Книга - La plebe, parte II

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La plebe, parte II
Vittorio Bersezio




Vittorio Bersezio

La plebe, parte II





CAPITOLO I


Ad un lembo estremo della città, verso il fiume, delle cui acque si serviva per forza motrice, siedeva la fiorente officina di lavori di ferro dei signori Giacomo Benda e comp.

Verso la strada, fiancheggiata dai viali di olmi che cingevano da ogni parte Torino, sorgeva la casa in cui abitavano la famiglia del principale ed alcuni dei primi capi-officina, de' quali due erano a parte, secondo una certa misura, nei guadagni dell'impresa.

Attraversato un cortile, nel cui mezzo eravi uno strato di erba ed alcuni alberi che nella bella stagione rallegravan la vista col verde delle loro fronde, trovavasi il vasto, oblungo, affumicato casamento in cui erano le varie officine che tutto il giorno mandavano per gli alti camini il denso fumo del coke e per le numerose e larghe finestrone l'incessante rumore del lavoro.

Alla destra di questo cortile stavano le rimesse ampie e ben costrutte, dove, insieme con i diversi carri necessari allo stabilimento pel trasporto delle merci, eranvi pure una modesta ma comoda carrozza per la famiglia, un elegante tilbury, che il ricco industriale aveva regalato al suo figliuolo avvocato, unico di maschi, ed una tromba idraulica, opportuna cautela pei casi d'incendio.

Di faccia si trovavano le scuderie, nelle quali, oltre i cavalli forti e robusti da attaccarsi ai carri di trasporto, facevano bella mostra di sè colle loro fine e svelte forme alcuni cavalli di prezzo che servivano al giovane avvocato da sella e pel tilbury.

Per ora non esamineremo la officina. Mentre noi ci intromettiamo in questi locali sono presto le quattro mattutine di una fredda notte d'inverno, in cui lenta ed abbondante fiocca sopra Torino la neve. Il casamento dei laboratorii dorme, per dir così, in una compiuta oscurità sotto la guardia di due mastini che, abbaiando ad ogni menomo rumore, girano per la neve, la quale copre il selciato del cortile. Avremo forse occasione di entrare colà dentro di poi per andarvi ad assistere ad alcune delle scene del nostro racconto.

Anche la casa di abitazione della famiglia Benda è avvolta nell'oscurità, eccetto che due fiochi raggi di luce filtrano da due finestre, trammezzo alle imposte rabbattute. Una di queste finestre è al pian terreno presso al portone, ed è quella della stanza del portinaio; l'altra è al piano superiore verso l'angolo della casa, a destra di chi vi accede.

Un giovane di belle forme avviluppato in un pastrano impellicciato viene pel viale verso la casa di cui ho detto. La sua andatura dinota in lui un forte turbamento morale. Ora cammina a passi speditissimi, come uomo cui preme giungere dov'è diretto; ora invece il suo piede si rallenta come di chi si reca in alcun luogo di troppo mala voglia; ed ora si arresta del tutto tenendo le scarpine lucide da ballo, di cui è calzato, nella fredda umidità della neve senza punto badarci. Tronche parole ed esclamazioni gli escono tratto tratto dalle labbra frementi, a dinotare come una qualche soverchia passione gli occupi l'animo; e gesti violenti, quasi di minaccia, accompagnano le sue voci interrotte.

A seconda che egli si veniva avvicinando alla casa, le esitazioni parevano crescere. Chi gli fosse stato presso avrebbe potuto udirlo ad un punto pronunziare le seguenti parole, fissando il suo sguardo sulla casa che oramai gli si mostrava distintamente, anche nello scuro di quella notte invernale, fra le roste assecchite degli alberi:

– Potessi rientrare senza che mia madre mi udisse! Con qual fronte vederla? Come avere il coraggio di darle tranquillamente il saluto ed il bacio? Essa certo mi leggerà nel viso il mio turbamento; e che cosa dirle? Povera madre mia! Se sapesse la verità!.. E se mai domani mi succedesse disgrazia!..

Si fermò sui due piedi, sentendo la sua passione, che era un complesso di varii sentimenti, tutta fondersi in una potente commozione che gli mandava le lagrime agli occhi.

– Ella mi ama tanto!.. Ed anche mio padre!.. Ah, se voglio aver coraggio, bisogna che non li veda…

In quella vennero a ferirgli lo sguardo i due raggi di luce che partivano dalle finestre che ho detto.

Egli fissò i suoi occhi rimbamboliti su quella del primo piano, con una espressione d'immenso affetto. Era la finestra della camera di sua madre.

– La mi aspetta come sempre!.. S'io non sono rientrato in casa, la buona mamma non può riposar tranquilla… E s'io non avessi da rientrar più mai?!..

Un brivido gli corse per tutto il corpo; stette un poco immobile ove si trovava, come senza risoluzione di sorta; poi si passò le mani sulla faccia quasi per condurre l'usata calma sui suoi lineamenti conturbati, e disse seco stesso:

– Andiamo; farò di tutto per non farmi sentire, e s'ella pure mi ode, allora, viso fermo, e metterò l'espressione della mia fisionomia in conto della stanchezza, del sonno e d'una leggiera indisposizione.

Camminò risolutamente verso la casa; giunto al portone, trasse fuori di tasca la chiave ed aprì con ogni maggior cautela per non far rumore, quindi per lo sportello s'intromise chetamente; ma i cani abbaiarono ed il portiere che vegliava si mosse.

– Chi va là? Gridò egli con voce stentorea dall'interno della sua stanza che si trovava a destra del portone, e tosto dopo la sua grande e grossa persona comparve sul passo dell'uscio, tutto avvolta in un vecchio, lungo pastranone, con una lucerna da una mano ed un buon randello dall'altra.

– Zitto Bastiano: disse il giovane entrato, nel riconoscere il quale i cani già si erano acchetati e gli facevano festa; non far rumore, sono io.

– Che? Gli è Lei sor avvocato? A piedi e tutto solo! E la carrozza?

– Ah! la carrozza… Esclamò il giovane, come ricordandosi allora di cosa che avesse affatto dimenticata. L'ho lasciata là in piazza ad aspettarmi. Avevo bisogno di prender aria, e son venuto a piedi.

– Biagio non sa dunque niente ch'Ella sia qui?.. Ed è capace di star là fino a mezzogiorno.

– È vero… Povero Biagio! Disse il giovane con tono di rincrescimento. Sì che la notte è fredda! Non ci ho pensato… Vuoi farmi un piacere Bastiano?

– Comandi.

– Corri in Piazza S. Carlo e cerca di quel povero diavolo: digli come io sia già rientrato e fallo venire a casa.

– Subito.

– Mi rincresce farti prendere questo freddo…

– Che? La mi burla. Tanto tanto ero deciso di star su tutta notte per aspettar che la carrozza rientrasse affine di aprire il portone. Correrò per la strada e mi scalderà ancor di più che non a stare accoccolato presso il mio caminetto.

– Da bravo!.. E per iscalducciarti di meglio, to' qualche cosa da berne un bicchierino.

Pose in mano del portinaio che riluttava un bello scudo d'argento.

– Ma no: esclamava Bastiano. Si figuri se gli occorre, sor Francesco… Sor avvocato, voglio dire.

– Chiamami pure semplicemente Francesco; mi è più caro…

– O sor Francesco, o sor avvocato, per Lei, come per tutta la sua famiglia, già lo sa, io mi getterei nel fuoco al menomo cenno, altro che andare a scalpitare un po' di neve…

E voleva respingere ancora la moneta che il padroncino lo costrinse a ritenere.

– Come la vuole, e grazie mille. Vado a farle lume su per la scala e poi corro laggiù.

– Vai, vai pure. Io monterò su per la scaletta piano piano, e su nella stanza di passaggio troverò preparato lume e zolfini.

Il portinaio entrò nella sua loggia, depose la lanterna, si calcò in testa un cappellaccio e tirato su il bavero del suo pastranone, una pipa accesa in bocca, il suo buon randello in mano, uscì del portone e chiuso dietro sè lo sportello con un colpo che rimbombò per tutta la casa.

– Il grossolano! Borbottò fra i denti Francesco, che con passo leggerissimo saliva su della scaletta di servizio, cercando di fare il meno rumore che si potesse. Se mia madre non mi avesse udito entrare, ecco che questo fracasso la mette in sull'avviso, od almeno nella curiosità di sapere chi sia venuto. Come fare a sottrarmi alla sua vista?

Seguitò a salire colle stesse cautele. Quando fu sul pianerottolo, benchè fosse scuro, andò, pratico qual egli era, ad una mensola appoggiata alla parete in un angolo, e vi prese il lume che si trovava colà preparato secondo suo ordine, non volendo egli che nessuno dei servi stesse a vegliare per lui. Ma nel punto ch'egli era per soffregare il fiammifero, udì nell'interno dell'appartamento una porta e poi un'altra, che s'aprivano pianamente, e un passo lievissimo che veniva a quella volta. Il sangue gli diede un rimescolo.

– Ecco mia madre! Diss'egli restando lì collo zolfino dall'una mano e colla candela dall'altra, senza più muovere.

Pensò di fuggirsene cheto cheto allo scuro per non lasciarsi cogliere a quel posto; ma poi subito avvisò che la madre, poichè dubitava che fosse il figliuolo quello che era entrato, sarebbe andata a cercare di lui anche nelle camere che gli servivano da quartiere. E poi, ove anche si fosse allora sottratto alla vista di lei, la povera madre, credendolo non ancora venuto, avrebbe continuato a vegliare aspettandolo, e quando la carrozza sarebbe giunta che inquietudine per essa a sapere che la era tornata vuota, che il figliuolo avrebbe già dovuto essere in casa, ed ella non l'aveva visto, ed egli non erasi recato, come n'aveva l'abitudine, a darle il bacio del ritorno! Decise di affrontare il pericolo. L'uscio da cui s'era sentito venire il rumore di passi, prima che Francesco avesse acceso il lume, si aprì, e comparve una donna che recava un candeliere. Ma, non avendo essa riparata colla mano la fiammella della candela, il buffo dell'aria fredda che dal pianerottolo, per il battente aperto, si gettò nell'appartamento, glie la spense nell'atto medesimo che la donna si affacciava all'uscio.

In quel fugacissimo istante in cui la candela accesa aveva gettato il suo chiarore nel pianerottolo, prima di spegnersi, la madre aveva travisto dritta in mezzo alla stanza l'ombra d'un uomo. Camminò verso quella parte colle mani tese innanzi a sè, come per afferrare quella diletta persona.

– Sei tu Francesco? Diss'ella.

Il giovane esitò un momentino. Si rallegrò quasi che intanto la madre non potesse scorgerne subito i tratti del viso, e stette un poco per preparare la sua voce ad una calma tale che nulla nulla lasciasse sospettare.

Ma la donna non ottenendo così tosto risposta, ridomandò più sollecita ancora:

– Sei tu?

Francesco si sforzò di dare alla sua voce un accento scherzoso:

– No, mamma, non sono io, sono un ladro.

La madre era arrivata a toccarne i panni. Lo strinse fra le sue braccia e lo baciò con ardore:

– Cattivo! Diss'ella. Ve' come sei tutto bagnato, e come son fredde le tue guancie!.. Ora capisco perchè non ho sentito entrar la carrozza. Tu sei venuto a piedi? Ma che pazzia la è codesta! A rischio di pigliarti una costipazione…

– Oibò!.. Anzi uscendo dall'ambiente soffocante del ballo, avevo bisogno di prendere un po' d'aria.

– Baie! baie! Colà dentro un caldo da fondere e fuori un freddo da gelare… Roba da restar lì proprio come un sorbetto!.. Ed io che ti tengo qui in novelle, allo scuro ed all'aria ghiaccia della notte!.. Vieni, vieni meco nella mia stanza che ci ho acceso un bel fuoco a cui potrai scaldarti. L'ho fatto accendere, il fuoco, anche nella tua camera, e ci sono andata io stessa parecchie volte a tenerlo su animato; ma poichè ti ho colto lì in sull'entrare, mi è più caro che tu venga a riscaldarti al mio camino. Ci ho costì una cuccuma di caffè che ti aspetta ed un pentolino di brodo: tu piglierai quello che più ti talenta.

E così dicendo, l'amorosa madre aveva preso per la mano il suo Francesco e l'aveva seco tratto nella propria camera, facendogli attraversare, prima un corridoio, poi una specie d'anticamera, quindi una stanza da mangiare ed una sala.

Nella camera da letto della madre splendeva entro il camino allegramente il fuoco vivace, e sopra un tavolino da lavoro, presso il camino medesimo, una lampada col coprilume mandava quel mite chiarore di cui alcuni raggi trapelando pei cristalli della finestra, erano stati visti da Francesco al di fuori.

Questa camera, chi sapesse osservarla, era tutta una manifestazione del carattere e delle condizioni di chi l'abitava. La ricchezza dei mobili e degli arredi cominciava per dire la prosperità delle fortune; ma l'assembramento di cose disparate e una certa mancanza di gusto nell'assortire le varie parti della masserizia, mostravano che l'abitudine di godere dei vantaggi e delle sontuosità della ricchezza non era da lungo tempo acquistata, non era uguale a quella di chi è nato in essa dopo varie generazioni di suoi maggiori che già ne fruivano, e si è allevato, come nel suo ambiente naturale, in mezzo agli sfarzi ed agli sbarbagli delle eleganze sociali. A canto a mobili di prezzo costosissimo, adorni di intarsiature di legni di valore e di fregi di bronzo dorato, vedevansi arnesi ed utensili di domestico uso, rozzi e volgari, un arcolaio, un aspo, una rocca sul filatoio con suvvi il pennecchio, una cesta comune di vimini con dentrovi pannolini alla rinfusa da cucire, un cuscinetto per lavoro da pochi quattrini, uno scaldino da piedi logoro e di forma antiquata; poi appiccata alla parete, sopra il letto, fra gli arazzi dell'elegante cortinaggio, l'incisione grossolana d'una immagine miracolosa di Madonna e un acquasantino di cristallo con una palma ed un rosario a grani di legno. Nella parete in faccia al letto, in una brillante cornice rindorata di fresco un ritratto d'uomo di età matura, che è quello del marito, ai due lati due altri ritratti d'un bambino e d'una bambina, che erano del figliuolo Francesco e della figliuola Maria quando ancora in età infantile. Questi ritratti lucevano di molto per vernice e colori, ma chiamarli opere d'arte era un adularli soverchiamente; pur tuttavia alla buona madre, che di arte non se ne intendeva e non si curava nulla, erano le cose più care del mondo. In questi oggetti era tutta rappresentata la storia di quella eccellente creatura: la storia e gli affetti. Questi si concentravano tutti nella famiglia, quella si contava in due parole.

Era nata nella povera, onestissima famiglia d'un impiegato. Doveva, pel decoro, tenere le apparenze da madamigella, ed era più povera d'un'operaia: portava il cappellino e la veste di mussolina la domenica, e molte volte non aveva nè anco pane asciutto a colezione. Non aveva imparato di nulla che importasse oltre i lavori femminili: nè storia, nè geografia, nè manco la propria lingua; appena era se sapeva scrivere senza troppo rispetto all'ortografia ed alla sintassi, ma aveva preso per due mesi lezioni di danza le quali non le avevano fatto imparare che a far la riverenza con tutte le regole dell'arte. Era però instancabile nel lavoro: tutti i punti di cucito che v'era da dare per la numerosa famiglia erano dati dalla sua mano alacre e sempre in moto; lei filare, lei far calze, lei stirare, lei rammendare, lei tutto. Era la più virtuosa delle ragazze senza spirito; e non era brutta. Si meritava la felice sorte d'un buon matrimonio, e l'azzardo, che non è sempre ingiusto, glie lo fece ottenere. Un amico comune mise in relazione la famiglia dell'impiegato e il signor Giacomo Benda, scapolo oramai in sulla maturanza degli anni, al quale l'età crescente cominciava a rendere uggiosa la vita da solo, faticoso il lavoro ed arida l'occupazione di guadagnar denaro soltanto per sè. Il signor Benda, non più giovane, ma non vecchio ancora, onestissimo e ricco, era il partito il più lusinghiero che potesse desiderarsi per madamigella Teresa e per la sua famiglia. Figuratevi se fu accettato! La fortunata madama Benda si trovò dall'oggi al domani ricca sfondolata; e non salì in superbia, e non si piacque dello spendere a capriccio e fuor di luogo, e non volle procurarsi tutti i sollazzi che dà il mondo in cambio di denari, sollazzi dai quali ella era stata scevra sino allora.

Fu madre, ed il marito e i due figliuoli (Francesco e Maria) che n'ebbe, occuparono tutto il suo cuore. Aveva presa l'abitudine di lavorar molto, e non la smise. Poteva servirsi dell'opera di quante fanti e mercenarie volesse; preferiva far tutto colle sue mani, e cuciva ancora, e stirava, e faceva calze, e filava persino, come prima. Le cose fatte da sè trovava meglio fatte ed erano più presto compite: ed aveva ogni ragione, e del suo parere erano anche gli altri, suo marito pel primo, al quale rincresceva sì alquanto di veder sua moglie lavorare come una proletaria o poco meno, e ne la rampognava di belle volte, ma che intanto non trovava mai le cose ammodo se donna Teresa non ci aveva posto mano. Aveva molta religione: la religione delle donnicciuole e degli animi pusilli è vero, la religione un po' idolatra delle minutezze del culto esteriore; ma anche in codesto le impedivano di essere gretta e intollerante, due cose: la profonda bontà dell'animo e l'amoroso rispetto che aveva pel marito un po' libero pensatore. Come aveva continuato a levarsi la mattina all'alba ed a lavorare della guisa che faceva quando era povera, così aveva continuato a prestare poca attenzione al suo vestire. Altrettanto ci teneva che la sua figliuola Maria fosse elegante, altrettanto si dava poco pensiero di sè; e doveva essere la figlia, o il figliuolo, o il marito a costringerla di vestire nelle volute circostanze secondo le condizioni della famiglia. Ora che ci viene innanzi, ella ci appare avvolta a bardosso d'una guarnacca scura, con suvvi un giaco di grosso panno ed al collo un fazzoletto di cotone male attorcigliato, così che, in vece della signora del luogo, uom la prenderebbe facilmente per l'ultima delle fanti della casa.

La signora Teresa, appena entrata in istanza, si affrettò a levare dalle spalle del figliuolo l'umido pastrano, e traendolo amorosamente verso una poltrona che si trovava in faccia al fuoco divampante, ve lo fece sedere.

– Costì: diss'ella, e rasciugati un po' i piedi a questa bella fiamma. Ve' che giudizio, per un tempaccio simile far sì lunga strada a piedi con di scarpe come queste, sottili come una pellicola d'aglio.

E Francesco di rimbalzo, sforzandosi sempre a parer gaio e scherzoso:

– E ve' da parte tua, mamma, che giudizio a star levata tutta notte a questa stagione, per che cosa? Per aspettare un figliuolo che non ha più i lattaiuoli e il quale s'è andato a divertire.

– Oh! io, la è un altro paio di maniche… Prima di tutto io non posso fare diversamente… Che cosa varrebbe che mi mettessi a letto? Tanto e tanto nè potrei chiuder occhio, nè manco starmene ferma e tranquilla. Che cosa vuoi? Le son cose che le capisce soltanto una madre. Finchè tutti quelli della mia piccola famiglia, non sono rientrati nel nostro domestico tetto; finchè non li so tranquillamente coricati tutti, io non posso aver quiete. È una cosa puerile, assurda, tutto quello che vuoi; ma mille paure mi assalgono. Mi pare che qualche brutto avvenimento li può cogliere; che la disgrazia può approfittarsi di ciò che non siamo uniti per piombare addosso a quello che manca.

Queste parole della madre erano troppo corrispondenti alla verità del caso avvenuto a Francesco, cui egli voleva ad ogni patto nascondere alla povera donna, perchè il giovane non fosse assalito da una subita dolorosa emozione. Si volse in là per nascondere alla madre il turbamento della sua faccia, ma tanto non potè reprimere il suo affanno che un doloroso sospiro non gli uscisse dalle labbra.

