che altri abbracci e faccia come appendice della sua la esistenza di essa e provveda a tutti i suoi bisogni.

«Ora qui si trovano in accordo due principalissimi elementi: l'interesse che ha la comune associazione che le si crescano generazioni meglio capaci di conferire al bene comune mediante l'istruzione, ed il diritto che ha ciascun individuo, quando non può ancora da sè provvedere alle cose sue, che siccome si procura la soddisfazione de' suoi bisogni fisici, gli si fornisca eziandio quel capitale di cognizioni onde avranno ad avere soddisfacimento di poi i suoi bisogni intellettivi e morali. L'obbligo adunque dell'istruzione non s'impone all'individuo su se medesimo, quando capace di giudicare e volere, ma s'impone ai padri che debbono ancora volere e giudicare pei figli.

«La libertà dei padri rimane ella lesa? No. Hanno essi diritto i padri di decidere e volere che i loro figliuoli rimangano nel lezzo dell'ignoranza? Questa loro libertà eccede i limiti in cui si deve muovere, perchè offende il diritto ingenito che ha il figliuolo all'alimentazione dello spirito, pari a quello che reca seco nascendo all'alimentazione del corpo. Se un padre rifiuta di provvedere il cibo a' suoi figli, lo si punisce – ed a ragione – ; se non sa non può procurarglielo sottentra l'azione sociale a sostituirlo. Così dev'essere del cibo dello spirito.


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«La plebe può quasi ancora paragonarsi alla fanciullezza[2 - Vincenzo Gioberti nell'aureo suo libro del Rinnovamento fa precisamente questo paragone quando dice che l'emancipazione della plebe e della donna è la missione precipua del presente secolo.]. Come tale non avrebbe ella il diritto di essere illuminata, anche con qualche costrizione? Se si mettessero obbligatorie per l'operaio le scuole serali degli adulti, per esempio?.. Ma no; beneficia invitis non conferuntur, dissero i Romani; si lasci pure all'operaio già cresciuto la libertà di andare piuttosto all'osteria la sera che non alla scuola; ma questa scuola frattanto ci sia, perchè, dove lo voglia, egli vi si possa recare.

«Scuole obbligatorie per tutti indistintamente i fanciulli; scuole facoltative per gli operai adulti. Va benissimo: ma chi le pagherà tutte codeste scuole?


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«Gli enti naturali che hanno la loro ragione di esistere superiormente alla legge sociale sono due: l'individuo e la famiglia. È legge di natura che l'individuo per isvilupparsi abbia bisogno della famiglia: questa è la ganga da cui si sprigionerà il metallo della persona individuale. Una famiglia rudimentale hanno anche i bruti: colla comparsa della ragione nell'umanità essa doveva progredire in nuova e più perfetta costituzione colla sanzione di più spiccati e maggiori doveri e diritti nei due termini che la compongono: la paternità e la figliuolanza.

«Ma quella prima agglomerazione d'individualità che è la famiglia, è ancora molto debole in faccia alla natura che impone ad ogni suo organismo vivente la lotta per l'esistenza. I comuni pericoli costringono parecchie famiglie ad unirsi in vincolo di comune difesa: d'altronde la famiglia è una sorgente feconda di altre famiglie, dal tronco si slanciano varii e molteplici rami e tutti rimangono uniti da una comunanza di bisogni, d'interessi e d'affetti. È la prima associazione che non impone più la natura medesima direttamente e inevitabilmente. Intravviene un fatto sociale. L'uomo ha dedotto delle conseguenze dalle premesse delle sue condizioni, dalla sociabilità messa in lui virtualmente, da quello che ha imparato dall'esperienza. È fatto un passo immenso nella civiltà: è creato il Comune, la vera unità dell'associazione politica, la base d'ogni esistenza collettiva di popolo.

«Più tardi la progrediente vita sociale creerà dei bisogni a cui provvedere, dei pericoli a cui riparare, non basterà più da solo il Comune. Si sente da essi l'utilità di consociarsi in parecchi affine di accrescere le loro forze, i loro mezzi d'azione, la loro difesa. È nato lo Stato, o per dir meglio il concetto del medesimo si è staccato da quello del Comune con cui prima si confondeva, e s'è visto in esso qualche cosa di più comprensivo, una somma di rapporti di più lata e diversa natura.

«Finchè lo Stato rimase piccolo bastò che trammezzasse fra lui e la famiglia il Comune; ma il movimento del progresso politico si è finora disegnato di guisa da volere ed effettuare via via sempre più grandi agglomerazioni di popoli, prima empiricamente, senza regola direttiva, per la violenza della spada, per l'ambizione d'un despota o d'un popolo conquistatore; da ultimo, dopo la rivoluzione francese, dietro una specie di norma nelle condizioni geografiche ed etnografiche, con la legge d'un nuovo diritto, quello delle nazionalità; alla costituzione ed al compimento delle quali è chiaro per me che l'umanità cammina senza possibil riparo nel presente secolo, nella continuante evoluzione, nello sviluppo dei germi posti dal gran cataclisma europeo di cui fu stromento il più efficace la Francia.

«Ma fra lo Stato cresciuto a queste proporzioni e tendente a tutto accentrare ed assorbire, ed il Comune che vide minacciata ed ebbe anco intaccata la sua vita autonoma, fu bisogno allora che si stabilisse qualche cosa di mediano che provvedesse a certi bisogni locali e partecipati a più Comuni, ed a cui lo Stato, tratta in altro campo più vasto la sua azione, mal poteva e voleva e non doveva por mano. E fu costituita la Provincia.

«Or dunque noi abbiamo a costituire l'organismo sociale parecchi elementi, parecchi esseri di cui alcuni hanno vita direttamente dalla natura medesima, gli altri mediatamente per convenzione degli uomini resa necessaria dalle condizioni immutabili delle cose: l'individuo, la famiglia, il Comune, la Provincia e lo Stato.

«Se ciascuno dei membri di questo gran corpo, se ciascuna delle ruote di questa immensa macchina sta a suo posto ed esercita la sua funzione, le cose cammineranno a seconda come in un organismo vivente dove sia piena salute; ma se l'uno di quegli organi impaccia od usurpa l'azione dell'altro, se uno pretende avocare a sè ed esercitare le attribuzioni altrui, allora abbiamo il disagio, allora il corpo sociale è ammalato, allora v'è la prepotenza di questi, la schiavitù di quelli.

«Lo Stato, appo noi, tutto compenetrato nella Monarchia, che s'appoggia ai privilegi d'una casta ed alla forza del militarismo, ha invaso il campo d'azione delle altre parti del corpo sociale; quindi il malessere, quindi la servitù in cui viviamo…»

– La servitù! esclamò fra sè il marchese a questo punto, interrompendo di nuovo la lettura. Oh come la intendono essi, questi predicatori di democrazia, e che cosa vorrebbero per dirsi liberi? Invader loro le attribuzioni della monarchia e comandare a furore di popolo. La monarchia, stolti che sono, incarna il supremo diritto dello Stato, diritto superiore ad ogni altro, innanzi a cui le loro pretese sono da non curarsi, e se occorra schiacciarsi. L'aristocrazia e il militarismo a cui il trono s'appoggia e si deve appoggiare – e segnerebbe la sentenza di sua rovina il dì che cessasse dal farlo – l'aristocrazia e il militarismo, rappresentano e sono, quella le tradizioni e i sentimenti più nobili del passato su cui si deve regolare la monarchia, questo il freno delle triste e pericolose passioni del presente: costituiscono la forza di uno Stato all'interno ed all'estero. Dissensato od empio chi li volesse distrurre!..

Pronunziò queste parole con calore, levando fieramente la testa, come fa l'uomo valoroso innanzi ad un pericolo o ad una sfida: ma poi tosto, come ravvisatosi, sorrise, si curvò verso il fuoco, lo attizzò sbadatamente colle molle che aveva impugnate, e soggiunse:

– Ve' ch'io mi scaldo sui vaneggiamenti d'un giovinotto senz'esperienza, risultato di mal digeste letture, parodia di Rousseau in piccole proporzioni… Ecco i bei frutti di quell'istruzione che costui vuol data al popolo, ai pari suoi!.. Il primo uso ch'ei ne fanno è di volgere quel poco che hanno imparato contro quella società che glie lo ha fatto o lasciato imparare. Istruite un popolano senza certe precauzioni, ed otterrete di sicuro un sovvertitore dell'ordine pubblico. Lo scrittore di queste pagine, che non si sa chi sia, che nulla forse ha provato del mondo, nulla ha visto, l'ingegno che gli concedette Iddio, poichè lo ha rinforzato con alquanti e chi sa quali studi, impiega tosto a condannare quello che hanno assodato e fatto concreto nel mondo i secoli trascorsi… L'istruzione è un potente e nocivo liquore che va misurato con cura ed a centellini a' figliuoli del popolo: per ciò così provvida e necessaria l'opera dei gesuiti e delle associazioni religiose che da quell'ordine dipendono. Gesuiti, Ignorantelli e soldati hanno da tenere il mondo, chi non vuole la guerra civile in permanenza.

Appoggiò il capo alla palma della sua mano destra così bella ed elegante di forme, da vero aristocratico, e parve riflettere seco stesso sulle ultime parole che aveva pronunziate.

– E costui ha dell'ingegno. Sì; traverso questo suo falso modo di concepire le cose umane, traverso codeste che mi paiono ambizioni del suo pensiero, si scorge una certa potenza d'intelletto… Se la dirigesse al bene!.. Perchè non si potrebbero acquistare ai sani principii anco queste ambizioni della classe infima?.. Forse non è manco vero che questo tale nulla abbia provato del mondo, nulla visto. È nato nella plebe; non ha provato che i mali di quella condizione cui la sua intelligenza, maggiore delle ordinarie di tal classe, gli ha resi più sensibili; non ha visto la questione che da un lato solo. Quando potesse salire più in alto ed esaminare il problema sociale sotto un più vasto rispetto e in modo più regolare, non è egli probabile che vedrebbe e giudicherebbe diversamente? Dove la nostra parte, oltre l'autorità e il possesso del potere, abbia ancora l'intelligenza che ne propugni i principii, sarà di tanto più forte. E queste intelligenze è opportuno arruolarle fra le nostre file da qualunque punto si mostrino, da qualsiasi ceto esse sorgano… Parlerei volentieri all'autore di queste temerità rivoluzionarie così modestamente vestite della forma di pacifici e quasi dottrinali ragionamenti…

Un subito nuovo pensiero gli attraversò il cervello e parve gettarlo in un altro ordine d'idee.

– Ed e' si chiama Maurilio! esclamò levandosi in piedi, come sospinto da una vivace emozione. Maurilio?.. Oh quel nome!

Passeggiò per la stanza a capo chino, le braccia incrociate al petto.

– Anche quell'altro: diss'egli: anche Maurilio Valpetrosa era un novatore, era un liberale, come sogliono essi stessi chiamarsi, un patriota. La prima volta ch'e' venne in Piemonte fu nel 1820 per prepararvi quella sciagurata gazzarra dell'anno di poi, cui battezzarono col nome di rivoluzione. Fu allora che io primamente lo vidi: fu allora ch'egli vide mia sorella Aurora… Fatalità! Fatalità! Egli era bello di forme, avvenente di modi, eloquente nella parola, piacevole per ogni verso. Chi avrebbe detto che sotto quelle leggiadre sembianze s'introduceva nella nostra casa la sciagura, la discordia, quasi il disonore, la necessità dell'omicidio?

Si fermò presso il camino, appoggiò il gomito alla mensola di marmo, e sorresse colla mano la testa in una mossa che abbiamo già visto essergli abituale.

– Ah! mi ricordo di tutto e sempre, come se non fosse avvenuto che da ieri. Santarosa, che era suo complice, lo aveva presentato alle più cospicue famiglie. Dal Pozzo e Dal Borgo lo trattavano col tu e ne parlavano con entusiasmo. Il principe di Carignano lo aveva ricevuto ufficialmente, e dicevasi che lo vedesse in privato quasi tutti i giorni. Egli aveva tratti e maniere che lo facevano degno d'essere accolto nella società più scelta; perfino mio padre, così severo e difficil giudice, non disdegnava sorridere al suo brioso conversare e gli aveva data la mano. E noi fummo così stolti e ciechi da non sospettare nemmeno che Aurora potesse!..

S'interruppe di nuovo, preso da una certa commozione che diede ancora un altro avviamento al corso dei suoi pensieri.

– Povera Aurora!.. Avremmo dovuto vegliar meglio su di te. Così ti avremmo avanzati tanti dolori… e l'immatura morte fors'anco… ed a me il rimorso… Ma fummo incauti dapprima, troppo crudeli – forse – di poi… Oh perchè quell'uomo non era egli della nostra casta?.. Lo sciagurato! Com'ei ci seppe ingannar bene!.. Oh tutti questi rivoluzionarii sono infinti e traditori. Un uomo da nulla, il figliuolo d'uno scrivano osò stare alla pari con noi e rapirci la più preziosa gemma della famiglia… Egli pure aveva ingegno; oh sì, moltissimo ne aveva. Era poeta. Quando parlava della sua utopia d'un'Italia libera dallo straniero, risorta a nuova grandezza, mercè l'unione delle sue varie membra sotto lo scettro di Casa Savoia vi sapeva entrare con tanta efficacia nell'animo che ognuno ne sarebbe rimasto scosso. Io, giovane allora, lo fui; perfino mio padre esitò un momento. Quando quel demonio tentatore gli espose dinanzi il quadro d'un regime rappresentativo in Italia in cui noi potessimo e dovessimo sostenere la parte che tiene con tanto lustro ed effetto l'aristocrazia in Inghilterra, mio padre stesso fu sovraccolto e non isdegnò fermare su tal concetto il suo pensiero. Ma lo spirito pratico e fermo di mio padre non tardò a vedere che l'impiantare il sistema inglese in Italia, con altri costumi, con altre tradizioni, era impossibile, e il crederlo una illusione. Ponendo le mani in quella congiura l'aristocrazia non avrebbe fatto che un marché de dupe; perchè o la congiura falliva e chi ci aveva da perdere maggiormente erano i nobili compromessi che ci ponevano in repentaglio la loro fama, il nome, la posizione, le ricchezze: o riusciva, e noi non avremmo fatto altro, introducendo forme liberali nel Governo, dando la spinta al sentimento popolare colla guerra allo straniero, che mettere in mano della borghesia procacciante lo strumento per soprammontarci… E molti di noi – troppi – si diedero in preda all'illusione e credettero potere scatenar l'idra e vincere con essa il monarcato assoluto e il dominio straniero, due forze potenti, e quell'idra, quand'anche vittoriosa, dominarla poi!..

Fece una pausa ed era evidente, chi l'avesse visto, che la sua mente, così agitata da varie impressioni, ora s'affondava sempre più in una grave meditazione.

– L'Inghilterra, riprese egli a dir seco stesso, è quella che possiede l'aristocrazia più potente, più benemerita e fondata su più salda ed incrollabil base. Sul continente la monarchia, distruggendo il feudalismo colla forza, appoggiandosi sul popolo, ha fatto di noi poco più che cortigiani soltanto. Una Camera di Pari ci rialzerebbe i caratteri, l'autorità e le fronti.

Sorrise, poi tentennò il capo e fece un gesto colla mano, come per allontanare da sè la follia di quel pensiero.

– Eh via! soggiunse. Noi siamo oramai incastrati a questa monarchia tal quale essa è. Conviene vivere con essa della sua vita presente. Una modificazione nella medesima chi sa dire le conseguenze che può avere? Non sarebbe egli aprirvi dentro una breccia? E traverso questa, per quanto stretta, passerebbe senza fallo oggidì lo spirito sovvertitore moderno. Ma l'aristocrazia inglese ha un suo metodo per tenersi sempre in prima fila in quella vita di pubblicità e in quella lotta di intelligenze e d'ambizioni; ed è di studiar molto essa stessa, e poi di chiamare a sè, d'invitare, accogliere e far suoi tutti i più notevoli ingegni che dieno prova efficace di sè nelle classi inferiori. Così la si rifornisce, per così dire, di nuovo sangue, la si rinforza di nuovi campioni e li toglie a' suoi nemici che se ne potrebbero servire; acquista di quando in quando nelle nuove reclute lo zelo sempre più ardente di neofiti. Ciò dovremmo fare anche noi. Con un po' d'oro acquistare un ingegno; di questo non ne abbiamo troppa abbondanza per trascurare siffatto mercato…

Riprese in mano lo scartafaccio di Maurilio che aveva abbandonato sulla mensola del camino.

– Questo disgraziato che non ha nome, che non ha famiglia, che forse non ha pane, ha la ricchezza dell'ingegno. Perchè non diverrebbe un soldato della nostra falange?

Si diede a continuare la lettura del manoscritto.

«L'individuo gli è verso la famiglia che ha il diritto naturale di ricevere l'istruzione: lo Stato che ha interesse i suoi componenti sieno istrutti, gli è alla famiglia che ha il diritto sociale d'imporre la educazione dei figli.

«Ma se la famiglia non può? Perchè si raccolsero le famiglie in Comune se non perchè questo secondo ente collettivo sottentrasse colla sua forza maggiore là dove le forze della famiglia non potevano provare? L'educazione dei poveri è obbligo del Comune.

«Se questo manchi al debito suo, lo Stato, associazione superiore, dovrebbe obbligarlo a compierlo; e se il Governo, troppo lontano e non abbastanza in condizione da vedere e giudicare le circostanze locali, affidasse questo suo diritto e il sindacato che ne fa parte alla Provincia, tanto meglio e tanto più efficace il provvedimento.

«Il Comune adunque dovrebbe procurare che fosse aperta nel suo seno quella scuola che dà gli elementi necessarii ed indispensabili dell'istruzione alla fanciullezza. A quell'età l'istruzione è unica e serve per tutti, a qualunque classe si appartenga, qualunque carriera si sia per intraprendere di poi. Sarebbe assai venturoso che i figliuoli dei ricchi si frammischiassero fin d'allora ai figliuoli dei poveri, e imparassero l'eguaglianza degli uomini innanzi al diritto, il rispetto alla dignità personale in ogni creatura umana. Ma se ciò sarebbe pur bene, non è tuttavia da imporsi. Quella libertà ch'io propugno, vorrei rispettata anche in codesto. Il Comune apre la sua scuola a tutti; ma se alcuno ha i mezzi di istruire i suoi figli all'infuori di questa scuola, sì lo faccia e resti libero dall'obbligo di mandameli, quando provi che questa istruzione egli loro fornisce realmente ed efficacemente.

«Pei trasgressori note di biasimo pubbliche e multe.

«Per mantenere la scuola il Comune tasserebbe i contribuenti d'un balzello apposito. Ma dunque i ricchi pagherebbero la scuola pei poveri? Appunto. Ma questo è socialismo! E lo sia; ma è socialismo che dirò onesto e ragionevole. È socialismo che già è in vigore per molti altri bisogni comuni dell'associazione. Chi paga le strade? chi l'illuminazione della città? chi la forza pubblica che mantiene la sicurezza, ecc., ecc.? I contribuenti: quelli che possedono. Ed il proletario non gode pur esso di questi vantaggi della vita sociale? Se voi pagate per illuminare le strade di notte affine di non essere assassinati, pagate senza rimpianto per illuminare le menti del popolo ottenebrate dall'ignoranza e ci guadagnerete eziandio nella sicurezza, e risparmierete forse e senza forse nelle spese degli agenti dalla polizia, nelle spese delle carceri. Anche codeste ultime spese le pagate voi, ricchi, pei poveri: e sarebbe meglio non le aveste da pagare…

«Ma in ciò altresì vorrei lasciato il primo posto alla libertà. Il Comune dovrebbe dire ai suoi cittadini: – Voi che possedete, volete liberamente consociarvi per mantenere le scuole onde abbisogniamo? Alla vostra libera associazione per quest'uopo, la quale appunto sarà tanto più zelante, io cedo volentieri il luogo, pronto a riprenderlo se voi fallite. Non volete? Allora sono costretto ad usare delle mie attribuzioni di ente collettivo stabilito per ottenere il meglio possibile i fini proposti…»

Più in là il marchese incontrava quest'altro passo notato dal Commissario:

«La società famigliare è imposta all'uomo dalla natura, la società civile e politica è ancor essa il risultato necessario delle sue condizioni fisiche, fisiologiche, intellettive e morali. L'uomo non vi si può ribellare: il diritto comune è lì per ischiacciarlo s'e' lo tenta: il suo consentimento ai legami sociali se è giusto bensì, se risponde ai suoi bisogni ed interessi, è pur sempre tuttavia un consentimento forzato.

«Ciò vuol dire che questa società, che il Governo, in cui la si concentra e con cui agisce, deve strettamente rinserrare la sua azione entro i limiti delle cose che gli spettano realmente, per cui ha la sua ragione d'esistere. Uscendo di là esso, il Governo, abusa di quel costretto assenso, abusa della tacita costretta delegazione, offende la libertà: ogni passo fuori della cerchia delle sue attribuzioni è un passo nella tirannia.

«Ma quanti nelle condizioni presenti dello stato sociale si trovano a disagio! Le leggi che guarentiscono i gaudenti sono in pari tempo ceppi a chi soffre e vorrebbe mutar la sua sorte. Devonsi quelle leggi abolire? ma allora abbiamo l'anarchia. Devonsi comprimere colla forza soltanto i disagiati per farli stare nel loro disagio? ma allora abbiamo la guerra civile in permanenza.

«Il rimedio possibile – un rimedio, relativo e lento e di progressivo sviluppo, imperocchè in ogni cosa della creazione tanto riguardo alla materia sì organica che inorganica, quanto riguardo al mondo morale e intellettivo, nulla è brusco, improvviso ed assoluto – l'unico rimedio possibile, a mio avviso, è una che chiamerei forza del mondo umano, di cui la natura medesima ci diede l'idea, imponendoci la sociabilità, forza la quale non è nuova, nè nuovamente conosciuta, imperocchè ne troviamo imperfette applicazioni anco nel Medio Evo, ma che pur tuttavia ora soltanto pare aver trovate le condizioni acconcie nell'umanità per isvilupparsi e cominciar a mostrare ancora in lontano adombramento che cosa possa ottenere, sin dove arrivare: e questa è L'ASSOCIAZIONE.

«L'uomo, arruolato fin dalla nascita nel corpo sociale, non ha tuttavia con ciò esaurito quell'attitudine di sociabilità che porta seco, specialissimo e nobilissimo carattere dell'esser suo. La società politica e civile non risponde che ad una parte dei suoi bisogni e delle sue facoltà: in tutto il resto devo lasciarlo libero, mentre nello stesso tempo, col fatto suo gl'insegna la verità aritmetica che tante debolezze consociate formano una forza potentissima.

«Di questa sua sociabilità, come d'ogni altro diritto individuale, l'uomo deve potersi servire in ogni modo, a suo talento e capriccio, fin là dove l'esercizio del suo diritto non turbi e non violi il diritto altrui.

«La libertà d'associazione è uno dei più sacri diritti del popolo, ed è più che un attentato tirannico, è un'empietà il fatto d'un Governo che la contrasti e la neghi.»

E qui Maurilio scorreva rapidamente tutte le bisogne a cui poteva – e secondo lui doveva – applicarsi la libera associazione dei cittadini. Designava due vie che si dovevano percorrere, due correnti che avrebbero dovuto muoversi l'una dall'alto, l'altra dal basso, per incontrarsi, a così dire, a mezza strada in un comune intento: la miglioria sociale. Dall'alto le classi arrivate all'agiatezza dovrebbero mercè l'associazione guarentire i loro possessi dai pericoli delle passioni e delle ire che sobbollono nei bassi fondi delle plebi, antivenendo lo scoppio della rivolta che non domanda più ma azzanna tutto, col concedere a poco per volta ciò che giustizia comanda e le condizioni del momento a seconda permettono e consigliano si debba concedere; dal basso i proletari, i lavoratori senza riserva di risparmi, in balìa delle esigenze del capitale, dovrebbero unirsi in tale associazione che facesse per loro come la base d'un ammasso di risparmi, che tenesse luogo in parte per essi del capitale e ne assicurasse loro alcuni dei vantaggi, quello almanco d'una certa sicurezza del domani. Quindi per risultamento del concorso di queste due correnti d'associazione, una dei ricchi, protettiva ed aiutrice, l'altra dei poveri, operativa e principale, guarentito ad ognuno della plebe che voglia – e chi non vorrebbe? – l'educazione della prole, l'esistenza della famiglia e il soccorso fraterno durante le malattie, il pane di tutti i giorni e la dolcezza del domestico focolare pulito e raccolto, mercè il lavoro, l'assistenza nella vecchiaia quando le forze mancano all'opera, così che quello fra tali invalidi operai che sia rimasto solo, non abbia da stentar la vita coll'elemosina che degrada, ma riceva una pensione, risparmio della sua opera giovanile che si è capitalizzato quasi senza sua saputa, e chi è nella famiglia non viva tutto a carico del lavoro certe volte scarso dei figli.

In altro luogo era toccata la quistione politica della forma di Governo. Lo scrittore aveva le sue preferenze per la forma repubblicana (qui la matita rossa del signor Tofi aveva tirate due righe con tanta forza che la carta n'era rimasta stracciata); ed invero egli credeva che in teoria, secondo la logica più stretta ed evidente, era quella forma la più consentanea all'uopo e la più adatta alla ragione. Ma concedeva egli pure che non sempre ai dettami della scienza in teoria, può corrispondere l'attuazione, cosa sempre relativa nella pratica, e che molte volte la povera logica traducendosi nei fatti, doveva sopportare le più strane e prepotenti storture. D'altronde, soggiungeva, quella appunto non è che forma: ciò a cui si deve tenere essenzialmente è la sostanza: questa consiste nella libertà e nella sicurezza insieme combinate. Quell'organismo politico il quale fornisse all'individuo la maggiore agiatezza di svolgere la propria personalità, di perfezionare le sue doti, di godere di tutte le sue facoltà, di raggiungere il suo scopo: quello sarebbe da accettarsi per migliore, avesse a capo un re o qualunque siasi magistrato con altro nome.

E qui scendeva a far la critica – una critica non ingiusta ma severa, qualche volta aspra e mordace – del reggimento assoluto, militare, clerocratico che in que' tempi gravava sul Piemonte; e provava che con tale sistema nè la civiltà poteva progredire, nè il popolo essere soddisfatto, nè la plebe redimersi.

Il marchese, interessato forse ancora più di quello che avrebbe creduto da siffatta lettura, erane a questo punto, quando una mano discreta grattò leggermente alla porta per annunziare che v'era qualcuno che desiderava entrare.

– Avanti: disse il marchese levando il capo e volgendo la faccia verso l'uscio.

Entrò il suo cameriere di confidenza.

– Che cos'è? domandò il padrone con accento che significava aver piacere di essere sbrigato presto e lasciato alle sue occupazioni. Forse qualcuno che vuol parlarmi?

– Eccellenza sì: rispose il servo inchinandosi.

– Oggi non ricevo nessuno. Se si ha bisogno di parlarmi si ripassi domani.

Il cameriere esitò alquanto; parve avere qualche osservazione da fare; ma non osò e inchinatosi di nuovo profondamente, si volse per uscire. Ma il marchese aveva visto quell'atto del servo.

– Voi volete dirmi qualche cosa? interrogò mentre il domestico già era fra i battenti dell'uscio.

Il servo si fermò.

– Chi è quella persona che vuol parlarmi? soggiunse il padrone.

– È Don Venanzio.

Il marchese sorse in piedi vivamente e disse con pari vivacità:

– Ah lui!.. È un'altra cosa… Fatelo entrare.

Due minuti dopo s'introduceva in quel salotto la bella testa veneranda del vecchio parroco di villaggio.




CAPITOLO II


Don Venanzio portava bravamente la più bella vecchiaia che si possa vedere. Nella sua faccia, che era tutta un'espressione di bontà, si manifestava la pace soave d'un'anima onesta; nel suo sguardo, ancora vivace, brillava la fiamma di quell'affetto di cui Cristo fu modello divino, la carità. Intorno al capo la capigliatura folta ancora ma bianchissima gli faceva come un'aureola di candore. Vegeto e robusto della persona, a dispetto de' suoi ottant'anni camminava dritto e sollecito; vestiva abiti alla foggia pretesca, di panno grossolano, ma pulitissimi; le sue grosse scarpe splendevano per la fibbia d'acciaio sempre lucida come uno specchio. Aveva quasi sempre seco due compagni fedelissimi: la sua mazza di giunco col pome rotondo di falso avorio e Moretto, il terzo o il quarto d'una dinastia di cani volpini che si erano succeduti nell'affezione del buon parroco, nella fedeltà al padrone e nell'ufficio poco gravoso di custodire la canonica, efficacemente difesa senz'altro dall'amore e dalla venerazione di tutti i terrazzani. Questi due compagni Don Venanzio aveva ora lasciati nell'anticamera, il bastone in un angolo e il cane accovacciatovi presso coll'intimazione fattagli a dito indice alzato di non muoversi di là, fino al ritorno del padrone.

Il nostro buon sacerdote, insomma, era l'incarnazione la migliore e la più compiuta dell'accoppiamento d'una mente sana e d'una coscienza tranquilla in un corpo sano, ideale della personalità umana.

Il marchese, che era rimasto in piedi, fece per quel povero prete di campagna – un plebeo ancor esso, vivente in mezzo ai bifolchi – ciò che la sua dignità e la sua autorevolezza non l'avevano avvezzo a fare nemmeno pei più titolati e superbi maggiorenti dello Stato, gli mosse all'incontro colla mano tesa, un sorriso di vera cordialità sulle labbra.

– Eh buon giorno Don Venanzio, diss'egli: sia il benvenuto tra noi.

Don Venanzio toccò la mano che gli veniva porta così amichevolmente, e lo fece con rispettosa deferenza, ma insieme con franchezza, senza suggezione.

– Eccellenza: disse, mentre il marchese tenendolo per mano lo conduceva verso il camino e gli additava una poltroncina in faccia a quella da cui egli s'era alzato poc'anzi; Eccellenza, sono venuto a chiederle una grazia.

Baldissero sorrise con aria che non dinotava voglia alcuna di rispondere con un rifiuto.

– Ah! le grazie che Lei dimanda so già quali sono; si tratta di aiutarla a fare un po' di bene a qualche povero disgraziato.

– Eh! press'a poco… è qualche cosa di simile: disse il buon parroco con tutta ingenuità aggiustandosi nella poltrona, mettendo il suo tricorno sulle ginocchia, incrociando le mani sul cappello e guardando in volto il marchese coi suoi occhi limpidi e schietti come una fontana di montagna. Le ho detto subito l'affar mio, da quell'impaziente ch'Ella sa… che quando ho in capo qualche cosa che mi preme, non c'è verso che io possa indugiare a tirarla fuori… Ma ora, mi permetta, Eccellenza, che le domandi notizie della sua salute e quelle della cara madamigella Virginia… e del contino Ettore e del cavaliere Edoardo e del cavaliere Amedeo… ed anche della signora marchesa.

Baldissero sorrise alla poca diplomazia del buon prete, che a dispetto d'ogni convenienza gerarchica faceva passare innanzi nell'ordine della sua rassegna quelle persone che più lo interessavano.

– La ringrazio, stiamo tutti bene: rispose. Edoardo ed Amedeo sono nell'Accademia militare. Ettore e Virginia e mia moglie la li vedrà fra poco, poichè Ella è nostro ospite…

Don Venanzio fece un cenno come per iscusarsi.