Alla signora Teresa non isfuggì questo sospiro.

– Che cos'hai? diss'ella vivacemente, levando la testa e lo sguardo sul volto del figliuolo.

– Io?.. Nulla. Che cosa vuoi che abbia? Sono stanco, assonnato… To', poichè vedo la cuccuma lì, prenderei volentieri un po' di caffè.

Il coprilume della lampada impediva che sul volto di Francesco percotesse tanta luce da distinguerne la pallidezza; poi la buona donna, volendo affrettarsi a soddisfare il desiderio del figliuolo, si precipitò verso il camino a mettere la polvere del caffè nella cuccuma in cui l'acqua bolliva. Per quella volta il giovane ottenne ancora il suo intento.

– Ti sei tu ben divertito a codesta festa? domandava intanto la madre, curva sul fuoco, curando che il caffè bollisse a dovere senza traboccar nelle ceneri.

– Sì, sì, molto: rispose Francesco, cercando sempre di dare alla voce il suo tono naturale.

– C'era molta gente, non è vero? E che lusso neh? Ci saranno state tutte le belle signore di Torino.

– Sicuro… Una confusione di gente da non poter trovar luogo nè da stare, nè da respirare.

– A proposito di bellezze, c'era ella quella nobilissima signorina che fu compagna di Maria nel poco tempo che tua sorella stette nel convitto del Sacro Cuore, madamigella?.. Com'è già che si chiama?

Francesco ebbe una lieve contrazione del viso che indicava quanto quella domanda lo turbasse: non ebbe forza a rispondere di subito. La madre, credendo che il figliuolo non avesse compreso di chi ella voleva parlare, si volse indietro del capo, mentre seguitava a star curva presso il fuoco e soggiunse:

– Sai bene quel fior di bellezza, la nipote del marchese di Baldissero?

Francesco fece uno sforzo su se medesimo, e rispose come se gli si parlasse d'una cosa indifferente.

– Sì, sì: madamigella Virginia di Castelletto. La ci era… – Si fermò un istante e gli sfuggì un lieve sospiro, poi soggiunse: – … E più bella che mai.

La madre si alzò colla caffettiera in mano, versò in una chicchera il liquido fumante, e messovi dentro lo zucchero, venne presso al giovane agitando il cucchiarino.

– To', Cecchino, e dimmi se l'ho saputo fare al solito secondo il tuo gusto.

– Eccellentissimo: disse il figliuolo, appena ne ebbe preso un sorso: eccellentissimo come sempre.

Bevette, poi rimise la tazza nelle mani della madre; mentre questa andò a riporla sopra la tavola di marmo d'una mensola, Francesco s'alzò da sedere, si passò la mano sulla fronte, ed afferrato il suo mantello, se lo gettò sull'avanbraccio sinistro.

– Addio mamma, diss'egli, mettiti a letto e fa di dormir bene.

– Vai già? Domandò la signora Teresa che, posata in fretta la tazza, si volse vivacemente verso il figliuolo.

– Sono stanco, ho bisogno di riposare ancor io… Dàmmi un bacio, mamma.

Nel dire queste parole, la voce del giovane tremò un pochino. Teresa se ne accorse, fe' rattamente saltar via di sopra la lampada il coprilume e d'un balzo fu presso il figliuolo, le sue mani sulle spalle di lui, il volto innanzi al volto, gli occhi entro gli occhi. Vide allora il pallore di Francesco, vide i tratti accusare un turbamento interno che invano e' si sforzava nascondere, vide la nube di mestizia che ne copriva la bella fronte, ordinariamente così serena, seggio della sincerità.

– Tu hai qualche cosa, Francesco? Di certo t'è capitato alcun che? Oh che cos'hai?

Il giovane scosse il capo in segno negativo, non fidandosi abbastanza della fermezza della sua voce.

– Forse non ti senti bene?

Francesco avvisò che fra i motivi d'inquietudine per la buona madre, questo della salute era ancora minore d'assai di quello che sarebbe stato il conoscere la verità, e tostamente si decise di accettare la scappatoia che così gli veniva offerta.

– Gli è ciò: diss'egli. Non mi sento del tutto bene… Ma l'è una cosa da nulla, si affrettò a soggiungere. Il gran caldo di quelle sale, la luce soverchia, i profumi mi hanno dato un po' alla testa.

– Santa Madonna della Consolata! Esclamò la buona madre tutto già l'animo sottosopra. Ecco! Hai voluto venirne a piedi, ti sarai presa una costipazione…

– Ma no, ma no…

– Ed io che invece di lasciarti andare subito a coricare ti tengo qui!.. Presto presto che prendo lo scaldaletto e ti vado a metter sotto le coltri.

Il figliuolo volle dissentire, pregò la madre di rimanersi nella camera sua e di non farne nulla; ma ogni sua parola fu inutile, Teresa pose nello scaldaletto tutta la bragia che c'era nel suo camino, spinse Francesco nella camera ove dormiva, lo sollecitò aiutandolo a spogliarsi, e non lo lasciò più, finchè non lo vide colle coltri fin sopra le orecchie.

Prima di ritirarsi, e Francesco la pregava di andare a letto ancor essa senza ritardo, ch'egli si sentiva un gran sonno, Teresa depose un bacio amorosissimo sulla fronte del figliuolo, e gli disse:

– Dormi bene; se hai bisogno di qualche cosa, suona che io sarò qui subito.

– Sì, sì, grazie; ma non avrò bisogno di nulla. Dormi bene anche tu mamma. Fra poche ore sarò guarito.

La madre uscì su queste parole.

Francesco le tenne dietro collo sguardo pieno di amore, e quando essa ebbe chiuso l'uscio alle sue spalle il giovane sorse a sedere sul letto.

– Fra poche ore: diss'egli. Chi sa che cosa sarà di me?

Stette così un poco, immobile, sovrappreso dal tristo pensiero, poi sentendosi intirizzire dal freddo della notte, si riscosse, saltò giù dal letto ed acceso un lume si vestì di fretta. In quel punto rientrava la carrozza ch'egli aveva mandato a cercare dal portiere. Francesco guardò l'ora: erano le cinque meno un quarto.

– Ho più di due ore per provvedere alle mie cose: diss'egli.

Sedette alla sua scrivania e scrisse due lettere, una per suo padre, l'altra per la madre. S'interruppe assai volte nell'opera sotto l'assalto d'una profonda emozione. Chiese loro con calda supplicazione perdono del dolore che avrebbe cagionato, se egli fosse stato soccombente nel duello a cui stava per recarsi; il pensiero di questo dolore essergli amarissimo, disse, ed avrebbe egli in quel punto dato qualunque cosa per loro poterlo risparmiare, ma al triste passo essere indotto da ineluttabile necessità, a cui senza disdoro non avrebbe potuto sottrarsi: villanamente insultato da un prepotente, sarebbe stato indegno d'esser loro figliuolo, di portare il nome onorato di suo padre, se non avesse propulsato l'iniquo oltraggio. Nella lotta a cui stava per recarsi e cui certo avrebbero condannato i sentimenti religiosi di sua madre, evidentemente lo assisteva la ragione, e Iddio pietoso non l'avrebbe abbandonato.

Quando ebbe finite queste lettere rimase alquanto col capo reclinato e chiuso fra le palme delle mani, i gomiti appoggiati alla tavola. Una maggior tranquillità entrò in lui. Pensò che al cimento nè la sua mano, nè la sua voce non dovevano tremare; bagnò d'acqua fresca un tovagliolo e si inumidì la fronte e le tempia; si atteggiò innanzi allo specchio per provarci l'aspetto e le mosse che avrebbe dovuto avere in presenza dell'avversario; impugnò una pistola e tolse di mira l'immagine sua entro la lucida lastra, per avvezzarsi a guardar freddamente la bocca nera dell'arma rivolta minacciosamente verso la sua testa; poi sorrise di sè, gettò la pistola sul letto e passeggiò un poco per la stanza con piede riguardoso, a capo chino. Ad un punto gli parve udire un lieve rumore nelle camere vicine; il suo cuore gli fece indovinare ratto che cosa fosse; fu d'un balzo presso il lume e lo spense; poi stette immobile, trattenendo il fiato, ma col cuore che gli batteva. Era la buona madre inquieta, che veniva con passo leggiero ad origliare all'uscio se il diletto figliuolo dormisse. Teresa socchiuse la porta ed ascoltò attentamente un istante; non vide nulla nell'oscurità della stanza, non udì il menomo rumore; esitò un momento, vogliosa di accostarsi al letto del figliuolo e vederlo, timorosa di turbargli il sonno salutare; vinse il timore e la si allontanò chetamente come la era venuta.

– Quanto mi ama! Esclamò Francesco, giungendo le mani con un fervido accesso di riconoscenza. Povera madre mia!

Pochi momenti dopo il giovane vestì il pastrano, si pose in testa il cappello e pigliate le due lettere che aveva scritte, discese con passo guardingo nel cortile, passando per la medesima scaletta per cui era salito. Nell'officina, nelle scuderie, nella casa, tutto era ancora chiuso, scuro e muto. Francesco picchiò all'uscio della loggia del portiere e chiamò a voce contenuta ma vibrata:

– Bastiano!

Il grosso uomo che abbiamo già veduto non tardò a rispondere all'appello, e venne fuori avvolto nel suo pastranone.

– Fa il piacere, gli disse il giovane, apri lo sportello. Ci devono venire due amici a cercarmi e non voglio che abbiano a picchiare.

Bastiano obbedì senza la menoma osservazione, quantunque trovasse strana la venuta di visitatori sì mattinieri. Francesco fece avvivare il fuoco nella stanza del portinaio e sedutosi presso il camino stette aspettando. Il portiere notò la preoccupazione del giovane, ma non osò interrogarlo. Il sospetto però che qualche cosa di disaggradevole fosse avvenuto o minacciasse di avvenire al padroncino lo assalse. Suonavano le sette all'orologio dell'officina, quando una carrozza si fermò sul viale dirimpetto al portone della casa, e tosto dopo il dottor Quercia entrava nell'andito dove Bastiano, mandatovi dal padrone, stava col lume in mano per guidarlo nel camerino in cui Francesco aspettava.

Non ebbero ad attendere gran tempo che giunse correndo Giovanni Selva.

– Andiamo: disse Francesco alzandosi con risoluzione.

– Ho pensato di venire colla mia carrozza: disse Gian-Luigi; e credo che la ci può servire.

– Avete fatto benissimo.

I tre giovani uscirono. Bastiano era lì sul passo dell'uscio, col lume in mano, irrequieto, dubbioso, con ansiosa curiosità. Francesco, passandogli innanzi, prese a quel brav'uomo una mano e glie la strinse.

– Addio Bastiano: gli disse con accento in cui c'era più affetto che non nelle occasioni ordinarie.

Il vecchio e fidato servitore sentì un certo rimescolo, che gli parve un funesto presentimento. Volle parlare e non seppe che cosa dire; volle trattenere il padroncino e non osò; stette lì intento a guardarlo mentre attraversava le file degli alberi del viale e saliva coi suoi due compagni nella carrozza. Questa era già partita, e il buon Bastiano era ancora là piantato.

– Mah! Diss'egli poi togliendosi da quel luogo e crollando la testa: tutto ciò mi ha un'aria grandemente sospetta.

Una pallida luce incominciava a diffondersi pel grigiastro orizzonte e su per la campagna coperta di neve: questa cadeva tuttavia a lenti fiocchi e tutto era silenzioso come la tomba.

L'ombra d'un uomo, che nessuno aveva scorto, si staccò da una pianta dietro cui si nascondeva; fece alcuni passi sollecitamente per il viale, e mandò un fischio: due altre ombre si staccarono dai tronchi degli alberi, e vennero a raggiungere quella prima; queste due ultime avevano la montura di carabiniere.

– Al cimitero: disse vibratamente, con accento di comando, il primo di questi individui colà appiattati: correte.

I carabinieri non aspettarono altro, e presero la corsa nella direzione medesima per cui s'era avviata la carrozza.

E diffatti queste medesime parole – Al cimitero – aveva dette il dottor Quercia al cocchiere, salendo l'ultimo nel suo legno; poichè infatti colà era stato fissato il ritrovo ed il luogo pel duello che doveva aver luogo quella mattina fra il marchesino di Baldissero e l'avvocato Francesco Benda.

Quest'ultimo, in carrozza, affidò a Giovanni Selva le lettere che aveva preparate per suo padre e sua madre, da consegnarsi loro quando a lui toccasse la peggior sorte; Luigi Quercia diede alcune istruzioni ed ammonimenti a Francesco intorno al modo di governarsi sul terreno: e venti minuti non erano trascorsi da che avevano abbandonato la casa Benda, quando le grigie muraglie del Campo Santo e gli alti filari de' pioppi nudi di foglie apparvero agli occhi del dottore, che stava guardando traverso i cristalli.

– Ferma: gridò egli al cocchiere.

I tre giovani scesero di carrozza.

– Gli è qui che ci dobbiamo incontrare cogli avversarii; disse Quercia, mostrando il viale che conduce all'ingresso principale del Campo Santo. Siamo noi i primi al convegno, e non me ne dispiace.

Diffatti non c'era anima viva in quel luogo, e Francesco e i suoi padrini si diedero a passeggiare, aspettando, sulla neve che copriva tutta la strada.




CAPITOLO II


Poco tempo dopo la uscita di Francesco, l'officina Benda era tutta in moto, e si svegliava altresì la casa del proprietario di essa. Gli operai avevano cominciato il lavoro, i tanti rumori delle diverse opere s'intrecciavano e si confondevano in un rumor solo, gli alti camini de' fornelli fumavano, le fiamme delle fucine si curvavano e strepitavano candidissime al vento de' mantici che soffiavano con pesante raucedine, la voce sonora d'alcuni lavoratori accompagnava col canto il batter de' martelli sulle incudini, e su tutto questo seguitava a cadere lenta lenta a larghe falde la neve.

Il signor Giacomo, il principale, secondo il solito è sceso un dei primi nell'officina a dare gli ordini opportuni, a curare l'avviamento de' lavori, a provvedere con intelligente prontezza intorno a quanto occorra per la mattinata. È un uomo che passa i sessant'anni, ma forte e robusto. La razza laboriosa e dura alle fatiche a cui appartiene, lo stampo dell'uomo nato pel lavoro manuale che fu quello dei suoi maggiori, si scorgono ancora in lui, mentre nel figliuolo, che ha il vantaggio di costituire già una terza generazione in quella famiglia di agiati, la cui ricchezza cominciò coll'opera dell'avolo, nel figliuolo, dico, quello stampo e l'indizio della razza di proletario sono quasi affatto scomparsi. Giacomo, giovane, lavorò ancora materialmente e indefessamente sotto la vigilanza di suo padre che non era stato tuttavia assalito dalla malattia moderna dell'ambizione di imbrancarsi ad una più alta sfera sociale che la sua non fosse. L'abitudine dell'operosità aveva in Giacomo lasciato svolgere molti de' germi fisici e morali della sua natura originaria d'operaio: nel figliuolo invece, l'educazione signorile e il frequentare la classe oziosa ed elegante, hanno con un ambiente diverso prodotto altri gusti, altre qualità, altre tendenze, quasi direi, altre forme esteriori altresì.

Giacomo è piuttosto basso di statura, grosso e tarchiato, ha una testa voluminosa, colla fronte bassa e quadrata, e con una folta ed arruffata capigliatura tutto grigia. Nel volto ha il colore acceso dei temperamenti sanguigni, e l'aria franca e decisa d'un'indole generosa e d'un carattere fermo; la forza della volontà gli si appalesa nello sguardo sicuro, nelle linee nette ma non dure della bocca facilmente dischiusa al riso. Cammina quasi sempre affrettato, come uomo spinto da premurose bisogne, le spalle rotonde, il passo pesante, le mani in tasca. Parla piuttosto volentieri, e, quando discorre della sua industria, come di cosa che conosce a perfezione, parla con una certa caldezza ed evidenza che non tornano disgradite; ma pur troppo non sa nulla più in là delle cose del suo mestiere, e discorsi di arte, letteratura e politica lo fanno sbadigliare. Veste ricchi panci senza affettazione, anzi senza eleganza affatto: e le sue mani corte, tozze, rugose, di color bruno, colle dita a punte quadrate, sono irreconciliabili nemiche coi guanti.

Quella mattina in cui Francesco andò a battersi col marchesino di Baldissero, adunque, il sig. Giacomo, fatta la sua solita comparsa e il suo solito giro nell'officina, attraversava il cortile per rientrarsene in casa, quando, alzato il viso vide dietro i cristalli d'una finestra l'allegra faccia color di rosa d'una fanciulla sorridergli amorosamente con cenno di saluto. Era sua figlia Maria, che, saltata giù allor allora dal letto, tutto arruffata ancora le sue abbondevoli chiome di color castano, veniva a contemplare il cader della neve coi suoi grandi occhioni neri pieni di dolcezza e di giovanile allegria. La sorella di Francesco non avrebbe potuto essere esaltata come un tipo di bellezza. Le irregolarità delle sue fattezze erano troppe in faccia alla severa esigenza delle regole estetiche. Nulla di men greco della sua fronte un po' sporgente, del suo naso capriccioso, della sua bocca troppo larga, de' suoi occhi troppo grandi; ma questa unione di difetti formava un complesso graziosissimo a vedersi, a cui davano una simpatica piacevolezza la liscia e rosata carnagione, il fiore della gioventù, un'espressione indicibile di lieto umore e di bontà. Maria era la vivacità incarnata della casa, e suo padre soleva chiamarla l'uccello della famiglia; che infatti il suo frugolo e leggero correr di qua e di là, e il suo allegro chiaccherare imperlato di risa poteva paragonarsi al saltellare ed al cinguettìo d'un augelletto.

Vedendo suo padre traversare il cortile sotto il fioccar della neve, Maria non si contentò di salutarlo col moto del capo e col sorriso; aprì vivamente le invetrate e porse in fuori alla fredda brezza di quella mattinata invernale il suo visino color delle rose e le sue labbra color delle ciliegie.

– Buon giorno, papalino: gridò essa coll'accento petulantello d'un beniamino: hai dormito bene?

Giacomo volle corrugare la sua fronte bassa per darsi un'aria di severità e di malumore, cui non riuscì a prendere.

– Sei matta? Esclamò egli colla sua voce robusta. Vuoi prenderti un raffreddore? Aprir la finestra ed esporsi all'aria con questa temperatura! Dentro subito e chiudi più che in fretta.

La capricciosa ragazza scosse vezzosamente la testa da cui piovevano in disordine le sue treccie ricchissime.

– Oibò! Sai bene, papà, che io non patisco nulla… Guarda la bella neve che vien giù!.. È un piacere il vederla… Com'è tutto bellamente bianco, pulito! Si direbbe che la natura ha fatto il bucato ed ha steso sulla terra le lenzuola… To' aspettami un momento, babbo; salto giù e vengo teco a scalpitarne un poco di quella bella neve che nessuno ancora ha toccato. Voglio mangiarne una bella manciata. A me mi piace tanto mangiar la neve!

E prima che il padre avesse tempo a dire pure una parola, Maria aveva richiuso le invetrate ed era sparita dalla finestra; ed un minuto dopo, per la scaletta da cui abbiam visto passar Francesco, la si precipitava saltellando nel cortile, coperto il capo da un cappuccio, avvolte le spalle in un mantelletto.

Fu in un balzo presso il padre che voleva rampognare e non poteva che sorridere.

– Ah! non far nemmanco mostra di sgridarmi, chè già non ne hai voglia: diss'ella gettando le sue braccia al collo del padre e baciandolo sonoramente sulle due guancie. Vedi! A me questo po' di aria libera mi fa bene.

– Avviluppati, se non altro, con più cura, disse Giacomo, serrando egli stesso i lembi del mantello al petto della figliuola. Sei tu almeno calzata a dovere?

– Altro che! Esclamò la ragazza trionfante, e colle due mani sollevando alquanto la sottana, mostrò sotto i lembi di essa, tendendo il suo piedino destro, uno stivaletto di cuoio colla pelliccia. Guarda! Potrei viaggiare per tutte le nevi della Siberia.