– Oh la è cosa intesa… e ne la prego: insistette il marchese. Ma veniamo tosto a quello che è il vero motivo della sua venuta, la buona opera ch'Ella ha bisogno di fare.

– La buona opera la deve far Lei: disse con tutta semplicità Don Venanzio. Si tratta d'un giovane per cui sono già venuto a supplicarla altre volte… parecchi anni sono… e quasi per un motivo identico… un povero trovatello allevato nel mio villaggio.

Il marchese prestò una viva attenzione e parve raccogliersi per iscrutare nella sua memoria.

– Un trovatello allevato nel villaggio? diss'egli con molto interesse: e lo si chiama?

– Maurilio Nulla.

A questo nome il marchese non nascose un certo moto di sorpresa.

– È strana, diss'egli: quell'individuo di cui Ella mi parla, è probabilmente il medesimo del quale stavo adesso occupandomi… Maurilio Nulla: sì, è lo stesso nome; trovatello: è la condizione sua di cui egli si lamenta…

Prese sulla mensola marmorea del camino lo scartafaccio che vi aveva deposto e lo porse al parroco, soggiungendo:

– Conosce Ella la scrittura di quel suo protetto?

– Signor sì.

– Ebbene, guardi se la è questa.

– Appunto.

Il marchese stette un momento sovra pensiero.

– Ella mi disse avermi parlato altre volte di codestui.

– Sì signore: quattro o cinque anni sono.

– Aiuti un poco la mia memoria; mi par bene d'averne un barlume di ricordo, ma non posso afferrare nulla di preciso.

– Questo giovane era stato arrestato sotto l'imputazione d'un delitto del quale io, conoscendolo per bene, lo sapevo assolutamente incapace. Son venuto ad invocare per esso la protezione di V. E., e grazie a questa potè venire scoperta la sua innocenza.

– Ah! ora mi sovvengo del tutto: esclamò il marchese. Uscito di carcere, stato ammalato all'ospedale, quel giovane privo di mezzi mi fu da Lei raccomandato perchè gli trovassi alcun impiego delle sue facoltà, ch'Ella diceva straordinarie, ed alcun guadagno dell'opera sua. In grazia di quel talento ch'Ella mi vantava… in grazia di quello strano suo nome… voglio dire delle circostanze in cui quel tale si trovava, avevo deciso di accoglierlo io stesso come una specie di segretario; ma egli non si presentò mai da me, e parve che cotal condizione troppo non gli sorridesse.

– Fu in causa d'un amico: disse il buon Don Venanzio mortificato, come se egli avesse da scusarsi di una colpa; mentre io supplicava per lui da V. E. un impiego nella sua casa, quell'amico lo allogava altrove, ed egli che nulla sapeva di quanto io stava tentando, accettava senz'altro.

– Sta bene… Mi ricordo che Lei così mi ha detto anche allora… Ma adesso, entrando, signor parroco, mi ha fatto intendere che la veniva a domandarmi per codestui la medesima cosa che mi chiese la prima volta che le toccò di parlarmene. Ella dunque sa che il suo protetto fu arrestato; e ne sa Ella eziandio la cagione?

– Sì, Eccellenza. Vengo adess'adesso dalla casa dove quel giovane abita. Io gli voglio bene, sono io che l'ho educato, posso dire; gli ho insegnato tutto quel poco ch'io so…

Il marchese lo interruppe in gentil guisa con un sorriso leggermente malizioso:

– Mi rallegro con Lei. Tutte le belle teorie politiche e sociali che si contengono in quel manoscritto è dunque Lei che glie le ha ispirate?

Don Venanzio tornò a confondersi in una nuova mortificazione.

– Ah! rispos'egli, io gli ho appena appena mostrato a spiegar l'ali; quando fu in grado di volare, il suo volo era più alto e potente del mio, perchè io potessi accompagnarnelo e dirigerlo ancora…

– Badi che quel giovinotto è tentato dalle ambizioni d'Icaro e corre rischio di fare un dì il capitombolo medesimo.

Il parroco si curvò nelle spalle, chinò la testa ed allargò le mani in una mossa di cordoglio e di rassegnazione:

– Eh lo so bene: disse: ma spero nell'aiuto di Dio che lo salvi… La Provvidenza che gli ha dato tanto ingegno non vorrà che questo torni nocivo o si consumi inutile. In fondo poi alla sua natura, sotto vivaci e frementi passioni che possono volgerlo al male, ci sono delle generosità quasi istintive che sono capaci di miracoli di bene… Dunque io l'amo quel giovane; e forse appunto l'amo tanto più in quanto che vedo i pericoli di perdersi in mezzo a cui cammina, e sarei fiero che Iddio adoperasse la mia pochezza per ricondurlo sulla buona strada, su quella del vero.

Arrossì come persona che si accusa d'un fallo.

– È certo soverchia vanità la mia, soggiunse, ma parecchie volte il Signore, appunto per dimostrare la potenza e l'efficacia della verità, usa de' più deboli strumenti per farla trionfare. Maurilio ha studiato molto, si è istruito assai della scienza terrena, ma tuttavia spero ancora che la mia ignoranza col rincalzo della fede possa aprirgli un giorno gli occhi sulle cose del mondo superiore. Ogni qual volta io capito a Torino, vengo a vederlo; talvolta non è che per quest'ultima ragione ch'io abbandono la tranquilla casetta del mio villaggio e casco giù a farmi toglier la testa nell'assordante confusione di questo viavai cittadino; e la presente è appunto una di quelle volte. Ho avuto come una specie d'istinto che quel poveretto doveva aver bisogno di soccorso; è il mio buon Angelo custode che me ne ha ispirata l'idea. Insomma da parecchi giorni avevo un gran bisogno di vederlo, e questa mattina non ci ho più resistito ed a dispetto della stagione e del cattivo tempo sono venuto. Alla sua abitazione, la signora Rosina (è la padrona del quartiere dove Maurilio dimorando in compagnia di alcuni amici, appigiona una camera ammobigliata), la signora Rosina mi raccontò tutto ciò che è avvenuto questa mane e di cui vedo V. E. essere già informata.

– Sì: il suo protetto fu arrestato come congiurante contro l'attual forma di Governo e contro la sicurezza dello Stato.

– Misericordia!.. Può dunque essere un affar serio?

– Se l'accusa viene provata, serio assai.

– Ma benedetta la pace! Come lo Stato e il Governo possono aver da temere di un misero giovane, senza aderenze, senza mezzi di sorta?..

– E l'ingegno? Quell'ingegno ch'Ella stessa Don Venanzio riconosce in lui superiore? Codesta è una forza contro cui ogni Governo deve con cura guardarsi. L'intelligenza dissemina i principii e sparge le idee: e queste e quelli, quanto più sono perniciosi, tanto più rapidamente attecchiscono e crescono come fanno le male erbe nei campi. Se si può arrestare la mano che getta i cattivi semi nei solchi non è egli miglior cosa che dover dipoi strappare le cattive piante già nate? E inoltre: guardi! In queste sue pagine ch'io stava appunto leggendo, quel giovane medesimo esalta a buon diritto la potenza dell'associazione. Un individuo solo potrà nulla o poco, per quanto abbia forza di mente; ma lasciate che a lui si uniscano parecchi, ed avrete ogni difficoltà a spezzarlo. Questo cotale è unito, a quanto pare, ad una schiera di giovani audaci che aspirano niente meno che ad un sovvertimento sociale.

Don Venanzio, spaventato, esclamò guardando il marchese con occhi pieni di supplicazione:

– Dio buono! Le cose sono sì gravi!.. Ed Ella, signor marchese, rifiuta di dar la sua protezione?

Baldissero levò la mano destra con mossa piena di nobiltà e di grazia, e disse con quel suo sorriso aristocratico:

– Non ho detto codesto, e non lo dico… Sono anzi molto disposto a favorire il suo raccomandato. Ho scorso alcune di quelle sue pagine di scritto. C'è molto ingegno davvero! Un'intelligenza sviata che ha mestieri d'essere ricondotta fra le guide dei buoni principii dall'esperienza e dall'autorità d'una mente più matura. Ho una grande curiosità, che non mi so spiegare, di veder codestui e parlargli. Non penso neppure che il male sia poi tanto grave come apparve alla Polizia: forse c'è più imprudenza di giovinotti che altro; ho già preso l'impegno di parlare di ciò a S. M. io stesso: e se il Re porta su questo incidente un giudizio compagno al mio, spero che il suo protetto e quegli altri che partecipano ora la medesima sorte, saranno quanto prima restituiti alla libertà.

– Benedetta Lei!..

– Ma frattanto non mi spiacerebbe, caro Don Venanzio, d'avere da Lei alcuni maggiori ragguagli sul conto di questo giovane. Ella me ne ha discorso un tempo, ma, confesso sinceramente che ho tutto obliato.

Il parroco raccontò ciò che sapeva di Maurilio; ed il marchese ascoltò con attenzione, e sollecitò per avere i più minuti particolari con sì minute domande che appariva metter egli in codesto un vivissimo interesse, quale Don Venanzio non avrebbe mai supposto potesse avere.

Di questa guisa il parroco fu tratto a dire di quegli oggetti che erano stati trovati addosso all'esposto bambino: la lettera scritta da mano di persona del volgo, il rosario d'agata e il bottone da livrea; cose di cui la prima volta che aveva fatto cenno di Maurilio al marchese, non era nato il caso di parlare.

– Ma codesto, disse il Baldissero, è un filo che può guidare allo scoprimento delle origini di quel giovane. Si può sapere, per esempio, a qual famiglia appartenesse la livrea di cui fece parte quel bottone d'argento…

– Ho bene sperato ancor io che ciò varrebbe a pormi in su alcuna traccia del vero, ma inutilmente: così disse Don Venanzio. Una volta, e son già di molti anni, e Maurilio, ancora fanciullo, se ne viveva presso i villani che l'avevan raccolto, venendo a Torino recai meco e il bottone e il rosario, sperando col primo scoprire la famiglia che aveva lo stemma impresso su quel bottone, e raccogliendo informazioni intorno ad essa tentare se mercè quel rosario e quella lettera si fosse potuto venire a capo di qualche cosa.

– Ebbene?

– Ebbene appresi che quello era lo stemma della famiglia de Meyrat, estinta da tempo, il cui ultimo rampollo anzi morì nelle guerre dell'impero. Ora siccome sono ventiquattro anni appena che il lattivendolo Menico trovò Maurilio abbandonato…

– Ventiquattro anni! esclamò il marchese come se dèsse una certa importanza alla misura di questo tempo. Quel giovane ha dunque ventiquattro anni?

– O poco più, perchè veramente quando Menico lo trovò poteva già contare parecchi mesi, ma insomma non può avere a niun modo più di venticinque anni, e la famiglia de Meyrat non ha più avuto esistenza dal 1813.

– È vero, interruppe il marchese, l'unica ragazza, che sopravvisse al colonnello morto a Lipsia, morì monaca a Ciambery.

– Era dunque impossibile avere in proposito nessuno schiarimento, com'è impossibile che Maurilio abbia alcuna attinenza con quella famiglia.

Baldissero appoggiò il gomito al bracciuolo della poltrona, e sostenne il capo colla mano destra in mossa profondamente riflessiva.

– Quando i lontani collaterali che presero l'eredità dei de Meyrat ne liquidarono la successione, la maggior parte delle loro sostanze fu comperata dal signor La Cappa, ora barone; in quelle negoziazioni ebbe molta parte un uomo che servì pur anche la mia famiglia, Nariccia; non sarebbe forse inopportuno consultare quest'uomo.

Pronunziando il nome di Nariccia, il marchese ebbe un interno sussulto; si tacque, ma la sua riflessione si fece ancora più profonda. Chi avesse potuto guardargli nel cervello, vi avrebbe letto questi pensieri:

– Nericcia! Egli fu di cui si servì mio padre per togliere a mia sorella il figliuolo… Bene giurò egli che quel bambino era morto; e se invece… Ma codeste mie sono vere pazzie… Perchè avrebbe egli mentito?.. E costui che la fatalità mi mena innanzi con quel nome di Maurilio, come potrebbe esser mai quel bambino, mentre non ha che ventiquattro anni, e sono ventisei che quella tragedia è avvenuta?.. E poi che cosa ci avrebbe da entrare il bottone della livrea dei de Meyrat?

Si passò la mano su quella sua leggiadra fronte come per ispazzarne via i torbidi e folli pensieri, e riprese parlando a Don Venanzio:

– L'importante per prima cosa è di ottenere la libertà del suo raccomandato. E ciò tenterò tosto. Fra poco mi recherò a Corte e parlerò a S. M. Quando quel giovane sia libero, voglio vederlo, voglio parlargli e confidenzialmente ed a lungo… E se vi ha luogo, faremo anche le ricerche occorrenti per iscoprire l'esser suo.

Un lieve grattare all'uscio annunziò di nuovo che alcuno domandava d'entrare: al permesso datone dal marchese venne il solito domestico, che annunziò:

– Il cavaliere Massimo d'Azeglio chiede di parlare a V. E.

Don Venanzio s'alzò in tutta fretta.

– Io la lascio in libertà, signor marchese, disse egli premurosamente quando appena Baldissero ebbe dato ordine al domestico d'introdurre il d'Azeglio.

– Caro Don Venanzio; rispose il marchese: Ella è nostro ospite già ci s'intende. Frattanto che io avrò il colloquio con questo signore che s'è fatto annunziare, passi di là da mia nipote Virginia a cui sarà un gran piacere il vederla.

– Quella cara fanciulla! esclamò il vecchio prete con accento di ossequenza affettuosa: per me sarà un favore l'esserne ricevuto.

Il domestico aveva riaperto l'uscio, ed entrava l'alta e simpatica persona di Massimo d'Azeglio.

Don Venanzio s'inchinò profondamente ma senza servilità innanzi al marchese, s'inchinò passando daccanto al nuovo venuto che s'avanzava, ed uscì col domestico che richiuse il battente dell'uscio.

Baldissero, senza abbandonare la poltrona, si volse verso il visitatore e fece col capo un cenno di saluto gentile sì, ma in cui pur tuttavia era una lieve traccia di riserbo, una tinta di autorevolezza da superiore.

Massimo, egli, salutò con quella spigliatezza elegante che gli era naturale, in cui s'accordavano la grazia del gentiluomo e la libertà dell'artista.

– La riverisco signor marchese.

Questi gli accennò la poltrona da cui s'era levato allor'allora Don Venanzio.

– Buon giorno cavaliere. Godo di vederla.

Nessuno dei due offrì all'altro la mano. D'Azeglio sedette e fissando il suo occhio limpido e intelligente sulla nobile figura del marchese, con un sorriso de' più simpatici rispose inchinando leggermente la testa:

– La ringrazio. La mia venuta non la stupisce?

– No; sapevo che Lei era venuto a Torino dopo sì lunga assenza, ed ho avuto la superbia di lusingarmi ch'Ella non avrebbe affatto dimenticato un vecchio amico della sua famiglia.

– Dimenticato, no certo… Sarei venuto ad ogni modo a riverirla; ma pure, se mi vi sono recato così sollecito… Lei sa come uno dei miei pochi pregi è quello d'essere sincero… si è perchè, oltre il piacere di vederla, avevo da chiedere alla sua protezione un favore.

Baldissero tirò indietro la testa fino ad appoggiarla alla spalliera della poltrona, e guardando con occhio urbanamente scrutativo il suo interlocutore, disse:

– Udiamo questo ch'Ella dice favore. Se la è cosa ch'io possa, faccia conto già fin d'ora come se vi avessi assentito.

Massimo tornò ad inchinarsi.

– Come Ella sa, io mi sono fatto artista…

– E letterato: aggiunse il marchese con un sorriso e con un tono che difficilissimo il dire se erano un complimento od una finissima ironia.

– Letterato è un termine troppo ambizioso, che non ardisco adoperare: disse Azeglio con accento e con sorriso pari a quelli del marchese: scarabocchiatore di tele e di carta, sissignore… Basta: l'artista non ha mica escluso in me il cittadino: anzi!.. Ho girato ed abitato varie parti d'Italia; ho imparato a conoscer meglio e ad amare di più la nostra nazione; ma non ho nemmanco cessato o sminuito di amare specialmente questo nostro angolo di terra, il Piemonte. Tornato per poco tempo a questo mio paese natìo, ho ricondotto qui non tanto l'artista, quanto il cittadino… L'ambiente di questo paese, anche dopo l'intelligente protezione data all'arte da Carlo Alberto, è ancora più propizio alle maschie virtù dell'amor patrio che non alle blandizie del culto del bello. Ho pensato di molte cose che mi furono suggerite dalla conoscenza che ho acquistata delle condizioni d'Italia, di molte cose che mi sembra avrebbe a tornare non inutile pel bene e d'Italia e del Piemonte stesso e della nostra monarchia di Savoia, che qualcuno sottomettesse all'apprezzamento del nostro Re, e mi sono detto che questo qualcheduno potrei essere io medesimo. È per ciò che sono venuto a pregarla, marchese, di farmi ottenere un'udienza il più sollecitamente che sia possibile da S. M.

Baldissero stette un momento in silenzio guardando d'Azeglio con quel suo sguardo cortesemente scrutatore, come se cercasse scorgere nell'animo di chi gli aveva parlato, o meditasse seco stesso quali potessero essere le cose che quel nobile fattosi liberale intendeva dire a Carlo Alberto, principe che in giovinezza aveva manifestato velleità liberali ancor egli; ma poi, come ravvisatosi e quasi pentito del piccolo indugio frapposto alla risposta, disse sollecitamente e con urbana condiscendenza:

– La ringrazio d'essersi rivolta a me per codesto. Quest'oggi stesso avrò l'onore di vedere S. M. e non dubito che mi sarà dato di farle una risposta quale Ella desidera.

Massimo fece un cenno del capo che era un ringraziamento; e Baldissero corrispose con un atto della mano che significava: è mio dovere. Stettero un momento in silenzio, come non sapendo qual discorso avviare, e fu il marchese che dopo un poco ricominciò a parlare.

– Conta Ella fermarsi alquanto tempo a Torino?

– Pochissimo. Fra due o tre giorni ripartirò per continuare la mia vita nomade d'artista traverso le città italiane.

– Ella dunque ha perso ogni affezione a questo nostro vivere torinese?

– Amo sempre questa città come il mio luogo natio; e trovo ch'essa potrebbe essere il più gradito soggiorno del mondo.

– Potrebbe essere? ripetè sorridendo il marchese.

– Signor sì: ribattè vivamente d'Azeglio; e non contraddico menomamente la giusta interpretazione che il suo sorriso dà alle mie parole. Potrebbe essere, ma non è tale per molte ragioni che qui non è il caso d'esprimere…

– E sulle quali forse, aggiunse Baldissero, noi non andremmo facilmente d'accordo.

Massimo annuì con un cenno.

– Che cosa vuole? Riprese egli poi. Sono io che mi sono guasto. La vita spigliata e libera che ho intrapresa, mi fa restare disagiato alle stampite di questa grave e severa monotonia regolata. Gli è come un buon pastricciano di campagnuolo che avendo calzato sempre abiti larghi ed alla buona, lo si voglia poi far rinserrare le membra nel vestito stretto e il collo nella cravatta allacciata delle foggie cittadinesche di rispetto.

– Tutto sta, disse il marchese continuando in quella urbanità sorridente e un po' maliziosa: tutto sta a sapere se meritino preferenza i modi del campagnuolo o quelli del cittadino.

– È una questione che si può risolvere sotto varii rispetti: rispose l'Azeglio con un'espressione che significava chiaramente declinar egli ogni volontà di discutere col suo nobile interlocutore. Rapporto a me confesserò che la risoluzione adottata è l'effetto dell'egoismo; mi trovo meglio in un modo che nell'altro… Ma Ella sa bene, soggiunse allegramente, che i Taparelli ne hanno tutti un ramo.

– Quell'originalità d'ingegno e di carattere che Ella battezza così poco rispettosamente, ha fatto di tutti i Taparelli degli uomini superiori che hanno servito con gloria il re ed il paese.

D'Azeglio s'inchinò in segno di riconoscente ringraziamento.

– È una bella consolazione per un uomo di merito l'aver dietro di sè ne' suoi antenati tanti valenti uomini da imitare.

– Ciascuno dà quello che ha. Avrei voluto, vorrei benissimo poter dare in me alla patria un uomo di Stato, un valente guerriero, un abile diplomatico: venga l'occasione e tutto quel poco che so, che sono e che valgo, metterò in servizio del mio paese. Per intanto non ho potuto dar altro ai miei concittadini che un meschino artista ed un meschino scrittore. Mi sono scrutato, come dice la Scrittura, le reni, e non ho trovato in me stoffa da personaggio di vaglia.

– Suo padre l'aveva avviata per la carriera militare: disse vivacemente il marchese abbandonandosi alla piega confidenziale che aveva preso il discorso. È una delle più belle, delle più utili al paese, delle meglio fatte per un nome qual è il suo, per una natura irrequieta…

– Come la mia: aggiunse d'Azeglio sorridendo, mentre Baldissero aveva troncato la parola per non dirlo egli.

– Bene; come la sua: ripetè scherzosamente il marchese. Perchè abbandonarla?..

S'interruppe: prese un'aria più grave, ma in pari tempo più affettuosa, quasi paterna.

– Mi perdoni, soggiunse, l'entrare in siffatti discorsi. Da tempo la mia famiglia è avvinta con vincoli di stima e d'affetto alla sua; i nostri avi combatterono sempre a fianco; di suo padre, il marchese Cesare, fui amico quasi intimo, e mi onoro nel ricordare la reciproca affezione che ci univa. Tutto ciò mi serve, se non di diritto, di scusa per parlarle alquanto paternamente come mi sono lasciato andare a fare. È manìa de' vecchi di far da mentore, a coloro specialmente che hanno veduto fanciulli.

– La prego di non pentirsi di questa sua buona ispirazione: disse con infinita ossequenza e con quella grazia simpatica che gli era particolare, Massimo d'Azeglio: e mi faccia l'onore di continuare nelle sue amorevoli ammonizioni.

– Ebben sia! Perchè lasciare il servizio? In tutte le generazioni le nostre famiglie hanno sempre dato almeno un figliuolo all'esercito.

– E nella mia famiglia per questa generazione toccava a me; non è vero? Roberto, come primogenito, era obbligato alla carriera civile, il povero Enrico è morto, l'altro mio fratello s'è fatto frate… Già: o frati o militari, non c'è scampo per noi nati dopo il primo in nobile famiglia… Ho avuto dunque torto a ribellarmi al decreto dell'uso e della tradizione. Ma badi un po', marchese, se quella vita del soldato colla sua disciplina fastidiosa e col suo ozio forzato era fatta per me! Io non fui mai così cattivo soggetto come a quel tempo: se ho corso pericolo di diventare addirittura un esecrabile cittadino, si fu allora: le mie pazzie facevan le spese delle conversazioni di tutta Torino: ne ho fatte proprio di brutte che ora mi vergogno a ricordare. Se non fosse stato del povero Bidoni che mi ha dato l'amor dello studio, che cosa sarebbe stato di me? Lo studio mi ha salvato. Certo non credo un artista utile al suo paese come un buon magistrato, un buon generale, un buon ministro: ma qualche cosa il suo lavoro produce pur sempre a vantaggio della comune coltura; e ad ogni modo è meno dannoso un mediocre artista che un cattivo e prepotente ufficiale. E di questi, dello stampo ond'ero io quando facevo le mie mattane alla Veneria ed a Torino, temo anzi che la nostra classe ne dia già troppi al paese, che non sa cosa farne.

– Ma Ella non sa vedere via di mezzo – e sopratutto per un uomo della sua classe, della sua educazione e de' suoi talenti! – fra la vita scapata e bizzarra del giovane ufficiale, e quella non guari più seria di forme e assai meno nobile di sostanza dell'artista? Io rispetto il lavoro di tutti. Un artista che dal seno del popolo si innalzi alla sommità della sua arte, è per me una persona degna di ogni maggior rispetto. Ammiro Carlo V che raccoglie a terra il pennello caduto di mano dal Tiziano; ma un discendente di tante generazioni, da tanti secoli illustri per fasti guerreschi e per uffici politici, mi sembra che abbia assai di meglio da fare che dipingere, scolpire, far musica per professione. Per proprio gusto, come spasso, come riposo a più ponderose occupazioni, va benissimo; ma farne sua principal bisogna, concorrere con quelli che lo hanno per mestiere, come gagne pain, oh questa poi… sarà un pregiudizio, e la prego di perdonarne la manifestazione alla mia franchezza..: questa non mi pare la via meglio da seguirsi da un uomo di nobil sangue.

– Vivere del proprio lavoro, disse con qualche vivacità l'Azeglio, ma che cosa v'è in ciò di meno nobile? Le assicuro, marchese, che io non mi vergogno per nulla di ricevere il prezzo d'un quadro che ho fatto. Ciascuno vende l'opera sua a questo mondo: il prete che vive dell'altare, il ministro che intasca lo stipendio, il ciambellano che piglia la paga e il domestico che riceve il suo salario. Quand'ero ufficiale di cavalleria mi pappavo la mia brava mesata ancor io; e se mi pagavano per farmi battere i quarti sulla sella, oh! perchè non mi avranno a pagare per farmi dipingere un quadro?[3 - Espressione testuale dell'Azeglio.].

Il marchese sorrise, crollò il capo e battendo colle dita una marcia sul bracciuolo della sua poltrona, esclamò scherzevolmente:

– Ah che testa, che testa!.. Non la si correggerà mai più.

– Lo temo anch'io: disse Massimo col medesimo tono.

– Appunto Ella che è artista: disse Baldissero cambiando discorso per mostrare che di quella discussione non voleva più saperne: che cosa pensa di quest'oggetto d'arte?

Ed additava il gran crocifisso in avorio, appeso al di sopra del camino.

Massimo si alzò in piedi, accostò la sua alta persona alla parete, armò i suoi occhi miopi delle lenti ed esaminò attentamente l'oggetto additatogli.

– Molto bello: diss'egli poi; e sta qui prova con tutto il resto, come V. E. rechi in ogni cosa il più severo e intelligente buon gusto.

– Ah ah! esclamò piacevolmente il marchese: io scopro in lei un difetto che non avrei creduto mai più: quello d'essere adulatore.

– È un difetto che non mi sono mai scoperto neppur io: rispose D'Azeglio. Poi prese congedo: allora il marchese gli porse la mano.

– D'oggi stesso le farò una risposta circa la sua domanda d'udienza da S. M. Dove glie la debbo indirizzare?

Massimo diede il suo indirizzo all'albergo Trombetta e partissi.

Meno di mezz'ora dopo il marchese di Baldissero trovavasi in presenza di S. M. il Re Carlo Alberto, nella reggia ricca e severa di Torino.




CAPITOLO III


Carlo Alberto, seduto innanzi ad una tavola stupendamente intarsiata, col braccio appoggiatovi su dal gomito al pugno richiuso, stava nella sua attitudine abituale di sfinge incompresa e che non vuol lasciarsi comprendere. Non era un infingersi il suo, era un nascondersi: non portava innanzi alla faccia una maschera, ma copriva ogni sua emozione d'un velo di severo e solenne riserbo.

Dell'aspetto morale di quest'uomo storico, quale appariva in que' tempi, ci sia lecito tratteggiare il ritratto colle parole che nei suoi Ricordi ne scrisse Massimo d'Azeglio medesimo.

«Il re in quel tempo, era un mistero; e per quanto la sua condotta posteriore sia stata esplicita, rimarrà forse in parte mistero, anche per la storia. In allora i fatti principali della sua vita, il ventuno ed il trentadue, non erano certo in suo favore; nessuno poteva capire qual nesso potesse esistere nella sua mente fra le grandi idee dell'indipendenza italiana, ed i matrimoni austriaci; fra le tendenze ad un ingrandimento della casa di Savoia, ed il corteggiare i gesuiti, o il tenersi intorno uomini come l'Escarena, Solaro della Margherita, ecc.; fra un apparato di pietà, di penitenza da donnicciuola, e l'altezza di pensieri, la fermezza di carattere che suppongono così arditi progetti.

«Perciò nessuno si fidava di Carlo Alberto.

«Gran danno per un principe nella sua condizione: perchè con queste povere astuzie, affine di mantenersi l'aiuto di due partiti, si termina invece per perder la grazia degli uni e degli altri[4 - Massimo d'Azeglio: I miei ricordi, vol. II, pagine 457-58.].»

A Carlo Alberto che aveva mirabile il coraggio delle battaglie, che aveva un fermo animo innanzi ad ogni pericolo che minacciasse la sua persona, mancava il coraggio della risolutezza. Da ciò il suo continuo ondeggiare, dipendente non tanto dalla volontà e da un disegno prestabilito, quanto dal temperamento e dall'influsso delle momentanee circostanze. Si avanzava d'un passo da un lato, ma lo aspetto d'una difficoltà lo faceva indietrare poi tosto di due: e le difficoltà che lo attorniavano da ogni parte, morali e materiali, erano infinite e complicate e gravissime. Avrebbero richiesto una forza d'intelletto e di volere e di fibra ben superiore a quella che la natura e la sua vita trascorsa mettevano ora in poter suo. Questa sua che in realtà era debolezza, egli ammantava d'una solennità grave, che pareva profondità di concetto, avvolgeva d'un'atmosfera di silenzio, di dubbie parole e dubbi sorrisi e dubbie reticenze che pareva astuzia di macchiavellismo. Sapeva che una volontà anche non potente, ma soltanto tenace, vicino a lui l'avrebbe dominato; ed aveva quindi per sistema di sfuggire a tal pericolo mettendo sempre a fronte nel suo consiglio due volontà di due partiti opposti; con questo giuoco di bilancia, egli sperava ottenere una specie d'equilibrio per compensazione, in cui libera la sua volontà. Non s'accorgeva ch'egli non riusciva ad ottenere altra indipendenza fuori quella del pendolo elettrico che oscilla continuamente dall'uno all'altro dei due poli di elettricità differente.

Aveva delle velleità da piccolo Carlomagno e da Aroun-al Rascid. Avrebbe voluto veder tutto, saper tutto, conoscer tutto del suo popolo; sarebbe uscito ancor egli la notte, camuffato, come il celebre Califfo di Bagdad, per iscorrere traverso la città a sorprenderne i misteri e rappresentar la parte di Provvidenza interveniente, se avesse avuto il coraggio di violare quella che fu una delle tiranne della sua vita di Re: l'etichetta. L'esser egli Re per grazia di Dio, pensò e ritenne forse più ch'ogni altro mai, e credette avere nella sua persona una dignità direttamente venuta dal cielo, cui doveva prestare ossequio egli primo e farlo prestare dagli altri. Ultimo dei re di medio evo, pensava non dover comparire innanzi al suo popolo che avvolto dai raggi della sua divinità terrena; non si mostrava che nell'apoteosi dell'uniforme, colla corte olimpica del suo stato maggiore.

Ma quello che non poteva vedere per sè, voleva sapere per esatti e moltiplici rapporti d'agenti. Aveva una polizia segreta, tutta sua personale, che camminava parallela e faceva il riscontro a quella dei Ministri. Talvolta questa polizia vi metteva tanto zelo che gli apprendeva anche ciò che non era. Il Re ascoltava cupamente tutte le narrazioni e le denunzie, leggeva da solo tutti i rapporti che gli venivano comunicati, li rinchiudeva in un suo stipo segreto – e non diceva nulla. Ma quali e quante diverse impressioni si avvicendavano in quell'animo sempre chiuso!

Quando il marchese di Baldissero venne ad esporgli i fatti che conosciamo, per conchiuderne, doversi quei giovinotti considerare come imprudenti ed esaltati cervellini e non altro, e quindi non aggravare su di loro la mano severamente punitrice dell'autorità, Carlo Alberto sapeva già tutto; ma pure si guardò bene dall'interrompere il marchese nella sua narrazione, e lo ascoltò immobile, in quell'attitudine di stanco abbandono che gli era abituale, il capo reclinato, il petto curvo, il suo giallognolo pallore sulla faccia incommossa, levando di quando in quando i suoi occhi generalmente miti dallo sguardo velato, per fissarli in volto a chi gli parlava e riabbassarli poi tosto.

Quando Baldissero ebbe finito, successe un istante di silenzio: pareva che il Re andasse cercando le parole che aveva da dire. Poi levò lentamente quella mano che teneva appoggiata alla tavola, se la passò sulla fronte due o tre volte, quindi vi appoggiò su il mento, tenendo il gomito puntato al piano della tavola e parlò colla sua voce bassa, come soffocata, di debole vibrazione, ma non disgradita:

– Ella dunque, signor marchese, è per la clemenza ed il perdono?

Baldissero s'inchinò.

– Ha ragione. Ella sa interpretare appunto i miei sentimenti, e consigliarmi quel partito a cui propendo. E tanto maggior effetto mi fanno le sue parole, in quanto che ho sempre creduto… so… che Ella conta fra coloro… fra quei zelanti difensori del trono che lo vogliono difeso validamente e senza debolezza nessuna contro gli assalti de' suoi nemici.

– Contro veri assalti di veri nemici, Maestà sì: ma questi giovani non mi sembrano tali, e i loro atti non meritano altro titolo che di ragazzate.

Il Re tornò a stare alquanto tempo in silenzio.

– Sono del suo parere, diss'egli poi, ma vi è qualcheduno che pretende esservi qualche cosa di più serio e di più colpevole che non paia, e che Ella non creda, signor marchese. Il vero è che una frotta di giovani si radunava in casa di un certo pittore, e di qual tenore fossero i discorsi che aveano luogo lo provano i libri che si rinvennero presso uno degli arrestati e certo scritto che fu trovato presso un altro…

S'interruppe e volse uno di quegli sguardi che balenavano raramente nelle sue pupille – uno sguardo vivo e scrutatore – sulla faccia del marchese.

– Anzi, soggiunse, Ella, s'io son bene informato, ha presso di sè codesto scritto.

– Sì Maestà.

– E può giudicare adunque meglio di qualunque altro delle tendenze e delle segrete volontà di codestoro.

– Quello scritto è l'opera giovanile di un'intelligenza precoce che ha molte idee e poca esperienza. Gli errori vi sono molti; anzi è tutto un errore, poggiando ogni sua considerazione ed opinione sopra una falsa base primitiva; ma in quelle pagine, a dir vero, non si rivela mai l'empia foga di chi non anela ad altro che mandare a soqquadro la società. Lo scrittore cerca e propugna una modificazione degli ordini esistenti – una modificazione assurda, già s'intende – ma non vuole violenza di rivoluzione… Io pensava, Sire, che queste giovani intelligenze irrequiete, mosse ordinariamente da una ambizione che non è neppur condannevole, si possono agevolmente acquistare alla buona causa mercè qualche benignità e favore; e primo favore oggidì per codestoro è un generoso perdono.

Carlo Alberto guardava innanzi a sè coll'occhio appannato, e pareva immerso in una profonda meditazione.

– I momenti sono molto gravi: diss'egli poi lentamente, con parola quasi mozzicata e voce contenuta; i tempi sembrano preparare chi sa che difficoltà e pericoli. Nelle ombre, sotto lo strato apparentemente tranquillo della società, si agitano passioni parecchie, diverse, ed alcune feroci. L'empia opera contro l'altare ed il trono si va propagando sordamente coll'arte delle congiure e coll'audacia delle ispirazioni diaboliche. Tutte le relazioni che ricevo da ogni parte si accordano a certificare il pericolo. Il nuovo Pontefice solo colla sua clemenza non par egli aver data ansa ai più audaci propositi dei liberali italiani? Di Francia giungono spaventose notizie di cospirazioni, di tendenze sovvertitrici peggiori di quelle del tempo del terrore, cui troppo si teme che la monarchia parlamentare sia debole per contenere e reprimere. In tali epoche di crisi conviene egli esser clementi?..

S'interruppe e tacque un istante, immobile nel suo atteggio, come impietrito, senza volgere pure uno sguardo al suo interlocutore.

– Una modificazione degli ordini esistenti? Riprese egli poi, quasi parlando a se stesso. Quella benedetta gioventù non dubita di nulla. Quale modificazione? Non sono dunque mai soddisfatti questi indiscreti di novatori! Dacchè Dio mi chiamò al trono fu un continuo introdurre di tutte le migliorie possibili in ogni ramo della pubblica azienda. Ma essi vogliono l'impossibile!.. Marchese, Ella mi disse che in quello scritto c'era dell'ingegno e c'erano molte idee.

– Sì, Maestà.

– Non è dunque un tempo sciupato il gettarvi sopra gli occhi?.. Voglio vederlo.

Baldissero s'inchinò in segno di ubbidiente assentimento.

– Esser clemente! continuò il Re con una specie di sospiro: è pure codesto il mio più caro desiderio… Avrei voluto esserlo sempre.

Una nube sembrò passare sulla sua fronte; e la luce del suo sguardo parve offuscarsi maggiormente. Forse pensava alle fatali fucilazioni d'Alessandria.

– Ma un re, soggiunse con alquanto più di vivacità, può essere clemente per tutte le temerità che minacciano la sua persona soltanto, ma quando è il trono che si vuole assalire, quando è la dignità della corona che è offesa, quando in noi è ferita quella sacra istituzione che rappresentiamo: la monarchia; allora è dovere – ah! crudele dovere – in un re l'essere inesorabile.

– Sire: disse il marchese, poichè il Re si fu taciuto; come ho già avuto l'onore di accennare, io continuo a credere che in questo caso…

Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno colla mano che tolse da sostenere il mento e che con lenta mossa ripose, richiusa a pugno, sul piano della tavola.

– Io non parlo di questo caso. Parlo in generale.

Vi fu di nuovo una pausa di pochi minuti secondi.

– Sa Ella, marchese, ripigliò a dire il Re schiudendo le pallide labbra ad un pallido sorriso; sa Ella che poc'anzi il conte Della *** propugnava qui la causa precisamente contraria a quella da Lei sostenuta? Egli vuole la severità.

– A V. M. l'apprezzare quale delle due cause sia più degna di Lei.

Carlo Alberto estinse ad un tratto quel lieve sorriso che gli aleggiava sulle labbra, chinò il capo e si tacque.

– Il conte Della ***, continuò il marchese, ha egli prove maggiori di quelle ch'io conosca della colpevolezza pericolosa di que' giovani?

– Ha delle presunzioni… che hanno un certo valore… Una prova però sarebbe quella che sotto nome finto e sotto le spoglie d'un artista di canto avesse strettissime attinenze con quei giovani un tal emigrato romano, ribelle alla Santa Sede, audacissimo rivoluzionario.

– Ma la cosa mi pare quasi affatto esclusa. Il conte San-Luca ha affermato a suo zio Barranchi che questo tale è precisamente quel che si spaccia e non altro.

– Venne ad affermarlo anche il duca di Lucca.

Le labbra del Re tornarono a stirarsi in quel cotale fugace e leggiero sorriso.

– Ma egli è una testa così sventata!

Quel sorriso scomparve, come quell'altra volta, di botto.

– Fra quei giovani, soggiunse con una serietà quasi cupa, ve ne son due che commisero reati precisi e non lievi. L'uno ier sera al ballo dell'Accademia, noi presenti, oltraggiò un impiegato di Corte, il figliuolo d'un alto dignitario dello Stato; l'altro, questa mattina, si ribellò agli agenti della forza pubblica.

– Sire: disse con fermo accento il marchese: il primo fu aspramente provocato, e se in lui si vuol proseguire la colpa, conviene che anche il suo provocatore sia soggetto al medesimo trattamento.

– Ma questo a cui Ella allude, è suo figlio, marchese.

– Sì, Maestà.

– Va bene: disse allora il Re ponendo lentamente la sua mano sulla destra del marchese. Sarà perdonato a tuttidue… Ma e quell'altro che fece resistenza alla forza pubblica?

– Quegli agenti non erano in montura; la colpa di quel giovane sconsigliato mi sembra abbia da giudicarsi perciò molto minore.

Carlo Alberto si alzò e il marchese fu sollecito a levarsi ancor esso.

– Il conte Della *** andrà in collera: disse il Re facendo ancora una volta quel suo sorriso; ma io do ragione alla causa della clemenza propugnata così bene.

– La causa della clemenza, disse il marchese, non ha bisogno d'essere propugnata da nessuno innanzi alla Maestà Vostra. Le parla abbastanza l'anima sua.

Carlo Alberto non rispose.

– Ah! diss'egli poi, una condizione marchese.

– Comandi, Maestà.

– Quel giovane avvocato ebbe una contesa con persona che molto presso a Lei appartiene. Desidero (e pesò su questa parola) che siffatta contesa si ritenga come assolutamente terminata e non abbia conseguenza di sorta.

– Sire; ogni menomo suo desiderio è un ordine a cui i Baldissero saranno sempre lieti di obbedire.

– Sta bene: disse il Re con inesprimibile grazia d'accento e di guardatura.

Poi chinò lievemente la testa in una specie di saluto.

– Attendo quel manoscritto, marchese: soggiunse come per ultime parole di commiato.

Ma Baldissero pur facendo un profondo inchino, non accennò partire.

– Supplico ancora un istante d'udienza da V. M. È un'altra grazia che ho da domandarle.

– Quale? Interrogò Carlo Alberto atteggiandosi a quella mossa naturalmente dignitosa, che dava tanta imponenza alla sua persona.

– Il cavaliere d'Azeglio chiede di essere ricevuto da V. M.

– Ah! Massimo? domandò il Re con qualche maggiore interesse di quello che mostrasse ordinariamente.

– Sì Maestà.

Carlo Alberto, come sempre, indugiò alquanto a dare la risposta. Il suo sguardo incerto pareva andar vagando traverso i cristalli tersissimi della finestra sulla sottoposta Piazza Reale, in cui erano soltanto i lavoratori che spazzavano la neve, e più in là nella vasta Piazza Castello dove rarissimi e frettolosi i passeggieri sotto al lento fioccare della neve che continuava.

– Può dire al cav. D'Azeglio, disse poi, come per determinazione subitamente presa, che lo riceverò domani mattina alle sei.

Era quella l'ora solita in cui Carlo Alberto usava dare le udienze confidenziali.

Il marchese ripetè il suo profondo inchino e partissi. Mezz'ora dopo un bigliettino recato dal lacchè del marchese all'albergo Trombetta avvisava Massimo d'Azeglio dell'ottenutogli favore.

In pari tempo un altro domestico si affrettava verso l'officina Benda con un'altra letterina scritta dalla contessina Virginia a Maria la sorella di Francesco.

Il marchese, appena rientrato nel suo palazzo, erasi recato egli stesso nelle stanze della nipote, dove stava ancora il buon Don Venanzio, il quale aveva per la nobile fanciulla, più che simpatia, stima, ammirazione ed affetto grandissimi.

– Caro Don Venanzio, aveva egli detto al vecchio parroco, fra poche ore Ella potrà abbracciare il suo raccomandato. Virginia, puoi mandar detto alla tua compagna di collegio che di quest'oggi stesso le sarà restituito suo fratello. Il Re volle tutto perdonare.

– E Dio benedica il Re! esclamò il sacerdote con voce commossa.

– Una buona novella non giunge mai troppo presto: disse madamigella Virginia alla quale il piacere provato dall'annunzio datole dallo zio aveva lievemente arrossato le guancie e fatto brillare lo sguardo; chiedo adunque licenza di scriver subito la lieta notizia a madamigella Benda.

– Hai ragione: disse paternamente sorridendo il marchese. Lasciamola fare, Don Venanzio; e s'Ella desidera veder presto il suo protetto, io la indirizzerò al Comandante perchè le contenti questo suo desiderio. Chi sa che l'ordine di rimettere in libertà quel giovane non sia già venuto, ed Ella non possa condurselo seco fuori del Palazzo Madama!

– Come quell'altra volta, esclamò Don Venanzio, in cui Ella pure mi fece ottenergli la libertà, e sono stato io a recargliene la novella.

– Uno di questi giorni, soggiunse il marchese; il più presto possibile, anche domani, mi farà un piacere, Don Venanzio, se mi condurrà quel giovane… Ho gran desiderio di parlargli; e forse il colloquio che avremo non sarà inutile per lui.

– A quell'ora che sarà più comoda a V. E. io glie lo presenterò sicuramente.

Quando il buon parroco si fu avviato verso il Palazzo Madama con una commendatizia del marchese pel Comandante, quando il lacchè fu spedito all'albergo Trombetta colla lettera per Massimo d'Azeglio, Baldissero s'informò se suo figlio era in casa, e udito di sì, ordinò gli si dicesse che il padre lo aspettava nel suo salotto da studio.

– Ettore, disse il marchese al figliuolo appena fu entrato nel gabinetto, S. M. ha benignamente acconsentito che l'avvocato Benda e i suoi compagni fossero messi in libertà.

Il contino s'inchinò in modo che voleva significare esser egli di ciò pienamente soddisfatto.

– Vi ho detto poc'anzi che vostro debito sarebbe quello di andar voi da quel giovane che avete oltraggiato a tendergli primo la mano, e voi mi avete risposto che ciò non fareste mai e che l'unico obbligo cui vi credete di avere secondo le leggi d'onore, si è quello di rimettervi nuovamente a sua disposizione per uno scontro.

– Persisto in questa mia opinione, e vi persisterò sempre: disse alquanto seccamente il figliuolo.

– I Baldissero, Ettore, sono avvezzi ad ubbidire ciecamente ai cenni del loro Re: e codesto io ricordava testè a Carlo Alberto, il quale mi diceva essere suo volere che la vostra contesa con quel cotale non avesse più conseguenze di sorta.

Ettore fece una mossa piena di superbia.

– Ma i Baldissero, io mi penso, non obbedirono mai a nessuno in cosa che ritenessero lesiva dell'onor loro.

– I nostri antenati, maestri in fatto di giusta suscettività d'onore, non iscambiarono mai per essa un puntiglio di ripicco… Del resto, s'affrettò a soggiungere, voi siete oramai in età da avere la libertà delle vostre decisioni e tutta la risponsabilità delle medesime. Io non vi do che consigli. Ho creduto potere anche a nome vostro rispondere a Sua Maestà con una formola di piena devozione. Fate voi poi a vostro talento, contraddite pur anco alla parola di vostro padre; ma se commetterete il fallo di trasgredire l'ordine del Re, ch'io stesso vi trasmetto, mi recherò ai piedi di S. M. a supplicare io medesimo che si degni farvi rinchiudere per parecchi mesi a Fenestrelle.

Il contino accennò voler parlare, ma si contenne; aspettò un momento in silenzio, in apparenza indifferente e poi domandò:

– Posso ritirarmi?

Il padre gli fece colla mano un cenno di licenza. Ettore salutò ed uscì.

– Bella libertà di determinazione che mi si lascia… colla minaccia di Fenestrelle: borbottava egli fra sè con rabbia repressa. E dovrò vedermi innanzi quel borghesuccio e tacere! Sacrebleu!.. Il soggiorno di Fenestrelle certo non mi sorride, ma se quel cotale ha la disgrazia di venirmi a stuzzicare, ma foi!..

Ho detto che madamigella Virginia s'era affrettata a mandare un domestico a casa di Benda con una sua letterina a Maria. Sperava la nobile fanciulla di essere la prima a partecipare la felice novella a quell'angosciata famiglia; e invece la era già stata prevenuta.

Il lieto annunzio era recato alla famiglia di Francesco dal dottor Quercia che col trotto serrato del suo bel cavallo attaccato al leggero ed elegante legnetto era passato innanzi al domestico che camminava a piedi.

E come mai Quercia aveva egli saputo così presto questa buona novella?




CAPITOLO IV


Il principe protettore di Zoe la Leggera, il quale dimenticava sui sofà dell'elegante di lei boudoir il suo gran collare dell'Ordine, appena ricevuto il biglietto della cortigiana che lo chiamava, s'era affrettato ad accorrere; e inteso di che si trattasse, riprendendo il suo gingillo di decorazione, aveva promesso di ottenere quanto la donna gli domandava, e sopratutto di farla pagare a quell'impertinentissimo esploratore che aveva l'audacia di far la guardia intorno alla casa della Zoe. Abbiamo già visto dal colloquio del marchese di Baldissero col Re, come il Principe avesse parlato a Carlo Alberto, e dobbiamo soggiungere che con tutta la sua autorità e con ogni insistenza aveva raccomandato le due cose al conte Barranchi capo della Polizia.

Finito appena il colloquio col marchese di Baldissero, il Re aveva mandato detto al Principe, che trovavasi ancora a palazzo, come volesse soddisfare alle raccomandazioni da esso fattegli poco prima, e come sulla fede di lui volesse ritenere per innocenti i giovani arrestati, e restituirli alla libertà. – Il Principe, senza il menomo ritardo, ne aveva mandato l'annunzio per un valletto alla Zoe, in casa la quale era appunto tornato per saper le novelle Gian-Luigi, che grandissima importanza, come sapete, metteva in codesto affare.

Quercia aveva avuta la subita ispirazione di recare egli stesso la felice novella alla famiglia Benda. A dispetto di tutte le gravissime cose ch'e' stava agitando, delle tante e ponderose preoccupazioni che ne tenevan la mente, in lui era sempre tuttavia presente e non si smentiva mai il libertino seduttore, quell'appassionata smania di turbare nuovi cuori, di possedere nuove beltà, cui vieppiù solletica la pura innocenza, quell'empia curiosità sensuale mai saziata, onde la poesia e la tradizione hanno formato il tipo di Don Giovanni. L'ingenuo candore, la grazia ancora quasi infantile, la non regolare ma piacevole, ma freschissima leggiadria della sorella di Francesco, avevano piaciuto, come dice il poeta, agli occhi suoi, e nella sua anima corrotta suscitato un desìo, cui lo sciagurato era avvezzo a volere in ogni modo soddisfatto. Gli suonavano ancora all'orecchio dolcissime le parole con cui la giovinetta, tutto commossa, gli aveva promesso una eterna gratitudine, s'egli riuscisse a salvare il suo diletto fratello; aveva impresso nell'animo il mite sguardo supplichevole, onde quelle parole erano state accompagnate; voleva sentirsi rivolgere con quella voce soave la ricompensa d'un ringraziamento, con quegli occhi tanto espressivi, il premio d'uno sguardo benigno.

E così fu. Coll'annunzio del prossimo ritorno di Francesco nelle pareti famigliari, Quercia venne accolto da tutta quella desolata famiglia così festevolmente ed amorevolmente che nulla più. La madre pianse di gioia e lo benedisse; Giacomo colle sue maniere brusche e decise lo abbracciò profferendo tutto se stesso e l'aver suo in servizio di quel messaggere di lieta ventura; Maria gli strinse la mano, disse poche parole accompagnate da un caro rossore, ma espresse tante cose, e più ancora di quello che la si pensasse, col suo sguardo amorevole, brillante, umido di lagrime.

Tosto dopo sopraggiunse il domestico di Virginia col biglietto di lei; ma l'effetto da Gian-Luigi voluto e meditato era già tutto ottenuto. Questo fatal giovane fu ammirevole di grazia, di cortesia, di aggradevolezza. Alla giovane immaginativa di Maria apparve di molto superiore per ogni verso a quanti altri giovani ella avesse ancora visto mai. La sua bellezza, il suo brioso ingegno, le grazie de' suoi modi, della sua voce, de' suoi animati discorsi, non potevano a meno che fare una viva impressione nel cuore di una ragazza di molta sensibilità, giunta a quella fase appunto della vita in cui, come i fiori nella primavera, sboccia nell'animo il bisogno di amore. Voleva piacere e piacque. Padre e madre ne furono incantati; ne rimase rapita la ragazza. Ad un punto egli seppe insinuare destramente come avvenissero nelle relazioni sociali certi fatti che di presente stringevano in amichevole attinenza due individui, due famiglie, che prima od appena si conoscevano o niente affatto. Di questo genere parevagli essere l'avvenimento che quel dì l'aveva posto a contatto con quella casa. Di Francesco prima d'allora era stato appena se conoscente; affermava adesso parergli d'essere amico da tempo; coi parenti di esso non aveva avuto mai la menoma relazione: gli era con vera commozione d'affetto che ora si rallegrava d'aver potuto giovare in alcun modo a sollevarne il dolore, di partecipare alla gioia ch'essi provavano, come aveva partecipato al cordoglio di prima.

Il padre di Francesco ne prese occasione per esclamare che da quel momento essi avrebbero ritenuto il loro generoso protettore, il zelante loro amico poco meno che se fosse della famiglia; e lo scellerato, interrompendo vivamente ed accompagnando le parole d'uno sguardo che fece arrossare la giovinetta, uscì a dire:

– E così imploro che sia veramente; e volesse la mia buona fortuna che io potessi davvero appartenere a questa egregia famiglia, che stimo ed amo sopra ogni altra mai.

Erano accorte parole codeste che, indirettamente e senza comprometterlo il meno del mondo, lo ponevano frattanto appetto a quelle brave e leali persone come aspirante ad imparentarsi con loro, come pretendente alla mano di Maria. Ciò aveva due effetti, ed era ciò appunto a cui intendeva: gli dava tosto una maggior libertà verso tutti, e specialmente con Maria, una domestichezza di cui egli faceva conto di approfittarsi; inoltre atteggiandosi subito innanzi alla fantasia della pura e virtuosa giovanetta come aspirante di cui sapessero e cui aggradissero i genitori, sperava di meglio, era sicuro di entrare senza contrasto nell'animo di lei.

Quando partì da quella casa il perfido Gian-Luigi recava seco la simpatia più accesa del padre e della madre di Maria, e di questa povera giovinetta la mente ed il cuore.

Il Re frattanto aveva mandato a chiamare il conte Barranchi. L'altezzosa arroganza di costui divenne l'umile piacenteria d'un cortigiano innanzi all'ombra di severo malcontento che copriva la fronte sovrana, come una nube la cima dell'Olimpo.

Carlo Alberto, per quelle sue informazioni particolari che ho detto, aveva saputo colle altre cose anche il modo barbaro ed indegno con cui era stato trattato dagli agenti di Polizia nell'essere arrestato il signor Giovanni Selva. Codesto gli aveva dispiaciuto moltissimo, tra perchè alla sua natura in fondo mite e generosa ripugnava la incivile prepotenza di quei mezzi in atti di cui per l'assolutismo del regime sino a lui saliva la risponsabilità; tra perchè già era egli finalmente un po' più inclinato, nel suo sino allora incerto oscillare, verso la parte della popolarità e del liberalismo monarchico.

– Signor conte, aveva incominciato il Re, appena il Comandante della Polizia ebbe fatto un arco della sua schiena di generale: duolmi che l'evento d'oggi abbia da mostrare così tanto fallace la mia speranza che le ho manifestato ieri: cioè non avessi ad udir più richiami di sorta per eccessi della sua Polizia.

Barranchi drizzò un momentino la spina dorsale e tentò sollevare uno sguardo all'altezza della faccia smorta del suo sovrano: ma vide che da quelle labbra non aveva finito di scendere a lui la manna amara delle parole di rimbrotto, e tornò a piegarsi sollecito in un arco più curvo di prima.

– Per Torino oggi non si parla d'altro che dei maltrattamenti fatti subire a quel giovane avvocato Selva, ed è una indignazione universale. Così facendo non si fa rispettare il potere, gli si acquista odio. Dopo le ammonizioni che avevo già avuta la spiacevole occasione di farle altra volta a questo proposito, dopo le parole che le ho detto ieri sera stessa, non credevo di aver più da farle un simil rimprovero.

Il conte, che non aveva già per natura e nelle circostanze ordinarie la parola molto facile, a quest'intimata, se la sentì mancare affatto come se la lingua gli si fosse annodata.

– Maestà, balbettò egli. Sire… Maestà. Creda… Sire…

Carlo Alberto ebbe pietà di tanta confusione; rispianò alquanto la sua fronte corrugata e soggiunse con accento di voce mitigato:

– Capisco che simili eccessi sono da imputarsi agli agenti subalterni: ma Ella, caro conte, deve inculcare ben bene ai suoi subordinati che si guardino oramai dal cadere in tali errori che non voglio assolutamente si rinnovino più.

Il nuovo tono del discorso e la parola caro che suonò al suo orecchio come una melodia fecero del generale dei Carabinieri reali quello che di Dante (se questo paragone è lecito) le parole di Virgilio, quando lo rianimi a imprendere il cammino per la valle dolorosa:

«Come i fioretti dal notturno gelo
Chinati e chiusi, poi che il sol li imbianca,
Si drizzan tutti aperti in loro stelo;»

così si ridrizzò la persona impettita del generale e si rasserenò la sua faccia raumiliata. Sulla sua anima risplendeva di nuovo a riscaldarla un raggio della grazia sovrana, il sole di quelle piante parassite da stufa di Corte.

– Sì, Maestà, gli è il fatto degli agenti subalterni: potè egli dire allora con abbastanza di scioltezza nella loquela: e procurerò che codesto non abbia da succeder più.

Carlo Alberto fece il suo pallido lieve sorriso e chinò leggermente il capo in segno d'approvazione.

Questo più vivace raggio di sole abbacinò il povero conte; e non gli lasciò più discernere la vera strada: credette d'avere una idea felice e diede tosto in un inciampone.

– Quantunque, aggiunse egli, tutto superbo della sua ispirazione, delle ciarle di quattro arfasatti di borghesi che si danno le arie di costituire l'opinione pubblica, non si ha poi da prendersi la menoma cura. V. M. non avrebbe che da desiderarlo, ed io prendo l'impegno di far tacere tutti quanti e di far disdire chi ha parlato, in men di mezz'ora.

Il Re tornò a corrugare la fronte; e il Comandante della Polizia rivide con ispavento tutto nuvolo il suo orizzonte.

– Vedo che non ho la fortuna di farmi capire da Lei: disse colla sua voce lenta e cascante Carlo Alberto; o ch'Ella non ha desiderio e volontà di capirmi.

Non capire il suo Re! Non desiderare e non volere capirlo! Un servitore come quello! C'era da mandarlo alla disperazione per una simile accusa. Barranchi nel suo dolore trovò l'ardire e l'eloquenza delle più vivaci proteste. Il Re lo lasciò parlare guardando traverso la finestra, con occhio sbadato, la neve che continuava sempre a fioccare. Quando il conte ebbe esaurito il suo sacco non troppo voluminoso di frasi, di giuramenti e d'interiezioni, Carlo Alberto continuò in quel suo atteggiamento in cui pareva pensare a tutt'altro, e lasciò il generale sotto il grave peso del più impaccioso silenzio. Il cortigiano poliziotto sudava freddo. Lo sguardo plumbeo del Re si sviò finalmente dalla piazza reale deserta e si posò sull'uomo dal petto ingemmato di decorazioni, che gli stava dinanzi.

– Converrà, signor conte, disse il Re, non toccando più l'argomento di prima, che Ella dia gli ordini opportuni perchè i giovani arrestati sieno rimessi in libertà.

Barranchi s'inchinò. Era questo uno degli ordini che eseguiva meno volontieri: l'ordine contrario invece la trovava sempre disposto ad obbedire con entusiasmo; ma tuttavia s'inchinò profondissimamente.

– Però prima di rilasciarli, quei malintenzionati avranno da ricevere un'ammonizione… una piuttosto severa ammonizione… perchè imparino a non dilettarsi di pericolose letture sovversive, a non isparlare di quel potere che la Provvidenza ha voluto si raccogliesse nelle Nostre mani ed a non tentare di sfatarlo. Quanto all'avv. Benda soprattutto gli si farà sentire tutta la sua colpa nel contegno tenuto ieri sera, e inoltre gli si dovrà imporre la promessa che egli non avrà l'audacia più di provocare in alcun modo il conte di Baldissero.

L'inchino del generale oltrepassò il superlativo della profondità.

Congedato dal Re, Barranchi corse a casa sua e mandò a chiamare con premurosi ordini il Comandante della cittadella dove era ritenuto Francesco Benda, e il commissario Tofi.

Al primo diede le istruzioni perchè il prigioniero fosse mandato sciolto col voluto accompagnamento di ammonizione e d'intimazione; al commissario Tofi, che ricevette il secondo e che ritenne in più lungo colloquio, fece una sfuriata maledetta che era il minore sfogo cui il bravo generale si potesse concedere pel dolore e il crudelissimo disappunto di avere incontrato il malcontento del suo Re.

Ah! com'era fiero, ah! come stava diritto impettito, ah! come appariva imponente nella sua divisa e colle sue decorazioni che specchieggiavano sul suo largo petto il bravo generale! Ora egli era che stava rampognatore con un subalterno in condizione di colpevole; ciò che aveva preso di su egli rendeva di sotto con aumento di dose, generoso come egli era in questa razza di affari. Tofi, la faccia ispida più del solito, il mento quadrato appoggiato fermamente al suo duro cravattone, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo chino a terra per deferenza al suo superiore, immobile e dritto come un soldato in servizio, aveva un contegno assai meno raumiliato e confuso di quello che avesse poco tempo innanzi, il superbo, prepotente conte Barranchi, in cospetto del Re.

– Ecchè? gridava il generale andando su e giù del suo gabinetto con passo che suonava secco sul pavimento e faceva quasi tremar le pareti come un peso che cadesse ad ogni volta per terra, ecchè? gli è così che mi obbedite, così che si rispettano i miei ordini? Che cosa vi ho detto questa stessa mattina, quando siete venuto a disturbarmi in sì indiscreta maniera?

– Signor conte: disse con rispetto ma senza la menoma confusione il Commissario: questa mattina io sono venuto appunto a pregarla di darmi le norme opportune di agire, e non ho fatto cosa che non fosse secondo le sue istruzioni.

– Le mie istruzioni un corno: proruppe sbuffando il nobile Capo della Polizia. Vi ho detto che lasciavo a voi la risponsabilità di tutto, vi ho detto che guai a voi se mi buscavo un rabbuffo da S. M. E me lo sono buscato, e che rabbuffo!.. Non sapete mai far altro che compromettere i vostri superiori voi!

– Signor conte: riprese il Commissario impassibile, se volesse specificarmi in che cosa propriamente ho meritato queste sue severe parole…

– In che cosa? Ah in che cosa?.. E me lo domandate? Chi è quello sciagurato figliuolo d'un asino che ha fatto la perquisizione in casa Benda ed arrestato quel cotal Selva?

– Gli è l'agente Barnaba.

– E va bene… Lo sapevo ch'era lui!.. Gli è sempre lui che ne fa delle belle… Già è il vostro protetto… Voi lo portate sempre in palma di mano.

– È un agente, disse coraggiosamente Tofi, di cui in verità non posso che lodare l'intelligenza e lo zelo.