E tenendo così sollevate le vesti, la bricconcella, corse senz'altro nel mezzo del cortile, dove la neve era più alta, affondando in essa fin quasi alla caviglia: i due cani di guardia imitarono l'esempio della giovane padrona e lietamente abbaiando, vennero a saltellare intorno e con lei che si piaceva di eccitarneli con qualche carezza. Il padre, fermatosi ad un lato, guardava quella piacevol scena e sorrideva lietamente: sentiva in quel punto tutta la sua felicità paterna.

– E Francesco? Gridò egli in quel punto a Maria, come se avesse bisogno di associare alle dolci impressioni di quel momento il nome di suo figlio per averne compiuto il suo diletto di padre.

Maria aveva presa una buona manciata di neve colle sue manine sguantate, a cui un critico severo non avrebbe potuto trovare che tre difetti: d'essere un po' rosse, d'aver le unghie un po' corte e non abbastanza convesse, di avere la punta dell'indice della mano sinistra tempestata di piccole forature prodotte dall'ago nell'opera del cucire. Levò verso suo padre la faccia e mordendo tuttavia in quella neve co' suoi dentuzzi più bianchi di essa, rispose:

– Oh! sor avvocatino dorme. È stato a ballar tutta la notte lui; perchè egli è un uomo e può andar a ballare.

Giacomo sorrise.

– Vorresti esserci stata anche tu, eh?

– Vorrei di meglio: soggiunse la ragazza ridendo. Esserci stata è tempo passato, e quello che è passato è passato: vorrei andarci in avvenire.

Crollò le spalle, diede un'abboccata alla neve che teneva in mano e riprese con tutta filosofia:

– Ma la mamma dice che le ragazze non ci devono andare a quei balli, e che ci vanno soltanto le maritate, le quali mi pare dovrebbero rimanere a casa a far le madri di famiglia… E aspetto adunque d'essere maritata ancor io per andarci.

E si mise di bel nuovo a saltellare in mezzo alla neve, e i cani di conserva con lei.

– Che matta! Esclamò col medesimo tono giulivo il padre; ma poi tosto con accento più serio: – Oh basta ora. Maria, che ti vuoi render fradicia? Vieni qui subito.

La fanciulla ubbidì senza mostrare troppo rincrescimento, e fu a lato del padre. Questi le aggiustò alcune ciocche di bellissimi capelli che, saltate fuori del cappuccio, le cascavano sul volto animato dai più vivaci colori della gioventù e della salute, e soggiunse:

– Sarai tu sempre bambina quel medesimo? Parli di maritarti, e pare che non abbia più di dodici anni!

– Oh oh ne ho sedici suonati; disse la giovanetta con tono d'importanza, tirandosi su della persona.

In quella compariva ad una finestra della casa la buona faccia della signora Teresa. Essa aveva aperto le invetrate e si sporgeva in fuori, chiamando suo marito e sua figlia.

– Venite, diceva con voce riguardosa e contenuta: il caffè è pronto.

Maria si cacciava a correre verso la casa, gridando a gola spiegata colla sua voce fresca ed armoniosa:

– Ah cattiva d'una mamma, me l'hai fatta anche questa volta! – E non mi hai dato tempo di prepararlo io il caffè… Aspetta aspetta che vado a castigartene io con tanti baci da stordirti.

La madre colla mano e colla voce accennò alla figliuola non facesse tanto chiasso.

– Vuoi azzittire? Tu sveglierai Cecchino che dorme e che ha bisogno di dormire.

La giovane ammortò i passi e l'allegro suono della voce, ma non cessò di correre verso la stanza della madre, dove fu in un battibaleno e dove, gettate le braccia al collo della signora Teresa, mantenne ad esuberanza la promessa fattale poc'anzi di darle tanti baci da stordirla.

Giacomo sopravvenne un istante di poi, quando la mamma sorridente sotto quella grandine di carezze figliali, diceva a Maria con ischerzosa minaccia:

– Vuoi star ferma, diavoletto che sei?.. Finiscila o t'aggiusto io.

– È bella e finita: disse la frugola ragazza, aggiustando in capo alla madre la cuffia che le aveva mandato di traverso: e poi con tutta serietà s'appressò al piccolo tavoliere su cui stava preparato il vassoio colle chicchere e mescette il caffè.

Era abitudine costante di quella buona famiglia il radunarsi la mattina, appena alzati, tutti insieme a prendere il caffè nella stanza della mamma. Il padre sedeva sopra il seggiolone più presso al camino (quello in cui poche ore prima di questo momento abbiam visto Teresa far adagiare il figliuolo), la madre si assettava sovra una bassa seggiolina innanzi al marito, e frammezzo a loro due solevano mettersi Francesco e Maria, quello allato alla mamma, questa al papà. A questa radunanza non ci mancava mai nessuno, fuorchè il giovane avvocato, quando avea passata la notte, come ora era il caso, in qualche festa: e l'abitudine di esser tutti insieme era tale che quelle volte riusciva sempre spiacevole agli amorosi genitori il veder fra lor due la seggiola vuota, e sul vassoio una chicchera che non si riempiva.

– È rientrato tardi Francesco stanotte? Domandò Giacomo fra un sorso e l'altro di caffè.

– Poco più dopo le tre; rispose la madre.

– Tu già, secondo il solito, sei stata aspettandolo!

Teresa fece un piccol moto del capo che voleva dire: – È naturale.

– E questa mattina, continuò il padre, sor Francesco dormirà di sicuro fino a mezzogiorno.

– Ne ha bisogno: disse vivamente la madre. Quando è rientrato stanotte non si sentiva bene gran che…

Giacomo levò vivamente la testa, interrompendosi nel sorbire il caffè.

– Non si sentiva bene? Esclamò con vivo interesse.

– Ma non mi parve cosa d'importanza: s'affrettò a soggiungere la madre. Disse che il troppo caldo gli aveva fatto venire mal di capo. Figurati che per prendere aria, egli volle venire di Piazza San Carlo fin qua a piedi.

– Che imprudente!.. A rischio di pigliarsi una malattia ed a rischio altresì di cascar nelle mani di qualcheduno di quei birbanti che pur troppo tengono il campo la notte, e che formano quella banda che chiamasi la cocca.

– È vero! Esclamò la madre spaventata ora da un pericolo a cui non aveva pensato dapprima. E noi siamo così isolati e così lontani su questo viale!

– Lo ammonirò io ben bene perchè ciò non gli capiti più: disse il padre. E intanto chi sa ora come sta?

– Dorme tranquillamente, e spero che ciò gli vorrà far bene più d'ogni altra cosa.

– Dorme? Ripetè Giacomo, il quale pareva esitante intorno al pensiero di andarsene a chiarire coi proprii occhi.

Teresa che sospettò questo proposito nel marito, sapendo come per quanta cautela egli usasse, il suo passo pesante, avrebbe svegliato il figliuolo ove Giacomo fossegli venuto in camera, s'affrettò a soggiungere:

– Sono già andata più volte ad origliare alla sua porta; ho anche dischiuso pian piano l'uscio e non l'ho udito a muovere menomamente.

– Non l'hai visto in faccia?

– No, perchè la stanza è tutto scura e non volevo accostarmi al letto per timore di destarlo.

– Hai ragione: disse il marito che capì come quello indirettamente era un avviso a lui di non volerci andare. Lasciamolo dormire.

In quella s'udì un legger picchio all'uscio della stanza.

– Avanti: gridò Giacomo; e un domestico aprì il battente e mise dentro la testa.

– C'è una povera donna che domanda di parlare a Madama.

– A me? Disse Teresa. Una povera donna? Non ha detto chi sia?

– No; rispose il domestico, ma io l'ho riconosciuta.

– E chi è dessa dunque? Domandò a sua volta Giacomo volgendo la testa alla porta.

– Gli è quella poveretta che già venne parecchie volte a domandare l'elemosina; la moglie di quell'operaio che lavorava qui nell'officina e che si fece mandar via perchè era sempre ubbriaco.

Giacomo scosse la testa.

– Eh! questa non è un'indicazione precisa. Pur troppo sono parecchi gli operai che debbono avere tal sorte.

– Quella mingherlina, malaticcia, nera di capelli; soggiunse il domestico; a cui non è più d'un mese. Madama inviò in un fagotto alcune vesti ed alcune biancherie…

– Ah! Paolina: esclamò Maria, battendo le mani tutto lieta d'aver indovinato; la moglie di quell'Andrea.

– Precisamente: disse il domestico: ora mi ricordo anch'io del nome.

Giacomo si alzò da sedere.

– E vuol parlare a mia moglie?

– Sì signore.

– Uhm! Gli è per domandare nuovi soccorsi… Tu farai quello che vuoi, Teresa, ma qualunque cosa tu le dia, gli è tanto che aggiungi a mantener i vizi di quell'ubbriacone di suo marito.

– Giacomo! Mormorò la moglie con accento tra di supplicazione, tra di rimprovero.

– Ti dico che ti lascio fare quello che vuoi: soggiunse vivamente il marito che comprese quella velata rampogna; ma le mie parole sono vere come il vangelo. Oh guarda, ne vuoi una prova? Tu le hai mandato vesti e biancherie non è molto tempo: ebbene io son sicuro che non hanno più nulla di nulla, nè la donna nè i bambini.

E rivolgendosi al domestico:

– Di' un po' tu; come la è vestita?

– Oh a strappi che la è una compassione, precisamente com'era quando Madama le ha dato le vesti.

– Vedi! E se mai tu entrassi nella soffitta di quella gente, vedresti i bambini senza uno straccio di camicia addosso. Ora vuoi tu sapere che cosa ne fu di tutta quella roba che le hai dato? Sor Andrea l'ha venduta per pochi soldi affine di andarsi ad ubbriacare. Ora io mi domando se non è un alimentare il vizio il far carità a quella razza di gente.

Teresa non pareva molto convinta di quell'argomentazione del marito, ma non sapeva trovare una parola da opporvi; ben la trovò Maria che vivacemente proruppe:

– Ah babbo!.. E i bambini?

Giacomo guardò sua figlia come sovraccolto; stette un poco e poi disse:

– Hai ragione. I bambini non ci hanno colpa e qualche cosa per essi non convien rifiutarlo.

Teresa colse a volo questa più esplicita permissione maritale, sorse lesta e frugando nelle profonde saccoccie del grembiale che portava dinanzi, ne trasse un pizzico di monete che andò a porre nella mano del domestico.

– Prendete, recatele codesto.

Quando il domestico fu uscito. Maria disse a mezza voce:

– Sarebbe forse stato meglio che l'avessimo ricevuta quella povera donna.

Il padre che udì quelle parole si volse alla figliuola con qualche vivacità:

– Avresti udito dei piagnistei che ti avrebbero commossa inutilmente.

– Perchè inutilmente?

– Perchè rimediare a quei mali ti sarebbe impossibile…

– Impossibile! Esclamò la ragazza crollando la testa. Non siamo noi ricchi?

Giacomo sorrise.

– Bambina! La nostra ricchezza non tarderebbe a sfumare, se tu volessi riparare dalla miseria i poveri che ti domandano soccorso. L'elemosina non può che recare un rimedio temporaneo; e dev'essere così, altrimenti non ci sarebbe giustizia, ed una malintesa carità premierebbe l'infingardaggine. Dà retta. Io credo usare assai meglio dei miei capitali impiegandoli nella mia industria e facendo così guadagnare il vitto a tante famiglie di laboriosi operai, che non se dividessi le mie sostanze con tre o quattro miseri per farli vivere nell'ozio in un'agiata mediocrità.

Maria non capì bene del tutto la teoria economica cui adombravano le parole di suo padre, ma sentì pur tuttavia che in esse vi era un fondo di vero. Stava per muovere una sembianza d'obbiezione affine di farsi spiegar meglio la cosa, quando il domestico si presentò di nuovo all'uscio.

– Quella donna, diss'egli, ringrazia con tutto calore Madama della sua carità, ma insiste, piangendo, perchè voglia farle la grazia di riceverla, e dice che questa sarà una carità più fiorita ancora.

Teresa, avvezza a dipendere in ogni cosa dalla volontà di suo marito, volse verso di lui uno sguardo interrogatore; ma quella petulantella d'una Maria, senz'attendere dell'altro, esclamò tutto animata:

– Oh sì, sì, bisogna riceverla… Fatela venire… Non è vero, mamma, non è vero, babbo, che bisogna farla venire?

Il padre fra il pollice e l'indice della mano destra prese il mento di Maria e disse scherzosamente:

– Che testolina che vuol fare a suo modo!.. Ricevete pure quella povera donna. Voi siete due buone anime pietose, ed è anche necessario che si dia alimento alla vostra pietà. Badate però che non bisogna mai credere tutto quello che contano i poveri per eccitare la compassione altrui…

S'interruppe come pentito d'essersi lasciato sfuggire queste parole.

– Però, riprese, non è mai in codesto che il lasciarsi ingannare sia colpa nè disdoro.

Il domestico era ito a prender la donna; Giacomo s'avviò alla porla che metteva nella sua stanza e nel suo studiòlo.

– Vi lascio in santa libertà.

Era già mezzo fuor dell'uscio, quando il bravo uomo si rivolse indietro a soggiungere:

– Quella poveretta, venendo fin qua per questo tempo, sarà tutta immollata. Potreste darle la tazza di caffè che non ha presa Francesco.

E sparì chiudendo l'uscio dietro sè.

– Com'è buono il babbo! Esclamò Maria. Con tutte le sue teorie utilitarie ha un cuore più tenero del nostro.

E chi avesse voluto in quel medesimo istante avere una prova del cuore tenerissimo che albergava in quel corpo di grossolano aspetto, non avrebbe dovuto che seguire il buon Giacomo quando uscì della stanza di sua moglie.

Egli s'era avviato verso il suo studiòlo, ma non aveva fatto la metà del cammino che aveva cambiato direzione e s'accostava alla camera in cui credeva che dormisse il figliuolo. Giuntone all'uscio, si fermò, stette un momento ascoltando, posò piano piano la destra sulla gruccia della serratura ed aprì, poi spinse il battente e cacciò dentro lo sguardo: la stanza era tutto scura da non potercisi vedere null'affatto. Volendo ficcare in mezzo ai battenti la sua testa, Giacomo spinse ancora un poco l'uscio, e questo mandò uno scricchiolìo. Il brav'uomo trasalì, come spaventato, rimase immobile a quel posto un istante, e poichè nulla udì muoversi tuttavia, mandò un sospiro, richiuse piano piano la porta e disse seco stesso:

– Per fortuna non s'è desto. Povero Cecchino! Lasciamolo dormire.

E se ne andò adoperando ogni possibil cautela per ammorzare il suo passo pesante.

Paolina frattanto era stata introdotta nella camera della signora Teresa, dove quest'essa e la figliuola Maria stavano aspettandola.

Nella prima parte di questo racconto, abbiamo visto la infelice donna andar cercando suo marito Andrea nella ignobile taverna di mastro Pelone, affrontare i mali trattamenti di Andrea e le insolenze del perfido amico di lui, Marcaccio, ma riusciva pur tuttavia a trarsi seco il suo uomo per ricondurlo alla denudata soffitta dove aspettavano pane i loro figliuoli. Abbiamo visto come fosse tale il miserevole aspetto di questa donna da ispirar compassione a chiunque la mirasse; livida, macilenta, strappata, senza forze qual essa era[1 - Vedi I Derelitti, capitolo VII.]; ora, nel momento in cui timorosa, tremante per emozione e per freddo, gli occhi rossi, ella si presentava sulla soglia della stanza della signora Teresa, la notte che era trammezzata, pareva aver condotto sul capo a quella infelice un doppio cumulo di anni, di stenti, di dolori e di fisica infermità. Paolina si fermò un istante come per prender fiato; il petto le ansimava penosamente; la sua tosse profonda suonava più cupa e più dolorosa che mai ad udirsi; le sue povere vesti, sottili pel rigore di quella stagione, le stavano serrate addosso sulle gracili membra, immollate com'erano dalla neve piovutale su per la lunga tratta di cammino che la misera aveva fatto a venir sin lì. Girò essa gli occhi intorno quasi smarrita; volle parlare per dare un saluto, ma dalle tremole labbra allividite non uscì che un balbettìo di debol voce; esitò, fece uno sforzo ancora per avanzarsi e parlare; e ruppe in pianto disperatamente.

Teresa e Maria le furono accosto con affettuosa premura; la presero per quelle mani magre, quasi diafane, fredde come ghiaccio e la trassero vicino al fuoco; le dissero generose e soavi parole di incoraggiamento, d'interesse e di compianto.

– Sedete qui, povera donna; e Teresa le additava la bassa seggiola, su cui stava poc'anzi ella stessa: riscaldatevi un po'… Santa Madonna della Consolata, come siete tutta fradicia!.. Lì, così: via, calmatevi; abbiate coraggio… Vi è capitata qualche disgrazia?.. Fiducia nella Provvidenza, mia cara, e rassegnazione ai voleri di Dio.

Maria frattanto, con quella leggiadra lestezza di mosse che le era particolare, aveva riempito di caffè una delle tazze che col vassoio si trovavano tuttavia sul tavolino, ed agitando in essa il piccolo cucchiaio d'argento per farvi fondere lo zuccaro, la porgeva a Paolina, la quale invano si sforzava di frenare le lagrime ed i singhiozzi.

– Prendete, bevete questo po' di caffè caldo: diceva la ragazza colla sua voce così dolce e simpatica; ciò vi renderà un po' di calore in corpo.

– Grazie, grazie: balbettava la misera coi denti che le mozzicavano le parole battendo insieme. Che Dio ne le rimeriti!

Maria s'accorse che Paolina aveva i piedi nudi entro scarpe rotte, in cui liberamente entrava da tutte parti l'umido della strada; ricordò in quel momento come suo padre mezz'ora innanzi si fosse dato sollecito pensiero di sapere s'ella era ben difesa dalla sua calzatura contro l'umido della neve, sentì intorno ai suoi piedini il caldo dei suoi stivaletti impellicciati, e non potè a meno che stabilire una specie di confronto, onde la sua anima pietosa rimase vivamente commossa; senza dire nè un nè due, fu in un salto nella sua camera, e tornò correndo con un paio di stivalini da inverno, i quali, per fortuna, essendo troppo larghi pei suoi piedi, poterono accogliere quelli abbastanza piccoli eziandio di Paolina.

– Lasciate stare quelle orribili ciabatte: disse la buona fanciulla; e mettete questi calzari.

La pezzente rifiutò dapprima, esitò, poi ubbidì, ringraziando commossa, e, nel vedere così buone madre e figliuola, accogliendo nel cuore un po' di speranza che avrebbe potuto conseguire il fine per cui era venuta, ed aveva insistito affine di essere introdotta presso la signora Teresa.

Fu quest'essa che, allorquando Paolina parve un po' riconfortata dal calore della fiamma e da quello della bevanda, e la emozione di lei si fu alquanto calmata, le disse:

– Or via, buona donna, diteci che cosa vi è capitato e che cosa possiamo fare per voi.

Paolina stette silenziosa un momento a capo chino, quasi le mancasse il coraggio; e poi con evidente sforzo cominciò a parlare: ma noi capiremo meglio le triste condizioni di quella disgraziata, se tornando indietro d'un passo, ci rifacciamo al momento in cui, la sera innanzi, ella usciva dalla bettola di Pelone, traendo seco pur finalmente, dopo molti sforzi, il marito ubbriaco.




CAPITOLO III


Andrea si era lasciato condurre a casa dalla moglie, la quale ne aveva dovuto faticosamente sorreggere il passo barcollante. L'aria aperta e il freddo vento della notte avevano giovato alquanto a rischiarare all'ubbriaco la mente dai fumi del vino, e due idee le stavano innanzi precise e distinte: quella de' suoi figliuoli e della moglie che pativano, e quella dei torti ch'egli aveva verso di loro; onde barellando nel suo camminare sostenuto alla moglie, di tratto in tratto sparava una bestemmia, mandava un singhiozzo, faceva un atto di disperazione e borbottava colla lingua grossa ed impacciata:

– I miei figli!.. Pane ai miei figli!.. Sono un miserabile!