– Bell'intelligenza! bel zelo! gridava sempre più furibondo il generale, che si ricordava allora i lagni fattigli poc'anzi di quel medesimo dal duca di Lucca e la raccomandazione di levarglielo dai piedi. In alto si è indignati del modo con cui si è proceduto all'arresto di quel Selva che il diavolo si portasse anche lui; in alto si vuole che si vada coi dovuti riguardi. E poi che impertinenza è quella di questo cotal Barnaba di cacciarsi nella vita privata degli alti personaggi di cui dovrebbe rispettare i segreti? S. A. R. il duca di Lucca è su tutte le furie contro di lui. Per apprendere a vivere a questo impertinente gli laverete il capo di santa ragione e gli notificherete ch'egli abbia a partirsi tosto da Torino per andare addetto al Commissariato d'una qualche città di provincia… per esempio Novara… sì, va benissimo, Novara.

– Signor conte: riprese col medesimo tono il Commissario.

– Ho detto! esclamò Barranchi coll'accento e l'aspetto d'un Cesare in caricatura.

– Allontanando questo tale, continuò Tofi come se nulla fosse, mi si toglie uno dei migliori e più fidi miei strumenti, in un'epoca in cui molti e gravi sono i pericoli e gl'intrighi d'ogni fatta contro la pubblica sicurezza e contro l'assetto politico dello Stato. La Polizia ha impreso una lotta con quella tremenda cocca che sempre le si sottrae di sotto mano ed ha bisogno di avere, per vincerla, tutte le sue forze radunate…

– Baie! Bubbole! Storie! gridava il conte crollando le spalle. Quando dico, dico!.. Quel Barnaba andrà a Novara; o sarà messo sul lastrico… Avete capito?.. Basta, non più una parola. Andate e fate mettere in libertà quei giovani arrestati, ma prima regalateli di una buona ramanzina in tutte forme, e che se ci ricascano li facciamo senza tante cerimonie filare a Fenestrelle o in Sardegna. E se lo tengano appiccato alle orecchie… Non ho più nulla da aggiungere… Sapete quel che avete da fare… Marche!

Il Commissario stette ancora un istante immobile, quasi volesse prima di partirsi aggiungere alcune parole: poi si decise a partire senz'altro: girò sui talloni come un soldato che fa dietro-front e senza pur salutare partì col suo passo lungo, sollecito e regolato, cacciandosi sino agli occhi il suo cappello a larga tesa ed affondando nelle tascaccie laterali del suo soprabito le sue mani grosse, tozze e villose.

Il Commissario entrò nel suo antro al Palazzo Madama, più scuro e più brutto in viso che un temporale. Passando egli nell'anticamera, tutte le guardie in uniforme e senza che vi erano sorsero in piedi coi contrassegni del più timoroso rispetto. Un vecchio prete con bianchissima e folta capigliatura che sedeva sur una di quelle panche appoggiandosi alla mazza che teneva fra le gambe, con un cagnuolo di pelo nero accovacciato a' piedi, vedendo quel drizzarsi e quel contegno di tutti i presenti innanzi a colui che attraversava con passo da padrone la sala, senza dar segno nessuno di saluto, come se il luogo fosse deserto, capì che gli era un personaggio d'importanza, e levatosi in piedi ancor esso con umile atteggio, domandò timidamente sotto voce alla guardia che gli era più vicina:

– Chi è?

– È il Commissario: rispose brusco il poliziotto interrogato.

Don Venanzio, poichè il vecchio prete era lui, il quale stava appunto aspettando con molta calma e rassegnazione, ma non senza sollecito desiderio, la venuta di codesto autorevole personaggio, spinto da un subito impulso, fece un passo verso il signor Tofi, con un gesto supplichevole nella mossa ed una parola interrogatrice alle labbra. Ma il fiero signor Commissario volse su quella faccia aperta e bonaria uno sguardo così burbero e incollerito sotto le sue sopracciglia aggrottate, che il povero Don Venanzio rimase lì in asso, il piè sospeso, la bocca aperta, la voce estinta nella gola. Il signor Tofi passò.

– Signori: disse il parroco di campagna alle guardie, in mezzo a cui rimase, bersaglio ai loro sguardi e sogghigni schernitori: adesso che vi è il Commissario, potrò finalmente parlargli?

– Aspetti: gli si rispose col tono insolente che suole avere verso i deboli questa razza di gente, quasi a compensarsi della viltà della loro soggezione innanzi ai forti. Quando il signor Commissario vorrà ricevere, chiamerà.

Il signor Commissario aveva attraversato il corridoio ed era entrato nella stanza che precedeva il suo gabinetto.

L'impiegato che sedeva alla scrivania, vedendolo entrare si alzò tutto rispettoso ancor egli, nè più, nè meno di quello che avevan fatto le guardie.

– Barnaba, s'è visto? Domandò ruvidamente il signor Tofi senza rispondere nemmeno col menomo cenno al saluto, senza levare nè il cappello di testa, nè le mani di tasca.

– Signor sì: rispose l'impiegato. Egli è nelle stanze dell'altra torre dove prepara un particolareggiato rapporto per Lei.

– Mandatelo a chiamare.

L'impiegato suonò un campanello ed una delle guardie che erano nell'anticamera fu lesta a presentarsi.

– Andate negli uffici dell'altra torre e dite al signor Barnaba che venga qui subito: il signor Commissario lo chiama.

La guardia s'affrettò ad eseguir l'ordine, l'impiegato sedette di nuovo alla scrivania guardando timorosamente di sottecchi il signor Tofi che si vedeva chiaramente avere un diavolo per capello; il Commissario, le mani sempre affondate nelle tasche, andava e veniva con passo concitato, la tesa del suo cappellaccio negli occhi, il capo chino, borbottando fra i denti delle parole inintelligibili.

Cinque minuti non erano passati che Barnaba entrava con passo affrettato in quella stanza dove il terribile signor Commissario dava le volte del leone.

– Son qua, signor Commissario.

Questi si fermò d'un tratto a due passi dal nuovo venuto, lo fulminò con uno sguardo che era già tutta una rivelazione di corruccio e di condanna, e rispose con un accento, appetto al quale il più ruvido che avesse mai adoperato prima d'allora era una soavità.

– Eh lo vedo che siete lì…

Entrò in quella la guardia che era andata a chiamar Barnaba.

– Che cosa volete? domandò brusco il signor Tofi.

– Gli è quel prete che desidera parlare con Lei…

– Vada a farsi benedire.

– È venuto da parte del signor Comandante, accompagnato da un'ordinanza, che l'ha raccomandato.

– Ah!..

Tofi esitò un momentino, poi crollò le spalle e riprese col medesimo accento collerico:

– Che m'importa?.. Alla croce d'Iddio, ho altro da fare io pel momento. Ditegli che se vuole parlarmi, aspetti, se non vuole aspettare, vada ai cento mila diavoli.

La guardia sparì dietro il battente dell'uscio.

– A noi due: disse il Commissario a Barnaba, sempre con quel tono tutt'altro che rassicurante.

Come aveva fatto la sera innanzi, aprì l'usciolo chiovato di ferro del suo gabinetto, colla grossa chiave che trasse di tasca, ed entrando egli primo, comandò con accento militare a Barnaba:

– Venite!

La porta fu richiusa alle loro spalle, Tofi si recò nella profonda strombatura del finestrone, volse le spalle alle invetrate, ed avendo innanzi a sè il suo subalterno, di guisa che nella faccia gli batteva di pieno la luce che entrava per la finestra, cominciò il colloquio con quel suo accento più burbero ed aspro che mai.

– Ve l'ho detto io che vi avventuravate sopra un terreno molto difficile e pericoloso. Voi non avete ancora una giusta opinione di quello che siete, di quello che potete, di quello che valete. Avere ardimento sta bene, ma la temerità di cimentarsi contro chi è più forte, conduce necessariamente a rovina. Nel mondo non vi hanno che vasi di terra e vasi di ferro: siete passato dalla parte di questi ultimi, va benissimo, ma non avete cessato d'essere meno di creta perciò. Avete ficcato la mano in un vespaio: mille influenze, mille raccomandazioni, mille autorità si sono suscitate a voler condannata l'opera vostra. La cosa è salita sino al Re, niente meno. Breve! Senza tanti discorsi, voi siete mandato via da Torino, e partirete il più presto possibile per Novara.

Questo annunzio fu un colpo gravissimo per Barnaba, da cui parve atterrato.

– Io! esclamò allibito, impallidendo, con voce e membra tremanti; abbandonar Torino!.. Adesso!.. E curvò il capo come uomo oppresso dalla desolazione.

– Sì signore, voi: ripetè il Commissario ancor più burbero. Che cosa avevate bisogno di andarvi a cacciare in certi affari di quel…

Trattenne sulle labbra la parola che stava per uscire, e la sostituì colle seguenti:

– Di S. A. R. il Duchino di Lucca?

Barnaba sollevò il capo ed un lampo d'intelligenza traversò il suo sguardo abbattuto.

– Ah! gli è per lui che mi si punisce a questo modo?

– Per lui e per gli altri. Voi avete maltrattato questa mattina arrestandolo quel giovane avvocato Selva.

– Egli ha distrutto con audacia incredibile, sotto i miei occhi stessi, una carta dov'era forse la prova di tutto ciò ch'io sospetto.

– Bisognava non lasciargliela distrurre. Come volsero le cose siete voi che avete torto.

Tofi tacque un istante, poi facendo piombare più acuto e più penetrante quel suo sguardo osservatore sulla faccia sconvolta di Barnaba:

– Olà, diss'egli, che ragione avete voi ad esplorare le gite del Principe in casa quella certa donna? Agli stipendi di chi e per quale interesse ciò facevate?

Barnaba scosse le spalle, prese un atteggio più risoluto e guardando ancor esso in faccia al Commissario, rispose con una sicurezza che poteva dirsi vera audacia:

– Agli stipendi di nessuno e per un interesse tutto mio particolare.

Tofi interruppe con una voce tra d'impazienza tra di collera:

– Uhff! Siete matto!.. Interesse vostro particolare a spiare il Duca!..

– Ah! non è per lui: disse Barnaba con accento sommesso, contenuto, ma vibrante, gli è per quella donna…

I suoi occhi mandarono strani sprazzi di fiamme.

– Gli è da lungo tempo, oh assai da lungo tempo ch'io la conosco quella donna!

– Stolto! proruppe il Commissario con collerica rampogna: quando si è nel vostro impiego, ne' vostri panni, non si fa il mestiere per proprio interesse…

– Il mio interesse qui si congiungeva con quello del servizio. In quella casa, presso quella donna si reca tutti i giorni; e più volte ogni dì, il sedicente dottor Quercia.

Gli occhi gli balenarono di nuovo come e di più ancora che poc'anzi.

– Gli è di lui che mi do pensiero, continuò con accento più vivace e vibrato. Del Duca che cosa m'importa?.. Ah! gli è quell'uomo ch'io vorrei cogliere alla posta.

Il Commissario degnò finalmente permettere alle sue labbra grosse l'ombra d'un sorriso.

– Sempre quella vostra idea fissa!.. Si direbbe che quel signor Quercia ve ne abbia fatta qualcheduna di grossa.

– È un mistero che voglio penetrare: interruppe vivacemente Barnaba. Ebbene sì, l'odio quel cotale… Non mi domandi il perchè, sarebbe lungo lo spiegarlo… voglio rovinarlo… e lo rovinerò.

– Per intanto: disse colla sua grossolanità Tofi: siete voi che perdete la partita.

Barnaba si morse le labbra sino al sangue.

– Ah! non è persa ancora! esclamò egli con accento quasi feroce. Allontanarmi!.. Sì: Ella ha ragione… È lui che la vince s'io mi allontano. Certo egli che mi ha trovato a fronte questa mattina, ha indovinato, ha sentito da parte sua la lotta che v'è fra di noi… Che! crede Ella che il Duca abbia fatto attenzione il meno del mondo a me?.. La è quella donna che gli ha domandato come un favore io fossi scacciato da Torino… e ciò dietro suggerimento di Quercia. Ne sono sicuro come se avessi assistito ai loro segreti parlari.

Tacque un istante, si concentrò, poi con impeto di quasi selvaggio furore proruppe:

– Invano si lusingano avermi tratto fuor dei piedi nel loro cammino… Non partirò; ad ogni costo non partirò.

– Oh oh, Barnaba: disse il Commissario con meraviglia poco meno che corrucciata; vi ha dato di volta il cervello. L'ordine è preciso, converrà obbedire.

– E se mi vi rifiutassi? domandò l'agente subalterno con un'audacia che fece strabiliare il signor Tofi.

– Rifiutarvi! esclamò questi scandolezzato in sommo grado. Forse che pensate di poterlo fare? Oh quando mai la pialla ha detto alla mano che la spinge: io non voglio muovermi? Non lo sapete ancora che voi siete uno stromento, un infimo stromento nelle mani del Governo? S. E. ha detto: «quell'uomo andrà a Novara o lo si getterà sul lastrico.»

– Ebbene? che m'importa? disse Barnaba con cupa risoluzione: lascierò l'impiego, ma non mi strapperanno di qua… Debbo rimanerci… Vi sono attaccato per tutte le fibre del mio essere… Non posso a niun modo allontanarmi.

Il Commissario, con rozzo atto eppure quasi affettuoso, gli pose una mano sulla spalla e gli affondò entro gli occhi quel suo sguardo d'augel grifagno.

– Sciagurato! diss'egli. Nel nostro ufficio, che è il più grave e il più necessario per la conservazione sociale, uomo non deve aver più nè passioni, nè affetti, nè moventi che del suo còmpito non sieno. È una sacra milizia la nostra in cui più che in qualsiasi religione monacale bisogna rinunziare a tutte le gioie come a tutte le vanità del mondo. Infelice chi non soffoca il proprio cuore; violatore del proprio dovere chi non distrugge in sè quelle tendenze e quei moti dell'animo, il cui giuoco deve osservare in altrui e dei quali frenare il corso e antivenire gli eccessi… Voi partirete.

Barnaba scosse con risoluzione il capo.

– No: diss'egli fermamente: e se si persevera in questa risoluzione, la prego, signor Commissario, di considerarmi fin d'ora come congedato dal servizio.

Il signor Tofi ritirò la mano dalla spalla del suo subordinato ed incrociò le braccia al petto; un lampo di sdegno corse ne' suoi occhi affondati.

– Ah sì? esclamò egli. E va bene. Ma ammettendo un momento che io vi dèssi così la vostra licenza, fatemi il favore di dirmi di qual pane vorreste mangiare.

– Non mi sarà difficile procacciarmene un tozzo fors'anco minore… ma meno amaro.

– Come? Come? Insistette Tofi con ironia contenuta ma sdegnosa. Vorreste per caso tornare al vostro primo mestiere dell'infanzia e della gioventù?

Barnaba impallidì.

– Esso non deve avervi lasciato troppo gradevoli memorie; continuava il Commissario con crescente quell'ironia, la quale, al vedere i segni di sofferenza che si manifestavano nel volto di Barnaba, avreste dovuto dire veramente crudele, e poi, ora dopo tanto tempo dubito assai che abbiate ancora le membra abbastanza sciolte per fare l'uomo tartaruga o saltar sulla corda.

Il suo ascoltatore, più smorto d'un cadavere, si appoggiò con una mano alla parete a sorreggersi, sentendo venirgli meno per l'emozione le forze; il capo aveva chino alla terra, il respiro affannoso; però non disse motto, nè mandò pure una voce.

Tofi continuava:

– Oppure potreste, coll'arte vostra abbastanza scaltrita, colla conoscenza che avete dei mezzi di guerra dalla parte nostra recare a quelli che combatteste finora, al campo dei nemici della società di cui foste finora difensore, un valido e prezioso campione che certo da loro otterrebbe infiniti vantaggi. Lascio stare il merito e la moralità di codesta azione; e se voi ne siate capace o no; ma vi dico che voi a niun modo non la potete fare, perchè io non lo permetterò.

Si drizzò vieppiù della sua persona e parve ingrandirsi appetto all'uomo che gli stava dinanzi curvo, abbattuto e disfatto.

– Avete voi dimenticato, seguitò dando maggior vibrazione ed imponenza alla voce senza pure alzarla; avete voi dimenticato che io col segreto della vostra vita passata, tengo in pugno il vostro presente e il vostro avvenire? Che siete in mia balia talmente che il giorno in cui vorreste sottrarvi, io posso infrangervi senz'altro?

Barnaba fu assalito da un fremito; tese le mani supplicante e disse con accento pieno di preghiera e d'angoscia:

– Ah! non mi perda!

Successe un istante di silenzio, in cui que' due uomini stettero di fronte a quel modo; Barnaba gli occhi fitti alla terra, umile e vinto, Tofi dominandolo da tutta l'altezza della sua statura, con uno sguardo imperioso e fiero.

Fu il subalterno che ricominciò a parlare:

– Signor Commissario, diss'egli, Ella ha ragione, Ella può fare di me tutto ciò che le aggrada; ma in nome di quanto vi ha di più sacro, in nome del Re e di questo nostro ufficio di cui Ella sente così a dovere tutta l'importanza e l'altezza, pel vantaggio del servizio di cui le giuro sull'anima mia trattarsi, la prego, la supplico a non mandarmi via così, di subito… Non le domando che un indugio di pochi giorni, di una settimana, di due tutt'al più… In questo frattempo spero di poterle venir a recare tali risultamenti dell'opera mia ch'Ella sarà lieta d'avermi accordata questa grazia. Dopo faccia pure di me tutto quel che la vuole; e se non riesco a nulla, mi punisca poi Lei con tutta la severità che creda opportuna. Mi rassegno fin d'adesso ad ogni suo volere. Ma, per amor di Dio, mi lasci compier l'opera. È un'opera difficilissima, intricata, delicatissima cui non posso cedere altrui, che altri non potrebbe assumersi e continuare in vece mia. È un viluppo di leggerissimi indizi ch'io indovino più coll'istinto di quello che scorga col raziocinio; è un complesso di fili tenuissimi cui bisogna trattare con cura infinita, perchè non si rompano lasciandovi senza scorta nessuna più nel labirinto. Io seguo, traverso un lecceto di circostanze indifferenti che imbarazzano il cammino, le traccie del vero coll'istinto del segugio che persegue una preda, questo vero voglio arrivarci a scoprirlo… e scoprirlo io!.. È una questione d'amor proprio; è una passione dell'arte mia oltre ogni altro impulso che possa essere in me; è un'ambizione, se vuole, ma cui Ella non può condannare. Mi lasci conquistar questo merito. Forse è una missione che mi ha data appunto la Provvidenza menandomi per le disgraziate, orribili vicende della mia vita passata; mi permetta ch'io la compia.

Il Commissario stette un momento, prima di rispondere, riflettendo; poi ad un tratto crollando le sue spallaccie, disse asciuttamente:

– Voi non partirete che fra un mese. La prendo su di me. Vi do un mese di congedo, cui potrete passare dove vi piace meglio. Se in questo frattempo voi riuscite in quell'impresa che dite, se quella che proseguite non è una illusione, e voi arrivate a porre la mano sopra una buona verità; allora la vostra disgrazia presente si potrà convertire in una splendida ricompensa.

Barnaba in un movimento di espansiva gratitudine, lieto com'era immensamente dell'ottenuto favore, accennò voler prendere la destra del Commissario; ma questi nascose le sue manaccie nelle larghe tasche del soprabito e disse con accento freddo freddo e con faccia burbera burbera:

– Andate e fate ch'io non m'abbia a pentire di quanto ardisco a vostro riguardo.

L'agente s'inchinò con tutta umiltà e s'avviò verso l'uscita. Quando ei fu per aprir l'uscio, il signor Tofi soggiunse:

– Passando dite che s'introduca quel prete cui mi ha mandato il Comandante.

Barnaba trasmise l'ordine ricevuto alle guardie dell'anticamera, e poscia uscendo del palazzo Madama si diresse verso l'osteria di Pelone.

Chi gli fosse stato accosto, avrebbe potuto udirlo borbottare coi denti stretti:

– Gli è colui la cagione della mia disgrazia, lui che mi volle far scacciare, lui che possiede l'amore di Zoe!.. Oh! dovrà pur venire un giorno ch'io ne terrò la sorte nel mio pugno!




CAPITOLO V


Don Venanzio colla letterina del marchese di Baldissero, erasi affrettato verso il Palazzo Madama; dove informatosi del luogo in cui fossero gli uffici del Comandante di piazza, eravisi introdotto umile e rispettoso. I soldati veterani, sotto uffiziali i più, che, conosciuti dal popolo col nome di ordinanze di piazza, facevano presso quell'uffizio poliziesco-militare da guardie di polizia insieme, da uscieri e da tavolaccini, non accolsero con molta deferenza questo vecchio ed umil prete dagli abiti poveri e dall'aspetto modesto. La richiesta di lui, d'essere ammesso a parlare coll'illustrissimo signor barone Panciù della Montoria, maggiore di fanteria nell'esercito di S. M. il re di Sardegna, Comandante della piazza di Torino, parve loro poco meno che una temerità in tale che non aveva il brillante degli spallini, l'autorità d'un alto impiego, l'imponenza d'un nome aristocratico e nemmanco il distintivo (in quel tempo non così comune come adesso) di una decorazione. Di certo il nostro buon sacerdote non sarebbe arrivato al suo intento se non fosse stato del bigliettino di S. E. il marchese di Baldissero, ministro di Stato.

A questo nome le faccie irte di baffi di quei bravi veterani fazionati dalla disciplina alla sprezzosa ruvidezza verso i borghesi, cominciarono a diminuire l'altezzoso, severo cipiglio. Uno di essi non disdegnò di prendere il biglietto e di recarlo nella camera vicina, dove un altro l'avrebbe preso per trasmetterlo ad un terzo il quale avrebbe poi avuto l'onore di consegnarlo nelle proprie mani del signor barone comandante: imperocchè già fin d'allora (cosa bellissima ed opportunissima che si è venuta perfezionando e crescendo) codesti uffizi, come tutti gli altri eziandio, erano affollati di utilissima gente occupata a non far nulla.

Ma il potente talismano di quella lettera fu appena pervenuto nelle autorevoli mani del signor Panciù della Montoria, il quale, in benefizio dello Stato, sbadigliava gravemente crogiolandosi in una soffice poltrona presso il fuoco, che la causa del buon prete ebbe il cento per cento di guadagno. Il signor Comandante si degnò di suonare un campanello, ed a chi si presentò alla chiamata si degnò di ordinare che desse ordine a chi di dovere, perchè le ordinanze dell'anticamera lasciassero entrare il postulante. Così avvenne che Don Venanzio penetrasse sino nel gabinetto di quell'illustre personaggio.

Udito di che cosa si trattasse, il signor Comandante, voglioso di soddisfare al desiderio manifestatogli da un potente, quale il marchese, guardingo eziandio di non compromettere la sua dignità colla Polizia civile, da cui dipendeva in realtà la definizione dell'affare, recossi sopra se stesso e riflettè profondamente. Ma egli non era incanutito nel glorioso servizio della pacifica milizia di quel tempo per non trovare in simile occasione la salvezza della capra e dei cavoli. Levò fieramente la testa, come uomo che sa d'avere una felicissima idea, ed ordinò che il prete campagnuolo fosse scortato di sotto al pian terreno nell'ufficio del signor Commissario e si dicesse a costui che era desiderio di lui Comandante, la domanda del prete venisse esaudita.

Ma quando in quell'oscura e vasta anticamera dove siamo via penetrati più volte, entrarono Don Venanzio e l'ordinanza che gli faceva da guida, il signor Tofi era assente dall'uffizio; e il veterano, che non aveva tanto zelo da mettere a disposizione del prete, da rimaner lì a seccarsi aspettando nella società delle guardie poliziesche con cui le ordinanze di piazza non se la dicevan di troppo, il veterano disse concisamente ciò di che si trattava ai poliziotti presenti e se ne andò pei fatti suoi.

Don Venanzio sedette e, la sua mazza fra le gambe e le mani appoggiatevi su, il fido Moretto accovacciato a' piedi, stette tranquillamente ad aspettare.

Quando finalmente Barnaba nell'uscire dal gabinetto del Commissario, ebbe dato ordine il prete s'introducesse, Don Venanzio deposto il suo bastone, come soleva, ed ordinato all'obbediente cagnuolo di starvi presso e non muoversene a niun conto, passò il corridoio, traversò la prima camera, ed entrando nel riposto camerino, si trovò a fronte del terribile signor Tofi.

Difficilmente, chi l'avesse voluto fare apposta, avrebbe potuto mettere insieme due figure che più facessero contrasto. Il Commissario alto, magro, osseo, angoloso, la faccia ispida, di color terreo, aspetto burbero, la guardatura fiera; il prete piuttosto piccolo, grassotto, rosse le guancie, bonario e benigno il sorriso, mitissimo lo sguardo degli occhi azzurri, tutto bontà ed amorevolezza al solo vederlo.

Tofi guardò quella sorridente figura con occhio torvo; parve anzi che quelle aperte, benigne sembianze, irritassero in lui la scontrosità dell'umore.

– Ebbene? diss'egli con accento più ruvido ancora dell'ordinario. Che volete? Parlate, e spicciatevi, chè io non ho tempo da perdere.

Don Venanzio non si spaventò, nè s'indispettì di queste parole e del tono ond'eran dette; espose tranquillamente, con umile sicurezza la ragione della sua venuta, e non tacque della lettera del suo protettore al Comandante. Fosse il nome del marchese di Baldissero, fosse la voce simpatica e l'accento modesto e dignitoso insieme, di quel vecchio, che producesse effetto, il vero è che la orgogliosa insolenza del signor Commissario s'abbassò d'un tono.

– La vuol vedere quel cotal Maurilio arrestato questa mattina? Disse il sig. Tofi passando a parlare col Lei. Bene, la lo vedrà subito. S. E. il marchese di Baldissero le ha detto che avrebbe potuto condurlo via con sè? S. E. le ha detto giusto. Ho appunto l'ordine di rimetterlo in libertà; e nulla osta a ciò che Lei si porti quel giovane dove la vuole.

Ciò detto ordinò che il nominato Maurilio Nulla fosse tolto dal carcere in cui era stato messo e condottogli innanzi.

Maurilio aveva appena finito di raccontare, come abbiam veduto, le avventure del suo passato all'amico Selva, quando si udirono stridere fuor della porta i catenacci che scorrevano nei loro anelli di ferro, e scricchiolare nella serratura la chiave che apriva: i due giovani volsero curiosi i loro sguardi all'uscio e videro socchiudersi il grosso battente e il secondino medesimo che là dentro li aveva introdotti, mettere fra l'uscio e il muro la sua faccia ignobile e far passare per quell'apertura la sua voce rauca e villana.

– Quale di loro si chiama Nulla Maurilio?

I prigionieri si erano alzati tuttidue; Maurilio fece un passo innanzi e disse non senza un palpito nel cuore e un lieve tremito nella voce:

– Sono io.

– Venga meco.

Maurilio volse verso Giovanni uno sguardo desolato:

– O cielo! Ci vogliono separare.

Selva si cacciò avanti e interrogò il secondino.

– Dove avete da condurre il mio compagno?

– Dal signor Commissario.

– Perchè?

Il carceriere rispose crollando le spalle:

– Che so io? Non domando e non mi si dànno di queste spiegazioni… Animo, su, muoviamoci.

Maurilio si gettò nelle braccia di Giovanni.

– Aimè! Disgiungendomi da te mi si toglie la maggior parte della mia forza.

– Coraggio, coraggio: gli susurrò alle orecchie Selva abbracciandolo. Non sarà che per interrogarti, e poi ti restituiranno alla mia compagnia.

E con un bacio, come di addio, gl'insinuò nell'orecchia, tanto piano che Maurilio stesso appena le udì, le seguenti parole:

– Nega tutto e sempre, o piuttosto taci.

Il secondino accennava impazientarsi. Maurilio si staccò dalle braccia dell'amico e seguì l'uomo che lo era venuto a prendere, scorta al quale stavano due guardie, i bottoni della cui uniforme mandavano qualche riflesso di luce nell'oscurità del corridoio. Alle spalle di Maurilio fu richiuso lo spesso battente chiovato di ferro col medesimo stridere, col medesimo scricchiolìo di catenacci e di serrami.

Quando furono giunti all'uscio del gabinetto del Commissario, le guardie con uno spintone fecero entrar primo Maurilio, e dissero:

– Ecco il prigioniero.

– Sta bene: rispose la voce burbera del signor Tofi: andate.

Guardie e secondino sparirono; il nostro protagonista rimase timido ed esitante a quel posto, non osando levar gli occhi e sentendo nel petto battergli il cuore sotto la stretta d'una paura che cercava invano di dominare.

Ma prima che egli od altri avesse tempo di pronunziare una parola, appena partite le guardie, una persona si slanciò verso Maurilio e gli gettò le braccia al collo ed una voce amichevole e soave lo salutò chiamandolo per nome con infinito affetto.

Il giovane sentì dileguarsi il turbamento della sua paura, ebbe di botto l'animo rinfrancato trovandosi non senza molta meraviglia sul seno del vecchio parroco, del maestro e del protettore della sua infanzia.

– Lei!.. Lei qui, Don Venanzio: esclamò Maurilio con tanta commozione che appena poteva parlare. Oh! la è proprio il mio buon genio che la manda.

– Sì: disse il parroco: è la Provvidenza che ti vuol bene, e mi concede sempre la grazia di poterti soccorrere. Gli è un presentimento che mi ha spinto a venire a Torino; e qui ho trovato subito chi ha potuto farmiti restituire. Sono venuto a prenderti: tu sei libero, ed usciremo insieme da questo brutto luogo.

Un brivido di acuto piacere corse tutte le fibre del giovane.

– Libero: esclamò egli sentendosi quasi allargare i polmoni.

Non potè aggiungere altra parola; ma levò lo sguardo al cielo con espressione di commossa riconoscenza. Egli era persuaso che lo spirito benigno, il quale vegliava sul suo destino, era quello da cui era stato ispirato a Don Venanzio il presentimento da lui accennato, era stato suggerito il mezzo di venirlo a salvare.

Don Venanzio, abbracciato, baciato e ribaciato Maurilio, ne prese il capo colle due mani e lo stette guardando con amorosa attenzione e con viva sollecitudine. Dall'ultima volta che quei due s'eran visti, nella faccia espressiva del giovane erano ancora, e non di poco, accresciutesi le traccie della sofferenza e del malessere che a quel corpo indebolito cagionavano l'incessante travaglio dell'anima, la soverchia tensione dello spirito e il continuo lavorìo del pensiero. Più terreo il color delle guancie, più affondate le occhiaie, più sporgenti i zigomi nel macilento viso, più spiccate le rughe precoci alle tempia ed agli angoli della bocca, più curvo il petto ed abbandonato il portamento.

Il buon parroco, intenerito, lo baciò ancora una volta su quella vasta fronte incoronata dai nerissimi ispidi capelli come da una scura aureola, ed illuminata nel suo pallore dalla luce del pensiero.

– Mio povero Maurilio, disse Don Venanzio con accento di sì dolce affetto che più non avrebbe potuto la voce d'una madre. Tu hai sofferto ancora, tu soffri?

Il giovane rispose con un mesto sorriso.

Ma ad impedire ogni effusione suonò in quel momento la voce aspra e burbera del signor Commissario.

– Le vostre confidenze ve le farete poi in più acconcio luogo di qua. Per ora, giovinotto, voi siete libero, e ringraziate la clemenza di S. M. che invece di mandarvi a vedere il sole a scacchi a Fenestrelle, vi fa la grazia di lasciarvi andar a dormire nel vostro letto. Ma frattanto questo piccolo incidente vi serva d'avviso! Fate senno, dissensato che siete! Ficcatevi un po' di sugo in quel cervellino di passero che vuol menare a bere le oche; e invece di pensare a cambiare le cose del mondo e riformare il Governo, pensate ad essere buon suddito, buon cattolico e riformare a voi la testa sconclusionata. Vedete i bei capi che pretendono dettar la legge a chi comanda e far camminare il mondo a loro capriccio! È nell'ospedale dei pazzerelli dove meritereste d'essere rinchiusi, poverini di teste bruciate… D'ora innanzi badate a voi! Non crediate di poterla fare impunemente in barba alle autorità ed alle leggi. Noi teniamo gli occhi su di voi e vediamo tutto, quasi quasi i vostri pensieri eziandio. Se questa volta l'avete scappolata tanto a buon mercato, un'altra non sarà più così. E sappiate, impertinenti e stupidi animali di rivoluzionari, che S. M. il Re di Sardegna ha abbastanza carceri e carabinieri, e se occorre palle e schioppi da mettere alla ragione quanti ne sieno di voi e dei vostri pari… Ora andatevene con Dio, e pregate il vostro santo protettore che non m'abbiate più a comparire davanti.

Maurilio ascoltò l'intemerata a capo chino e senza dare il menomo segno di quello che sentisse dentro sè; ma il buon Don Venanzio non nascose nella sua aperta e schietta fisionomia, tutto l'effetto di paura che in lui produssero le parole del Commissario.

– Andiamo, andiamo, diss'egli sollecito, prendendo il braccio del giovane, appena il signor Tofi ebbe finito. E il signor Commissario non dubiti che non daremo mai più ragione di malcontento all'autorità.

Maurilio però non si mosse, non ostante che Don Venanzio, a cui pareva mill'anni d'esser fuori da quel luogo, facesse a trarlo verso la porta.

– Signore, disse Maurilio al Commissario, quando venni arrestato, mi si sequestrarono delle carte… un manoscritto…

– Ebbene? lo interruppe bruscamente il signor Tofi con un tale sguardo che avrebbe agghiacciata la parola anche sulle labbra d'un ardimentoso.

– Vorrei pregarla, balbettò Maurilio, se si potesse di dar l'ordine che mi fosse restituito…

– Un corno! gridò il Commissario. Quello scartafaccio è nelle mani di S. E. il Governatore che ne farà quel che vorrà…

Il giovane accennò volere aggiungere ancora una parola; ma Tofi con più ruvidezza ancora:

– Adesso ho altro da fare che ascoltare le vostre sciocchezze. Non seccatemi dell'altro e partite, se non volete ch'io vi faccia ricondurre in qualcuno de' miei salotti qui sotto nei fossi del castello.

Maurilio non aprì più bocca, e Don Venanzio, che fece saluti rispettosi e vivaci per tuttedue, lo trascinò fuori sollecitamente. Nell'anticamera il parroco riprese la sua mazza e il suo cane che gli fece mille feste; e quando ebbe oltrepassata la sentinella che passeggiava dinanzi al portone, Don Venanzio mandò un gran sospirone di sollievo, strinse al suo petto il braccio di Maurilio su cui s'appoggiava affettuosamente e disse:

– Uhff! fa piacere l'essere fuori di lì, e faccio voti che per nessuna ragione, nè tu ned io non abbiamo da tornarci mai più.

Il povero prete doveva tornarci pur troppo per una dolorosissima cagione, onde assai aveva da soffrire la sua bella, onesta ed amorevol anima!

Camminato un poco in silenzio, Maurilio ad un tratto si fermò e scosse la testa, come uomo a cui una vicenda è troppo grave a sopportare.

– Lasciare nelle loro mani quello scritto! esclamò egli; ma colà dentro vi è tutta la mia anima, vi sono tutte le evoluzioni del mio pensiero; vi è quella parte della vita intima del nostro io, in cui non deve penetrar mai, è un sacrilegio che penetri occhio umano – e stento a credere perfino che penetri l'occhio di Dio… Ah! questa è la peggiore delle tirannie, questa è un'empia offesa alla libertà ed alla dignità della persona umana… E se mi presentassi al Governatore a richiamarmene, se invocassi colla forza del mio diritto la restituzione di ciò che è più mio di qualunque altra cosa possa appartenermi mai, di quello che è parte, si può dire, di me stesso, qual accoglienza mi si farebbe? qual risposta degnerebbero farmi?.. Quella di questo villano di Commissario: la minaccia di un carcere.

Don Venanzio, tutto spaventato, lo stringeva pel braccio, guardava intorno con occhio pieno di sgomento, e tirandolo per fargli riprendere l'andare, dicevagli sottovoce con accento di amorevole rimprovero:

– Vuoi tacere?.. Ve' se si ha da parlare in questa guisa!.. E ad alta voce ancora, in una piazza!.. Per fortuna che con questo tempo c'è poca gente… Ma certe cose, Gesù buono, non bisogna nè anche pensarle. Vieni, vieni, andiamo a casa tua che abbiamo un milione di cose da dirci… Quanto al tuo manoscritto, credo di potertene dare le novelle, che l'ho visto io co' miei occhi non è più di un'ora.

– Davvero! esclamò Maurilio stupito non poco. Non è dunque più in mano del Governatore?

– No.

– E dov'è? chiese sollecito il giovane. E come fu dato a Lei di vederlo?

– L'ho visto fra le mani di quel medesimo personaggio a cui tu hai già dovuta quell'altra volta la tua liberazione, ed a cui tu la devi anche adesso.

In Maurilio queste parole produssero una subita emozione, cui Don Venanzio, se l'avesse osservata, avrebbe dovuto trovare strana ed inesplicabile.

– O chi? domandò egli con impeto, tremante la voce.

– Il marchese di Baldissero.

Maurilio mandò un'esclamazione dall'imo petto, d'una meraviglia che quasi pareva dolore.

– Il marchese!.. Lui?.. O fatalità! Il mio destino mi vuole dunque affatto perduto?

– No, no, calmati: s'affrettò a dire il parroco vedendo tanta commozione e tanta ansietà nel giovane. Il marchese bene trovò ardite le idee espresse in quello scritto, ma notò in esso tali traccie d'ingegno, che anzi desiderò vederti e parlar teco. Io gli promisi che nel giorno stesso di domani t'avrei condotto al suo cospetto.

Queste parole, invece che rassicurare, parvero turbare vieppiù il povero Maurilio.

– Io!.. Presentarmi a lui… dopo ch'egli avrà letto?.. oh no, oh no mai!

E si coprì colle due mani la faccia.

– Ma che cos'è? domandò il prete meravigliato di quella tanta commozione, cui, per le ragioni ch'egli conosceva soltanto, trovava eccessiva. C'è alcuna cosa in quel tuo scritto che ti debba far vergognare a comparire innanzi ad un onest'uomo?

Maurilio strinse forte il braccio di Don Venanzio, che s'appoggiava sul suo.

– Vergognare, no, perchè non c'è colpa nè viltà qualsiasi; ma temere sì… Innanzi alla superbia aristocratica di quel blasonato, la mia può parere un'audacia insolente…

– Ma spiegati!.. Che cos'è in fin dei conti?

– Spiegarmi?.. Non posso… È un segreto della mia anima, effuso entro quelle pagine in versi bollenti che eruppero come una lava; è un atto di quella mia vita interiore che dev'essere, che voglio chiusa ad ogni sguardo indiscreto… Nessuno ha da conoscere quel segreto e meno di tutti il marchese.

Don Venanzio rimaneva perplesso senza comprendere come alcuna qualunque attinenza, come indicavano le parole del suo giovane amico, potesse esistere fra il marchese e Maurilio che non si conoscevano il meno del mondo.

Il giovane, sempre agitato, continuava come parlando a se stesso:

– Può egli comprendere?.. Avrà egli compreso sotto le mie parole la verità?.. Chi non la comprenderebbe?.. A qual altra persona possono convenire quei detti?.. Più volte ne ho scritto il nome… È un nome che portano ben altri eziandio… Ma pure…

Il buon prete trovò una valida ragione, per lui sicurissima, da tranquillare Maurilio.

– Se io capisco bene, diss'egli, si tratta dunque di una cosa tua particolare, intima, segreta.

Il giovane fece un cenno affermativo.

– Ebbene, io metterei pegno qualunque cosa che il marchese non ne ha letto pure una parola. Conosco la delicatezza di quell'animo. Tutto ciò che gli sarà sembrato attenersi ai particolari della vita privata, egli lo avrà accuratamente tralasciato.

Maurilio parve acchetarsi; e lungo tutto il cammino che loro restava da percorrere per giungere alla casa dov'egli abitava, rimase taciturno, col capo chino e gli occhi dimessi.

Quando Maurilio e Don Venanzio giunsero alla porta n. 7 di via ***, dalla loggia della portinaia uscì fuori con impeto sora Ghita medesima scortata come da uno stato maggiore dalla comare Marta, dalla comare Polonia e da non so quali altre comari del quartiere.

L'evento straordinario dell'arresto dei giovani in casa del pittore aveva radunato colà l'esercito attivo e la riserva delle lingue femminili di pian terreno in tutta quella strada e formava l'argomento delle più vivaci chiaccole di quelle brave sfaccendate; quando ecco uno degli eroi dell'avventura tornare tranquillamente a casa per distrurre tutte le supposizioni di ogni sorta che quelle argute donne si erano già industriate di fare. E il ritorno non era meno strano dell'andata; condotto via da poliziotti, accompagnato da un agente della pubblica sicurezza, se ne tornava come se di nulla fosse stato, a braccio con un vecchio prete. C'era di che mettere in uzzolo altro che la curiosità di un drappello di vecchie comari! Fu perciò che sora Ghita, visto appena, nel campo di visione che apriva ai suoi occhietti sempre in sull'avviso il finestruolo della loggia, spuntare la faccia pallida di Maurilio e le chiome bianche di Don Venanzio, per un subito impulso si cacciò fuori, armata d'interrogazioni, e dietrole tutta la valorosa schiera delle comari.

– Ah! Ella qui, sor Maurilio! esclamò essa, levando le mani secche e rugose all'altezza della sua cuffia madornale in un atto di meraviglia che voleva esser piena di allegrezza e di consolazione. Oh che piacere! Hanno adunque riconosciuto che la era una gran porcheria lo arrestare della brava gente come lei? E l'hanno mandata sciolta, non è vero? Me ne rallegro tanto. E l'avvocato Selva? È egli vero che fu arrestato ancor egli? S'è detto così, lo si dice ancora per tutto il quartiere… Un altro bravo giovane quello lì che non ha il suo compagno. (E si volgeva alle comari, mentre col suo corpo seguitava a chiudere il passo a Maurilio ed al prete). Grazioso e gentile e ben educato che gli è un vero piacere. Non passa mai davanti al mio camerino senza salutarmi, e qualche volta viene a discorrerla meco e ci ha sempre un fascio di novellette e di piacevolezze che incanta ad udirlo. (E qui parlava di nuovo a Maurilio). Spero bene che avranno lasciato andare anche lui; o se non ancora, lo lascieranno andare quanto prima. E quell'altro, che è un signore quello là che ha dei milioni, l'avvocato Benda, il padrone di quella bestia del mi' uomo, non è una frottola che sia stato arrestato anche lui? Ma che smania è codesta di voler mandare in gattabuia tutta la gente ammodo! Io mi credo che abbia dato la volta a quei signori della Polizia… Io già rispetto l'Autorità, i comandamenti di Dio, della Chiesa e del signor Vicario, ma non mi posso tenere dal dire che queste le sono vere porcherie. Finiranno per mandare in galera l'onesta gente e lasciar stare tranquilli i birbanti che ce n'è una tal quantità oramai in questa nostra città che se vi rintoppate in uno sconosciuto, non siete sicuri di non aver dato del naso in un ladro; e lo provano i frequenti delitti che succedono tutti i giorni, che dicono che la è tutta una combriccola, che sono centinaia e più, che si chiamano la cocca, di ogni razza di Dio, birboni che non temono nè Cristo, nè l'Anticristo, nè gli angeli, nè il demonio, che al tempo della mia gioventù mai e poi mai si sono udite di simili cose…

Maurilio, esaurita affatto ogni sua provvista di pazienza, fece un tentativo infelice per isgusciare tra la portinaia ed il muro: ma sora Ghita non era donna da lasciarsi vincere nè per sorpresa, nè per altro; fu lesta a chiudere compiutamente il passaggio mettendosi davanti al giovane, e continuò lo scroscio della sua parlantina.

– E dunque, Lei sa s'egli è vero che l'avvocatino, come lo chiamano laggiù alla fabbrica, sia stato arrestato? E perchè poi? Si dice che c'entra la prepotenza d'un gran signore col quale ieri sera ebbe un battibecco alla festa da ballo… Ma guardiamo un po' se questa è ragione per arrestarlo… ed anche i suoi amici!.. Io era così impaziente, così fuori della grazia di Dio, per codesto, che volevo correre con questo tempaccio fin colaggiù alla fabbrica ad udire un po' che cos'era stato, a rischio anche d'avere un rabbuffo con quello scontroso di mio marito, il più insopportabile uomo di questo mondo… e d'ogni mondo possibile…

Maurilio stava per offendere la brava portinaia, mandandola con ira ai centomila diavoli, ma Don Venanzio intromise colla sua solita dolcezza, col suo sorriso tutto bontà, la sua mite parola.

– Noi non sappiamo nulla di preciso, mia cara signora Ghita; ma certo v'è ogni ragione di credere che, come per Maurilio, così anche per gli altri, l'autorità avrà riconosciuto il suo errore e si affretterà a ripararlo. Errare è una cosa che succede a tutti, anche a chi comanda, perchè da nessuno si può pretendere che sia infallibile, ma quando lo sbaglio si corregge, allora non c'è più nulla da dire.

E con quel suo simpatico e benigno sorriso, spinse gentilmente da una parte la portinaia, e per l'apertura che rimase, s'affrettarono egli e Maurilio a guizzare.

Un quarto d'ora non era trascorso, ed ecco presentarsi alla vista delle comari, sempre ancora intente a chiaccherare, l'allegra figura di Giovanni Selva. E' se ne veniva col suo abituale piglio di buon umore, canterellando un'aria di teatro, un sigaro acceso in bocca, come uomo che se ne torna da una passeggiatina dopo un buon asciolvere. Come già intorno a Maurilio, la portinaia colle sue compagne assaltarono al passaggio il secondo venuto.

Selva, rimasto solo nel carcere, e non osando mai più sperare una sì pronta liberazione, non era senza inquietudine di ciò che in quel momento accadesse al compagno da cui lo avevano separato, di ciò che avesse poi da toccare a lui medesimo. Per fortuna la sua ansiosa aspettazione non fu di lunga durata. Come già erano venuti a prender Maurilio, così accadde di lui, e nella medesima guisa fu egli condotto innanzi alla faccia fieramente burbera del signor Commissario.

Il modo con cui questi accolse il giovane era tale da far agghiacciare il sangue nelle vene a qualunque che non avesse la calma, la risoluzione e la coraggiosa noncuranza di Giovanni. A costui l'intimata da farsi doveva essere ben più aspra e terribile e romoreggiante di severissime minaccie, perchè egli aveva osato ammaccare de' suoi pugni ribelli le brutte faccie dei poliziotti rappresentanti della legittima autorità. Era pur vero che que' malcreati di scherani colla prepotenza codarda del numero e dell'impunità assicurata se n'erano vendicati coi maltrattamenti che sappiamo; ma tuttavia il solenne principio che il suddito deve lasciarsi battere e dir grazie, porgere le spalle al bastone e baciar la mano che lo regge, principio su cui, secondo il signor Tofi, deve fondarsi ogni ben regolata società, codesto principio, dico, era stato gravemente offeso da que' tali scopozzoni somministrati da Giovanni, e bisognava guarentire da ogni ulteriore contusione la santità del principio e il naso degli sgherri. Un tiranno da dramma di arena in giorno di festa, che ha dietro la quinta il carnefice già bello e pronto coi calzoni rossi e la barbaccia finta al mento per comparire al primo olà muggito in voce di basso profondo, non accoglie più ferocemente il primo amoroso cui sta per mandare al patibolo, di quello che fece il Commissario verso il nostro Giovanni. La voce reboante del signor Tofi, dall'alto del suo cravattino duro tuonò come un temporale dalla montagna. Il colpevole che gli stava dinanzi era degno della galera e peggio; a tanto misfatto l'orrore dei buoni si doveva e la mano vindice del carnefice; del 33 avevano ricevuto un'oncia di piombo nella testa pervicace dei birboni di ribelli che appetto a Selva erano agnellini di candore governativo e d'ubbidienza e rispetto all'augusto legittimo Sovrano[5 - Oggi codeste maniere dei graziosi Commissarii di polizia d'un tempo sembreranno favole ed esagerazioni; ma io faccio appello alla memoria di chi ebbe il disavantaggio d'esser giovane prima del 1848, e ognuno di essi son persuaso dirà che io sto ancora al di qua del vero.]. Ma del feroce discorso quanto più inaspettata, tanto gradita fu la conclusione all'orecchio del giovane: ed era che per intanto gli si dava il largo. Giovanni aveva ascoltato tranquillo le invettive e le minaccie del Commissario, come un modesto ascolta i complimenti che gli si fanno, senza chinar punto gli occhi innanzi alle fiere pupille che lucicchiavano sotto la gran tesa del cappellone che il signor Tofi teneva insolentemente piantato in testa; all'annunzio finale della sua libertà restituitagli, il giovane ebbe la forza di continuare nella medesima apparente impassibilità, ma il cuore gli si mise a saltellare allegramente nel petto, e confessò egli stesso di poi che il giuoco dei polmoni nel rifiatare gli divenne di subito più libero e più facile.

Ma le prove di Giovanni non erano ancora finite. Il signor Tofi ebbe la felicissima idea di volergli far giurare, prima di dargli il volo, ch'egli d'or innanzi sarebbe un esemplare di suddito veneratore del trono e dell'altare, rispettoso d'ogni agente del Governo dal primo ministro al cane dell'usciere, dal cappello gallonato del generale alla cassa dell'ultimo tamburo dell'esercito, dalla toga rossa del senatore alle manette dello sgherro.

Giovanni si dimenticò d'essere un avvocato per ricordarsi soltanto che era un uomo schietto a cui ripugnava un falso giuramento anche imposto dalla prepotenza. Non cercò sotterfugi, non ricorse a restrizioni mentali, non addusse sofismi; guardò ben bene in faccia il Commissario e disse francamente ch'egli apparteneva alla setta dei Quaccheri i quali di giuramenti non ne facevano mai nè anco per salvarsi dalla morte.

Il signor Tofi aveva il più stretto dovere di salire in una collera ufficiale, e non ci mancò. Pensò un momento seco stesso se non aveva da rimandare nel carcere questo sedicente quacchero a maturare una più conveniente risoluzione; ma poi non ardì farlo ricordando le parole del conte Barranchi e l'ordine di liberazione venuto direttamente dal Re. Si contentò di fare scrosciar nuove minaccie sul capo del pervicace: che già l'autorità aveva l'occhio aperto su lui e sui suoi pari, e guardasse bene che al primo piccolo motivo di sospetto avesse dato, l'artiglio della polizia l'avrebbe preso di nuovo e per non lasciarlo più così di piano.

Selva salutò rispettosamente, uscendo, i cannoni che allora stavano appostati sotto l'atrio del Palazzo Madama, e confessò che quando si trovò fuori del portone al fioccar della neve che veniva giù fitta fitta, gli parve che quella giornata fosse più bella che una giornata di sole, e fu con un gusto tutto nuovo che accese il suo sigaro da un soldo in presenza dell'imponente facciata del castello in cui aveva sede l'orco della Polizia.

– Cara sora Ghita: disse Giovanni Selva alla portinaia rinfiancata dalla frotta fedele delle sue comari; sì, eccomi restituito alla libertà, agli amici, alla poesia ed a Lei. Come mi hanno arrestato? Colle manaccie di certi arcieri, più sporche della coscienza di un ladro. Perchè? Perchè quei furbi della Polizia, che leggono i pensieri nel cervello di una mosca, si sono immaginato che io ed i miei amici volessimo portar via le statue che stanno sul Palazzo Madama. Visto che le non ci entravano in tasca, hanno capito che eravamo innocenti e ci hanno mandati con Dio, senza darci manco da colazione. Tenga a mente questa esposizione di fatto, e la tramandi pure ai posteri, se la può, chè la storia ne trasmette loro difficilmente di più esatte e fedeli.

Ciò detto, abbracciando scherzosamente la vecchia portinaia, la tirò da parte per aprirsi il varco, e distribuito a manca ed a sinistra alcuni di quei suoi schietti ed allegri sorrisi, corse lesto verso le scale, cui salì a due scalini per volta, seguitando a canterellare allegramente la sua arietta.

Le cose dette da Selva non appagarono così compiutamente la curiosità delle donne che non avessero più materia di chiacchere e d'induzioni da mantenere vivo il colloquio per un'altra buona mezz'ora.

Ed ecco, a capo di questo tempo, presentarsi agli occhi della portinaia una persona la cui presenza era fatta apposta per interessare vivamente la vecchia ciarlona curiosa: il falso operaio della sera innanzi, l'interrogatore astuto ed insinuante, quello sconosciuto cui monna Ghita aveva trovato rassomigliare al fumista di via Santa Teresa, in una parola l'agente di Polizia, Barnaba.

Costui abbiamo visto, uscito dal Palazzo Madama, dopo il colloquio col Commissario, indirizzare i suoi passi verso l'osteria di mastro Pelone. Ciò che colà vi facesse e dicesse questo personaggio è giovevole che sappiamo per comprendere alcuni degli avvenimenti che avremo da narrare.




CAPITOLO VI


Quando Barnaba entrò nell'osteria non vi erano punto avventori; Andrea, Marcaccio e Graffigna n'erano usciti già da un'ora; Pelone stava accoccolato a suo modo dietro il banco in fondo alla bottega; Maddalena, ritta innanzi ad uno specchietto sporco che era appiccato ad un luogo della parete presso la botola da cui si scendeva nelle stanze sotterranee, stava guardandosi con compiacenza ed aggiustandosi un nastro nelle chiome; Meo, mezzo inginocchiato, mezzo seduto presso il braciere, di cui sommuoveva di quando in quando le braci con una paletta di ferro, Meo colla sua aria d'imbecille stava mirando la Maddalena come un gatto mira una polpetta che gli suscita una maledetta voglia, ma cui la paura della cuoca presente gl'impedisce di ghermire.

Il bravo mastro Pelone, le ginocchia levate fino a mezzo il curvo petto, le mani sulle ginocchia e il mento sulle mani, gli occhi chiusi e il naso madornale volto a terra, immobile e senza pur mandare uno sbruffo di quella sua tosse cavernosa, avreste detto che dormiva. Il fior di galantuomo invece stava pensando ai casi suoi.

Penetriamo sotto quel cranio color d'avorio ingiallito, coperto da quel berretto sporco, e vediamo che razza di pensieri sobbollano nelle ripiegature di quel cervello.

– La mia condizione non è delle più facili. Sono fra l'incudine e il martello, tenendo per questo e per quello, e corro rischio d'essere picchiato frammezzo a loro. Ho paura di non poter continuare a lungo in questo giuoco di barcamenarmi fra tuttedue; converrà che una volta o l'altra mi getti addirittura e compiutamente, da una parte; ma da qual parte? Eh! la cocca ha pure una gran forza. Ho visto io che ha resistito a tutte le persecuzioni ed a tutte le arti della Polizia; e vi è quel diavolo d'un medichino che ha un talento ed un valore da doverne far caso… Certo se mancasse lui!.. Ma farlo cadere non è mica impresa tanto facile… E poi ci avrei io il mio interesse? Anche tolto lui di mezzo, la cocca esisterebbe; e vi sono certi individui colà dentro che vendicherebbero ad ogni modo ogni danno recato alla Società ed al suo capo… La cocca inoltre mi frutta bene… D'altra parte la Polizia è cosa ancor essa con cui si deve fare i conti; e poi l'è roba di Governo; ed io sono pel Governo… Quel Barnaba è un furbo che mi pare abbia subodorato qualche zinzino del vero… Se la cosa venisse scoperta da altri, e ch'io rimanessi compromesso?.. Sarebbe pur meglio che io allora mi facessi merito presso il Governo, e per virtù di questo merito, salvassi la pancia e le robe!.. Il medichino vuol conoscere di persona Barnaba: s'e' lo conosce, Barnaba è bello e spacciato; Barnaba da lungo tempo viene manovrando per conoscere la realtà dell'esistenza ed anzi le sembianze del medichino: e s'e' lo vede mai, Quercia è fritto… Io posso contentar l'uno o l'altro; e da me dipende la catastrofe… Che cosa ho da fare?.. Se soddisfacessi i desiderii di tutt'e due? Lascierei così che facesse vincere, dei due, quello che vuole la Provvidenza…

Appunto in quella entrava Barnaba, il quale, non ostante la forza ch'egli possedeva su se medesimo e l'abitudine che aveva di padroneggiarsi, era tuttavia sconvolto nelle sembianze pel profondo e vivissimo scotimento che aveva avuto nel suo colloquio col Commissario. Nel venire in quel luogo egli aveva un disegno non ancora ben definito, ma fissato nelle generali, del quale era precipuo elemento il potere trovarsi un momento da solo con quell'imbecille di Meo, su cui aveva fatto alcun fondamento, abile com'egli era a sapersi giovare degl'interessi e delle passioni degli uomini come d'altrettanti stromenti.

Appena entrato, vide che per quel momento la cosa gli era impossibile. La presenza di Pelone e di Maddalena era un ostacolo insuperabile. Non mostrò il menomo disappunto, ed avanzandosi verso il bettoliere gli disse con accento di premura e di conturbamento che niuno, per quanto acuto osservatore, avrebbe potuto dire se sincero e reale:

– Ho bisogno di parlarvi, e subito.

Pelone si alzò lento lento a modo suo, guardando intorno coi suoi occhi semispenti dal fondo delle occhiaie infossate.

A Barnaba era nato in mente di botto un subito e nuovo disegno.

– Parlarmi! pensava l'oste: lo conduco dunque di là. Bell'occasione pel medichino di vedere, come desidera, codestui… Se lo mandassi ad avvertire?.. Ah sarebbe un tradire la promessa che ho fatto e la confidenza che in me fu posta… Mi pronunzierei con ciò addirittura per la cocca ad ogni costo… Eh! ci avrei la Maddalena da mandarvi.

In quella incontrò appunto col suo lo sguardo di Maddalena, la quale aveva negli occhi un lampo, un ammicco d'intelligenza cui Pelone comprese benissimo.

– Quella sgualdrina, figliuola di Satanasso che Dio la benedica, ha avuto la medesima idea… Sono certo che appena saremo entrati nell'altra stanza, essa se ne corre in Cafarnao passando per la bottega di Baciccia. Dovrei impedirglielo?.. Eh sì; come fare? A meno di rinchiuderla… E d'altronde, se glielo impedissi, ella mi denunzierebbe senza fallo al medichino; e allora… povera la mia pelle!.. Uhm! uhm! sarà forse meglio lasciar andare le cose come vogliono andare.

S'accostò col suo passo silenzioso e colla sua tosse profonda a Barnaba, e gli disse quasi in confidenza:

– Sono ai vostri ordini.

Barnaba passò primo nella stanza dell'uscio a vetri colle tendoline rosse, e l'oste lo seguì; ma nell'entrare egli potè vedere colla coda dell'occhio la Maddalena, che sgusciava fuori della porta d'entrata.

– La pettegola ci va davvero! Pensava Pelone: ora sì che mi trovo proprio fra l'incudine e il martello. Bisogna ch'io parli con costui di guisa da non destarne il menomo sospetto, e bisogna che chi mi ascolterà di dietro l'assito non possa arguirne tutto il tenore dei miei rapporti colla Polizia… Basta! Non sono poi così novellino da lasciarmi facilmente intascare.

Ma il discorso che di botto incominciò il suo interlocutore fu tale e così inaspettato per Pelone, che egli non potè a meno di rimanerne tutto sbalordito.

– Sai tu quello che mi capita, vecchio Pelone? Una cosa inaspettata, inaudita, una scelleraggine che non può aver la compagna… Oh va e frustati la vita, beccati il cervello e consuma i tuoi migliori anni e corri ogni maggior pericolo per servire a dovere i potenti ed il Governo… Ecco il bel compenso che te ne danno! Ecco la bella gratitudine che hai da aspettarti!.. Sai tu quel che mi capita, Pelone?

Con un atto che gli era abituale quando voleva fermare più specialmente l'attenzione della persona a cui parlava, strinse il braccio del bettoliere e soggiunse a voce più bassa:

– Io sono mandato via dal servizio senza un nè due, sono cacciato sul lastrico come si caccia fuor della porta a calci un cane che ha il torto di non piacer più ad un malvagio padrone. Che diventi arrabbiato, o crepi di fame, o gli uomini del municipio gli facciano tirar le cuoia col boccone avvelenato. Che importa?.. Io, io stesso, ne sono a quella, Pelone.

Questi non dissimulò punto il grandissimo stupore che gli cagionò un simile discorso di cui non avrebbe mai più sognato avesse da sentir l'uguale.

– Davvero!.. Possibile!.. Voi privato dell'impiego?

– Scacciato come un servo inutile od infedele, ti dico: ripetè Barnaba dando alla sua fisionomia tutte le sembianze d'un'ira e di un dolore che in realtà non aveva da far molto sforzo nè impiegar molta arte per fingere.

Ma in Pelone, che a prima giunta era stato preso dalla sorpresa della meraviglia soltanto, erano ora entrati il sospetto e la diffidenza.

– Uhm! diss'egli fra sè: adagio Biagio; qui c'è qualche tranello…

Tossì per due minuti di seguito affine di non aver da parlare, e intanto fissò ben bene quel suo sguardo affondato nella faccia dell'interlocutore; non potè a niun modo penetrare in costui, al di là di quella sembianza esteriore, maschera o verità che fosse, cui mostrava nell'espressione del viso.

– Ma come!.. Ma perchè successe egli codesto? domandò poscia Pelone quand'ebbe finito di tossire.

– Come? rispose con amarissima ironia il poliziotto. Perchè? Nella più semplice maniera e per la più legittima ragione del mondo. V'è per costà un'illustre cortigiana venuta su dal fango del trivio alla suntuosità d'un appartamento di primo piano, grazie alla corruttela di ricchi e potenti viziosi, fra cui primo un principotto dal cervello di passero e dal cuore di lucertola…

– Oh oh! esclamò scandolezzato Pelone; messer Barnaba, come parlate voi?

E intanto il furbo di bettoliere pensava:

– Questo è un tranello, gli è certo; in guardia. Pelone!

Barnaba da canto suo ficcò lo sguardo entro le affondate occhiaie dell'oste.

– C'è qualcheduno che possa udire le nostre parole qui? domandò egli bruscamente.

– Nessuno, nessuno affatto: rispose l'oste con premura; e mentre il poliziotto girava intorno uno sguardo scrutatore che pareva voler penetrar le muraglie. Pelone soggiungeva fra sè e sè:

– Ci sei tu, carino, che il diavolo possa torcerti il collo, maladetta d'una spia… e basta!

– Se dunque nessuno ci può sentire, lasciami parlare a modo mio, corpo di mille diavoli, chè la bile mi affoga: ripigliava Barnaba. Una sì nera ingratitudine non grida ella vendetta?.. Essi credono di potersi sbarazzare d'un uomo della mia fatta, come d'un babbeo qualunque: e s'ingannano. Darei non so quanto e sarei capace di non so che cosa per farla loro pagare…

Tornò a mettere la destra sul braccio dell'oste.