Così camminando, stiracchiato, a scossoni, a zigzag, fermandosi ogni tratto, in un tempo triplo di quel che sarebbe occorso, giunsero pur finalmente alla casa che abitavano, la quale, come sappiamo già, era una di quelle possedute da messer Nariccia il bigotto usuraio, e quella appunto in cui abitava egli stesso, e in cui Maurilio aveva passati quei tristi giorni che gli abbiamo udito narrare a Giovanni Selva.

Il signor Nariccia era troppo avaro per rischiarare pur d'un lumicino l'andito e le scale della casa e approfittava dell'incuria municipale, che a quel tempo non imponeva siffatto obbligo ai padroni, per lasciar rompere il naso ai suoi inquilini finchè l'abitudine li avesse guarentiti contro tale pericolo.

Urtando qua e là colle spalle nelle cantonate, coi piedi negli scalini, colla testa negli spigoli delle pareti, guidato, tirato, sorretto dalla moglie, Andrea era oramai pervenuto al terzo piano vociferando le più salate bestemmie di questo mondo, fra cui ricorreva sempre il ritornello: I miei figli, sono un miserabile.

Giusto al terzo piano, l'ubbriaco inciampò, e la moglie, troppo debole per sostenerlo, non potè impedire ch'egli andasse a battere con tutto il peso della sua abbandonata persona, contro un uscio, il quale suonò come percosso da una catapulta.

E qui dalla bocca di Andrea irritato giù una filza di bestemmie e d'imprecazioni.

– Accidenti al padrone di casa!.. Che il diavolo si porti quel ladro avaro, sanguisuga della onesta gente, che non mette manco la miseria di un lumino su questa sua scala maledetta di questa casa del demonio che vorrei profondasse fino giù al fin fondo dell'inferno!..

Paolina aveva bel dire: – Zitto, zitto Andrea, non dir così, vieni, andiamo su: – ed aveva bel tirarlo pel braccio; l'ubbriaco non si muoveva di un punto e gridava ancora più forte.

Ora quell'uscio contro cui il marito di Paolina era precipitato con tanto impeto, metteva niente meno che nel quartiere abitato da Nariccia medesimo; ed ecco – vista tremenda per Paolina – aprirsi in quella l'uscio fatale e comparire il signor Nariccia in persona con una lucerna in mano.

– Che cos'è questo chiasso? Cominciò egli a dire con tutta la severa imponenza di cui era capace. Che cos'è questa temerità di percuotere in tal modo contro l'uscio della mia abitazione? Che cosa sono queste sconcie impertinenze che andate sbraitando?

Paolina volle dire alcune parole di scusa.

– È inutile che cerchiate di negare; ho udito tutto, e se non fosse del debito che ho di buon cristiano di perdonare, ve la vorrei far pagare cara e salata…

Andrea era rimasto sovraccolto al primo apparirgli del padron di casa; ma poi tosto, ripigliando quella certa famigliarità che hanno con chicchessia gli ubbriachi, diceva a sua volta:

– Scusi… Perdoni… sa! Quello che ho detto, l'ho detto… ecco… perchè… corpo d'un accidente… gli è la verità…

– Vieni, vieni: s'affrettava ad interrompere Paolina. Non teniamo qui dell'altro il signor Nariccia a questo freddo.

– Lasciami stare: rispondeva Andrea, respingendo la mano della moglie: voglio parlare… voglio spiegarmi… Ecco! Qui è maledettamente scuro come in una caverna dì briganti… non fo per dire… Non ci si vede la punta del proprio naso.

E Paolina a soggiungere:

– Non abbiamo urtato apposta nel suo uscio; mio marito s'è inciampato e…

– Ecco! Interrompeva l'ubbriaco. Mi sono inciampato. Non è già ch'io non istia ritto sulle mie gambe… Tutt'altro! Sfido qualunque, io!.. Sono un miserabile… sì, va bene… ma non sono punto ubbriaco… Dunque se ho risicato di rompermi la cassa de' corni contro i chiovoni di ferro di quel maledetto uscio lì, non l'ho fatto apposta… Sono un miserabile, è vero, ma non l'ho fatto apposta… Ecco!

– Apposta o non apposta: interruppe bruscamente Nariccia; a me poco importa. Del resto opportunamente mi venite innanzi, chè ho da parlarvi, e giusto pochi momenti sono mi son preso l'incomodo di salire fino alla vostra soffitta. E ciò che ho da dirvi, è detto in due parole. Voi mi dovete sei mesi d'affitto: o pagatemeli domani, o doman sera dormirete in altra casa e non più certo nella mia.

Andrea e Paolina rimasero sbalorditi.

– Gesummaria! Esclamò la donna stringendo le mani e levandole supplichevolmente verso il padrone di casa. Oh buon signore, abbia compassione di noi!..

Ma Nariccia fulminando d'uno sguardo velenoso la povera donna col destro de' suoi occhi birci, mentre col sinistro saettava l'oscurità del vuoto della scala, interruppe fieramente:

– Io non sono un buon signore, io! Sono un ladro, un avaro, una sanguisuga dell'onesta gente. L'avete gridato voi…

– Signore…

– L'ha gridato vostro marito.

– S'accerti…

– Niente. Non voglio sentir più nulla, non voglio dir più niente. Avete udita la mia volontà. Basta!

E richiuse con fragore l'uscio ferrato, dietro il quale si sentì il rumore dei chiavistelli ch'egli tirava e dei catenacci che faceva andare a posto.

– Ah cane d'un cane peggiore d'ogni cane: si diede ad urlare Andrea scaraventando con tutta la sua forza dei pugni contro le imposte dell'uscio, saldo come macigno. Gli è così che si tratta la povera gente? Sulla strada e' ci vuol mettere… Accidenti! Sulla strada i miei figli… Sciagurato! Che sì che se ti prendo per quel cravattino bianco… forca e tenaglie!.. ti faccio schizzar fuori quegli occhi guerci…

La moglie lo pregava a tacere, a venir via di lì, lo tirava con tutta la sua forza, gli tappava colla sua mano la bocca; ma l'ubbriaco resistendo, aggrappandosi al muro, puntando i piedi al suolo seguitava pur tuttavia a gridare colla voce rauca, avvinazzata, di cose parecchie.

– Sono un miserabile io, sì, è giusto… Ma mia moglie, giuraddio!.. ma i miei figli, sacramento!.. Cacciarmeli sulla strada? Oh no, oh no, oh no!

E giù nuovi pugni contro l'uscio e nuove imprecazioni contro il padron di casa.

La moglie riuscì pur finalmente a levarlo di lì; e contrastando, inciampando, borbottando, Andrea pervenne alla fine sin nella soffitta abitata dalla miserissima famiglia. Là dentro regnavano un'oscurità non rotta che dal riflesso bianco della neve sui tetti vicini ed un silenzio che pareva di tomba. I bambini, dopo aver aspettato, dopo aver pianto, dopo aver chiamato invano durante l'assenza prolungatasi della madre, avevano ceduto alla debolezza della età e del digiuno, e s'erano addormentati. L'occhio di Paolina, esercitato a quella tenebrìa, li vide, appena fu essa entrata, giacere tutti quattro sul loro strammazzo, l'uno accosto all'altro, come raccolti in un gomitolo, scaldandosi a vicenda e sorreggendosi, le piccole testine reclinate come fiori appassiti, le gambe ripiegate, immobili come tanti piccoli cadaveri.

La povera madre trasse un sospiro e benedisse in cuor suo la pietà del Signore; dormendo, i bambini almanco non sentivano più il tormento della fame. Oh! avessero potuto dormir così tutta notte, fino a che il domani ella fosse riuscita a procacciarsi un po' di pane per essi! Come avrebb'ella ottenuto codesto? Non lo sapeva, ma confidava nella Madonna, confidava nell'efficacia di quelle preghiere in cui avrebbe consumata tutta la notte.

Ma sperare che i bambini potessero non venir desti era un fare i conti senza l'oste, o per dir meglio senza l'ubbriaco.

Andrea, sempre barcollante, cominciò per urtar malamente in un zoppo trespolino che trovavasi fra i pochissimi e poverissimi mobili ond'era composta la masserizia di quella soffitta, e quindi giù una filza di bestemmie a sfogo del suo dispetto.

– Accendi il lume, Paolina, gridava il marito: oh che io ho da camminare allo scuro come i gatti?

– Il lume? Rispose la donna con doloroso accento, pure ammorzando il suon della voce. Non ce no ho di lume.

– Che? Non ce ne hai?

– No, nè olio, nè candela.

– Vanne a prendere.

Paolina mandò un sospiro che somigliava ad un gemito.

– Se avessi qualche denaro avrei comprato del pane pei nostri figli che dormono digiuni da questa mattina.

L'ubbriaco portò le mani con atto macchinale alle tasche del panciotto, che sapeva vuote pur troppo.

– E non ho manco un soldo da darti! Si mise a gridare, cacciando un pugno a quel trespolo contro cui aveva urtato, ed al quale ora sorreggevasi. Oh! sono un miserabile!..

– Taci, taci: disse la donna: non isvegliare almanco i bambini…

Ma il male era già fatto. I figliuoli al rumore avevano aperto gli occhi, ed a quell'incerto barlume vedendo le ombre di due persone, sollevandosi sul misero giaciglio, intirizziti dal freddo, si posero a dire tutti insieme colla voce piagnolosa:

– Sei tu, babbo, sei tu, mamma? Ci avete portato da mangiare?

– Ho fame, ho tanta fame.

– Mamma, mamma, sono tutto ingranchito… Ho male… ho fame…

E il più piccino, senza formar parola, ricorse tosto al più eloquente linguaggio del pianto, nel quale tosto tosto gli tennero bordone anco gli altri.

Paolina fu presso di loro sollecita, carezzevole, amorosa ad acchetarli, a dir loro fra i baci tante ragioni per cui dovessero aver pazienza e dormire tranquilli per allora e che era troppo tardi in quel momento per trovar da comprar cibo, e che al domattina avrebbero avuto di sicuro pane e companatico e tante tante leccornie. Ma sì! ventre affamato non ha punto orecchi, dicono i Francesi, e i bambini seguitavano a domandare, piangere e strillare della più bella.

Andrea piantato a mezzo la soffitta si dava sempre più del miserabile a piena bocca e dei pugni nella testa a piene mani.

La povera madre, mercè le buone parole e le carezze, la stanchezza loro aiutando, riuscì pur finalmente a far azzittire i bimbi che ricaddero in un sonno di abbattimento da chiamarsi quasi torpore; allora essa li ricopri il meglio che le venne fatto con tutti quei pochi panni che rimanevano alla loro miseria, affinchè sentissero meno il freddo di quella notte invernale, e si rivolse ad acchetare eziandio il marito che continuava a strapazzarsi coi più fieri oltraggi.

– Andrea, gli disse, a qual punto siamo ridotti tu il vedi…

– Non parlarmi, non dirmi nulla, interruppe egli in cui sotto l'emozione l'ebrietà andava alquanto dileguandosi. Tu non puoi movermi rampogna che io non me ne faccia di peggiori.

– Nè io te ne farò pure alcuna. Te l'ho detto che non avrei pronunziato un rimprovero… Non è questo che ti voglio dire. Voglio anzi che tu stesso ti calmi e prenda riposo perchè ne abbisogni, e domani, a mente più fredda, penseremo ai casi nostri; e se tu, pentito come ti mostri, avrai proprio fondato il proponimento di mutar vita e di tornare quello che eri una volta, io benedirò il Signore e la Madonna della Consolata che ci avranno fatta la più bella grazia che potessimo invocare.

Lo prese amorosamente alle braccia, e con dolce violenza lo spinse verso lo strammazzo che loro serviva da letto. Andrea riluttò debolmente e borbottando, bofonchiando, esclamando, gemendo si lasciò coricare, e dieci minuti non erano passati che, intorpidito dai vapori del vino, egli faceva suonar la soffitta del suo robusto russare.

Il marito e i figliuoli di Paolina dormivano; ma non dormiva essa, la povera donna. Non prese nemmanco posto sullo strammazzo; ben sapeva che il sonno non sarebbe venuto alle sue pupille stanche, inaridite, quasi direi consumate dal pianto. Accoccolata presso il giaciglio dei suoi figliuoli, stette lì intirizzita, tremando, battendo i denti tutta quella ghiaccia notte d'inverno. E non era il freddo soltanto a tormentare quel povero corpo! L'infermità che in lei avevano prodotto le privazioni, gli affanni d'ogni fatta le veniva, quasi potrebbe dirsi ora per ora, consumando la vita. Il colpo che quella sera medesima il marito ubbriaco le aveva dato nel petto, avevale accresciuto il dolore e l'affanno del respiro e la tosse penosa. A volta a volta sentiva sotto l'impeto di questa tosse il suo debole stomaco contrarsi in tale spasimo che pareva volesse scoppiare; e l'infelice se lo comprimeva colle mani gelate e convulse. E ancora a quei momenti l'assaliva il timore che la sua tosse così forte giungesse a svegliare i bambini, e quindi a richiamarli al sentimento del loro bisogno che non si poteva soddisfare, alle lamentazioni ed al pianto. Si sforzava perciò a frenarla quella penosissima tosse, e non poteva, e ad altro non riusciva che ad accrescere il proprio soffrire.

E non era nulla ancora il patimento fisico appetto a quello morale ond'era travagliala l'anima sua! Come provvedersi il giorno di poi da sfamare i figli suoi? E se ciò non avesse conseguito, che sarebbe stato di loro? O Dio! Essa vedeva il pallido spettro della fame tendere sulle bionde teste de' suoi piccini l'adunco artiglio. Avrebb'ella dunque dovuto vederli morire? E col padrone di casa come la si aggiustava? In che modo procacciarsi da soddisfarlo? Che cosa escogitare da commuovere quelle ferree viscere da usuraio? Nella sua fantasia delirante, con acuto spasimo nel cervello, che pareva il tagliuzzio di finissime lancette, si formava l'immagine di quello che sarebbe avvenuto. Ella vedeva se stessa e i suoi figli abbandonati sulla via, senza tetto, sopra il cumulo della neve, e soffiando sulle loro membra appena se ricoperte, sulle loro carni allividite, soffiando con aspra intensità il rovaio.

Di sè poco le importava: oh! se essa sola avesse potuto soffrire, e con ciò togliere a quei tormenti i figli, la carne della sua carne!.. Ma gli era questi esseri supremamente diletti ch'ella vedeva contorcersi nel dolore, che udiva gemicolare nell'agonia!..

Donne felici e liete di beltà e di ricchezza, che siete nate e vivete nel prospero ambiente degli agi; mogli e figliuole di arricchiti, a cui le avventurate speculazioni del marito e del padre mettono in potere le enormi somme che vi costano i vostri abiti, le vostre trine, i vostri scialli, i vostri diamanti; non pensate voi mai, in mezzo al tripudio d'una festa, che in quello stesso momento forse – e senza forse – qualche povera madre in una diserta soffitta piange e s'affanna per non aver pane da dare ai suoi figli, per non aver calore da sgranchirne i gracili corpi, per non avere un obolo che ne assicuri il domani?

Oh! pensateci qualche volta!

Ma un'altra immagine eziandio appariva alla fantasia o, dirò meglio, alla memoria dell'infelice, una lieta immagine, ma pur tuttavia non meno, anzi forse più dolorosa ancora della prima: la visione della quieta felicità d'un tempo, ora da parecchi anni perduta. Paolina rivedeva se stessa ricca dell'amore, dell'onestà, dell'abile lavoro di suo marito, felicemente orgogliosa de' primi suoi nati; allora il fiore della salute rallegrava le sue fresche guancie, ed anco il fior della bellezza, s'ella aveva da credere allo specchio ed agli sguardi ed alle susurrate parole con cui la salutavano sul suo passaggio i giovani signori ch'ella non curava; allora la sua mite anima non sapeva che cosa fosse amarezza e il suo sorriso e la sua canzone erano i più allegri del mondo. La si rivedeva al cader del giorno seduta presso la finestra della pulita cameretta, dar gli ultimi punti nel suo cucito, aspettando il ritorno di Andrea, e cullando col piede il bambino – fresco, roseo che pareva un amorino. Poi Andrea rientrava; il lavoro era finito anche per lei, i panni si gettavano in tutta fretta nella cesta, ed ella scattando da sedere si slanciava al collo di lui a dargliene il bacio del ritorno. Il marito divideva i suoi baci fra lei e il figliuolo: poi questo nutrito del latte materno si riaddormentava sorridente in mezzo a loro…

E quei tempi erano iti, e non sarebbero tornati mai più!

Paolina ricordò Marcaccio, il tristo amico d'Andrea, che era venuto a tôrre quest'ultimo ai suoi più sacri doveri, e un odio immenso assalse quella povera anima infelice.

Lunga, tremendamente lunga fu quella fredda notte insonne alla moglie di Andrea; ma pur finalmente ebbe fine ancor essa. Appena un po' di luce diurna si fu messa in quella nuda soffitta pei cristalli della finestra, molti dei quali erano sostituiti da fogli di carta, Paolina svegliò il marito che dormiva tuttora del sonno pesante dell'ebbrezza. I bambini dormivano eziandio, aggruppati ancora tutti insieme, per riscalducciarsi l'un l'altro sotto i diversi panni che la madre aveva rammontati su di loro. Erano pallidi pallidi e livide avevano le occhiaie affondate in cui stavan chiuse le palpebre; e quella dubbia luce del crepuscolo e il biancolastro riflesso della neve dai tetti circostanti accrescevano ancora quel pallore e quella lividezza. L'aspetto loro era tale da serrare il cuore d'un estraneo non che d'una madre.

Andrea, svegliato, si stirò, mandò un'esclamazione che si convertì in isbadiglio, e levandosi a sedere di mala voglia sul suo strammazzo, disse con lingua ancora impacciata per la cotta presa la sera innanzi:

– Che cosa c'è? È già dì?.. Brrrr! Fa un freddo indemoniato questa mattina… Non hai tu più manco una scheggia di legna da fare un po' di fiammata?

Paolina non rispose altrimenti che scuotendo desolatamente la testa.

– Ebbene, potevi lasciarmi dormire: riprese il marito con accento di rimbrotto ed oscurandosi nell'aspetto: almanco non avrei sentito così presto il freddo. Perchè svegliarsi? perchè alzarsi? Non ho dove andare a lavorare io; meglio dormire. Potessi dormire per sempre!

– Più sottovoce: disse la moglie mestamente, pianamente, ma con un certo accento di comando: più sottovoce per non destare i bambini. Loro sì che bisogna lasciarli dormire, perchè non tornino da svegli a sentir la fame, essi che non possono e a cui non tocca provvedere ai loro bisogni: ma noi… noi che dobbiamo pensare e fare… noi si conviene non dormire.

– Ah! Esclamò Andrea recandosi le mani alla fronte, come per raccogliervi le idee.

La memoria degli avvenimenti della sera innanzi glie ne tornò a quel punto: ma le impressioni che egli ne aveva ricevute erano state così annebbiate dai vapori dell'ebbrezza, ch'e' non sapeva se quelle erano vaghe reminiscenze di sogni oppure ricordi veri di fatti.

– Che cos'è dunque avvenuto? Diss'egli quasi esitante. Aiutami un po' a ricordarmene, Paolina. Ieri sono uscito di qua mezzo disperato per andare a cercar lavoro e pane pei bambini.

– E non sei tornato più: disse amaramente la moglie: e noi abbiamo passato eterne ore ad aspettarti invano, i piccini piangendo, io non sapendo più a che santo votarmi per farli acchetare.

Un'ombra di confusione passò sulla fronte di Andrea.

– Che cosa vuoi? Riprese egli, non senza impaccio. Ho girato mezza città per trovar lavoro; ho battuto a un centinaio di porte, e sempre inutilmente. Ero disperato. Non osavo ricomparirvi dinanzi per dirvi: non ho nulla, non ho trovato nulla, non vi ho portato nulla. Giravo senza saper più dove batter del capo, quando ho trovato Marcaccio.