– Dà un po' retta, Pelone: aggiunse abbassando la voce. Ad un'associazione di individui coraggiosi e senza scrupoli che si vogliano ricattare col fatto loro dei torti che subiscono dalla sorte e dalla società, oh non ti pare che sarebbe un acquisto niente affatto disprezzevole quello d'un uomo come son io?

Pelone tossiva e guardava in terra.

– Non vi capisco: rispose di poi quando il suo compagno si fu taciuto ed ebbe aspettato per un poco la risposta.

Barnaba ricorse allo spediente d'un apologo.

– Ci sono due eserciti che combattono: un capitano, un soldato anche solamente, se vuoi, maltrattato da quelli per cui espone la vita, abbandona le insegne e si reca nel campo nemico ad arrecare in servizio di quelli che furono sin'allora suoi avversari un valore che gli sarà di meglio ricompensato. Quando questo nuovo combattente potesse in realtà giovare di molto alla parte a cui è rifuggito, non avrebbero gran torto coloro ai quali si offrisse, di respingerlo?.. Hai tu capito adesso?

Il bettoliere stette di nuovo un po' di tempo senza rispondere, poscia tentennando il capo ed osando guardare in faccia il suo compagno, disse tranquillamente:

– Io capisco poco. Le cose mi piacciono dette apertamente, senza arzigogoli e avvolgimenti. Se dunque volete ch'io vi possa fare una categorica risposta, abbiate la compiacenza di spiegarvi pianamente, da buon cristiano, senza favole ed esempi.

Il poliziotto che aveva preso e tenuto sino allora un tutto nuovo contegno di famigliarità amichevole, quasi da camerata, ritornò di presente in quello che sempre aveva avuto per l'innanzi verso il bettoliere: un contegno di superiorità autorevole insieme e motteggiante, di superbia e di scherno.

– Cospetto! Non l'avrei mai supposto che fosse così duro il tuo comprendonio. Tu vuoi dunque che io metta, come si suol dire, i punti sopra gl'i?.. Bene! Stammi a sentire. Che tu sei un fior d'onest'uomo, questo si sa. Preso una volta, giovanetto ancora, a rubare con poca prudenza, assaggiasti del carcere; ma codesto fu per te di un meraviglioso profitto. La prudenza ti venne. Comprendesti che colla Polizia era cosa da pazzo l'urtare di fronte. Le diventasti amico e servitore; continuando nelle antiche attinenze coi ladri facesti intanto per essa onestamente la spia.

Pelone mostrava con evidenza di trovarsi in un poco gradevole momento. Dimenava sulla panca su cui erasi seduto, la sua lunga persona dinoccolata; ed un istante il suo sguardo si volse spaventato verso un punto della parete, tutt'intorno coperta sino ad una certa altezza di tavole di legno. Fu un movimento ratto come un baleno, ma pur tuttavia l'occhio esperto ed osservatore di Barnaba che stava intentissimo a scrutare le sembianze del suo compagno, quell'occhio da uccel di rapina lo vide. Scoccò ancor egli, il poliziotto, una guardata verso quella parte. Pelone s'accorse dell'errore a cui s'era lasciato andare, e curvato più giù il suo corpo macilento, ruppe in una tosse più forte, più violenta e di maggior durata del solito. Barnaba lo guardò a tossire in silenzio: quando l'oste ebbe finito riprese con tutta tranquillità il discorso come se non fosse stato in alcun modo interrotto.

– Tu dunque da una parte porgi una mano soccorrevole ai ladri che la sanno unger bene, dall'altra prendi dalla Polizia denaro e tolleranza per certe maccatelle, al prezzo di darle di quando in quando tra mano qualche miserabile che tu vendi.

Un altro accesso di tosse assalì il povero Pelone che si trovava ad un vero supplizio; e anco una volta un intimo impulso più forte di lui gli fece correre lo sguardo a quel certo punto della stanza.

– Cospetto! che razza di tosse maligna che tu hai quest'oggi!

– Ah! la ho sempre pur troppo: rispose con tono dolente e colla sua voce più cavernosa che mai l'oste, i cui sguardi esprimevan insieme spavento e supplicazione; ma oggi la mi tormenta ancora di più. Gli è questo tempo così freddo che mi rovina. Se sapeste quanto soffro! Son di belle notti che dormo punto o poco; e giusto la notte scorsa fu per me una delle più triste…

– Mi rincresce tanto: interruppe con beffarda insolenza Barnaba; ma siccome non ci so che fare, lasciami riprendere il nostro discorso.

– Il diavolo che lo strozzi, brutto arnese da forca, diceva fra sè stesso, masticando colle denudate gengive la sua stizza, il bravo bettoliere; che sì che là dietro vi può essere qualcheduno della cocca, che udendo codesto è capace di farmi qualche brutto complimento.

– Or dunque, continuava il poliziotto, io vengo da te, che hai sì buone attinenze dall'una parte e dall'altra, che vai coi santi in chiesa e coi ghiottoni all'osteria…

– Ho capito: disse vivacemente Pelone agitando la testa dall'alto in basso come un bamboccio chinese: ho capito perfettamente ciò che mi volete.

– Benone! Che sì che l'intelligenza ti si è svegliata in buon punto!

– Ma quello che voi volete, è impossibile, perchè nell'apprezzare la mia condotta voi mi calunniate stranamente. Io protesto e riprotesto che con quei tristi arnesi a cui voi fate allusione, non ho relazione di sorta.

– Eh via! vuoi tu pigliarmi per uno sciocco? Sai che da lungo tempo ti conosco.

Pelone fece un movimento.

– Tu dubiti della sincerità delle mie parole, riprese Barnaba con vivacità. Hai ragione. Farei lo stesso anch'io nei panni tuoi; certo dubiteranno ancora più di te quelli a cui comunicherai le mie proposte…

– Ma io non comunicherò nulla a nessuno, interruppe l'oste agitando la mano e il capo in una mossa protestatrice, perchè io non conosco nessuno, perchè io non so nulla di codesti affari.

Barnaba continuò come se la interruzione non avesse avuto luogo.

– Di' loro, a quei cotali, che io sono pronto, quando vogliano, a dar prove tali della mia buona fede, innanzi a cui ogni dubbio ed ogni sospetto deve sparire.

– Vi ripeto…

– Siamo intesi… Ti lascio tempo a pensare alle mie parole, a deciderti e fare la mia commissione… Questa sera sul tardi passerò di qua, come al solito Sarà assai bene per te se mi potrai già fare una risposta; e meglio ancora se quella risposta sarà secondo il mio desiderio…

– Impossibile, impossibile, caro sor Barnaba, perchè proprio, in coscienza, in santa e vera verità io con quella gente non…

– Che se tu non vuoi fare a mio talento in codesto, sappi che non mi mancheranno altri modi per giungere al mio scopo, che so già fin d'ora quali altre strade aprirmi per arrivarci, e che a te la falò pagare ad ogni costo.

– Ma…

– Ora basta… Andiamo di là che ho due parole da dire alla tua Maddalena…

Nella stanzaccia non c'era che Meo, il quale tirava dei sospironi grossi, curvo sopra il braciere.

– E Maddalena? domandò Barnaba. È forse costì sotto?

Meo scosse la testa coll'aria addolorata d'un uomo che ha mal di denti.

– No.

– Dov'è?

– Fuori.

Pelone finse una gran collera.

– Sempre così quella sgualdrina d'una sgualdrina, pettegola, che Dio le mandi un accidente… Appena io ho voltato le spalle, la mi sguscia via per andare a chiaccolare… e far peggio.

Meo trasse un sospiro più forte di tutti i precedenti.

– L'aspetterò un momento: disse Barnaba. Frattanto che aspetto, tu, bel giovane, vai dal tabaccaio e mi compri un paio di sigari; tò un da quattro soldi.

Il giovinastro si alzò a malincuore, prese la moneta ed uscì con evidentissima mala voglia.

Barnaba stette ancora pochi minuti e poi fece l'atto d'un uomo che si ricorda di colpo d'una cosa cui aveva obliato. Guardò il suo oriuolo e disse:

– Per bacco! Non pensavo più che avevo un affare a cui provvedere proprio adesso. Conviene ch'io vada. Parlerò altra volta a Maddalena.

S'avviò all'uscio.

– E Meo coi sigari? domandò Pelone.

– Lo incontrerò per via, e se non l'incontro, mi terrete voi i sigari in disparte e serviranno per un'altra volta.

Quello di mandar Meo in commissione era stato uno spediente immaginato da Barnaba per aver modo di poter dire due parole a quello scimunito senza che le udisse il padrone nè Maddalena, i quali vegliavano con molta cura su di lui. Uscendo dall'osteria prima che Meo fosse rientrato e fermandolo per la strada, Barnaba sarebbe pur finalmente riuscito a ciò per cui dopo il colloquio col Commissario aveva pensato di venire a quella taverna.

Ma mentre egli stava per partirsene, ecco soprarrivare correndo la Maddalena. Entrò coll'impeto d'una bomba, si tolse di capo un fazzolettino con cui aveva riparato le sue chiome dalla neve e si scosse dalle spalle e dalle braccia quella che vi era caduta su.

– Dove sei stata? donde vieni disgraziatella che… Dio ti benedica! le disse Pelone a cui la debolezza dalla voce non consenti di gridare.

– Vengo da fare una commissione, oh bella! rispose la giovane correndo di nuovo innanzi allo specchietto a raggiustarsi i capelli.

– C'è qui il signor Barnaba che ti vuol parlare…

Maddalena s'interruppe nella sua opera d'acconciatura, si volse a mezzo della persona sulle sue anche bene sviluppate e guardando con istupore il poliziotto si mise una mano sul seno per additarsi e disse meravigliata.

– A me?

– Si, Maddalena; e di cose che molto v'interessano e per cui mi sarete riconoscente, ne sono sicuro.

La ragazza fece spalluccie ed allungò il labbro inferiore in una smorfietta che significava:

– Non so a niun modo che cosa possiate dirmi voi che abbia alcun interesse per me.

– Ma ora, continuava Barnaba, non ho più il tempo. Verrò stassera: ed allora vi toglierò per dieci minuti ai vostri soliti adoratori.

Maddalena fece un cenno d'acconsentimento indifferente, e Barnaba uscì.

– Se crede trarmi nelle sue panie quel pocaccorto li; disse la giovane guardando con ischerno dietro il poliziotto che partiva; e' la sbaglia di grosso.

Pelone si fece accosto accosto alla giovane e le disse con voce tanto sommessa che non era più che un soffio:

– Dove sei tu andata cara figliuola?.. (che il diavolo la porti): soggiunse fra le gengive.

Maddalena volse verso il padrone il suo muso impertinente.

– Dove? diss'ella… To': ecco là qualcheduno che ve lo dirà per bene.

L'oste si voltò a quella parte che Maddalena gli additava. L'uscio a vetri dello stanzino s'era socchiuso senza rumore di sorta, e frammezzo alla apertura compariva la faccia da faina di Graffigna che faceva cenno a Pelone andasse a parlargli.

Maddalena era corsa con tutta la possibile velocità alla bottega del Baciccia, e colà aveva domandato la si lasciasse introdursi nel sotterraneo dove aveva roba di gran premura da fare e dire, e dove per quel momento non si poteva penetrare dalla taverna.

Baciccia che conosceva le strette ed intime attinenze che passavano fra costei e il capo della cocca, non fece la menoma difficoltà per lasciarla penetrare dal segretissimo usciuolo nell'andito che sotto il suolo del cortile e le fondamenta delle case conduceva nel cosidetto Cafarnao: e dieci minuti dopo essersi partita dall'osteria, la giovane entrava impetuosa e sollecita nel vasto stanzone che vi ho descritto nella seconda parte del mio racconto.

Colà poco prima di lei era entrato eziandio Andrea il fabbro, il povero marito di Paolina. Ma egli v'era penetrato nel modo seguente:

Uscito dall'ospitale in cui dolorava senza cognizione di sè la misera sua moglie; uscito dall'asilo in cui erano stati accolti i suoi figli sui quali egli aveva pianto e i quali avevano pianto con lui, come se un'eterna separazione dovesse aver luogo fra loro, Andrea aveva raggiunto Marcaccio, risoluto ad ogni cosa; ed animato com'egli era tuttavia dal vino, dal dolore vivissimo, dal furore contro lo spietato Nariccia, facilmente, senza più il menomo riluttare, era stato condotto dal perfido amico là dove li attendeva Graffigna, nella bottega da rigattiere di Baciccia.

– Caro mio, aveva detto Graffigna ad Andrea colla sua voce fessa e il tono dolcereccio, qui conviene prestarsi ad una piccola formalità: quella di lasciarvi bendar gli occhi e camminare così, tenuto per mano, un dieci minuti o un quarto d'ora, che tanto ci vuole ad arrivare all'entrata di quel luogo in cui devo introdurvi. Lo volete?

– Voglio: rispose laconicamente Andrea coi denti stretti da quell'ira profonda che tutto l'occupava.

Marcaccio, che non era abbastanza innanzi nella gerarchia della cocca per penetrare in Cafarnao, era partito appena aveva condotto il compagno innanzi a Graffigna.

Questi chiuse ben bene l'uscio che metteva nella bottega del rigattiere; poi aprì un armadio e fece comparire agli occhi d'Andrea un quadro in cui una grossolana stampa di Madonna alluminata a colori i più stonati del mondo, e intorno al quadro un arazzo di seta rossa a frangie d'oro, e dinnanzi per due ganci appiccati, due candele di quelle pitturate a fogliami che si sogliono distribuire dai sacrestani ai devoti (per averne la mancia) il dì della Purificazione della Vergine.

Graffigna con tutta la gravità e la compunzione che avrebbe potuto avere un sacrestano di professione, accese le due candele, poi trasse dinnanzi all'immagine Andrea meravigliato, levò di tasca uno stile la cui lama acuta luccicava al chiaror rossigno che mandava la fiamma delle due candele, e con accento pieno di solennità, gli disse:

– Voi avete ancora da giurare che di quanto vi capita qui, adesso, di quanto state per fare e per vedere, in qualunque siasi circostanza, per qualunque siasi ragione o minaccia, voi non vi lascierete sfuggire parola alcuna con persona al mondo, nè anco colla più intima, e se mancate al giuramento questo ferro vi punisca nella vita presente, e Iddio vi condanni come spergiuro ai tormenti eterni nella vita futura.

In quell'epoca dell'anno la notte viene sollecita, più sollecita ancora in quelle straduzze strette in cui s'apriva il fondaco di Baciccia, e in giornate, com'era quella, di cattivissimo tempo. La retrobottega in cui la luce del giorno non penetrava che per una finestrucola aperta in un cortiletto cui avreste detto benissimo un pozzo scavato in mezzo alle alte case, era a quell'ora già più che a mezzo nelle tenebre; e tale oscurità conferiva a fare la voluta impressione nell'anima di Andrea da tutte le precedenze già troppo disposta ad essere facilmente maneggiabile dall'arte di Graffigna.

Andrea giurò quasi tremante, colla più sincera e ferma determinazione di non tradir mai quel giuramento; e allora il suo iniziatore, spente le candele, richiuso l'armadio, gli cinse le tempia d'un fazzoletto così bene e fortemente legato, che ci fosse stata in quella stanza anche la luce del pien meriggio, egli non avrebbe visto che notte compiuta. Poscia Graffigna lo prese per mano e gli disse:

– Ora ci conviene ancora fare un bel tratto di cammino prima di giungere all'entrata del luogo dove ho da condurvi; datemi la mano e venite senza timore. Per ora la via è tutta piana; quando vi sarà da discendere, ve ne avvertirò.

Lo prese per mano e lo fece avviarsi. Ad Andrea parve di andare, andare per lunga tratta, udì aprirsi e richiudersi diverse porte, e quando il suo conduttore gli disse poi: – Eccoci ora all'ingresso del nostro rifugio; – egli credeva d'essere di molto lontano da quella scura stanza di retrobottega, in cui gli avevano bendati gli occhi. Il vero era invece ch'egli non n'era punto uscito e che altro non gli si era fatto fare che dar le volte colà dentro, aprendosi e chiudendosi di quando in quando sempre la medesima porta che era quella per cui dalla retrobottega medesima si penetrava nel piccolo andito, dove un uscio accuratamente dissimulato metteva sulla scala per scendere nel sotterraneo.

Qui Graffigna lo fece scender piano piano dopo aver accuratamente chiuso alle loro spalle l'usciolo segreto, e traverso il lungo corridoio sotterra lo condusse in Cafarnao, dove finalmente gli levò la fascia dagli occhi.

Andrea guardò stupito intorno a sè. La luce che vi ho detto penetrare in quel luogo da certe feritoie onde si rinnovava l'aria eziandio, in quel momento per l'ora del giorno già avanzata faceva difetto del tutto: il luogo non era illuminato più che dalla lampada pendente dal mezzo della vôlta.

– Or su, qui non c'è tempo da perdere nè da stupirsi: disse bruscamente Graffigna ad Andrea: ecco qui tutti gli strumenti che vi possono occorrere pel vostro mestiere. Qui potete lavorare con tutta tranquillità, sicuro che nessuno verrà a disturbarci il meno del mondo. Io vi aiuterò ad accendere il fuoco e tirerò il mantice. Eccovi le impronte di cera; mettetevi di buon animo all'opera e fatevi onore.

S'erano appena messi alla bisogna, quando, come per contraddire alle parole di Graffigna, all'uscio ch'egli aveva chiuso dietro di sè (quell'uscio che per alquanti scalini metteva nella rotonda in cui facevano capo i tre sotterranei) s'udì un picchiare con un dato numero di colpi ed a certi intervalli.

Andrea fece un trasalto e impallidì.

– Non temete di nulla, gli disse Graffigna sorridendo, qui non ci può penetrare nemico nessuno, e quel modo di battere rivela un amico dei più intimi.

Andò ad aprire e si trovò in faccia la Maddalena affannata dall'essere corsa con tanta sollecitudine.

– Che cosa c'è? domandò Graffigna.

– Il medichino è qui? di rimbalzo interrogò Maddalena.

– No. Per che cosa siete venuta a cercarlo?

Maddalena gli disse la ragione.

– Collo da forca! esclamò Graffigna tutto lieto. La cosa non potrebbe andar meglio. È a me che tocca esaminare il muso di quel coso là. Il medichino me lo ha specialmente raccomandato, e mi preme farmi onore levandocelo dai piedi. Brava la mia ragazza. Voi tornate a casa vostra per la strada da cui siete venuta: io m'affretto pel corridoio al mio posto d'osservazione.

Maddalena partì com'era arrivata, e Graffigna disse ad Andrea:

– Io mi allontano di qui per pochi minuti soltanto, voi continuate allegramente nell'opera vostra e non abbiate timore nessuno che non tarderò a ritornare e con delle buone provvigioni per darvi forza al lavoro e passare allegramente i momenti di riposo.

Nel partire chiuse dentro a chiave il fabbro e pel corridoio sotterraneo corse dietro l'assito della stanza riposta dell'osteria di Pelone.

Appena ebbe posto l'occhio al bucherello per cui si vedeva entro la stanza, gli comparve innanzi la faccia sbarbata di Barnaba.

– Buono! diss'egli fra se medesimo. Nè il nome, nè la faccia non mi scappano più.

Stette ascoltando. Il poliziotto si offeriva d'entrare nell'associazione dei malfattori.

– Che stupido! pensò Graffigna crollando le spalle. Ed ei si pensa che noi diam dentro in simil rete grossolana?

Quando Barnaba fu uscito, Graffigna aperse pian piano l'usciolo nascosto nell'intavolatura, e sgusciato nel camerino, comparve poi, come vedemmo, agli occhi di Pelone che chiamò perchè gli andasse a parlare.

L'oste si recò con premura nel camerino.

– Avete udito quel che qui si è detto? domandò egli a Graffigna non senza una certa ansietà.

– In parte… Quel Barnaba ha detto che sarebbe tornato qui stassera sul tardi: è quello che ci vuole. Bisogna che voi troviate modo di farlo fermarsi qui il più tardi possibile…

– Come ho da fare? domandò Pelone, che guardava il suo interlocutore con una specie di paura.

– Che? Non sapreste da voi stesso trovare un espediente per ciò? Ditegli, per esempio, che avete comunicato la sua proposta a certuni, i quali desiderano parlare con lui direttamente e verranno qui dopo la mezzanotte…

– Ma codesto gli è confessare che io conosco quella certa gente.

Graffigna si strinse nelle spalle.

– Trovate voi qualche cosa di meglio. L'importante è che costui non esca di qua se non dopo la mezzanotte. Prima di quell'ora le strade non sono ancora ben sicure per un colpo, e poi c'è grande adunanza stassera e ci avrò da fare. Ch'egli si avventuri in queste strade dopo mezzanotte, e il suo conto sarà saldato.

Pelone fu preso da un accesso di tosse, il che lo esentò dal manifestare in qualunque modo una sua idea.

– Siamo dunque intesi: soggiunse Graffigna, che prese il silenzio dell'oste per un assentimento, e se la cosa mi va male per colpa tua, guai a te!.. Ora dammi un paio di bottiglie di quel suggellato e qualche coserella da mettere sotto il dente, che ci ho là un operaio da mantenere in buona voglia e in buon umore.

Prese vino, pane e salame e tornò pel sotterraneo presso Andrea, che continuava nella sua opera di fabbricar le chiavi.

Barnaba intanto, uscito dall'osteria di Pelone, diresse i suoi passi verso la più vicina bottega da tabaccaio a cui pensava che quell'imbecille di Meo doveva essere andato. Lo incontrò diffatti a pochi passi da quella bottega, che veniva di ritorno alla taverna.

– Meo, gli disse arrestandolo, vieni un momento qui sotto questa porta che ti ho da dire due parole.

Il giovinastro seguì Barnaba sotto la vôlta d'un portone lì presso, e quando furono colà trasse di tasca i due sigari che aveva comperato e i due soldi che glie n'eran rimasti.

– To'; eccole la sua roba: diss'egli.

Barnaba prese i sigari e respinse la mano che teneva le due monete di rame.

– Que' soldi tientili; e' son per te.

Lo scimunito allargò tanto d'occhi a quel dono che era molto lontano dall'aspettarsi, e mise in tasca i due soldoni con una certa vivacità che svelava come la sua grossa natura non fosse inaccessibile alla seduzione del denaro.

– Bisogna che io ti parli a lungo e sul sodo di certe cose che ti interessano e ti toccano da vicino più che non credi: così continuava il poliziotto: ma bisogna che ciò avvenga in segreto, senza che alcuno possa sospettare, e tanto meno Pelone e la Maddalena. Per ora tu sei atteso in bottega e non ti conviene soverchiamente indugiarti; ma questa sera bisogna che tu prenda un'occasione qualunque di scappolartela e di venire ad un convegno ch'io ti darò per sentire ciò che occorre… Hai capito?

Meo guardava chi gli parlava colla sua solita aria melensa e non faceva la menoma parola nè il menomo atto di intelligenza e di risposta.

Barnaba lo prese ai panni e scuotendolo un poco quasi per destarne gli spiriti, ripetè:

– Hai tu capito?.. Ho cose gravissime da dirti che t'interessano… Potrai guadagnare delle belle somme…

Accostò le labbra all'orecchio di Meo e soggiunse:

– E vendicarti di Maddalena e del suo amante.

Gli occhi di vetro dell'imbecille Meo all'udire accennate le somme ch'ei poteva guadagnare, mandarono un baleno, ma a quest'ultime parole si accesero vieppiù e sfavillarono come se ad un tratto si fosse suscitata dietro di loro la fiamma dell'intelligenza.

– Ah vendicarmi di loro! esclamò, di lui sopratutto!.. Certo che sì… Verrò dove Lei vuole… Mi dica pure il luogo e l'ora… Avessi anche da scappare dalle mani di mastro Pelone, verrò.

– Vieni alle otto ore precise sotto il portico del Palazzo di Città. Ci sarò ad aspettarti; e non mi vi indugierò più di cinque minuti. Se tu manchi, bada bene che perdi l'occasione di fare un buon guadagno e di aver ragione della crudeltà di Maddalena a tuo riguardo.

– Verrò: ripetè di nuovo l'imbecille rotando furiosamente i suoi occhi. Ne sia sicuro.

Si separarono; Meo per tornare all'osteria, Barnaba dirigendosi verso la casa abitata da Maurilio e dai suoi giovani amici.

– Oh stranissima macchina umana! Mormorava fra sè Barnaba, camminando a capo chino: tutte tutte, per quanto forti o intelligenti, per quanto limitate ed imperfette, tutte hanno una susta che toccata le fa agire come si vuole. Benedetta la passione! Essa governa il mondo umano con irrefrenabile potere; e chi sa giovarsene mette le mani sulle briglie con cui si menano gli uomini e quindi gli eventi.

Quando sora Ghita, la portinaia, vide comparirle innanzi l'incognito della sera precedente, provò un misto tale di sentimenti che perfino la parola le mancò per un momento. Era stupore e indignazione insieme, sospetto e paura. Quell'uomo entrò con tutta franchezza come si entra in casa d'un conoscente, e disse colla domestica scioltezza d'un amico:

– Buon giorno sora Ghita. Lei sta bene? Ne godo molto. Ho da parlarle da solo a sola. Mi rincresce disturbarla da sì aggradevole compagnia, ma io vengo mandato da tale e per tali faccende che non c'è da indugiare menomamente.

Si chinò presso la cuffia madornale della portinaia e le disse piano:

– Vengo mandato dal sig. Commissario di Polizia.

Ghita mandò un grido di terrore ed alzò le mani al di sopra della sua faccia conturbata.

Barnaba si volse verso le comari che facevano un circolo di occhi curiosi e di faccie interrogative intorno alla Ghita ed al nuovo venuto.

– Madame, diss'egli facendo scorrere sulle vecchie uno sguardo severo ed imperioso: abbiano la bontà di lasciarci.

Le comari, spaventate da quella guardatura, non ostante tutta la loro curiosità si affrettarono verso la porta e parvero gareggiare a chi uscisse prima. Barnaba e Ghita rimasero soli nella loggia.

– Sora Ghita, incominciò di botto il primo dei due; in alto luogo non si è contenti di Lei.

La portinaia strabiliò.

– Come! diss'ella tutto commossa. Non si è contenti di me? Perchè? Che cosa ho io fatto? Nessuno può dir tanto così sul mio conto, per nessun verso; e se il signor Commissario, come Lei dice, la manda qui per rimproverarmi, la lo può accertare che fui calunniata.

E il poliziotto, coll'aspetto il più severo e minaccioso:

– Ella tien mano ai nemici del Governo.

– Io? Gesù buono! Come si può dire una calunnia falsa di questa fatta?

– Ella sparla degli atti e dei funzionari del Governo di S. M.

La Ghita si ricordò delle parole che aveva dette poco prima contro le prepotenze della Polizia: ma non si smarrì d'animo e gridò più forte di prima:

– Non è vero, non è punto vero.

In quella una carrozza tirata da un sol cavallo ma di prezzo, si fermò innanzi alla porta di quella casa; un giovane di occhi e capelli neri, di abito e maniere eleganti, ne discese lestamente, e di fretta entrato sotto l'andito si diresse verso le scale.

La portinaia e il poliziotto avevano interrotto il loro colloquio per guardare questo nuovo arrivato. Barnaba, appena vistolo, aveva fatto un moto come di gioia, e poi s'era tirato vivamente indietro per non lasciarsi vedere. Il giovane era passato senza gettare pure uno sguardo nella loggia della portinaia.

Appena passato quel giovane, Barnaba riprese con ancora più minaccioso contegno ed accento:

– Ieri sera io l'ho interrogata se quel signore che è venuto adesso adesso capitasse talvolta in questa casa, ed Ella me lo ha recisamente negato.

– Quel signore! esclamò la portinaia; ma io non l'ho mai visto, è la prima volta che viene.

Barnaba fissò ben bene la vecchia e le disse, pesando sulle parole:

– Quel signore è il dottor Quercia.

– Me ne rallegro tanto: rispose franca la portinaia: ma io non ho mai avuto il bene di conoscerlo neanco di nome, ed è la prima volta che lo vedo.

Il poliziotto prese la sua aria più tremenda.

– Badate bene! diss'egli. In queste cose non si scherza!.. Abbiamo molte ragioni di dubitare di voi…

– Di me? esclamò sora Ghita mettendosi tuttedue le mani sul petto, coll'accento dell'innocenza meravigliata per una calunnia. Dio buono! Santa Madonna della Consolata! Di me che sono una povera donna che non faccio male a nessuno e che rispetto tutte le autorità… oh domandi, domandi un po' nel quartiere che cosa si dice della Ghita, e sentirà; che una più onesta donna, non fo per vantarmi, ma si trova raramente sotto le stelle.

– Intanto qui in questa casa abitano parecchi giovinetti che non hanno timor di Dio nè rispetto del Governo.

– Ed io che cosa ne posso?.. Non son mica io la padrona di casa da poterneli scacciare.

– E voi li proteggete…

– Io? Benedette le cinque piaghe! Non li proteggo niente affatto. Discorro con qualcheduno di loro quando talvolta, passando, mettono il naso nel camerino; ma io non ci ho nulla, proprio nulla da che fare con essi.

– Sono amici di quel cotale avvocato Benda che è un rivoluzionario di tre cotte; e presso costui è allogato a servire, e gli si dà molta confidenza, vostro marito.

– Ma Lei sa bene che io e mio marito ce la diciamo come l'olio e l'aceto… L'aceto gli è lui… Di tutto quel che faccia o dica quel disgraziato là, io non ne so nulla, non ne voglio saper nulla, non ci entro per nulla.

– Le parole valgon poco, cara sora Ghita, ci vorrebbero i fatti.

– I fatti? Che fatti? Mi dica Lei che cosa ho da fare.

– Al signor Commissario premerebbe assai di essere informato di tutte le volte che quel dottor Quercia, quel signore che avete veduto passare un momento fa, se ne viene in questo luogo.

– Ed io ne lo dovrei informare?

– E sarebbe tanto di meglio se poteste dire, anche soltanto approssimativamente, ciò ch'egli venga a fare costassù con quei giovani.

Sora Ghita capì benissimo che quel cotale stava proponendole onestamente di far la spia, e chinò il capo in una grande perplessità. La cosa non le andava molto a genio, ma d'altronde ella aveva tanta paura della Polizia!

– Come vuole che io faccia per saper di queste cose? balbettò ella. Non posso mica tener dietro a chi viene e sgusciare con loro nei quartieri dove entrano.

– Il pittore Vanardi ha una moglie che chiacchera molto volentieri. Una donna accorta come voi dovrebbe sapere farla parlare.

– Ma… riprese la povera sora Ghita più perplessa che mai.

Il poliziotto non le lasciò aggiungere altre parole.

– Avete questa sola maniera di provare immeritati i sospetti che avete fatto nascere sul vostro conto: diss'egli con accento di autorità imperiosa.

In quel momento un grosso corpo opaco che passava innanzi al finestrino gettò un'ombra nella loggia: i due interlocutori si volsero a guardare chi era e si videro davanti la faccia onesta e il corpo madornale di Bastiano, il portinaio della casa Benda.

Come essi videro lui, così Bastiano vide pure quelli che erano nel camerino, e riconobbe nell'uomo l'agente di Polizia che era stato a fare la perquisizione in casa de' suoi padroni. Gli occhi del buon Bastiano diventarono come quelli d'un mastino che vuol mordere: e' si fermò su due piedi e sembrò volere aprir l'uscio della loggia ed entrarvi, ma poi quasi ravvisatosi, continuò il suo cammino verso la scala.

– Sapete chi è colui? Domandò Barnaba con una minacciosa ironia alla portinaia rimasta in asso. Lo conoscete quell'uomo?

– Pur troppo! balbettò la donna che in cuor suo mandava ai cento mila diavoli, più che non avesse fatto mai prima, il marito.

– Voi non potrete più negare, io spero, le attinenze fra codestoro quissù e la gente laggiù della fabbrica.

– Io non ho mai negato niente.

– E sapete che cosa è venuto in mente al sig. Commissario sul vostro conto?

– Che cosa mai? domandò la portinaia con molta ansietà.

– Che quello screzio che mostrate avere con vostro marito non sia che un inganno…

Sora Ghita protestò con tutta la vivacità e la forza di cui era capace.

– Oh questa poi!.. Dica al signor Commissario che prima vorrei lasciarmi tagliare il collo… guardi quel che dico!.. il collo, che aver da fare con quel bestione di mio marito.

– Sora Ghita, sarà la vostra condotta ulteriore che determinerà i giudizii del signor Commissario ed i miei. Siamo dunque intesi!.. Non occorrerà che voi abbandoniate la vostra loggia per recarvi al Palazzo Madama. Passerò io qui da voi, di quando in quando, la sera sul tardi; e voi mi direte allora tutto quello che è capitato, tutto quello che avete veduto, tutto quello che in qualunque siasi modo sarete arrivata a sapere. E più saprete e meglio sarete ricompensata di poi.

La portinaia non osò negare, nè assentire; stette in silenzio, col capo curvo, e naturalmente il poliziotto prese quel suo contegno come un assenso. Barnaba fece ancora un atto di tacita raccomandazione ed uscì.

– È stata una buona ispirazione quella di venir qui: pensava egli allontanandosi a passo lesto da quella casa. Ora ho la materiale certezza che il Quercia ha relazione con codestoro che molto probabilmente sono affiliati a qualche società segreta. Tengo in pugno lo spirito timoroso della portinaia, e così colui lo vengo circondando tutt'intorno di fili che ad un momento si possono serrare e pigliarlo nella rete… Oh ci arriverò! ci arriverò!

Frattanto Bastiano era salito su fino all'alto quarto piano dove abitavano i giovani amici.

Francesco, liberato dalla cittadella e tornato a casa nel modo che vedremo fra poco, impaziente di sapere che cosa ne fosse degli amici suoi, lo aveva mandato a prenderne le novelle.

Quand'ebbe fatta l'ambasciata, il portinaio della casa Benda credette bene raccontare a Selva, a Maurilio ed al dottore Quercia che lo avevano ascoltato e gli avevano risposto, come lì sotto presso la Ghita avess'egli visto adesso adesso quel cotal poliziotto che era venuto alla fabbrica e che con tanta prepotenza aveva agito verso Giovanni.

Quercia corrugò minacciosamente le sopracciglia e lasciò vedere io mezzo la fronte quella sua riga caratteristica.

– Ah sì? diss'egli. Questo è un fatto di cui bisogna tener conto.

E fra sè pensò:

– Sempre quel medesimo!.. Bisogna ad ogni modo che Graffigna me ne liberi e il più presto possibile.

E in quel momento medesimo Graffigna stava appunto comandando a Pelone di fare in modo da trattenere il poliziotto nell'osteria fin oltre la mezzanotte, per avere all'uscita di lui dalla taverna più facile il modo di accoltellarlo.

– Guardatevi bene, continuava Quercia: io conosco le arti di siffatta gente. I discorsi di codestui colla portinaia non sono senza un perchè. Io ci scommetto che in quella donna questo agente poliziesco si è fatta una esploratrice: e forse forse l'arresto vostro e quello di Benda già furono cagionati dalle ciarle di lei.

Bastiano, all'udire queste parole, scosse il capo e voltò gli occhi all'insù con espressione di sdegno profondo, mentre la sua mano accarezzava il pome di quel grosso bastone che soleva portar seco sempre come fido compagno.

– Che sì che quella gazza maledetta n'è capace: diss'egli. Una lingua che non tacerebbe nemmanco sui carboni ardenti… Ma corpo del diavolo! Adesso vado a dirgliene io quattro!..

Discese le scale furibondo ed entrò coll'impeto d'una catapulta nella loggia della moglie. Il pensiero che le ciarle di costei avessero potuto nuocere al padroncino lo mettevano fuor di sè dalla collera.

La Ghita, da parte sua, non era in uno dei momenti più acconci per tollerare in santa pace le invettive di chicchessiasi e specialmente del marito. La comparsa di lui in punto così inopportuno l'aveva sdegnata come una vera improntitudine ed impertinenza dell'uomo, a suo riguardo. La vista di Bastiano, sempre spiacevole alla brava moglie, in quell'occasione erale stata spiacevolissima e ce l'aveva con lui maledettamente.

Bastiano, come entrò senza cerimonie nel camerino, così saltò senza preamboli nel mezzo del discorso.

– Brutto mostro d'una linguaccia perfida, degna delle staffilate! Che sì ch'io non so chi mi tenga dal farvi assaggiar ben bene di questo randello traverso le spalle, per mostrarvi a tenerla a segno una volta…

La donna inviperita non potè tollerare più a lungo in silenzio. I cannelli della sua cuffia madornale fremevano d'indignazione; le guancie erano diventate color di mattone cotto e il naso color di un peperone d'Asti. Bastiano gridava forte colla sua voce da basso profondo; ma la Ghita si cacciò a gridare ancor più forte colla sua voce strillante insieme e nasale.

– Oh malnato d'un villanaccio senza sugo e senza creanza!.. Che cos'è questo tono da spaccamontagne? Che cosa sono queste parolaccie da facchino?.. Credete voi di farmi paura con quel ceffo da orso, prepotentone che siete?.. Non è più il tempo in cui, povera donna, mi toccava star sotto un bestiale di marito… So farmi rispettare e so dove trovar protezione contro le violenze d'uno scellerato…

Cominciando in questo gentil modo il discorso voi potete agevolmente indovinare qual corso tenesse. I due contendenti ebbero in breve esaurito tutto il dizionario degl'improperii, e ciò in tono tale che tutte le comari del vicinato, scacciate dalla venuta di Barnaba, tornarono nel camerino ansiosamente curiose.

La Ghita che aveva già avuto cotanto coraggio da sola contro il marito, figuratevi come fu più audace ed aggressiva ancora quando si vide rincalzata dalla frotta delle sue comari, le quali non è da dire se presero tostamente le parti della loro compagna.

Il povero Bastiano ebbe una violenta tentazione di menare attorno il suo bastone sopra quel branco di oche che gli sbraitava intorno; ma il suo buon genio lo trattenne da un tanto scandalo. Si ritirò in buon ordine innanzi all'incalzante battaglione delle donnaccole, e si limitò uscendo a gettare come ultima minaccia queste parole a sua moglie:

– Ricordatevi che se la vostra lingua è cagione d'un sol dispiacere ad alcuno dei miei padroni, io vi faccio ballare senza suono una monferrina indemoniata…

La voce di Bastiano fu coperta dagli strilli delle vecchie comari che perseguitarono il fuggente, la Ghita in capo come duce e trionfatrice, sino sulla soglia del portone; ma ciò nulla meno la portinaia che conosceva l'umore e il polso del marito sentì penetrarsi quelle parole nell'anima ad accrescere in lei quella perplessità che le aveva lasciato il colloquio avuto coll'agente della Polizia.




CAPITOLO VII


Quando Maurilio, accompagnato da Don Venanzio, giunse in casa il pittore, dov'egli abitava, fu accolto da Vanardi e dalla Rosina con ogni dimostrazione d'affetto, a cui il giovane corrispose non senza alcun intenerimento dell'anima. Dopo questi primi saluti e rallegramenti, Maurilio domandò tosto alla moglie del pittore gli restituisse quegli oggetti per lui preziosissimi, ch'egli partendo avevale consegnato, e Rosina glie li diede.

– Mio buon padre, disse Maurilio additandoli a Don Venanzio che ben conosceva che cosa fossero e che cosa valessero pel suo giovane amico quel rosario e quel bottone: oggi a proposito di questo mio piccolo tesoro, ho avuto una grande emozione.

E raccontò al buon parroco ciò che era capitato quando quel ragazzo ch'egli aveva fatto venire affine di istruirlo, aveva per azzardo visto quel bottone e riconosciutolo compagno ad uno cui possedeva la sua nonna.

Don Venanzio parve dare una certa importanza ancor egli a questo fatto.

– Tu hai avuto una buona ispirazione ed hai cominciato a fare un'opera assai buona volendo educare ed istruire quel bambinello; ed ecco che la Provvidenza te ne vuole di subito ricompensare, forse, porgendoti un filo da penetrare nel mistero della tua nascita. Il filo è tenue, è verissimo, e sarebbe imprudente il concepirne da codesto troppe vive speranze; ma pure io son d'avviso che non si debba trascurare e sia da tentarsi di andarne a capo.

Maurilio disse che già era sua intenzione recarsi presso quella donna e interrogarla in proposito, e che ciò farebbe di quel giorno medesimo. Sopravvenuto di poi Giovanni Selva, come quello che era conscio di tutto, venne chiamato a consiglio, e fra lui e don Venanzio decisero che meglio del giovane della cui sorte si trattava, un altro avrebbe potuto colla conveniente freddezza interrogare la donna, pesarne la risposta, esaminarne i contegni, e giunger forse ad un più sicuro risultamento, e fu determinato che Selva medesimo e il buon parroco si recherebbero di compagnia essi stessi in casa quella vecchia, della quale Maurilio, in quel momento, non ricordò più che il soprannome di Gattona.

E ci sarebbero andati senz'altro indugio, poichè Don Venanzio con Maurilio aveva oramai scambiati quei discorsi con cui due che si amano, dopo un intervallo di tempo che non si sono visti, sogliono mettersi in giorno l'un dell'altro delle proprie cose, quando avvenne che inaspettato e come mandato anch'egli colà dalla mano del destino sopraggiungesse Gian-Luigi.

Il vecchio sacerdote non avea punto cessato di amare quell'altro dei due cui potuto avrebbe chiamare suoi figliuoli d'adozione: dei due che in realtà a lui dovevano la vita dello spirito, il risveglio dell'intelligenza, all'uomo più preziosi che non la vita materiale e lo sviluppo delle forze fisiche.

Molti anni erano che Don Venanzio non aveva visto più Gian-Luigi. Dal colloquio che ebbe luogo fra costui e Maurilio nella taverna di Pelone, abbiamo appreso che il figliuolo nutrito col latte della povera Margherita e da essa allevato coll'amore più che di madre, mai più non era tornato al villaggio, nè tampoco aveva colà dato segno nessuno più della sua esistenza; nelle sue gite a Torino il buon parroco mai non aveva avuto rincontro di quel giovane, ed altro più non aveva saputo di lui fuor ciò che glie ne apprendeva Maurilio il quale ad un punto disse che ancor egli avea cessato di vedere Gian-Luigi, e nulla più conosceva de' fatti suoi.

La sera innanzi, come vedemmo, il caso (Don Venanzio avrebbe detto la Provvidenza) aveva messo a fronte di nuovo i due compagni di sorte, i due amici d'infanzia, i due trovatelli. Codesto avveniva giusto appunto quando Gian-Luigi, affondatosi, per così dire, più che mai nella sua opera tenebrosa e tremenda di rivoluzione sociale, innanzi alle crescenti, agglomerantisi, spaventose vicende della catastrofe, non si smarriva già menomamente dell'animo, non sentiva già inferiori al còmpito la sua forza, l'audacia e la volontà, ma capiva che sommamente gli sarebbe riescito utile il concorso di un'altra intelligenza pari e forse a certe discipline più acconcia e forse meglio nutrita di studi e per più vasta potenza di comprensione abbracciante un maggiore àmbito d'idee. Aveva pensato all'intelligenza di Maurilio. Si pentì allora di non averselo tenuto legato al proprio destino, di aver disconosciuto e trascurato il soccorso che da lui poteva avere nella sua impresa. Dove sempre l'avesse conservato nella sua intimità e nelle domestiche consuetudini della vita, egli si lusingava che quell'affetto ammirativo cui Maurilio provava un tempo pell'amico suo di così brillanti doti fornito, che quell'influsso cui la sua volontà tenace e robusta, la sua forza operosa d'iniziativa esercitavano sull'anima più mite del compagno, avrebbero ottenuto che i suoi pensieri, le sue voglie, i suoi disegni, diventassero i disegni, le voglie e i pensieri di Maurilio, il quale in servizio loro avrebbe posto quell'ingegno non comune che Gian-Luigi gli riconosceva.

Forse non sarebbe andato a cercarlo; ma poichè la fortuna glie lo conduceva dinanzi, Gian-Luigi si era proposto di nulla pretermettere per associare alla sua intrapresa ed al suo destino l'antico compagno. In quel primo colloquio che avevano avuto all'osteria, subitamente interrotto dall'arrivo di Barnaba, innanzi a cui Gian-Luigi era scomparso, per ragioni che ora sappiamo: in quel colloquio l'audace capo della cocca avea capito che da una grande distanza, quasi da un abisso erano stati separati gli animi suo e di Maurilio in quegli anni che erano trascorsi senza che più si vedessero. Non si disse che ciò proveniva da che egli fosse camminato e di buon passo nella strada del male, dove ad ogni tappa aveva perduto alcuno de' suoi buoni istinti, smagata o corrotta alcuna delle sue buone qualità, mentre invece Maurilio od era rimasto su quel terreno dove lo avevano collocato i risultamenti dell'educazione di Don Venanzio e della maturanza della propria intelligenza, oppure eziandio era proceduto nella via del bene; ma avvertì che oramai l'uno e l'altro parlavano una lingua diversa e che per intendersi occorreva, da parte di lui, che era quello il quale desiderava penetrare sino all'animo ed al cervello dell'amico, occorreva, dico, uno sforzo maggiore e fors'anco un'arte di simulazione delle più accorte, affine di non urtare fin dalle prime nelle suscettività morali dell'altro.

Questa difficoltà, invece di stornarlo dal tentativo o disgustarnelo, aveva anzi aizzato il petulante amor proprio di Gian-Luigi e il giorno susseguente all'incontro avuto nella taverna, appena dalle molte sue occupazioni ebbe un momento di libero, l'elegante giovane che nella società era salutato col nome di dottor Quercia, s'affrettò verso l'abitazione di Maurilio, di cui questi la sera innanzi gli aveva dato l'indirizzo.

Entrò nel modesto quartiere dei giovani con quell'agiata e naturale eleganza di mosse con cui entrava nei saloni delle feste e negli stanzini delle signore. La signora Rosina ne fu abbacinata, e raccontò essa poi che quel bel giovane erale sembrato un'apparizione avvolta in una nube eterea di patchouli. Maurilio, che non credeva Gian-Luigi fosse per effettuare nè così presto, nè tardi, nè mai la sua promessa di venire da lui, mandò una leggera esclamazione di stupore. Don Venanzio, che era lontano le mille miglia dal pensare che l'altro suo allievo gli comparisse davanti colà, in quel modo, non lo riconobbe a tutta prima e si alzò da sedere per salutare il nuovo venuto, con quella deferenza che si meritava l'alto grado sociale cui egli, giudicando dagli abiti e dalle maniere, sembrava occupare.

Gian-Luigi si fermò un istante sulla soglia prima d'inoltrarsi nella stanza in cui erano Maurilio e Don Venanzio. Al veder quest'ultimo non mostrò nè contrarietà, nè stupore, quantunque tale incontro fosse il più inaspettato del mondo e non dovesse essergli dei meglio graditi. Illuminò la sua fisionomia del più schietto e cordiale sorriso, e negli occhi gli brillò uno dei più lieti e simpatici sguardi ch'egli possedesse nel suo arsenale di seduzioni. Rattamente, colla facilità del suo fertile cervello egli aveva già concepito un disegno, mercè cui la presenza del vecchio prete doveva servirgli appunto a vincere le ostili prevenzioni che aveva notate in Maurilio contro di lui.

Si accostò adunque a Don Venanzio, l'aspetto commosso, gli occhi quasi umidi di pianto, una espressione nel volto e nel contegno di devozione, di affetto, di intenerimento da non dirsi.

Il buon parroco lo guardava tutto stupito e quasi ansioso. Gli pareva e non gli pareva di riconoscere quelle sembianze: sentiva nel cuore una specie di agitazione, quasi un palpito; voleva dire: Tu sei quel desso, e non osava.

– E la non mi riconosce più? domandò Gian-Luigi con quella sua voce vibrante e melodiosa, che era un'altra delle sue più efficaci seduzioni. Oh che Ella mi avrebbe del tutto dimenticato?

E più abile che un abilissimo commediante, lo scellerato aveva tale un accento di tenerezza, di rincrescimento, di effusione che nemmeno il più diffidente degli uomini ne avrebbe sospettato la sincerità.

Il primo impulso nel vecchio sacerdote fu l'esplosione della sua tenerezza quasi paterna.

– Gian-Luigi! esclamò egli con voce tremante per l'emozione, allargando le sue braccia.

Il giovane mandò un grido di gioia.

– Ah! mi ha ancora riconosciuto!

E si abbracciò con passione al buon parroco, che piangeva – egli – lagrime vere.

Ma dopo un istante la commozione in Don Venanzio lasciò luogo ad altro sentimento che da tempo gli stava nell'animo verso Gian-Luigi. Si sciolse dalle braccia di lui, ed allontanandosene un poco lo guardò dal capo alle piante con subita freddezza, quasi con sospetto, con evidente rimprovero.

– Cospetto! diss'egli: come voi siete vestito da signore! Avete dunque trovato per davvero il modo di arrivare quelle ricchezze, dietro cui anelavate con tanta passione?

Gian-Luigi fece un gesto leggiero e sbadato colla mano, come per dire: – questo per ora è quello che meno importa; e poi rispose con un accento in cui si sarebbe potuto notare un po' d'impazienza, ma tuttavia con inappuntabile rispetto:

– Sì, dopo molte fatiche e dopo molti travagli sono riuscito a raccapezzar qualche cosa e far valere alquanto i fatti miei… Ma di me, se le aggrada, discorreremo fra poco… Ora permetta alla mia impazienza che io la interroghi subito di quella persona che insieme con lei Don Venanzio, mi sta più a cuore, mi sta solamente a cuore, devo anzi dire, in tutto il nostro villaggio… Che nuove ha da darmi della buona Margherita?

Don Venanzio e Maurilio scambiarono un rapido sguardo per comunicarsi la gradita sorpresa che loro faceva questa richiesta sulle labbra di Gian-Luigi. Quanto a costui, nell'accento delle sue parole e nell'espressione del suo viso, mostrava, per colei che domandava, il maggiore interessamento che uom possa sentire per una creatura vivente.

– Ah la povera Margherita? disse il parroco ripetendo questo nome con un'intonazione che era un rimprovero. Vi ricordate adunque ancora un poco di lei?

Gian-Luigi fece un atto di vivacissima protesta.

– Se me ne ricordo!.. Ah voi tutti avete giudicato male di me, pel mio silenzio, pel mio apparente oblio di quell'infelice?.. Anche Lei, Don Venanzio, coll'anima sua sì mite e sì generosa!..

Il sacerdote volle parlare, ma egli non glie ne diede il tempo.

– Oh! non la condanno, nè mi dichiaro offeso… Ella ebbe in parte ragione… Sì, ho fatto male; avrei dovuto io digiunare, io piuttosto morir di fame e mandare a costo di qualunque siasi sacrifizio alcun soccorso a quella santa donna… Ella mi guarda con istupore, mio buon Don Venanzio, Ella non può comprendere com'io, vestito di questi panni, con questo florido aspetto di prosperità, parli di digiuno e di fame… Ma Ella nella sua vita modesta e ritratta non sa, non può nemmanco sospettare i misteri, i dolorosi, talvolta vergognosi misteri della vita cittadina che si nascondono sotto le apparenze d'uno sfoggio d'accatto… Lo dissi ier sera a Maurilio, le cui parole chiaramente mi espressero quelle rampogne cui con tanta mitezza ora mi adombrarono il suo stupore in vedermi, la sua interrogazione, mio buon Don Venanzio; fu un tempo in cui mentre portavo nei salotti eleganti la mia faccia sorridente e le mostre d'una ricchezza che non avevo, più volte mi rodeva le viscere il tormento della fame; e i pochi guadagni ch'io poteva fare, le poche rivalse cui mi riusciva in qualsiasi modo raccogliere, sa Ella come impiegavo? Qualche soldo appena a comprarmi in segreto, la sera, nascondendomi come per commettere una vergognosa azione, un pezzo di pan nero; e il resto a procurarmi guanti color di butirro, stivalini di vernicato e a farmi inanellar la zazzera dal parrucchiere alla moda!.. La mi dirà ch'ero pazzo, che mi facevo martire volontario d'una stupida vanità cui è un adulare il chiamarla ambizione; ma per me, pel mio sogno d'avvenire, pei miei disegni era una necessità. Ridevo crudelmente di me meco stesso, mangiavo con amaro dispetto, quasi con disprezzo di me quel tozzo di pan nero; mi dicevo, imprecandomi, che meglio la esistenza del villano che suda sull'aratro, che dico? meglio quella del galeotto che trascina la sua palla infame; ma non pensavo pure a cambiar di cammino, non pensavo a pentirmi; era mia sorte, era mio dovere continuare, o soccombere come un animale che crepa alla fatica, o riuscire.

«Don Venanzio, bisogna aver compassione di questa mia pazzia – se vuole così chiamarla. Essa è parte essenziale della mia natura: io sono venuto al mondo con essa; e per isradicarla da me avrebbe bisognato ben altra forza, ben altra indole che la mia non sia. Non se ne ricorda? Fin da bambino siffatti istinti si svegliarono nel mio essere e stupirono e spaventarono la sua prudente antiveggenza. Di molto ha Ella fatto per combatterli e vincerli; e nulla potè a ciò riuscire. Io credo che nel mondo conviene prendere gli uomini come sono, colle facoltà, le disposizioni, e quasi direi le attribuzioni che ha loro dato la natura. Da questa varietà di caratteri si genera lo infinito viluppo delle vicende del dramma umano di cui noi non possiamo vedere, nè indovinare, nè anco in alcun modo immaginare lo scioglimento e la ragione. A Lei, Don Venanzio, per parlare il suo linguaggio, dirò come, poichè la Provvidenza manda nel mondo questi varii tipi di individualità differenti, conviene pure che ciascuno abbia una sua parte necessaria nel concerto universale, e che dunque soffocare queste speciali tendenze, ridurre questi particolari caratteri alla norma comune, imbrancandoli nel gregge delle pecore che camminano per una via soltanto, è forse mancare eziandio alla suprema volontà e togliere un elemento al concorso dei molti su cui la sapienza regolatrice ha fatto assegnamento.»

Tentennò il capo Don Venanzio, poco persuaso dalla buona fede di Gian-Luigi in questa teoria delle cause finali.

– La Provvidenza, diss'egli gravemente, ma senza il pedantesco accento del predicatore, ci accorda varii istinti ed attitudini diverse, perchè diversamente possiamo concorrere alla grande e sublime unità dello scopo comune: ma questo scopo è il bene: ed hanno ad essere domati ed altrove rivolti quegli stimoli e quelle tendenze che ci piegano al male. Per questi la risultanza ultima non può essere stimata affatto buona se gli effetti più prossimi ed immediati cominciano per essere cattivi.

Gian-Luigi proruppe con impeto:

– Ah! ci sono certi affetti e passioni che misurarli alla piccola norma comune è errore.

Si raffrenò tosto: riprese la sua calma primitiva e la serenità sorridente.

– Ma io non son venuto qui per discutere: continuò egli. Ho già ammesso fin da principio che ho potuto aver torto. Però quello cui tengo a stabilire si è che il mio torto non fu così grave come Lei, Don Venanzio, e tu stesso, Maurilio, hanno creduto. Mi sarebbe stato possibile con quel modicissimo peculio che mi fu dato dagli eredi del mio protettore avviarmi per una vita rassegnatamente oscura e per ogni verso modesta: ed allora avrei potuto subito soccorrere d'un po' di pane la mia vecchia nutrice. Io volli invece tentare di metter la mano su più splendida sorte, tutto avventurare per tutto acquistare. Quando fossi riuscito non era più un misero soccorso soltanto, ma era la ricchezza ch'io avrei recata alla vecchiaia di quella donna che mi tenne luogo di madre. Come già dissi, ho lottato, ho sofferto, fui sul punto di cadere nella disperazione più volte. La perseveranza, la tenacità e il coraggio mi giovarono pur finalmente. Non sono ancora arrivato dove e come voglio: ma sono sulla strada, inoltrato forse più che della metà. Fra poco tempo – forse dei giorni soltanto – sarò alla meta. E frattanto da quella ricchezza che tanto tempo ostentai, senza possedere, incomincio ad avere favori e larghezze… Sono venuto qui a trovar Maurilio, perch'egli – e' m'era dolce la cosa passasse per le sue mani – facesse avere a Lei, Don Venanzio, questo migliaio di lire per la povera e buona Margherita. Ma la fortuna mi volle essere benigna di tanto da farmi trovar qui Lei medesimo, nostro buon padre, e son lieto di poterla pregare di viva voce di voler accettare quest'incarico di sovvenire con questa somma la mia nutrice.

Trasse di tasca un rotolo di napoleoni d'oro incartocciato, e lo porse al sacerdote, il quale lo prese con qualche esitazione.

– Mille lire, disse Don Venanzio, tenendo il rotolo fra le sue dita con un certo riguardo; è una ricchezza per quella povera donna: ma le riuscirebbe assai più gradito il dono, se tu stesso, Gian-Luigi, venissi a recarglielo, se tu stesso, come buon figliuolo fa per la madre, provvedessi ad acquistarle con siffatta somma ciò di cui ella abbisogna.

– Ha ragione, rispose Gian-Luigi, e codesto farei molto volentieri, glie l'assicuro, se lo potessi, ma pur troppo gravissime, pressanti e numerose occupazioni mi tolgono dal potermi recare per alcun tempo al villaggio… Ma le accerti alla buona Margherita, la prego, che appena mi sia fattibile – il che vuol dire fra una settimana o due al più – io mi recherò costà a vederla, a vedere quei cari luoghi pieni di tante memorie…

Si volse a Maurilio che era sempre stato muto fino allora, immobile, col suo sguardo penetrativo fisso sulle avvenenti sembianze del suo compagno d'infanzia.

– Ci andremo insieme, Maurilio, non è vero? Mi sarà più caro ancora il far teco questo primo pellegrinaggio di ritorno alla nostra piccola Mecca.

Maurilio fece un segno d'assentimento, ma non disserrò le labbra.

– Sta bene, disse allora il buon parroco, il quale, mezzo persuaso già dalle parole di quell'ingannatore, cominciava a trovarne minori i torti, ed aveva ripreso verso di lui l'accento affettuoso e cordiale di paterna tenerezza. Tu mi parli delle tue occupazioni che sono gravissime e numerose; ma quali son esse?

Il giovane non mostrò il menomo imbarazzo, e rispose con una specie di allegra leggerezza, facendo ballare colla mano inguantata i gingilli che pendevano dalla sua catenella d'orologio:

– Quali? Sono di vario genere… Prima di tutto, Don Venanzio, saluti pure in me un luminare della scienza medica, un dottore che ha saputo diventare, come si suol dire, alla moda.

– Medico! Come? Tu fai il medico?

– Sì signore. Non per tutti, non esclusivamente. Scelgo i miei clienti e le occasioni…

– Ma io ho sempre creduto che tu non avessi manco finito il corso di medicina.

– Finito e strafinito: esclamò Gian-Luigi dicendo questa bugia con più sicurezza che altri avrebbe avuta affermando una verità. Sono il medico prediletto delle signore che hanno i vapori e dei ricchi personaggi d'importanza che digeriscono male. Non accetto paga, ma mi forzano a prendere dei regali che valgono più del doppio… Non c'è mezzo migliore per farsi pagar caro che il non voler nulla. Ad un povero medico che sia un pozzo di scienza, ma che si presenti infangate le scarpe, il cappello frusto e gli abiti che mostrano la corda, non si aprono le soglie eleganti dei palazzi dei ricchi; ed è molto se lo si stima degno di curare i servitori: lo si paga e lo si tratta come un operaio qualunque. Al signor dottore che ha carrozza e veste come un milionario si spalancano i penetrali del tempio di Pluto. Io sono creduto in società un ricco che presta il soccorso della sua scienza a qualche amico per favore; poichè non ho bisogno, si crederebbe offendermi non regalandomi il doppio di quel che mi viene. Ma questa è la parte minore dei miei proventi. Faccio delle operazioni bancarie col re della nostra Borsa, il cavalier Bancone, a cui ho dato qualche consiglio per domare la sua gotta. Per riconoscenza egli mi fa da filo d'Arianna nel labirinto dei giuochi di Borsa. Ho cominciato per trafficare di capitali che non avevo: adesso faccio fruttare e rimpolparsi i guadagni avvenuti.

Don Venanzio aveva di nuovo nella sua fisionomia da galantuomo un'espressione di scontentezza:

– Io non me no intendo bene, diss'egli, ma questo non mi pare un lavoro serio.

– Seriissimo: rispose Gian-Luigi: perchè è quello che frutta di più.

– E onesto? soggiunse il prete.

– Certo! Il signor Bancone e i pari suoi sono gli uomini più stimati del mondo.

Don Venanzio si curvò nelle spalle.

– Sarà, conchiuse, ma io preferirei vederti medico nel nostro villaggio, guadagnar poco e far molto bene a quella povera gente.

Gian-Luigi interruppe vivamente con una strana intonazione nella voce:

– Oh di far bene alla povera gente io mi occupo di molto, e non solo alla povera gente del villaggio dove fui allevato, ma a tutta quella delle nostre contrade, e non negli angusti limiti soltanto che sono concessi ad un povero medico di campagna, ma in quelli fra cui spazia l'azione di un governo.

Don Venanzio guardava il giovane con tanto di occhi.

– Ella non mi comprende, soggiunse Gian-Luigi sorridendo, nè mi può comprendere, nè io mi posso per ora spiegare di meglio. È un segreto lavoro per cui sono venuto a cercare la collaborazione di Maurilio, e per cui quindi gli chiedo un colloquio sull'istante da solo a solo.

Il vecchio sacerdote guardò bene in volto l'uno e l'altro dei due giovani coi suoi occhi limpidi e sereni, e poi disse con quell'accento di paterna bontà che gli era naturale:

– Non capisco che cosa possa essere e non voglio capirlo… Possiate voi veramente essere così bene ispirati e così addotti sopra una buona via da ottenere alcun bene ai miseri che soffrono; ma permettete al vostro vecchio pastore di ricordarvi un consiglio di cui mi pare pur troppo abbiate bisogno ambedue; quello che nulla si fa di bene se non si procede col santo timor di Dio… Ora vi lascio soli, ed io con quel tuo amico, Maurilio, se gli è di comodo, andremo a trovar quella vecchia di cui ci hai dato l'indirizzo.

Maurilio ringraziò vivamente il parroco che così volesse far subito; Selva, che non aveva in quel punto occupazione nessuna, acconsenti sollecito di accompagnare Don Venanzio, e mentre i due trovatelli avevano il colloquio che vedremo nel capitolo seguente, Giovanni ed il parroco si recavano in casa la Gattona.