Una fiamma passò negli occhi di Paolina.

– Ed io, non vedendoti tornare, ho indovinato tutto: interruppe ella. Quando la sera fu venuta corsi all'osteria di Pelone. Sapevo che mentre noi spasimavamo qui, tu eri colà…

– Paolina! Esclamò il marito con accento di profonda vergogna, abbassando la testa.

La moglie si arrestò; guardò con occhio pietoso la vergogna del marito ed ebbe la generosità di non dir più che queste parole:

– E là ti ho trovato.

Andrea allora ebbe come un barlume di memoria che nella taverna era avvenuto qualche cosa fra sè e la moglie; gli tornò ad un tratto preciso il ricordo del modo crudele con cui egli l'aveva trattata, del colpo violento datole da lui, della caduta di essa. Levò gli occhi in volto a Paolina, come per vedere in quello se ciò era vero. L'aspetto, lo sguardo, il mesto sorriso medesimo cui abbozzarono le labbra scolorate della donna gli dissero eloquentemente che sì. Non si parlarono in quel punto, ma si compresero ambedue: eravi il più profondo pentimento dall'una parte, il più generoso perdono dall'altra.

Andrea mandò un'esclamazione soffocata e nascose nelle sue mani la faccia.

Paolina lo lasciò un istante alla sua meditazione; quindi, mettendogli dolcemente una mano sulla spalla, riprese a parlare.

– Ma non è del ieri che dobbiamo ora occuparci, gli è dell'oggi che ci si presenta più terribile che mai. Tu non hai mezzo alcuno nè speranza alcuna di trovar lavoro e guadagni…

Il marito scosse dolorosamente la testa.

– Ai bambini conviene assolutamente dar pane…

Andrea levò con impeto la testa, contratti spaventosamente i lineamenti del viso.

– E l'avranno: esclamò egli: l'avranno… dovessi rubarlo.

Paolina gli mise una mano sulla bocca.

– Oh taci!

Vi fu il silenzio d'un minuto; un penoso silenzio in cui non si udiva che l'affannoso respiro della povera Paolina.

Fu questa a ravviare il discorso.

– Il padron di casa, diss'ella abbassando ancora la voce, ha minacciato mandarci via se non gli paghiamo entr'oggi la pigione.

– Gli è dunque vero anche codesto? Esclamò Andrea, il quale erasi lusingato sino allora di aver solamente sognata una sì brutta novella.

La moglie curvò il capo in segno di dolorosa affermazione.

– Alla croce di Dio! Proruppe l'uomo. Tu vedi bene che non c'è più scampo alcuno per noi!

– Forse sì che c'è ancora: rispose Paolina. Ho pensato a codesto tutta la notte, ed ho pregato Iddio, ho pregato tanto che spero non ci mancherà il suo aiuto.

Andrea scosse le spalle in modo che dinotava nutrir egli assai poca fiducia in quell'aiuto supremo.

– Il signor Nariccia, continuava la donna, è un uomo religioso.

– È un impostore.

– Ah! non giudichiamo male del prossimo. Pregandolo in nome di Gesù Cristo, chi sa che non si pieghi a concederci un po' di respiro. Egli va tutte le mattine al Carmine ad udire la prima messa detta da padre Bonaventura, che è suo confessore, e che ha una grande influenza su di lui. Ho pensato dunque d'andar io pure colà, di raccomandarmi a padre Bonaventura di pregare lui messer Nariccia per le cinque piaghe ad averci compassione.

– E fa pur così, poichè te n'è nata l'idea: disse il marito con tono di scoraggiamento; ma non fondarci su molte speranze, chè il cuore di messer Nariccia è di bronzo, e l'anima di quel gesuita è più nera della sua sottana… Del resto poi, mettiamo pure che la tua Madonna del Carmine faccia il miracolo d'intenerire quei sassi, sarebbe già molto, ma ciò non darebbe ancora per oggi, nè per l'avvenire il pane ai nostri figliuoli.

– Anche a ciò ho pensato. Dopo la messa del Carmine andrò al palazzo del marchese di Baldissero…

– Ah! il marchese; disse Andrea con esitazione. Egli ha protestato che non ci avrebbe mai più dato soccorso nessuno… Egli ti strapazzerà, povera Paolina… Egli ti dirà un mondo di male de' fatti miei.

– Il marchese è di cuore così generoso, che, non ostante tutte le sue minaccie di non sovvenirci più in nulla, quando sapesse le tristi nostre condizioni, pur tuttavia non mancherebbe di aiutarci. Ma però ho pensato di non rivolgermi a lui… Duole anche a me sentire a dir male de' fatti tuoi… e non poterti difendere… C'è in quella casa una angelica creatura, la quale non può a meno d'aver pietà di noi: madamigella Virginia; ed ho pensato di parlare a lei.

– Sì, sì: disse Andrea con vivace premura che provava quanto più gli piacesse che se ne parlasse alla signorina che non allo zio marchese; sì, rivolgiti a madamigella Virginia. Oh ella non ti respingerà di sicuro. Anco se messer Nariccia non volesse menomamente cedere alle tue preghiere, come son sicuro pur troppo che avverrà, da quella brava signorina potrai avere, per poco che tu sappia fare, fin anco i denari della pigione.

– Non ne dubito. Ma questo, anche succedendo, come speriamo, se ci trae dalle tremende strette del momento, non ci salva ancora per l'avvenire.

– È vero: disse il marito con voce appena intelligibile, curvando più basso di prima la testa.

– Codesta salute, per noi, continuava la donna, non può venirci da altri che da te. Sei tu che hai da restituire nelle condizioni d'un tempo la tua famiglia, tornando, come già un tempo, al lavoro.

Andrea non osò ancora levare il capo, nè lo sguardo verso sua moglie.

– Ma se di lavoro non posso trovarne a niun modo: diss'egli con voce soffocata.

– Ne troveresti cambiando costumi. Sei tu ben deciso a cessare da questo modo di vita che ha tratto a sì mal passo la tua famiglia?

– Oh sì: rispose il marito.

– Posso io sicuramente prometterlo per te?

– Certo.

– Ebbene, dopo che sarò stata al palazzo Baldissero, correrò all'officina Benda.

– Ah! il sig. Benda è un uomo ostinato: mi ha già scacciato due volte dai suoi lavoratoi, non mi riprenderà più la terza.

– Anche colà mi rivolgerò alle donne della casa. La moglie e la figliuola del signor Benda sono due pietose creature ancor esse.

– Puoi provare: disse Andrea scoraggiatamente: e se riuscirai tanto meglio.

– Non muoverti dunque di casa fin ch'io ritorni. Se i bambini si svegliano, prometti loro che alla mia venuta avranno cibo. Di certo non tornerò senza recare per essi del pane.

E avviluppatasi la testa in un misero fazzoletto, Paolina uscì frettolosa che era l'alba appena.




CAPITOLO IV


Per prima cosa, Paolina, secondo quel che aveva detto, corse alla chiesa del Carmine, ed entrò diviata in sacristia. L'oscurità di quel luogo non era rotta che da un lucernino pendente da un braccio di ferro: un sacrestano sonnacchioso preparava sulla tavola della credenza i paramenti pel celebrante della messa, mentre un bambino, inginocchiato presso un largo braciere di ferro messo entro un recipiente di legno, ne smuoveva la semispenta carboncina e vi scaldava sopra le sue mani gonfie dai geloni.

Un alto silenzio regnava colà dentro, e si udiva soltanto il suono della campana che giusto allora dava i tocchi della prima messa.

Paolina si accostò un po' timorosa e titubante al sacrestano.

– Scusi, padre Celso: cominciò ella a dire, interrotta tosto da uno scoppio di quella sua tosse dolorosissima.

Il padre, a quel signor sacrestano che era un frate laico, poteva dirsi una piacenteria: ma Paolina voleva rendersi benevolo il fiero uomo, e sapeva che egli ci teneva maledettamente a quell'appellativo.

Padre Celso si volse con mossa solenne, e guardò con piglio altezzoso la povera donna che stavagli in aspetto supplichevole innanzi.

– Ah siete voi, Paolina. Ebbene, che cosa volete?

Quasi tutti gli uomini hanno un superbo concetto delle funzioni che sono incaricati d'esercitare, e nell'esercizio di esse quanto più sono basse, tanto più d'ordinario si mostrano orgogliosi. Andate a parlare ad un misero impiegatuzzo alla sua scrivania nel ministero; domandate ai coscritti che cosa sono i caporali che fan da capo di posto ad una guardia; entrate senza una particella nobiliare al vostro nome e senza l'aspetto d'un milionario nella anticamera d'un riccone ed affrontate l'impertinente sicumera dei lacchè in livrea; abbiate a che fare con uscieri, portinai, custodi e va dicendo, ed avrete i più notevoli esempi della sciocca superbia dell'uomo da nulla che si attribuisce appetto a voi una importanza che non ha; ma la impertinenza orgogliosa di tutti costoro che ho nominato è niente in paragone di quella d'un sacrestano. Hannovi le sue brave eccezioni, ci s'intende: ma il tipo dell'orgoglio impertinente e senza ragione bisogna andarlo a cercare sotto la cotta di solito bisunta d'uno spazzino di sacristia.

Il tono con cui un idalgo spagnuolo del seicento accoglieva un marrano era più cortese di quello che fosse il modo onde padre Celso parlava e sogguardava la povera Paolina.

– Vorrei parlare a padre Bonaventura: disse quest'essa tutto umile.

– Egli non è ancora disceso: rispose col medesimo accento di prima il villano vestito da frate. Discenderà a momenti, ma avrà altro da fare che dar retta a voi. Ha da dir la messa, e poi dopo andrà in confessionale.

Volse le spalle alla poveretta, e continuò la sua bisogna con quell'aria che potrebbe avere chi fosse in via di salvare il mondo.

Paolina si ricantucciò da una parte, e stette là, tutta abbrividendo, ad aspettare.

Poco stante, ecco entrare una vecchia che a primo vederla ciascuno avrebbe riconosciuta per una di quelle pitocche beghine che stanno tutto il giorno sulle porte delle chiese, negli anditi delle sacristie ad elemosinare biascicando pater ed ave e mormorazioni, spiando e divulgando gli affari della gente e facendo anche di peggio mestieri alla vista meravigliosa d'una moneta d'argento.

Costei diffatti, oltre la grinta bassamente ipocrita e furbescamente improntata di affettata divozione, che è propria di quella razza di donne, portava tra mano la vera insegna del suo mestiere, un mazzettino di piccoli candelotti di cera, avvolti dalla metà in giù in un pezzo di carta straccia di color bleu; al braccio aveva passato pel manico un veggio di terra cotta, e coll'altra mano si traeva dietro, mezzo riluttante, mezzo ancora addormentato, un ragazzo di circa dieci anni.

– Buon giorno, padre Celso: diss'ella, con accento della più profonda reverenza, al sacrestano. Lei sta bene? Ha dormito bene questa notte?

Il sacrestano si volse alla nuova venuta con un'aria d'affettuosa protezione che dinotava come costei fosse nelle grazie di quell'importante personaggio.

– Ah ah! siete voi, Gattona?

Ella era infatti quella donna, di cui Maurilio la sera innanzi aveva trovato per la via il nipotino piangente, e in casa della quale il principale dei protagonisti del nostro dramma si era fatto condurre dal piccino[2 - Vedi la prima parte, capitolo IX.].

– Me la non mi va male, peuh peuh!.. E voi?

– Eh! da povera vecchia… si sa bene; alla mia età, colle miserie che ci toccano a noi… Se non fosse di questi buoni Padri che mi soccorrono, sopratutto di quel sant'uomo di padre Bonaventura, per me la sarebbe bella e finita.

– Via, via: diceva col suo tono di protezione padre Celso. State di buon animo. Siete una brava donna, timorata di Dio, religiosa e dabbene. La Provvidenza e noi vi assisteremo come abbiam fatto fin adesso.

– Che Dio li benedica… Lei e tutti i buoni Padri di questo convento.

– Voi siete sempre fedele a questa prima messa, Gattona.

– Oh sì, e il giorno in cui non mi vedrà più venire potrà ben affermare che io sono moribonda o morta addirittura. Oggi intanto le ho menato qui Gognino in caso ne avesse bisogno per qualche cosa, e sopratutto per servir la messa, ch'egli da solo non è capace, ma per la parte di chi tramuta il libro, tanto e tanto incomincia a raccapezzarcisi.

– Sì, davvero? Oh bene, bene; è un principio. Se occorrerà, potrà servir da secondo qui a questo altro bardotto; ma credo che non ve ne sarà affatto bisogno, perchè oggi è il giorno in cui il signor Nariccia suole confessarsi; e in que' giorni ha per abitudine di servir egli la messa a padre Bonaventura.

– Come Dio vuole. Intanto ho appunto piacere di dire due parole a padre Bonaventura.

– Egli sarà qui a momenti… To', eccolo appunto.

Un uscio si aprì nell'impiallacciatura di legno scolpito e comparvero la persona grossa, la faccia rubiconda e la cotta nera di un frate gesuita.

In questa famosa, e per tanti titoli giustamente famosa compagnia, come tutti sanno, s'incontrano due tipi netti e distinti: l'uno è di frati ascetici, severi, entusiasti, fanatici; l'altro è di buontemponi, in apparenza tolleranti, allegri e sorridenti, che transigono su tante cose accessorie colle passioni dell'uomo e colle debolezze del mondo, purchè ottengano il principale – ed il principale per essi è la sottomissione alla Corte di Roma e la reverenza all'ordine loro. I primi si dirigono alle anime ardenti, agli spiriti eccessivi, a coloro che portano nella religione l'amor della lotta, quel po' di guerra civile che, come disse Massimo d'Azeglio, gl'Italiani hanno nel sangue; i secondi invece parlano alle anime tenere, ammorzano i rimorsi di peccatori convertiti che amano moltissimo il ricordo e qualche arrière-goût dei loro peccati, che nulla chiedono di meglio che far camminare di fronte con un sapiente equilibrio di pratiche religiose i loro piaceri, le soddisfazioni dei loro desiderii terreni, e la loro salute eterna.

Padre Bonaventura apparteneva alla schiera di questi ultimi. Una bella faccia di cuor contento, con labbra rosse sorridenti, guancie paffute e doppio mento. Aveva occhi chiari, limpidi e a fior di pelle che giravano vivacemente e sfuggivano molto bene lo sguardo altrui; la fronte piccola cogli ossi frontali molto sporgenti dinotava una tenace volontà, e sotto l'apparenza benignamente dolcereccia della fisionomia si vedeva un'acuta malizia che si faceva scambiare per buonumore.

Egli s'avanzò nella sacristia fregando le sue mani grassotte e bianche come quelle d'una signora.

– Hai già tutto preparato, Celso? Diss'egli al sacristano con accento di amichevole famigliarità.

– Sì, Padre; rispose Celso cambiando il tono superbo che aveva cogli altri in accento di umile soggezione verso il frate.

– Oh che bravo Celso! Soggiunse padre Bonaventura battendogli leggermente sulla spalla. Fa un freddo indemoniato stamattina, avrò le mani intirizzite a dir messa; fa di accendere intanto un po' meglio questo braciere perchè mi possa poi riscalducciare.

– Subito: disse il sacristano precipitandosi verso il braciere a smuoverlo, togliendo la paletta di mano al ragazzo.

– E mi metterai un po' di bragia nello scaldino e me lo porterai nel confessionale, che altrimenti i piedi mi geleranno o poco meno.

– Sì signore.

– A proposito. Messer Nariccia non è ancora venuto?

– Non l'ho visto… Ah! c'è qui la Gattona che vorrebbe parlare a Lei.

– Ah ah! la Gattona: esclamò il frate volgendosi verso la vecchia con uno di que' suoi piacevoli sorrisi.

La Gattona, tenendo sempre il piccino per mano si avanzò verso il frate e fece una profonda riverenza.

– Sì, Padre, diss'ella: se volesse usarmi la carità d'ascoltarmi…

Padre Bonaventura si assettò comodamente sopra una seggiola a bracciuoli che c'era presso al braciere, pose i piedi sull'orlo di legno di quest'esso, e guardandosi compiacentemente le unghie rosee e le mani bianche, disse alla vecchia:

– Parlate pure.

La vecchia fece guizzare uno sguardo di sfuggita verso il sacrestano e verso il ragazzo che stava ancora inginocchiato presso al braciere.

– Celso, disse il frate, comincia intanto per accendere le candele all'altare, poi verrai a vestirmi le paramenta.

Il sacrestano prese un cerino, lo accese alla lampada che pendeva e si avviò verso la chiesa.

– Vai anche tu ad aiutar Celso: soggiunse il gesuita, facendo una carezza alla guancia del ragazzo che gli era vicino, va, e ti darò poi una bella immagine di Gesù bambino coi fregi dorati.

Il ragazzo si levò sollecito e seguì il sacrestano.

– Or dunque: disse allora padre Bonaventura alla Gattona. Che cosa avete da dirmi?

– Sono venuta a demandarle un consiglio: cominciò la vecchia abbassando la voce e curvandosi verso il frate che, abbandonato sul seggiolone, coi gomiti appoggiati ai bracciuoli, si era disposto ad ascoltare.

– Che consiglio?

– Ieri sera un signore… oh no, non mi ha di troppo l'aria d'essere un signore… un uomo ch'io non conosco, ma che mi diede qui il suo nome scritto sopra una cartolina… Eccola; guardi un po' Lei se ha mai sentito a menzionare questo individuo.

E trasse fuor della tasca del grembiale, spiegazzata e sporca, la polizzina che Maurilio le avea data la sera innanzi.

Padre Bonaventura la prese, se la pose innanzi agli occhi il più distante che potè col braccio teso, perchè la sua vista era da presbite, e lesse quello che già sappiamo esservi scritto su: Maurilio Nulla, scrivano pubblico, via… porta num. 7, piano quarto.

– Ecco un nome originale: disse il gesuita: un nome che finora non mi avvenne mai di vedere nè di udire, quindi, eccetto che ne abbia anco un altro, l'individuo che lo porta mi è perfettamente sconosciuto. Ebbene, che cosa avete voi da spartire con questo tale?

– E' mi venne in casa inaspettato, e mi fece una proposta che io ho accettata, e che ora ho paura di aver fatto male ad accettare.

Il frate levò i suoi occhi grigi sul volto aggrinzito e ributtante della vecchia.

– Oh oh! esclamò egli. Che razza di proposta?

– Niente contro l'onestà e contro il timor di Dio: si affrettò a rispondere la lurida vecchia. Si tratta qui di questo biricchino – (ed accennava al ragazzo che teneva sempre per mano) – che anzi gli è stato lui che me l'ha menato in casa, chè lo ha trovato per le strade ch'era già tardi, perchè questo poco di buono s'indugia sempre a baloccarsi e peggio e non c'è verso di farlo rientrare al cader del giorno com'io vorrei…

– Bene, bene: interruppe padre Bonaventura con qualche impazienza, tamburellando colle dita grassotte sui bracciuoli del seggiolone. Udiamo questa proposta ch'e' vi fece.

– Io, già, sono una povera donna. Ella lo sa; vivo d'elemosina, e questo bardotto qui mi è di un peso… di un peso!..

– Si, sì, me lo avete già detto parecchie volte; ma egli pure vi guadagna qualche solduccio.

– Oh sante piaghe! Gli è così poco… E giusto, gli è a questo riguardo che quel cotale mi fece quella certa proposta.

– Sentiamola dunque, via, questa benedetta proposta.

– E' mi ha domandato s'io non gli avea fatto imparare a Gognino il leggere e scrivere, s'io non lo mandavo a scuola; ed udito che no, mi profferse di darmi egli dieci soldi al giorno, a patto che lo lasciassi andare in casa sua dov'egli avrebbe insegnatogli lettura, scrittura ed abbaco.

– Cospetto! Esclamò il gesuita meravigliato, spalancando tanto d'occhi. E questo per la bella cera di quel martuffino lì?

– Disse che voleva fare quest'opera buona.

– Uhm! E che figura ha egli codestui?

– Non ho potuto nemmanco vederlo bene. E' si teneva in testa un certo cappellaccio colla tesa sugli occhi. Una faccia strana, nè da giovane, nè da vecchio; una voce che ha una certa imponenza; i panni piuttosto da povero che da ricco.

Padre Bonaventura prese fra l'indice e il pollice della mano destra il suo mento grasso a doppia piega, nell'atto della riflessione.

– E voi dunque avete accettato il partito?

– Ho pensato che dieci soldi al giorno non si trovavano mica lì, sotto il primo sasso della strada. Me il bisogno mi perseguita. Mi parve una vera grazia mandatami dalla Madonna del Carmine. E poi ho pensato che Gognino avrebbe così imparato di meglio a servire la messa. Ora son io che debbo fargli entrare nella memoria le parole a forza di recitargliele, e le assicuro che la è una fatica… una fatica. Ho detto di sì… Ho forse fatto male?

– Che intenzioni può egli avere quell'individuo? Diceva il gesuita, come continuando a parole pronunziate le sue riflessioni. A questo mondo non si fa niente per niente. Voi Gattona, vecchia come siete, dovreste saperlo.

– Ho immaginato si volesse con siffatta carità far dei meriti per la vita eterna.

– Eh! che i meriti si acquistano con altri modi, più acconci, chi abbia fede veramente nella nostra santa religione. Scommetto che gli è uno dei moderni disseminatori di falsità e di eresie, uno dei campioni del progresso, come si usano chiamare, il quale vuole guadagnare all'errore un'anima di più.

– Ho dunque fatto male? Esclamò la Gattona con accento spaventato: oh creda, padre Bonaventura, che io subito dopo ho pensato di venirle a raccontar tutto e di pregarla a volermi guidare in proposito. E s'Ella adunque mi dice che ciò non si deve fare, io non manderò a quel cotale, Gognino, nemmanco se mi volesse caricar d'oro… Ci perderò dieci soldi al giorno belli e sicuri; ma che cosa m'importa? Io non guardo a codesto quando si tratta di schivare il male e di obbedire a Lei, padre Bonaventura… benchè io sia miserissima, e debba contare non che i soldi, ma i centesimi. Oh! ci è una Provvidenza lassù; ed io sono tanto divota della Madonna e del Sacro Cuore di Gesù e di Santa Filomena, che non sarò abbandonata, e son persuasa che vostra reverenza medesima, se potrà, troverà modo di compensarmene, facendomi partecipare un po' più alle elemosine di questa parrocchia…

Padre Bonaventura, il mento sempre appoggiato alla mano, guardava la vecchia con i suoi occhi fissi, nella cui espressione non avreste saputo se fossevi ironia o bonarietà.

– Ben sapete: disse a quel punto il frate colla sua voce più melliflua ed insinuante; ben sapete, Modestina, che siete fra le prime nella lista dei poverelli a cui amiamo distribuire i soccorsi delle carità che raccoltiamo.

La Gattona prese la mano sinistra del gesuita che era posata sul bracciuolo e la baciò con divozione; ma padre Bonaventura, a cui non parve molto piacevole quel contrassegno di reverenza, fu lesto ad allontanare la sua mano paffutella, dalle labbra vizze, triate e violacee della vecchia.

– Or dunque, riprese quest'ultima, io mi guarderò bene dal mandar Gognino colà…

– Aspettate: disse vivacemente il gesuita a cui pareva nata una nuova idea. Sarebbe forse meglio far così. Lasciateci pure andare il vostro ragazzo da quest'uomo, ma inculcategli bene di osservar tutto, di tenere a mente tutto ciò che vedrà, che sentirà, che avverrà in ogni modo, e di farvene una relazione esatta giorno per giorno.

– Che io poi mi affretterò di ripetere a Lei: soggiunse la vecchia.

Padre Bonaventura fece un cenno affermativo cogli occhi, che voleva dire: – Ci si intende; e continuò:

– Luca è ben capace di osservare ciò che gli incontra e di saperlo esporre di poi?

– Oh sì, sì, che per la sua età è il più sveglio e il più furbo che ci sia sotto le stelle.

– Benone. Così voi non perderete quel po' di vantaggio che vi fu promesso, e noi, sapendo giorno per giorno come si passan le cose, potremo giudicare delle vere intenzioni di quel cotale; ed appena ci accorgiamo che tenti avviare quest'anima alla strada del male, possiamo porci rimedio. Anzi sarà bene che di quando in quando mi conduciate qui il ragazzo perchè io possa interrogarlo in proposito.

– Sì, Padre.

– Lasciatemi qui questa cartolina coll'indirizzo di quell'uomo. Potrò giovarmene per raccogliere informazioni. Vedrei volontieri un simile originale, e credo sia individuo da tenersi d'occhio.

In quella il sacristano si accostava a padre Bonaventura.

– Le candele sono accese, la messa è suonata, e se la si vuol vestire…

– Gli è tempo eh? Bene, bene, eccomi qua.

Si alzò da sedere, e s'avviò verso il luogo in cui erano spiegate le paramenta pronte ad indossarsi.

– Vieni, Gognino: disse la vecchia incamminandosi, andiamo a sentir la messa del buon padre Bonaventura, e diremo la coronella secondo le sue sante intenzioni.

Paolina era sempre rimasta là nel suo cantuccio, tutto freddolosa, aspettando con ansia insieme e con timidità che il momento venisse di presentarsi ancor essa al gesuita. Ora che la Gattona erasi partita da lui avrebb'ella voluto avanzarsi; ma vedendo il frate accingersi a vestire i sacri arredi aiutato dal sacristano, e borbottando quelle preghiere che si suole in tal caso, non ardiva altrimenti accostarsi.

Uno scoppio violento di quella tosse malvagia che la tormentava rivelò la sua presenza al gesuita, che fino allora non l'aveva vista, od aveva fatto mostra di non vederla. Guardò egli da quella parte, e la povera Paolina fu lesta a fargli una profonda riverenza per saluto.

– Se non m'inganno, disse padre Bonaventura al sacristano, quella donna lì è Paolina la moglie del fabbro Andrea.

– Sì, Padre, la è dessa. Anzi è venuta cercando di Lei.

– Ah ah!

Paolina credette opportuno il momento di farsi innanzi.

– Se mi volesse far la grazia di ascoltare due parole.

Il sacristano la interruppe con burbero accento.

– Eh! vedete bene che ora si veste, e non ha tempo da badare a voi.

– Deo gratias! Disse in quel punto alle spalle dei nostri personaggi una voce nasale da frate zoccolante.

Era messer Nariccia che arrivava sollecito e con un occhio guardava indignato Paolina, mentre coll'altro fissava la faccia fresca del gesuita.

– Siete qui, messere: disse Bonaventura sorridendo al nuovo venuto. Temevo già che foste per mancare a servirmi la messa.

– Oh mai, mai! Figuratevi se voglio perdere tal favore. Sapete che questo è anche il mio giorno di confessione.

La presenza del suo padron di casa aveva prima fatto tremar Paolina, poi datole risoluzione. S'ella lasciava sfuggire quell'occasione in cui Nariccia avendo da accostarsi al sacramento della confessione avrebbe più facilmente ceduto alle esortazioni del gesuita, quando questi si decidesse di fargliene in favore della povera famiglia, mai più non si sarebbe presentato un caso tanto favorevole.

La misera donna ardì adunque fare ancora un passo verso il gesuita, e disse con infinita supplicazione nell'accento, stringendo insieme le mani:

– Oh per carità, padre Bonaventura, mi ascolti un momento.

– Subito?

– Sì, Padre; sono due sole parole.

– Ma due sole in verità?

– In fede mia.

– Bene. Se gli è così, dite pure, e sollecita.

Il sacristano e messer Nariccia si scostarono di pochi passi; ma se Paolina avesse visto lo sguardo che quest'ultimo saettò su di lei nell'allontanarsi, avrebbe conservato pochissima speranza di poter ottenere qualche cosa da lui.

Paolina colle meno parole che potè espose al gesuita le tristissime condizioni in cui si trovava la famiglia, la minaccia fatta di Nariccia di cacciarli nella strada, lo supplicò per tutti i Santi del Paradiso volesse interporre la sua autorevole parola affine di ottenere dal padrone di casa più benigni propositi.

Padre Bonaventura ascoltò sino alla fine col capo chino, gli occhi bassi, la faccia oscurata, ed in un silenzio che prometteva poco di bene. Quando la donna si tacque, e sorreggendosi all'orlo della vicina credenza, chè le forze le mancavano, stava aspettando la risposta con ansia ed affanno, il gesuita levò lentamente la testa e senza guardarla in volto, anzi facendo scorrere i suoi occhi per tutto altrove che verso la persona di lei, disse a sua volta con accento di affettato dolciume:

– Benedetto Iddio! Povera donna che siete, io vi compiango dal profondo dell'anima, proprio come una mia sventurata sorella che siete in Gesù Cristo, il cui santo nome sia lodato! Sì le vostre condizioni sono dolorose, anzi dolorosissime, e non so chi non ne resterebbe commosso… Io non vorrei accrescervi il peso di esse col menomo cenno di rampogna; ma pure, mia cara, il mio stesso ministerio mi obbliga a dirvi che queste percosse della sorte c'è forse stato qualche cosa in voi che ve le ha attirate dalla mano giusta e punitrice di Dio. Il vostro uomo primamente, tiene egli la condotta di un vero cristiano? Chi l'ha più visto accostarsi ai santi sacramenti? Chi l'ha più visto soltanto in chiesa da mesi e mesi a questa parte? E voi stessa, voi Paolina, che pure un dì avevate il santo timor di Dio e il rispetto alla religione…

– Oh! li ho tuttavia: interruppe con vivacità la povera donna che ascoltava quelle rimostranze a capo chino nell'atteggio d'una colpevole pentita.

– Li avete, li avete: riprese il frate; ma non lo date a divedere, affè, ed agite come se non sapeste affatto che cosa sono. Alle funzioni religiose non vi si vede…

– Non manco mai tutte le feste di precetto alla messa…

– Non basta. Bel merito udir la messa, – una messa alla sfuggiasca – una volta per settimana! Ma alla predica ed alla benedizione ed ai vespri non vi si vede; ma alla Via crucis non vi si vede; ma alle quarant'ore non vi si vede; ma – che è peggio – al confessionale non vi si vede.

– Ho tanto da fare! Balbettò sommessamente Paolina. Quattro bambini a cui accudire. Mio marito non è mai a casa. Come lasciarli soli?..

– Eh! chi ha la volontà d'una cosa trova tempo, mezzo ed occasione par farla: e Dio aiuta chi lo adora come vuole la nostra Santa Madre Chiesa. Voi vi astenete dalle pratiche della divozione per accudire, voi dite, alla famiglia. Oh guardate come le vi van bene le cose di questa! Credete voi che se foste proprio que' divoti cattolici che si deve sareste ancora in siffatti imbrogli? Oh che il buon Gesù e la Madonna troverebbero modo ben essi di aiutarvi.

Nariccia si accostò al frate col suo collo torto e colle mani giunte.

– Perdonate, padre Bonaventura, ma vi faccio osservare che l'ora passa.

– È vero: disse il gesuita disponendosi a prendere tra mani il calice, mentre l'usuraio s'impadroniva del messale.

– Dunque, supplicò Paolina con ansia, mi vuol Ella fare la carità che imploro? Non per me, nè per mio marito, ma pei miei figli!.. Sono innocenti loro.

– Bene: rispose a voce sommessa il frate. Rimanete. Dopo messa udrò in confessione messer Nariccia, ed allora glie ne dirò.

Alla povera donna parve con ciò di aver già ottenuto un sommo favore, ed aprendo il suo cuore angosciato ad un po' di speranza recossi nella chiesa ad ascoltar la messa detta da padre Bonaventura. Dopo la messa il frate, spogliatosi dei paramenti, fatte le solite preghiere, confabulato con parecchie donnaccole venute a parlargli, entrò nel confessionale, alla cui graticola stava già in ginocchio Nariccia ad aspettarlo. La confessione fu lunga come un colloquio d'affari. Paolina, prosternata sul freddo pavimento, in quella fredda atmosfera che le agghiacciava le ossa, guardava con occhio intento quel confessionale dove si trattava della sorte dei suoi e pregava con infinito ardore.

Finalmente la confessione di Nariccia fu finita; ed egli levandosi di là andò ad inginocchiarsi alla balaustra d'una cappella vicina, vi stette cinque minuti colla faccia nascosta nelle mani, poi si alzò e facendosi dei gran crocioni sul petto, senza guardare nè a destra nè a sinistra, coi suoi occhi birci fissi alla terra si partì di chiesa.

Paolina lo aveva seguitato col medesimo sguardo ansioso e scrutatore. Avrebbe voluto discernere dall'espressione della fisionomia di lui, dagli atti il tenore della sua risposta alla preghiera fattagli per mezzo del confessore; ma chi era capace di leggere alcuna cosa sulla faccia da impostore di quel tristo? Si voleva confortare dicendosi essere impossibile che una preghiera fatta in confessione dal confessore non fosse esaudita; ma poi tosto ricordava la durezza di cuore del padrone di casa, ricordava le ingiurie che a costui aveva dette la sera innanzi Andrea ubbriaco, e cadeva d'ogni speranza. Ad ogni modo il tempo dell'attesa era lungo e doloroso troppo all'impazienza di quella povera anima. Pensava che i figli suoi erano là ad aspettare un tozzo di pane, ad aspettare la salvezza da una parola che quei due uomini raccolti in quel confessionale pronunziassero. Il disagio fisico accresceva l'angoscia morale della infelice. A quel freddo il dolore del petto le si era accresciuto, fattasi più tormentosa la tosse. Ella sentiva delle strette, delle oppressioni alla gola, ai polmoni, al cuore, per cui le pareva tratto tratto averle da mancare compiutamente il fiato ed essa dover cascar lì come morta. E il tempo passava; e dopo Nariccia alle grate del confessionale di padre Bonaventura succedevano l'uno all'altro i penitenti, la maggior parte vecchie donne che non la finivano più.

Ma anche codesto ebbe fine. Padre Bonaventura uscì soffiando dal confessionale coll'aria la più annoiata del mondo. Paolina gli corse dietro e lo raggiunse in sacristia.

– Ebbene? Interrogò ella ansiosamente.

– Ebbene ho parlato del vostro affare con messer Nariccia.

Fece una pausa. La donna pendeva dai labbri di lui, tutta l'anima concentrata nello sguardo con cui pareva volergli leggere nel cervello la risposta che stava per dare.

– E che cosa disse? Susurrò Paolina per sollecitare questa risposta.

– Che non gli è possibile far nulla in vostro favore.

Paolina lasciò cadere il capo sul petto e mandò un sospiro che pareva un singhiozzo.

– Voi avete molti torti verso di lui. Continuava a dire il frate con accento affettato di paterna rimostranza. Egli fu molto lunganime a vostro riguardo…

Ma la donna, che non aveva più nulla da aspettarsi, giudicò inutile perdere ancora altro tempo ad ascoltare nuovi ammonimenti del gesuita.

– La ringrazio di cuore la stessa cosa: diss'ella con voce che sapeva di pianto. Se la pietà non ha toccato il cuore di messer Nariccia, ho pregato tanto tanto Iddio che spero mi vorrà accordare la grazia di trovare altri più generosi; e se no, Dio è lassù che ci vede, e quando il padrone di casa ci avrà cacciati a morir sulla strada, giudicherà Egli.

E senza più aggiungere altra parola si partì di là barcollante sulle sue deboli gambe con un affanno in cuore, come Dio vel dica.

Si recò diviata al palazzo Baldissero. La disperazione le diede coraggio di affrontare l'impertinenza dei domestici levatisi allor allora, che si stiravano nell'anticamera. Quando questi la udirono dire che voleva parlare a madamigella Virginia, la credettero matta. Ella insistette, e i lacchè la cacciarono via con brutte parole, e poco meno che a spintoni come una pezzente fastidiosa, giurando per tutti i diavoli che nemmanco a cagione d'una duchessa avrebbero fatto svegliare madamigella, la quale, stata al ballo la notte scorsa, avrebbe dormito almeno almeno fino alle dieci.

Paolina ottenne ciò soltanto, che, quando madamigella fosse alzata, le si dicesse della sua venuta, le si dicesse ch'ella – la misera donna – aveva bisogno di parlarle o sarebbe stata precipitata.

La infelice si trovò sotto il portone del palazzo, affranta, senza omai più un filo di speranza.

– E come portar pane intanto ai miei figli? Si domandava essa stringendosi colle mani tremanti il capo che le ardeva.

Si ricordò in quel punto della famiglia Benda.

– Ah! Esclamò con un lampo di gioia negli occhi. Quelli là li troverò alzati… E la signora Teresa non mi respingerà.

Questo pensiero ridonò alcune forze a quel corpo affralito, e Paolina riprese la sua corsa verso la lontana officina del sig. Benda, dove l'abbiamo vista arrivare.




CAPITOLO V


Paolina aveva semplicemente narrato la sua Odissea del mattino: le avevano risposto colle lagrime Teresa e Maria. Quest'ultima, senza lasciar pure che la misera donna formulasse le sue domande, proruppe con tutto l'ardore d'un cuor giovenile di donna commosso dalla pietà:

– Rassicuratevi, Paolina, non affliggetevi più oltre. Noi pagheremo la pigione che dovete a quel brutto cattivo padron di casa… Non è vero mamma?.. E i vostri figliuoletti avranno ciò che loro occorre… Non è vero mamma?

La signora Teresa non aveva il coraggio di contraddire alle parole della figliuola.

Paolina a cui finalmente l'anima, per così dire, tornava in corpo, benediceva con trasporto di riconoscenza le generose benefattrici, e dalla loro bontà pigliava ardire a soggiungere quell'altra supplicazione, che per la sorte della sua famiglia era ancora più importante.

– Ciò non è tutto: diceva essa. Loro mi salvano la vita dei bambini, ma potrebbero ancora salvarmene ed assicurarmene l'avvenire… Ah! non mi dicano una sfacciata se oso chiedere più di quanto la loro generosità mi ha concesso. Una madre per cui si tratta della vita de' figli suoi – Ella deve capirlo signora Teresa – ha qualunque coraggio.

– Che cos'è? Domandava Maria con tale un accento d'affetto e d'interesse che era il migliore incoraggiamento a parlare.

E la poveretta riconfortata continuava:

– Capiranno anche loro che, dopo toltici da queste disperate condizioni del momento, se non ci si presenta qualche modo di ricavarcela, non andrà gran tempo che ci troveremo di nuovo al punto medesimo.

– Bisognerebbe che vostro marito si mettesse su strada migliore e lavorasse da buon operaio: disse Teresa.

– Ecco appunto! Il mio Andrea par deciso… oh lo è assolutamente… questi ultimi nostri guai l'hanno scosso dal fondo… è deciso a cambiar vita e tornare quell'onesto, bravo e laborioso operaio che gli era un tempo. Ma per ciò vi occorre pure una cosa che non dipende da lui solamente: quella di trovar lavoro.

Madre e figliuola, che compresero tosto la conclusione a cui voleva venirne Paolina, ricordando le parole dette poc'anzi da Giacomo, si guardarono sconcertate.

– Egli ne ha già cercato da tutte parti, continuava Paolina; ma la mala ventura lo perseguita, e presso nessuno non ha potuto allogarsi… Io, sempre fiduciosa nell'inesauribile carità del loro cuore, ho accolto la speranza che grazie alla loro intromissione, il signor Benda avrebbe acconsentito ancora una volta a ricevere nei suoi laboratoi il mio uomo…

Vide l'impaccio che appariva nel volto di Teresa e di Maria, e s'affrettò a soggiungere con infinito calore di preghiera:

– Per carità non mi dicano di no… Mio marito è cambiato, glie lo assicuro, signora Teresa, vedrà… Facciano ancora questa prova ed avranno il merito innanzi a Dio d'averci salvati quanti siamo della povera nostra famiglia.