CAPITOLO VIII


Appena rimasti soli Gian-Luigi e Maurilio, il primo s'accostò vivamente al secondo e incominciò con vivacissimo accento:

– Maurilio, io ti leggo nell'animo. Il tuo freddo silenzio mi parla più chiaro d'ogni parola. Tu diffidi di me; mi sospetti e sei presso a disistimarmi… Tu mi hai visto ieri sera colle vesti del povero nei ritrovi del povero; poi collo sfoggio del ricco nel convegno elegante dei gaudenti del mondo, e ti domandi: che cosa son io, che faccio? in qual razza di Proteo si è tramutato il tuo compagno d'infanzia? Ebbene, gli è verissimo: sono un mistero, e lo sono per tutti così bene che pochi o nessuno sospettano pure in me, sotto la maschera dell'uomo gaio e leggiero di società, sotto le spoglie del damerino e dell'epicureo, l'individualità d'un proposito e la stoffa d'una volontà. Vengo a svelarti questo mistero… non per platonico trasporto d'amicizia, ma perchè – te l'ho detto ieri sera – perchè la mia risolutezza e l'audacia de' miei disegni hanno bisogno del tuo cervello.

Fece una pausa; Maurilio, sempre silenzioso, sostenendo colla sinistra delle sue grosse mani la fronte vasta e protuberante, abbassò la destra verso il compagno con atto che voleva significare:

– Parla.

Gian-Luigi trasse un profondo sospiro come uomo che ha il petto gonfio da qualche non lieve emozione, e coll'accento spiccato e misurato di chi studia le sue parole od anzi meglio dice parole studiate e preparate, continuò:

– Con te non occorre usare il linguaggio che bisogna parlare a quel buon Don Venanzio. Questo sant'uomo ha sempre vissuto in un guscio, e la sua esperienza e la scienza delle cose del mondo non eccedono la ristrettissima cerchia di un'anima che non ha mai avuto passioni, d'un cervello che non ha mai avuto idee al di là di quelle permesse dal catechismo. Tu soffri delle ingiustizie della sorte assodate nell'assetto sociale, egli in ogni fatto benedice il volere di Dio: tu hai capito e capisci la necessità della riforma, anzi della rivoluzione nell'ordinamento attuale dell'agglomerazione umana: egli non sente e non apprezza che la impotente e miserabile virtù della rassegnazione. Se io venissi a dire a quel buon vecchio: la necessità di cambiare quest'organamento che soffoca i tre quarti delle intelligenze umane, che costringe alla miseria i tre quarti degli uomini, si è fatta sentire su me più che su altri; ha pesato con mano più cruda su di me, quasi appunto per suscitare nella mia personalità appassionata uno stromento della rivoluzione della plebe, per crearmi tribuno e vindice del proletariato, per farmi sorgere apostolo e guerriero dell'emancipazione delle classi povere, ed io ho accettato il carico e mi sono sobbarcato all'impresa, Don Venanzio mi griderebbe spaventato il vade retro Satanas…

Maurilio l'interruppe e disse con voce lenta, fiacca, quasi svogliata:

– Ed è codesto che sei venuto dire a me?

Gian-Luigi guardò ratto intorno a sè, come per assicurarsi ancora che nessuno potesse udire: poi si curvò verso il compagno e rispose con forza:

– Gli è questo.

Maurilio scosse leggermente la testa.

– Una molto superba parte ti sei assunto: disse egli col tono medesimo di prima. Come ti sei sentito tu consacrare cosiffatto campione? Qual cosa o chi ti assicura in tanta impresa? Come Giovanna d'Arco, chiamata per salvar la Francia, hai tu sentito le voci del Cielo chiamarti per redimer le plebi?..

Gian-Luigi interruppe con impazienza:

– È ella un'ironia codesta?.. Cotale risposta non mi sarei aspettata da un compagno d'infanzia come sei tu e da un'intelligenza qual'è la tua… Ebben sì; le ho sentite le voci del Cielo. Le ho sentite nella mia anima, nelle torture che io ho provato, e son quelle che provasti anche tu, nelle miserie di tanta parte del genere umano, nella crudele ingiustizia del mondo che rigetta dalle sue gioie il povero ed il debole, che per lasciarmi penetrar di straforo nell'oasi de' suoi godimenti mi ha obbligato ad infingermi e mentire. Noi empiamente condannano i costumi e le leggi: queste fondamento a quelli: bisogna rovesciare le une e gli altri.

– Rovesciare! rovesciare!.. Tu ne parli con molta agevolezza! L'edifizio non è così corroso alle fondamenta che un urto basti a sconquassarlo. Posa sopra una larga base cui, non foss'altro, l'abitudine ha contribuito a formare.

– Questa base siamo noi, i poverelli, i derelitti, i miserabili. Gli è sulle nostre spalle opprimendoci ch'esso regge. E se noi ci levassimo?

– Come farlo?

– Ecco quello ch'io ho studiato e preparato; e che ti dirò se tu vuoi essermi compagno all'impresa.

– Rovesciare!.. Ammettiamo pur anco che tu ci riesca… E poi? Avrai accumulato intorno a te un caos di rovine. Come potrai far sorgere l'edifizio novello? E saprai tu costrurlo? Ci vuole la potenza dei secoli. Un equilibrio dopo un più o men lungo scombuiamento riuscirà certo a stabilirsi; ma chi può assicurare che in questo nuovo equilibrio l'umanità starà meglio di prima? E non sarà pagato troppo caro questo ancor meno felice stato novello dalla terribilità della crisi avvenuta?

– Tutte queste cose, credi tu che io non le abbia pensate?.. Forse a ricostrurre quel nuovo edifizio la tua intelligenza può essermi utile: ecco perchè io son venuto. Sento in me quanto esser debba il coraggio che affronta una simile risponsabilità, e questo coraggio io lo possedo. Ho lavorato finora nell'ombre, ma la mia opera è spinta oramai tanto innanzi che dal mio cenno dipende lo scoppio. Ancorchè tu mi manchi, questo cenno lo darò. Dal medesimo travaglio anche sanguinoso del conflitto, sorgerà la legge della civiltà avvenire. La società ora si viene corrompendo sempre più nel marasmo: come la natura, ha bisogno di quando in quando che alcuno sconvolgimento la desti e la fecondi per creazioni novelle. La rivoluzione è il percoter della selce: ne sprizzerà una scintilla…

– E intanto si cammina verso l'ignoto. Non è vero che la natura proceda per iscosse violente e che il cataclisma sia l'elemento necessario d'ogni progresso nella creazione. Più attentamente esaminata la storia della natura è un lento e graduato svolgersi coll'opera del tempo. Così è dello incivilirsi del genere umano e del perfezionarsi delle forme sociali. Codesto procede in seguito all'azione di certe leggi morali, che forse un dì si scopriranno e definiranno, come furono scoperte e definite le leggi fisiche. Un uomo non può sostituire al giuoco di queste leggi il suo privato giudizio e la propria audacia. Finora non vi fu che un solo Messia sulla terra, e tu non puoi aver l'idea di dover essere il secondo. È l'opera di molti uomini, di molte generazioni che deve far ciò che tu sogni di ottenere ad un tratto. Per redimere la classe più infelice della società attuale, la plebe, non basta riporla materialmente in alto mandando in frantumi le attuali forme dell'ordinamento sociale; conviene che questa povera gente in prima venga rendendosi degna di stare là dove si vuole farla pervenire. Metti in mezzo alle ricchezze sociali le brutalità della plebe ineducata, e che cosa ne avverrà?..

– Ma quando a guidare questa plebe ci sieno intelligenze superiori – le nostre, per esempio?..

Gian-Luigi prese a Maurilio una mano e glie la strinse forte.

– Maurilio! soggiunse. Noi possiamo avere in pugno quella forza meravigliosa – dirigerla a nostro talento.

– Illusione! Rompi le dighe dell'Oceano, e poi cerca di regolare le onde irrompenti. Senti, Gian-Luigi!.. La mia idea è che i tuoi tentativi, qualunque essi sieno, cadranno nel nulla.

Gian-Luigi fece un movimento.

– E così mi auguro che avvenga: soggiunse vivamente Maurilio.

– Così non avverrà, disse fieramente Gian-Luigi. Soccomberò forse, ma in un mucchio di rovine.

– Soccomberai senza pure le rovine. Tu hai nemiche tutte le potenze del mondo, il denaro, i governi, la religione. E che vuoi tu fare da questo piccolo angolo di terra contro tutta la moderna civiltà europea? So che tu hai cercato alleanza nelle congiure politiche, come la rivoluzione politica ha cercato un sostegno nella questione sociale…

– Ah! tu lo sai? domandò con meraviglia Gian-Luigi.

– Sì, e giudico che soccomberete tutti…

– No, per Dio! Qui non sarà tutta concentrata la lotta. Il segnale della grande rivoluzione scoppierà nelle nostre mura, ma si ripercoterà nelle città principali, e là specialmente dove la cresciuta industria del secolo ha creato più grandi agglomerazioni di proletari e in questi maggior coscienza dei loro diritti. Abbiamo relazioni colla Francia, col Belgio, coll'Inghilterra, colla Germania stessa, e dappertutto la rivoluzione politica si cambierà, appena sorta, in quella sociale… Io sono uno dei capi nelle cui mani vengono a serrarsi i fili di tutta questa rete, a me lo stringerli o l'allentarli: ho bisogno di un ingegno capace che m'aiuti nell'opera, ed ho pensato a te. Vuoi tu esser quello?

Maurilio scosse il capo in segno negativo.

– A noi due l'impero in questa società che ci ha disprezzati: soggiunse Quercia con voce bassa quasi affannosa.

– Ah! tu mi tenti come Satanasso tentò Cristo: disse sorridendo Maurilio. Ma tutto è inutile. Non istimo vantaggiosa all'umanità l'impresa: non la credo possibile, e condanno assolutamente i mezzi che tu hai pensato di poter scegliere.

Un lieve rossore corse alle guancie di Gian-Luigi.

– Che vuoi tu dire? interrogò egli lampeggiando dagli occhi.

E Maurilio, con calma, e quasi afflitto:

– Ieri sera alla taverna di Pelone ho scoperto qual fosse l'individuo che porta il nomignolo di medichino famoso nella cronaca dei delitti…

Gian-Luigi questa volta impallidì; ma in mezzo la sua fronte si disegnò quella tal ruga che conosciamo. Sorse di scatto, e disse con impeto e con accento di comando:

– Taci! Non più una parola!

Passeggiò in lungo e in largo per la camera alcuni istanti: poi si piantò di nuovo innanzi a Maurilio:

– Ebben sì, son io quello… Vuoi tu perdermi? Vammi a denunziare al commissario Tofi, e n'avrai buon premio.

– Gian-Luigi! esclamò con rampogna Maurilio.

– Dovresti farlo! Avresti così tolto di mezzo un accanito ed implacabile nemico di quella società che tu hai preso a difendere così bene.

Si serrò colle due mani la sua bella fronte da statua greca.

– Tu credi ai miei delitti? ripigliò dopo una piccola pausa, con voce soffocata. Oh Maurilio! Chi ci avesse detto che ci saremmo trovati in questa guisa dopo tanto tempo che non ci siam più visti, quando eravamo tuttidue bambini al villaggio!.. Tu l'hai conosciuto fin d'allora, ch'io non poteva passare in mezzo al mondo ed estinguermi come una bollicina di schiuma nel mare. Non fosse che la fama d'Erostrato, qualche rumore si ha da fare intorno al mio essere… Un giorno converrà che tu sappia quali circostanze mi hanno trascinato là dov'io sono: allora forse mi compatirai… Se nella mia opera vinco, tutto il mio passato sarà come distrutto, assorbito nell'apoteosi della gloria; se soccombo non vi sarà imprecazione e disprezzo che basteranno ad infamarmi… Sono un Catilina; se Catilina avesse trionfato, Cicerone sarebbe stato un calunniatore, e Sallustio avrebbe fatto il panegirico del ristauratore della repubblica romana.

In quel momento entrarono solleciti Don Venanzio e Giovanni Selva che tornavano dopo aver parlato colla Gattona. Tutti due avevano nelle sembianze una certa emozione.

– Maurilio: disse il sacerdote con voce concitata; abbiamo da parlarti.

– Li lascio in libertà: soggiunse Gian-Luigi. Addio Maurilio! Quando ci rivedremo molte cose, forse, saranno cambiate… E forse allora mi conoscerai meglio.

Non gli tese la mano, nè Maurilio porse la sua; salutò con molto affetto il vecchio parroco.

– E posso annunziare la tua visita alla buona Margherita? domandò quest'ultimo.

– Sì, rispose allegramente Gian-Luigi, appena finito il carnevale.

Ed uscì col medesimo sorriso col quale era entrato.

– Andiamo da quella povera Ester, si disse scendendo le scale; a quest'ora Jacob non ci sarà, e quando sopraggiunga me ne farò dare i denari.




CAPITOLO IX


Torniamo nel sucido cortiluccio del ghetto in cui si apre la porta ferrata del misero stambugio di Jacob Arom il rigattiere ebreo.

Molte ore sono passate dacchè abbiam visto il vecchio avaro prendere colla figliuola il suo pasto frugalissimo apparecchiato dalla modesta scienza culinare della vecchia Debora. Lo donne sono sole di nuovo nella stanzaccia a pian terreno; e l'ombra della sera, prima ancora del solito per la nebulosità della giornata, incomincia ad invadere quel luogo tristissimo, fatto più tristo da quell'ora crepuscolare. Come prima, come sempre da varii giorni, le donne parlano di quel tremendo avvenire che la sventurata maternità sopraggiunta minaccia alla povera Ester. Aspettano con ansia che Gian-Luigi, fattone avvertito, compaia a rassicurarle, venga a dir loro che ha bello e trovato il modo di salvare la povera figliuola dall'ira, che sarà implacabile, del padre.

In realtà Debora ha maggior dose di speranza di quel che non abbia la povera Ester. Questa, nei meno ardenti trasporti degli ultimi convegni avuti insieme, nella lunga di lui assenza, ha sentito nell'amante sminuita quella passione che gli aveva fatto superare ogni ostacolo, vincere ogni circostanza per potere arrivare sino a lei. Ora – e l'istinto di donna meravigliosamente lo avverte – ogni amore che scema è amore che parte; quando non si ama più all'eccesso si è avviati a non amar più abbastanza; dietro la calma del primitivo ardore, sta la indifferenza e la sazietà. Ester aveva immensamente sofferto anche prima che la terribile verità del suo stato le fosse rivelata; di poi la sua pena era diventata doppia, e soffriva passando a vicenda da un'esaltazione d'animo ad un abbattimento rassegnato, ma di disperazione sempre.

Debora adunque la confortava alla speranza con ogni miglior argomento che sapesse trovare; e la infelice fanciulla scuotendo la sua stupenda testa degna del pennello di Tiziano esclamava con cupa risolutezza che era tale da far paura:

– No, Debora, vedrai ch'egli non verrà nemmanco. Il perfido! E' mi ha dimenticata del tutto… Chi lo avrebbe creduto?.. Ah mio padre ha ragione. Tutti i cristiani sono mancatori di fede… Sai tu che cosa solo mi resta? Morire.

La vecchia alzava le mani secche e rugose verso il cielo, sclamando spaventata:

– Che cosa dite?.. Vi dà di volta il cervello Ester?.. Come siete sempre eccessiva, voi!.. Vi dico che il signor Quercia verrà, e troverà modo di levarvi di qui; ed io vi seguirò, perchè già non voglio mica rimanere allo sdegno di vostro padre che cascherebbe tutto su di me, e che non sarà una giuggiola, no; e tutto sarà aggiustato.

Ester lasciò cadere abbandonatamente sopra le ginocchia la bella destra con cui si sosteneva il viso, e reclinò sul petto il capo.

– Mio padre! diss'ella a mezza voce, ma con espressione di molto cordoglio nell'accento. Abbandonarlo!.. E sarà per sempre di certo… Non lo vedrò mai più, mai più in questa vita!.. E nell'altra?.. Ahi c'è forse un'altra vita?.. Ancorchè ci sia, mai più, mai più egli non mi perdonerà, vivesse gli anni dell'Eterno… La sua maledizione, quella maledizione onde mi minacciava poc'anzi mi perseguirà traverso i secoli con odio implacato… Ed egli ora mi ama pure!.. Quasi al pari de' suoi tesori… Ed io devo dargliene tanto dolore!.. Che farà egli, quando solo, senza più affetto nessuno, fuggito dalla figliuola?

Debora la interruppe.

– Eh! non vi crucciate di codesto… Che cosa farà? È facile indovinarlo. Si consolerà col suo denaro che in fin fine è ciò che ama di più, è anzi la sola cosa che ama.

Un picchio discreto risuonò all'uscio del cortile; le due donne sussultarono e si guardarono in faccia commosse.

– Se fosse lui! mormorò Ester diventata pallida, poi tosto arrossita.

– Gli è lui di certo: disse la fante levandosi più affrettatamente che poteva: ne riconosco il modo di battere, ve l'ho detto io che sarebbe venuto.

Si accostò all'uscio, e traverso i battenti gridò colla sua voce fiacca e balzellante da vecchia:

– Chi è là?

– Apri, Debora, son io: rispose la voce sonora di Gian-Luigi.

Ester fu dritta di balzo con un grido: e poichè le mani tremanti di Debora non erano abbastanza sollecite ad aprir la serratura e tirare i chiavistelli, accorse la giovane all'uscio ed in un attimo ebbe essa medesima spalancato il battente innanzi al suo amante che entrava avviluppato nell'ampio mantello scuro, il cappello rabbattuto sugli occhi.

La penombra che regnava in quell'ambiente, non lasciava scorgere alla giovane l'espressione della faccia di Gian-Luigi; e fu ventura per lei, chè l'aspetto d'impaziente contrarietà ch'egli aveva entrando sarebbe stato per la misera un nuovo dolore, una piena conferma dei timori che istintivamente provava l'anima sua. Ma pur tuttavia, qual differenza di maniere fra il presente contegno dell'amante e quello ch'egli aveva un tempo ne' suoi incontri colla fanciulla! Era egli allora che tosto, ratto, impetuosamente l'afferrava con amorosa violenza, la stringeva con braccia appassionatamente desiose, le copriva di caldi baci il leggiadro viso arrossito, le diceva un mondo di soavi parole amorose; ora Gian-Luigi entrò senza manco un saluto; fu essa che, lasciando a Debora il richiudere accuratamente la porta, gettò al collo di lui le sue braccia e tutta abbandonandosi al suo petto, disse con voce tremante d'emozione ed amore:

– Sei tu!.. Sei pur tu alla fine!.. Oh quanto tempo che non ci siam visti!.. Cattivo!.. Perchè rimaner tanti giorni?.. Li ho contati: e' mi parevano ciascuno un'eternità… Che cosa hai tu fatto in questo frattempo? Come non hai tu mai pensato a me? Potresti tu mai dimenticare che sei tu il sole della mia vita?

E queste parole, susurrate in quel tenace amplesso, venivano frammiste ai più caldi baci di quelle calde labbra color di corallo.

L'amoroso effluvio di quella avvenente persona che pendeva dal suo collo, l'ardore di quei baci che gli scoccavan fiamme nel volto, la passione di quelle parole poterono assai sull'animo di Gian-Luigi e ne dileguarono per quel momento la malavoglia e l'uggia con cui era egli colà venuto; onde fu con voce temperata a molto affetto e non senza rispondere col suo all'amplesso della giovane, che egli disse a sua volta:

– Dimenticarti, mia cara Ester!.. Non pensare a te!.. Sei tu la cattiva che puoi credere di simili cose e dirmele.

Le poche parole del giovane fecero maggior effetto sulla figliuola di Jacob che le molte della vecchia Debora. Ella sentì il suo cuore riconfortato. Per la donna, in generale, la parola dell'uomo che essa ama, per quanto destituita di prove, per quanto priva ben anco delle apparenze della verità, sarà sempre un'autorità degna di fede. Gian-Luigi poteva egli mentire? Mai più! Tanto eccesso di lui sì lo poteva ella pensare quando egli era lontano dagli occhi suoi, e non le stava presente la malìa della persona adorata; ma stretta dalle braccia di lui, sotto i suoi baci, udendone la dolcezza della voce, la misera, tutta posseduta dall'amore, non aveva più resistenza di sospetto, nè difesa di diffidenze.

– Tu dunque m'ami ancora? riprese Ester con più vivace prorompere che era tutto una gioia. Tu m'ami dunque?.. oh giuramelo di nuovo…

Queste parole raffreddarono alquanto l'effimero ardore che s'era suscitato in Gian-Luigi. Le donne hanno la grande smania di far ripetere giuramenti d'amore; e questa è od una inutilità, o una malaccortezza: se l'uomo continua ad amare, non v'è bisogno di nessun giuramento, il quale in realtà non riesce mai a guarentire in nessun modo l'avvenire, od egli ha cessato o viene cessando d'amare, e la necessità in cui lo si pone di dare un falso giuramento, o di subire una scena di rimproveri e di lacrime lo indispone anche peggio e gli accresce il desiderio di togliersi da quei legami. Fu qualche cosa di simile che provò Gian-Luigi, ed un poco di quell'impazienza con cui si era affacciato primamente alla porta gli rinacque nell'animo. Si sciolse pianamente dalle braccia della giovane, e senza rispondere altrimenti alle parole di lei, disse freddamente come si parla di cose indifferenti:

– Lasciami levar via questo mantello che è bagnato dalla neve.

Trasse un po' in là Ester e si tolse dalle spalle il mantello: nell'ombra lucicchiavano vivamente gli occhi della giovane ebrea fissati su di lui con infinito ardore. Nella mente del medichino sorse di botto un sospetto, ch'egli accolse come una speranza, ed era questo: che la fanciulla avesse inventata la novella della sua maternità per avere un mezzo potente da farlo venire da lei.

– Ehi Debora: diss'egli alla vecchia che, richiusa ben bene la porta, s'avanzava trascinando le sue pianelle scalcagnate verso il centro della stanza: se tu accendessi un lume non faresti male; qui non ci possiamo nè anco veder in viso.

La fante prese una lucernetta sucida di ottone, invasa dal verderame e, venuta presso il fornelletto l'accese mercè uno zolfino: i deboli raggi giallognoli di quella poca luce si diffusero oscillando per la tenebrìa di quello stanzone; gli occhi di Gian-Luigi corsero a mirare così rischiarati i lineamenti di Ester, la quale stava immobile, piantata, a quel luogo dove l'aveva spinta la mano di lui, allontanandola da sè. La emozione di quel momento aveva arrossite le guancie della giovane così che non ci si vedevan più quelle traccie dei patimenti a cui da alcun tempo andava soggetta, le quali quella stessa mattina ci aveva notate suo padre.

– Eh via, pensò Gian-Luigi: è stato un sotterfugio di questa furbacchiotta per farmi venire.

E si riavvicinò con un sorriso malizioso alla giovane che rimaneva ancora immobile a quel luogo.

– Ester, diss'egli, tu hai voluto vedermi ad ogni costo, non è vero? Ma come diavolo ti è saltato in mente di usare un mezzo qual fu quello del bigliettino che mi hai scritto?

La giovane lo guardò stupita, senza comprendere.

– Tu mi hai fatto bestemmiar la sorte e maledire il Cielo, poichè più disgraziato avvenimento non poteva capitarci di quello che mi annunziavi…

Ester cominciò allora a capire il sorriso e il tono di leggerezza dell'amante.

– Che? esclamò essa con isdegnosa vivacità nell'accento e nella mossa, avanzandosi d'un passo verso di lui: tu dubiti?..

Levò le mani verso il cielo in un atto di protesta, di meraviglia, di risentimento, cui non aveva parole a poter bene esprimere.

– Debora! soggiuns'ella dirigendosi alla fante come per prenderla a testimonio di tanto eccesso: egli non crede alle mie parole, egli mi accusa di menzogna, egli nega fede alla mia sventura.

Queste parole, il modo ond'eran dette, il profondo turbamento dei tratti di lei, furono prova più che sicura a Gian-Luigi che la novella scrittagli da Ester era una verità. Le si accostò, la prese per la mano, e piantandole negli occhi il suo sguardo, disse con accento cupo che pareva una minaccia:

– Gli è dunque vero?.. Maledizione!..

La giovane tolse via la sua dalla mano di lui, e si arretrò spaventata.

– Luigi!.. Eterno Iddio!.. Tu mi fai paura.

Il medichino si frenò di subito con quel dominio su se stesso che gli abbiamo già visto esercitar tante volte.

– Via, via, riprese egli con aspetto tornato tranquillo, pensiamo freddamente ai casi nostri… Abbiamo del tempo innanzi a noi; prima che la cosa possa venire scoperta, ci rimane agio ad immaginare e porre in esecuzione quel progetto che converrà meglio… Frattanto a te Ester che cosa sarebbe venuto in mente di fare?

Ester levò sul volto di lui i suoi grandi occhioni neri, e disse lentamente a voce bassa:

– Mi sembra che una cosa sola mi rimane da poter fare: fuggire, andare a nascondere la mia colpa all'abbominio de' miei ed all'ira di mio padre.

Gian-Luigi crollò le spalle.

– Fuggire!.. Dove?.. Come e in qual luogo trovare questo ritiro?

La fanciulla lo interruppe con accento quasi severo:

– Ho pensato che codesto era dover tuo e che tu l'avresti compito.

Il medichino non dissimulò un atto d'impazienza.

– Dovere! dovere! diss'egli. Eh! ho io ben altri affari e di maggior rilevo a cui pensare.

Ester impallidì nello stesso mentre che i suoi occhi lanciavano fiamme.

– Tu parli non solo come uno spergiuro, disse ella con forza, ma come uomo senza cuore.

– Ah! non facciamo delle frasi e non scendiamo a bisticciarci per carità… Io non ti abbandonerò certo, e se una fuga sarà assolutamente necessaria, bene, ti ci aiuterò; ma prima di sobbarcarci ad un tal passo, vediamo se non ci sarebbe altro mezzo…

– E quale? proruppe la giovane con impeto. Non sai tu che apprendendo la verità, mio padre è capace di uccidermi?

– Ah! se ci fosse costì sotto mano un qualche dabbene da sposare!..

Ester drizzò il capo con moto vivace di risentimento e di ripugnanza.

– Se tu parli per ischerzo, diss'ella con nobile fierezza, questi non sono nè il caso nè il momento da ciò; se parli dassenno oh che stima e che amore hai tu di me?

Gian-Luigi non rispose, assorto com'egli apparve in un nuovo pensiero che gli rendeva cupa la fisionomia.

– Ci sarebbe pure un mezzo, diss'egli a voce bassa, non osando guardare in volto la fanciulla.

Fece una pausa: essa si accostò ansiosamente per udire ciò ch'egli stava per soggiungere; il tristo continuava smorzando ancora di più il suono delle sue scellerate parole:

– La mia medicina me lo può dare questo mezzo…

Susurrò alcune frasi cui potè cogliere soltanto l'orecchio di Ester verso la quale egli si chinò.

La giovane rimase immobile, fissandolo con occhi larghi come di chi non capisce, ma uno sguardo ratto e vivissimo di lui parve di colpo rischiarare in essa il senso di quelle misteriose susurrate parole; Ester si arretrò con una mossa ed un grido di orrore.

– Mio figlio!.. Mio figlio! esclamò essa con forza: osereste attentare alla sua esistenza?.. Ma io lo difenderò contro tutto e contro tutti.

– Calmati, calmati; disse Gian-Luigi che parve non aspettarsi quello scoppio di indignazione.

Ma i commovimenti in quell'anima sensitiva di fanciulla da parecchi giorni sì frequenti e sì vivaci l'avevano indebolita ed affranta. Ester si diresse vacillando verso la seggiola su cui soleva stare e lasciandovisi cadere abbandonata, coprendosi con ambo le mani la faccia, ruppe in un pianto dirotto.

Il medichino strinse le braccia al petto e rimase immobile a guardarla; sul suo volto era un'espressione di durezza malvagia ed ironica: quella d'un uomo che ad un suo volere incontra un inciampo nell'altrui debolezza che non gl'ispira se non fastidio e disprezzo.

La vecchia Debora s'accostò con interesse alla piangente e volle dirle alcuna parola di conforto; ma Ester non le prestò menomamente attenzione.

A poco a poco l'espressione della faccia di Gian-Luigi si venne rimutando; in presenza di quello sfogo di dolore della povera fanciulla, il quale in realtà gli rivelava tutto ciò ch'essa aveva sofferto e soffriva, alcuna parte dei buoni istinti della sua natura, che tuttavia erano rimasti in lui, si suscitò e si commosse. I lineamenti del suo leggiadro volto si distesero, per così dire, abbandonando il maligno atteggio che li contraeva; una sembianza di pietà e d'affetto ne prese il luogo. S'accostò egli allora alla giovane, trasse in là bruscamente Debora che, stando sempre attorno ad Ester a dire di sue parole di conforto a cui non si badava, gli impediva il passo, e chinandosi verso la misera che piangeva, le prese una mano, glie la staccò con affettuosa violenza dal volto, e disse con voce veramente impressa d'amore questa sola parola:

– Ester!

In costei parve ritornata di subito la sua energia. Sorse di scatto, saettò il suo amante d'uno sguardo pieno di mille espressioni, e con forza d'accento quale danno soltanto le più accese passioni dell'animo, gli disse:

– In tutto codesto sai tu ciò ch'io scorgo di più tremendo per me e che mi rompe il cuore? Si è che tu più non mi ami.

Gian-Luigi volle protestare con un gesto: ma ella riprendendo con più vigore ancora:

– No, più non m'ami… Se tu m'amassi, mi avresti tu parlato a quel modo?.. Tutto il resto posso sopportare, tutto affrontare… anche lo sdegno di mio padre: ma questa sciagura no… Ella mi fa perdere il senno, ella mi fa capace di tutto, sai!

Pose le due mani sulle spalle del suo seduttore e stando lì faccia a faccia con aspetto di risoluzione in cui avreste detto esservi qualche cosa di feroce, continuò:

– Sì, capace di tutto!.. Oh con che passione, con che furore io t'ami, tu non hai ancora saputo discernere… T'amo da commettere un delitto se tu mi tradissi… Sono gelosa come donna forse non fu mai… Io, qui, nella mia solitudine, talvolta, pensando che tu lontano potevi parlar d'amore a un'altra donna, soltanto rivolgerle uno di que' tuoi sguardi infuocati che mi hanno incendiata l'anima, io soffrii e soffro degli spasimi mortali… Se tu cessi d'amarmi, morrò… Se ne ami un'altra… Oh! sono capace di ucciderla quella donna.

La esaltazione di questa giovane, ond'ella era fatta ancora più bella, commosse anche in quell'istante l'animo di Gian-Luigi. Rinacquero per allora le fiamme che in lui avevano desta la beltà della custodita fanciulla e la difficoltà di ottenerla; la cinse con appassionato amplesso fra le sue braccia, e le disse con accento di trasporto, in cui ciascuno avrebbe creduto sentire, e in quel punto era forse davvero la sincerità:





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notes



1


Badino i lettori che queste cose scriveva Maurilio parecchi anni prima del 1848.




2


Vincenzo Gioberti nell'aureo suo libro del Rinnovamento fa precisamente questo paragone quando dice che l'emancipazione della plebe e della donna è la missione precipua del presente secolo.




3


Espressione testuale dell'Azeglio.




4


Massimo d'Azeglio: I miei ricordi, vol. II, pagine 457-58.




5


Oggi codeste maniere dei graziosi Commissarii di polizia d'un tempo sembreranno favole ed esagerazioni; ma io faccio appello alla memoria di chi ebbe il disavantaggio d'esser giovane prima del 1848, e ognuno di essi son persuaso dirà che io sto ancora al di qua del vero.



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