Ed aggiunse tante supplicazioni, e dipinse così al vivo ciò che sarebbe avvenuto di loro se questa sua speranza rimanesse frustrata, che qualunque, il quale non avesse il cuore di Nariccia, ne sarebbe stato commosso.

La signora Teresa, al primo enunciarsi della domanda di Paolina, era risoluta a non acconsentire di torsi l'incarico di parlar di ciò a suo marito; ma quando la misera donna ebbe dimostro con sì efficaci colori, come senza codesta grazia ogni altro soccorso per loro sarebbe nulla, la risoluzione della buona moglie di Giacomo era già molto scossa; finì poi per crollare del tutto, quando, secondo il solito, Maria colla sua graziosa petulanza si affrettò di esprimere ella prima, senz'altro, le impressioni e le volontà non solamente sue, ma anco della mamma.

– È vero, è giusto: esclamò essa. Dove non si dia lavoro all'uomo c'è nulla di fatto… Ah! un uomo che cerca lavoro per mantenere la sua famiglia, qualunque sia stato il suo passato, dovrebbe sempre trovarne… Non è vero mamma? Oh andate là, Paolina, che noi vi comprendiamo. Avete avuto la migliore ispirazione del mondo a venirvi raccomandare alla mia buona mamma. Essa parlerà in vostro favore al babbo, e quando essa parla, papà non può a meno che darle ragione… Dunque io ritengo la cosa per bella e fatta.

– Ah! Dio l'ascolti e la benedica! Esclamò la povera donna stringendo le mani ed illuminando il volto d'un raggio di gioia come da lungo tempo non era più comparso sui patiti lineamenti della sua mesta fisionomia.

– Un momento, un momento: disse allora la madre di Maria, metà sorridendo, metà con aria di rampogna. Non corriamo per la posta. Tu pazzerella, soggiunse volgendosi alla figliuola, sei solita a vedere per cosa fatta quello che desideri, e colla tua testolina, vai, vai, che nessuno più ti può frenare…

Maria mostrò a sua madre la faccia di Paolina che, a tali parole, spento quel lampo di gioia, erasi di nuovo rannuvolata tristissimamente.

– Ah mamma: esclamò la giovanetta: vedi come s'è subito di nuovo abbattuta questa povera donna!

E la signora Teresa, vivacemente:

– Non dico già che non siavi di ciò nessuna speranza. Io ben volentieri mi prenderò l'incarico di parlare a mio marito.

– Dunque la cosa è fatta: interruppe la fanciulla, battendo insieme le mani. Figurati se il papà vorrà dir di no ad una cosa che gli domandi tu!.. E ad una cosa simile!!

– Mio marito: soggiunse con tono severo la madre: è il padrone, e nelle decisioni che ha da prendere, egli, meglio dei nostri cervelli, sa vedere quello che si debba.

– Sì, sì, hai ragione, mamma. E gli è appunto per ciò ch'io sono sicura che il babbo s'affretterà a dire un bel sì grosso, appena tu gli abbia parlato.

Teresa, sollecitata più che dalle parole, dagli sguardi della figliuola e della misera donna supplicante, si recò senz'altro indugio nello studiòlo di suo marito.

Il signor Giacomo, all'udire entrare qualcheduno, alzò la testa, e visto sul volto della moglie un certo impaccio, una certa timidità con qualche sollecitudine, avvisò tosto che la veniva per domandargliene alcun che; onde, affine di incoraggiarla, prendendo un'aria ridente, disse:

– Sei tu Teresa? Oh oh scommetto che tu hai bisogno di me per qualche cosa.

– Bisogno, no: rispose la brava donna esitando. Sono venuta a pregarti d'un favore… d'un grosso favore… ma per altri.

Giacomo respinse da sè il libro di conti che aveva dinanzi, e volgendosi di meglio col suo seggiolone verso la moglie, le disse con accento fra premuroso e fra scherzevole:

– Parla, parla pure; ma che sì che indovino. Si tratta di qualche capriccietto di sor Francesco, il quale, non osando manifestarmelo egli stesso, ha incaricato te di venirmene a domandare…

Teresa scosse la testa in segno negativo.

– Oppure di quella pazzerella di Maria, eh?

– Nemmeno. Trattasi di quella povera donna che è venuta adesso.

Il signor Benda s'aspettava così poco questa risposta che la sua fisionomia ne mostrò un alto stupore.

– Ah ah! Paolina vuol dire?

– Appunto.

– Ebbene? che cosa vuoi tu per essa? Ancora del denaro da darle?

Teresa espose la supplicazione della moglie di Andrea e la confortò con tutte quelle ragioni che seppe. Giacomo aveva preso sulla scrivania un tagliacarte e se ne batteva le nocca delle dita, lasciando parlare la donna senza interromperla e senza dar segno alcuno dei suoi sentimenti. Quando Teresa ebbe finito, egli stette ancora alcun poco in silenzio, come se meditasse tuttavia sul partito da adottarsi, poi disse con tono di rincrescimento, ma insieme di irremovibile fermezza:

– Duolmi assai non contentarti, poichè tu mostri desiderar codesto, mia buona Teresa; ma invero non lo posso e non lo debbo. Nelle officine non vi è assolutamente il posto per nessun nuovo operaio, e si presentasse anche il migliore di essi, in questo momento io non potrei accoglierlo se non mandandone via un altro per fargli luogo. Tu non mi vorresti già consigliare nel caso presente che io licenzii un buono e bravo lavoratore che mi serve bene per sostituirlo col tuo protetto, cui siamo già stati obbligati a scacciare tre volte per indisciplina, per mancanza ai suoi doveri, per pessima condotta? Tu mi dirai invece che, trattandosi di fare un atto di carità, si può bene prendere un operaio più del bisognevole; ma io, come uomo di affari, non sono di questo avviso. La carità è una cosa e l'esercizio di un'industria è un'altra. Chi volesse tener questo con tutte le nobili ispirazioni ed esigenze di quella, andrebbe presto in malora ed avrebb'egli bisogno della carità altrui. Un'impresa industriale deve limitarsi a dar pane, soltanto a quelli a cui ha da dar lavoro, e che quindi le sono utili efficacemente. Quest'obbligo di buona amministrazione non è soltanto il mio particolare interesse che me lo dà, ma quello altresì di coloro che mi si sono associati all'impresa, che hanno fiducia in me, nella mia attività, onestà e intelligenza per investire nella nostra impresa i loro capitali o il loro lavoro, ed ai quali io recherei una sottrazione di utili per far loro esercitare inconsciamente un atto di carità. È una cosa tanto da poco, mi dirai: ma io sono assoluto ne' miei principii e non ammetto eccezioni. Se si fa codesto favore per costui, perchè non dovrebbe farsi per tutti gli altri che si trovano nella medesima condizione, finchè ci sia un margine di guadagno da poter impiegare in paghe di operai non necessarii? E ne andiamo fino a quelle assurde teorie che proclamano alcuni matti in Francia, le quali sarebbero la rovina di tutti i capitali, val quanto dire la distruzione della proprietà e di ogni ricchezza privata e pubblica. Ma ti dirò di più, che nel caso concreto, ancorchè ci fosse veramente un posto nei laboratorii, non vorrei darlo a quell'Andrea, il quale non recherebbe fra i miei operai che cattivi consigli, tristi esempi e funeste tendenze… Si è corretto, tu vuoi dirmi. Sarà; voglio crederlo, ma siccome l'ho già sperimentato due volte, preferisco che altri faccia la terza prova… To', dà a quella povera donna questo napoleone d'oro; ma dille che per suo marito non c'è posto nessuno.

All'espressione del volto della signora Teresa, quando tornò nella sua stanza dove l'aspettavano Maria e Paolina, quest'ultima tosto s'accorse che ogni speranza era perduta; ma quando la moglie di Giacomo ebbe manifestata la definitiva sentenza di suo marito, il dolore di Paolina fu tanto, che mandando appena un sospiro, svenne.

Maria e sua madre le furono intorno con ogni argomento atto a farla risensare, e quando la poveretta fu tornata in sè, con ogni fatta buone parole l'assicurarono che esse non l'avrebbero abbandonata, che fino a quando suo marito avrebbe trovato lavoro avrebbero provveduto alla misera famiglia.

Ma intanto l'infelice donna era così debole che a tornare a casa sua tanto lontano, le forze non le bastavano a nissun modo. Maria, coll'assenso della madre, fece attaccare i cavalli alla carrozza per condurvela e volle scortare ella stessa la povera donna recando seco un buon paniere con provvigioni di bocca e d'abiti e di biancherie, cui Bastiano il portinaio, che conosciamo, accompagnando la padroncina, avrebbe portato fin su nella soffitta di quella povera gente.

I bambini piangevano domandando del pane, Andrea non sapeva più quali parole trovare di promessa di minaccia per acchetarli. Le provvigioni recate da Bastiano nel grosso paniere, giunsero opportune come la manna agli Ebrei nel deserto. Andrea, udendo la sentenza del signor Benda che lo escludeva dalle sue officine, pronunziò una brutta bestemmia, e curvando il capo con atto di disperazione, disse cupamente:

– Ah! quando ad un uomo si chiude tutte le vie dell'onesto guadagno, bisogna bene allora, che egli…

Ma Paolina lo interruppe:

– Ne troverai di lavoro, cercandone indefessamente, e intanto la buona signora Maria ha promesso che non ci avrebbe abbandonati.

– No: disse la giovane, a cui la vista di quella miseria stringeva dolorosamente il cuore. Mia madre ed io non vi abbandoneremo.

– La ringrazio: disse il marito di Paolina con accento in cui più della riconoscenza avreste potuto notarvi il dubbio; la ringrazio Lei e la signora sua madre; ma dica pure a suo padre che ha fatto male a non concedermi questa grazia, ha fatto molto male.

Paolina prontamente s'intromise.

– Il signor Benda non ha potuto credere così di subito che tu fossi tornato l'Andrea d'una volta. Quando tu gli avrai provato che così è veramente, egli non ti respingerà più, egli che un tempo ti voleva bene.

– Oh sì, sì: soggiunse Maria: sperate. Intanto Paolina, voi che siete alquanto indisposta, mettetevi a letto ed abbiatevi cura. Vedete come le vostre mani vi tremano ancora!.. Non avete che questo giaciglio per letto?.. Dio buono! Non c'è nemmanco da coprirvi! Manderò qui da Bastiano alcune coperte e lenzuoli; ma intanto coricatevi subito… Scommetto che ci avete la febbre. Non ci è alcun medico che venga a visitarvi?

– No signora: rispose Andrea. Non abbiamo denari da pagarne veruno; e quello della parrocchia, è venuto due o tre volte, e poi ha detto che non c'era nulla da fare e non tornò più.

– Ve ne farò venire uno io: riprese la pietosa giovane; manderò a cercare di quello della nostra famiglia.

Si volse a Bastiano:

– Avete inteso, Bastiano! Adesso ch'io discenda, riconducendomi a casa, farete passare la carrozza innanzi l'abitazione del dottore e salirete su a pregarlo a mio nome di venir qui.

– Sì, signora Maria.

Paolina avrebbe voluto ringraziare ancora per questo nuovo tratto di carità; ma non aveva più la forza di farlo, non aveva più la forza nemmeno di reggersi, onde abbandonatasi del tutto su quello strammazzo presso cui si trovava, giacque lunga e distesa e chiuse gli occhi che pareva di nuovo svenuta. Il marito ne racconciò il corpo sul giaciglio: Maria ordinò a Bastiano che mescesse in un bicchiere un dito di quel vino che avevano recato e lo fece bere a piccoli sorsi alla giacente che ne parve riconfortata; poi, siccome toccandone le guancie e le mani la generosa fanciulla sentì sempre più ghiaccie le carni di quella povera donna, per un moto quasi irriflessivo, ella si tolse il suo scialle di lana caldo e soffice e lo pose accuratamente sopra le membra della povera Paolina.

Questa non ringraziò che con uno sguardo, poichè colla voce non lo poteva, ma quello sguardo era pieno di riconoscenza. In quella all'uscio della miserabile soffitta ecco suonare una voce di donna armoniosa e soavissima:

– Si può entrare?

– Avanti: disse la voce rauca ed aspra di Andrea.

L'uscio si aprì e comparve nel vano della porta, spiccando in chiaro sopra lo scuro del corridoio la splendida bellezza della nobile signora damigella Virginia di Castelletto.

Era vestita di scuro a le sue carni bianchissime e le sue chiome color d'oro parevano mandare attorno l'aureola d'una mitissima luce. Dietro di lei veniva una vecchia governante, e nell'ombra del corridoio vedevasi il cappello gallonato d'un domestico in piccola livrea. Stette ella un istante sulla soglia, guardando intorno co' suoi occhi splendidi, smaglianti, in cui avreste detto in quel momento esservi tutto il riflesso del più bel sereno di cielo in un purissimo lago, mentre un sorriso pietoso e pieno di dignità appariva sulle labbra con fiera eleganza disegnate; poi s'inoltrò con passo leggiero e spedito, che pareva sorvolare sullo spazzo con mossa di persona di naturalissima leggiadria, e si accostò alla donna giacente. Maria si tirò indietro d'alcuni passi per lasciarle luogo, e Virginia, entrandole innanzi le fece col capo un saluto cortesissimo, però senza mostrare che ella l'avesse altrimenti riconosciuta. Andrea stava colà dritto, quasi attonito, senza sapere che fare nè che dirsi; e i bambini medesimi tenevano aperto tanto di bocca e tanto d'occhi a guardare meravigliati quella giovanile ed elegante bellezza che attraversava come una splendida visione la squallida atmosfera della loro miseria.

Quando fu presso alla inferma, la nobile visitatrice, fece suonare quella sua voce piena di soavissimo incanto.

– Povera Paolina! Voi state poco bene?

La moglie d'Andrea, confusa e commossa balbettò:

– Oh signora marchesina… Lei qui… in questo miserabile buco… Lei venire fino quassù… Che degnazione!

E volle fare uno sforzo per levarsi su colla persona a seder sul giaciglio.

Ma Virginia le pose amorevolmente la sua piccola mano inguantata sopra una spalla e la impedì di muoversi.

– State lì, buona donna: disse: non vi muovete. Appena ebbi inteso che voi eravate venuta a cercare di me e con tanta fervorosa sollecitudine, amaramente mi dolse che non vi avessero introdotta, ed avvisando che forse premuroso sarebbe stato il motivo della vostra venuta, pensai miglior consiglio non aspettare che tornaste, ma venire io stessa a vedervi… Ed eccomi.

Queste cose erano dette con sì dignitosa semplicità e con tanto avvenente soavità di voce che chiunque le udisse doveva dar loro un pregio e provarne un effetto che è impossibile esprimere.

Virginia aveva diffatti un cuore generoso e nobilissimo, di tal natura da essere non solo facilmente accessibile ad ogni istinto di pietà, ad ogni sentimento di carità, ma ancora da sapere ogni atto misericordioso accompagnare con quelle forme e quei modi che maggior prezzo e nuovo merito accrescono all'atto medesimo.

Di siffatta natura era stata l'ispirazione che subitamente erale nata quella mattina udendo come la Paolina, con aspetto di tanto dolore e di tanta passione, fosse venuta cercando di lei; l'ispirazione voglio dire di recarsi ella stessa nella soffitta della povera donna, di cui ben conosceva l'indirizzo, affine di vedere cogli occhi proprii e più sollecitamente quali fossero i bisogni della disgraziata famiglia. Ben sapeva ella che un soccorso portato in persona, una buona parola detta a viva voce dal ricco e dal potente producono assai più bene al povero; e in quel punto ella sentivasi maggiore del solito nella bell'anima l'impulso di fare, a chi soffrisse, il maggior bene ch'ella potesse.

Il perchè di questa sua maggior tendenza alla benefica pietà, ella non avrebbe saputo pur dirlo dove altri ne l'avesse interrogata; ma in vero proveniva da ciò che il suo cuore fosse allora oppresso da non lieve angustia, a scemar la quale, come alle anime veramente gentili avviene, sentiva non esservi mezzo migliore che recar soccorso alle angustie altrui.

Cagione della sua angustia era il duello ch'ella non dubitava punto sarebbe intravvenuto fra suo cugino il giovane marchese di Baldissero e l'avvocato Benda, del qual duello ella, benchè involontaria affatto, era pur tuttavia la causa, o, per meglio dire, il pretesto.

Il pensiero che per lei due uomini stanno ponendo a cimento la vita è pur sempre doloroso ad ogni mite animo di donna; ma è tale tanto più allora quando di questi due uomini uno è legato a lei per vincoli di sangue, e verso l'altro inchina il suo cuore per profonda simpatia. Con Virginia il marchesino di Baldissero erasi allevato come fratello; il padre e la madre di lui – il padre soprattutto – avevano tenuto e tenevano luogo di genitori ad essa orfana e sola. Se una disgrazia fosse accaduta a quel giovane – il primogenito di quella famiglia supremamente aristocratica – qual dolore non sarebbe egli stato quello della marchesa, e a mille doppi più, benchè di più contenuto certamente, quello del vecchio marchese! E d'altra parte, se non al marchesino, ma al suo avversario fosse stata nemica la sorte? A tal pensiero, Virginia sentiva una stretta nell'animo tanto forte che non sapeva darsene una spiegazione. Era assai più dell'interesse cui suscita in un'anima cristiana il pericolo d'un indifferente; era lo sgomento che ci coglie, quando vediamo minacciata un'esistenza la quale per mille tenacissimi legami s'attiene alla nostra. Codesta fu come una rivelazione a Virginia medesima. Quel giovane non erale nulla di nulla, eppure perchè, palpitava cotanto il suo cuore al sol pensiero d'una disgrazia che potesse sovraccoglierlo? Secondo le strette regole delle usanze mondane potevasi dire ch'ella appena se lo conoscesse; egli non apparteneva alla casta di lei; nella sfera sociale in cui essa era nata e viveva, appena se quel giovane potesse comparire alla sfuggita, per tolleranza, per suo diritto mai; e tuttavia ella sentiva che della sorte di lui era troppo più sollecito il suo cuore che non di quella d'ogni altro. Ricordava ad un punto come lo avesse conosciuto, ed ogni occasione in cui l'avesse visto.

La prima volta che la esistenza di quel giovane si fosse a lei manifestata, era per mezzo d'una graziosa romanza piena di soavità e di affetto, ch'ella si piacque a suonare più d'ogni altro pezzo di musica sul suo gravicembalo ed a cantare colla sua voce d'argento. Era intitolata Crepuscolo, e con vera e piacevole commozione in quella stagione autunnale in cui si trovava, Virginia si accresceva coll'esecuzione di quella ispirata romanza la soave mestizia delle ore vespertine. Quella musica le diceva di tante cose, le accarezzava sì dolcemente l'anima vibrante! Dopo averla fatta risuonare pel mite ambiente delle prime ombrie, ella appoggiava il suo gomito sui tasti d'avorio, reclinava sulla mano la sua bella fronte, e pensava, o, per dir meglio fantasiava di così vaghe ed ineffabili immagini, e il venticello della sera che per la finestra aperta veniva ad agitarle i ricci graziosamente scomposti della sua capigliatura color d'oro, parevale che ancora sommessamente le ripetesse la graziosa melodia. Volle che il mercante di musica le provvedesse tutte le composizioni che vi fossero del medesimo autore, e in tutte trovò qualche cosa che le parlava all'anima. Alla persona di codesto autore che tanto sapeva scuotere le intime fibre dell'esser suo, ella non aveva pensato neppur mai. Che fosse vicino o lontano, di queste o di quelle sembianze, dell'una o dell'altra età; non erale venuto in mente nemmanco che ciò la potesse interessare. Non nascondeva a nessuno la sua preferenza per quelle musicali composizioni, e dopo i grandi maestri, di cui ella era tanto buona esecutrice da intendere e sapere interpretare i concetti, a sè medesima la non regalava altre suonate più che quelle dello sconosciuto Francesco Benda.

Questo nome non erale nuovo pur tuttavia, perchè nel Sacro cuore, ov'ella era stata allevata, una ragazza di famiglia borghese di tal nome aveva passato alcun tempo: ma fra le due fanciulle, separate dal rango sociale, non eravi stata molta accontagione, e in quei pochi mesi durante cui Maria era rimasta nel collegio, appena se si erano conosciute di vista se avevano scambiata qualche rara parola. Virginia si ricordava tanto poco di questa sua compagna, di cui da oltre a due anni non aveva inteso più nulla, che mai non le venne pure in capo il pensiero che quel suo prediletto autore di composizioni musicali avesse alcuna attinenza colla giovinetta, la quale per alcun tempo ella aveva visto correre e saltare pei viali del giardino del convento.

Un giorno, quando rientrata in città dalla campagna, di tardo autunno, Virginia trovavasi al corso delle carrozze che allora soleva farsi dall'una alle tre pomeridiane sul viale dei platani, detto viale del re. La bella giornata, lo splendido sole che attiepidiva la temperatura avevano chiamato alla passeggiata tutto quanto contava allora Torino di più elegante: carrozze di lusso con dame in assettature di sfarzo, damerini colle spalline o col soprabito alla moda, a cavallo, formavano un fiume smagliante di colori che scorreva lentamente nello stradone di mezzo, mentre nei viali laterali, sotto i rami già assecchiti dei platani, brulicava la folla della gente a piedi che ammirava curiosa quegli sfoggi contesi alla mediocrità ed anco all'assenza delle sue fortune.

Virginia era nella carrozza scoperta e in compagnia di una sua amica di convento, la quale, maggiore di lei di alcuni anni, già erasi maritata. Una frotta di giovani eleganti a cavallo passò rasente il legno: alcuno di essi salutò e tutti salutarono.

– Hai tu visto, disse l'amica a Virginia, l'autore della bella romanza il Crepuscolo?

– No: rispose la giovane; non lo conosco punto. E soggiunse con qualche interesse: È egli passato?

– Sì, fra quei cavalieri.

Virginia staccò le spalle dai cuscini con un moto non privo di vivacità.

– Qual è di essi?

– Quell'alto, dai baffetti biondi, che cavalca quel bel morello così pien di fuoco.

Virginia si volse indietro non senza premurosa curiosità. La carrozza andava lentamente e i cavalieri camminavan di passo; a pochi metri distante ella vide il giovane additatole, rattenute le briglie del cavallo, volto verso la carrozza in cui ella era, lanciando su di lei uno sguardo che era più e meglio che di ammirazione. Gli occhi de' giovani s'incontrarono: quelli di lui furono corsi da un baleno, le pupille di lei si chinarono ratte, ed essa volse tostamente il capo, mentre un lieve rossore le saliva alle guancie.

Non era stato che un attimo: ma pur tuttavia la fanciulla aveva potuto scorgere la bellezza dei lineamenti di quel viso franco e giovanile, la bellezza dell'espressione di quello sguardo sincero, di quella fisionomia aperta; aveva scorto la grazia della persona, la destrezza del corpo nel cavalcare, tutto un acconcio complesso in cui si contemperavano leggiadria e forza di forme; e questa è tal veduta che non può dispiacere ad occhio nessuno di donna.

Ma v'era anche di più. Quell'avvenenza maschile non era la prima volta che le si presentava dinanzi: l'adorazione di quello sguardo profondo già più fiate ella se l'era trovata dinanzi, e senza volerlo n'era stata alquanto preoccupata la sua mente. Superbia o indifferenza, o riserbo che fosse, ella non s'era mai curata sino allora di sapere chi fosse quel discreto che fin dall'inverno precedente in ogni pubblico ritrovo, da lontano volgeva alla bellezza di lei un muto, modesto, ma pure appassionato omaggio di sguardi. Ora, ad un tratto, ecco ch'e' le veniva innanzi con un nome avvantaggiato d'una certa simpatica notorietà, col merito d'un talento, a cui ella doveva tante dolci emozioni.

– Un bel giovane, non è vero? Disse a Virginia la sua amica.

Virginia mostrò non avere udito e parve tutta intenta a contemplare l'abbigliamento d'una signora che passava.

Non se ne parlò dell'altro ed avreste detto che la nobile fanciulla non pensava più menomamente a codesto. Ma così non era. Quando la carrozza si incontrò nuovamente nella cavalcata dei giovani fra cui si trovava e davvero spiccava primo per leggiadria Francesco, Virginia vide da lontano la faccia simpatica e lo sguardo adorativo di lui, ma volse altrove senz'affettazione il suo volto e credette di potere lasciar trapassare l'elegante cavaliere, senza favorirlo altrimenti d'una occhiata; ma quando egli fu proprio all'altezza della carrozza in cui ella si trovava, fece corvettare il suo cavallo che parve inalberarsi e imbizzarrire. La compagna di Virginia mandò una lieve esclamazione; la giovane non ci potè reggere e si volse a guardare. Gli occhi loro s'incontrarono nuovamente: poi egli raccolse le briglie, eccitò cogli sproni il destriero che si slanciò avanti e passò. Fu un lampo; ma la prima impressione ricevutane senza che Virginia punto se ne accorgesse, era in lei ribadita.

– Quasi mi ha fatto paura: disse l'amica di Virginia sorridendo; ed ho avuto torto, perchè il sig. Benda è uno dei più abili cavalieri della nostra città.

Virginia non disse parola, ma dopo un momento di silenzio, domandò con indifferenza quasi sbadata:

– Tu lo conosci di molto?

– Chi? Il signor Benda?

La ragazza fece col capo un cenno affermativo.

– Mio marito lo tratta con una certa famigliarità. Egli viene qualche volta a casa nostra. Mi porta tutte le nuove composizioni che fa, e me le suona egli stesso. Se tu le udissi eseguite da lui, quelle coserelle acquistano ancora maggior valore. Sa dare loro un'espressione, un sentimento!.. È un buonissimo musico, ti assicuro… To, un giorno o l'altro, se ti piace, te lo voglio far sentire.

– Mi farai piacere; rispose tranquillamente Virginia.

Quel giorno medesimo, venuto il vespro, la nobile ragazza, rinchiusasi nel suo salottino, dove stava il gravicembalo su cui soleva studiare e da cui cercare il diletto di qualche ora della sua giornata, suonava con nuovo e maggior sentimento la romanza il Crepuscolo. La notte era mezzo caduta, e Virginia non aveva voluto alcuna luce. Regnava in quella stanza lo scuriccio d'una sera quasi invernale. Le bianche mani della ragazza correvano con tutta agevolezza sui tasti a suscitarne quella melodia ch'ella sapeva a memoria, ed una languida dolcezza, maggiore d'ogni altra volta, pareva col suono di quelle note invadere l'anima e la fantasia della leggiadra suonatrice. In mezzo alle varie e vaghe immagini che, come di solito, venivano ad aleggiare intorno a lei, una le si presentava nuova, e più precisa e più spiccata: quella d'un aitante cavaliero di aggraziate forme e sembianze, del quale parevale scorgere in quel buio la fiamma dello sguardo.

L'amica di Virginia mantenne la sua parola; ed un giorno fece in modo che nel suo salotto la nipote del marchese di Baldissero si trovò insieme col figliuolo dell'industriale Benda. Questi fu modesto, di tratti forbiti, non timido ma riserbato, e nelle indifferenti parole che scambiò con Virginia, seppe essere gentile senza volgarità nessuna. Suonò eccellentemente: poche delle sue composizioni, alcune dei grandi maestri, alle quali seppe dare sì acconcia espressione che più d'una volta Virginia sentì batterle più vivamente il cuore e inumidirsele gli occhi. Quando e' fu partito, la stessa orgogliosissima marchesa di Baldissero confessò che l'avvocato Benda era un giovane degno du meilleur monde; però soggiunse con quell'altezzoso cipiglio che le era naturale:

– Ma gli è figlio d'un petit bourgeois, un bottegaio, un fabbricante o qualche cosa di simile.

Virginia si sentì arrossire, si chinò sul pianoforte presso cui si trovava e da cui il giovane s'era alzato poco stante, e si diede a sfogliare un quaderno di musica.

– Io lo ricevo come un artista di buone maniere: disse la padrona di casa, quasi volendo scusare la presenza di quell'intruso nel suo salotto.

Una certa conoscenza si stabilì fra l'avvocato artista e la famiglia Baldissero, non tanta che permettesse al giovane di presentarsi come visitatore nelle sale del palazzo del marchese, ma tale da poter salutare le signore quando le trovasse per istrada, da parlar con esse allorchè s'incontravano in qualche pubblico convegno, da visitarle in palchetto a teatro.

Virginia e Francesco avevano parlato rare volte insieme e sempre di cose le più indifferenti; ma pure nei loro colloquii avevano avvertita una certa corrente di simpatia che li assembrava, per cui spesse volte le idee dell'uno erano quelle dell'altra, e la fanciulla soprattutto non aveva potuto a meno di notare una certa contenuta emozione che vibrava nella voce del giovane quando a lei dirigeva la parola. Francesco da canto suo non aveva potuto osservar nulla in lei che valesse a dargli l'incoraggiamento d'una menoma speranza a quella passione che oramai lo possedeva tutto e che non poteva più nascondere; ma tuttavia la gentilezza con cui la nobile donzella lo accoglieva, parevagli talvolta alquanto maggiore e più cordiale di quella ch'essa soleva usare con tutti. L'incidente intravvenuto al ballo dell'Accademia filarmonica, mercè il turbamento che le pose nell'animo, apprese alla titolata ragazza che quel giovane borghese erale più caro di quanto ella si sarebbe pensato, di quanto avrebbe voluto.

Virginia, tornata a casa, non potè trovare il menomo riposo. Alla mente non le soccorreva alcun mezzo da poter impedire il duello imminente; e lasciarlo compirsi le sembrava una gran colpa. Sapeva che, avesse anche tutto confidato allo zio, questi, colle sue idee delicatissime in punto ad onore, si sarebbe guardato bene dal muovere pure un dito per distogliere suo figlio da uno scontro stabilito, foss'egli il provocatore o il provocato. Accolse persino un momento la matta idea di scrivere essa a Francesco, pregandolo a non dar seguito alla sfida: ma poi capiva che quest'atto imprudentissimo e non conveniente in lei non avrebbe nulla rimediato, perchè il giovane non l'avrebbe di sicuro obbedita, e quando avesse ottemperato alla sua preghiera, ella sentiva che glie ne avrebbe diminuita la stima. L'oltraggio era veramente tale che un uomo non lo deve a niun modo tollerare: la si sdegnava, a questo pensiero, contro suo cugino, il quale aveva commesso atto sì villano: e si diceva che, secondo le regole di buona giustizia, a lui in un giudizio di Dio, qual era il duello, avrebbe dovuta toccare la punizione: poi tosto inorridiva di questo suo pensiero e se ne accusava come di un gravissimo fallo.

Quando, suonato perchè a lei venisse la cameriera, questa venne a dirle come e con quali parole ed aspetto Paolina erasi presentata al palazzo a domandare di lei, Virginia, secondo quello che ho già detto, sentì un impulso vivissimo a recar subito e di persona conforto a quella misera; chiamò a sè la governante che soleva accompagnarla ogni qual volta ella desiderasse uscire senza la zia (e in ciò le si lasciava una certa libertà) fece attelare la carrozza e venne, come abbiam visto, alla soffitta del proletario Andrea.

– Oh ch'Ella sia benedetta! Dicevale Paolina, prendendo fra le sue la mano inguantata della marchesina e baciandola con fervore di riconoscenza. Sì che la sua visita mi fa bene all'anima ed anco alla salute.

Poi tosto la povera donna sentì che quest'entusiasmo di gratitudine verso colei che in quell'occasione non aveva ancora fattole altro benefizio che di mostrare in mezzo a quella squallidezza lo splendore della sua avvenenza, poteva sembrare un immeritato oblio, un manco verso quella pietosa che già avevala più efficacemente soccorsa; laonde facendo scorrere il suo sguardo verso Maria, la quale si teneva in disparte, ammirando sinceramente la bellezza della sua antica compagna di collegio, Paolina soggiunse:

– Ah! ce n'è ancora di anime d'oro sulla terra; e la Provvidenza ha voluto, nell'eccesso della nostra miseria, mandarcene due.

– Sì: proruppe in quella Andrea colla sua voce rauca e commossa: due angioli.

Virginia si volse vivacemente verso la sorella di Francesco.

– E il merito è tutto di chi venne per primo: diss'ella con infinita grazia, facendo un passo verso Maria.

Quest'essa, quasi abbacinata da quell'aspetto, chinò gli occhi, arrossì e non seppe rispondere che con una riverenza.

Virginia fermò il suo sguardo limpido ed espressivo sulle graziose sembianze di Maria. Riconobbe che esse non erano nuove per lei, e ad un tratto ricordò dove le avesse viste e qual nome portasse chi le aveva. Di botto ella non ebbe più il menomo dubbio che a quel giovane, per la cui sorte in quel momento ella era in pena, fosse congiunta la fanciulla che le stava dinanzi. Per moto irriflessivo, fece vivamente alcuni passi verso Maria, e disse con accento vibrato, come impresso di subita emozione:

– Ma noi ci conosciamo, s'io non m'inganno. Non fu ella nel Sacro Cuore?

– Sì: rispose Maria a cui questo riconoscimento con voce ed espressione così cordiali della marchesina produceva un aggradevol sentimento, quasi di gratitudine.

– Madamigella Benda, non è vero?

– Per l'appunto.

Gli occhi di Virginia balenarono d'un lampo di vero affetto; le sue mani si tesero tuttedue verso Maria che si affrettò a stringerle con affettuosa effusione.

– Con quanto piacere la rivedo! Ogni qual volta mi avviene di trovare alcuna compagna di quel tempo è per me una festa.

Maria non si domandò neppure come avvenisse che essa, a cui nel convento la marchesina non aveva badato più che tanto ed appena era se avesse parlato due o tre volte, ora destasse sì viva emozione nell'aristocratica donzella; ma, buona ed innocente com'ella era, si commosse per quell'accoglienza, e partecipò di vero cuore a quel sentimento quasi di tenerezza che si adombrava nelle parole e nel contegno della sua antica compagna.

– Anche per me: disse Maria un po' confusa; gli è un piacere… Io veramente sono stata così poco tempo in quel collegio… Ero d'altronde così bambina ancora!.. Ho avuto pochi rapporti con Lei; ma tuttavia ricordo che fra le grandi Ella era una delle più graziose verso noi piccole, e mi ricordo sopratutto che la ammiravo già come prima e migliore di tutte in tutto.

Virginia sorrise con modestia.

– Ella mi vuole insuperbire.

– Oh no: proruppe Maria con quella sua schietta e irriflessiva vivacità; no, perchè a me non piacciono i superbi.

– Ed ha perfettamente ragione: disse graziosamente la marchesina.

Tacque un istante, e parve cercare una transizione affine di passare a dir cosa che le importava e per cui non sapeva troppo come cominciare; poi decisasi ad un tratto, disse sollecitamente, non senza arrossire un pochino:

– Ella è parente, s'io non erro, del sig. Benda, che scrive così graziose composizioni musicali?

– È mio fratello: rispose Maria con ingenuo orgoglio.

– Ah!..

Virginia esitò un momentino; poi con leggerezza d'accento che un osservatore avrebbe conosciuta un po' forzata:

– L'ho veduto questa notte al ballo della Filarmonica… che fu in verità uno stupendo ballo… Suo fratello le avrà detto quanta folla ci fosse…

– Mio fratello non mi ha dello nulla: interruppe Maria sorridendo: perchè quando sono uscita di casa egli dormiva ancora della grossa.

La marchesina mandò un'esclamazione quasi di gioia, e prese vivamente la destra di Maria.

– Dormiva? Davvero! Ella è certa che suo fratello non fosse uscito di casa?

La sorella di Francesco guardò tutto stupita in volto alla sua antica compagna.

– Altro che certa; rispose. La mamma mi fece parlare e camminar piano tutta la mattina, per non disturbare sor Francesco.

Virginia mandò un sospiro che pareva la manifestazione d'un sollievo sopravvenuto all'anima oppressa, e i suoi occhi lampeggiarono lietamente.

Ma Bastiano che aveva udito il colloquio, si fece avanti in quella con aria tra impacciata e tra inquieta e disse:

– Scusi, madamigella, mi rincresce contraddirla; ma il fatto gli è che sor Francesco è uscito quando era appena l'alba… e mi aveva un aspetto diverso dal solito che mi diede molto da pensare.

Virginia lasciò andare la mano di Maria e divenne pallida; Maria si volse vivacemente verso il portinaio:

– Francesco è uscito all'alba?

– Sì signora. Vennero due giovani a prenderlo, e partì con essi nella carrozza di uno di quei signori.

– Ah mio Dio! Esclamò la marchesina, impalliditasi ancora di più.

– Che vuol dir ciò? Chiese Maria, la quale si accorse del turbamento di Virginia. Qualche pericolo minaccia forse mio fratello?.. Ed Ella lo sa!.. Oh per amor del cielo mi dica tutto.

– No, non so nulla: incominciò per rispondere la marchesina: ma poi non essendo ella affatto capace di mentire, inoltre avvisando essere assai miglior consiglio il prevenire quella famiglia d'una disgrazia che poteva colpirla, che a quel momento forse l'aveva già colpita, soggiunse subitamente con voce affrettata: ebbene sì, il caso ha voluto ch'io apprendessi una cosa che riguarda suo fratello. Se egli è uscito così per tempo di casa… molto probabilmente… gli è per andare a battersi.

Maria gettò un grido di spavento e divenne pallida a sua volta come un cencio.

– Battersi! Povero Francesco! Povera mamma!.. O mio Dio! Ma come è ciò possibile?

– Ah! Ben me n'ero accorto che c'era qualche cosa di sospetto: esclamò Bastiano.

– Che cosa fare? Diceva Maria fuor di sè, tutto tremante. Come impedirlo? Dove andare?..

Virginia voleva tranquillare alquanto lo sgomento della giovanetta, ma era troppo turbata ancor essa per valerci a ritrovare ragioni che bastassero.

– Andiamo a casa: interruppe ad un tratto Maria: oh la mia povera mamma! Ch'io vada presso di lei…

La marchesina le prese di nuovo tuttedue le mani.

– Coraggio! Diss'ella con voce piena di emozione e d'affetto.

La sorella di Francesco, vinta dalla tenerezza, si lasciò andare sul seno e tra le braccia della nobile sua nuova amica scoppiando in pianto.

– Ah! se ci uccidono mio fratello, uccidono anche la mamma.

– Coraggio! Ripetè Virginia colla sua dolcissima voce; e stringendo fra le sue braccia la figliuola dell'industriale, ne baciò con affetto quasi protettore la fronte.

Il dolore e lo sgomento comuni avevano in quel punto distrutta ogni distanza che gli ordini o, per dir meglio, i pregiudizi sociali ponevano fra quelle due anime pietose ed elette.

Nel partire affrettata, Maria si fermò pur tuttavia innanzi al giaciglio di Paolina.

– Non vi dimenticherò nulla meno: diss'ella: e voi pregate per noi, pregate per Francesco…

Un singhiozzo le ruppe la parola.

– Ah madamigella! esclamò Paolina: con quanto fervore noi pregheremo per tutti loro!.. E non tema di male, no… Essi sono misericordiosi verso la povera gente, e il buon Gesù sarà misericordioso verso di loro.

– Dio vi ascolti! disse Maria asciugandosi gli occhi, e fatto un ultimo cenno di saluto a Virginia, sparì fuor della porta, seguìta da Bastiano.

Volò letteralmente giù delle scale, e salita in fretta nella carrozza che aspettava alla porta di strada, raccomandò a Bastiano con tronche parole che facesse dal cocchiere affrettare la corsa dei cavalli.

In dieci minuti la carrozza giungeva all'officina, e Maria correndo sopra nell'appartamento, trovava già la povera signora Teresa piena l'anima di sgomenti e di paure.




CAPITOLO VI


Più volte la signora Teresa era andata all'uscio della camera di suo figlio ad origliare; e poichè niun rumore le veniva fatto d'udire, pensando sempre ch'egli chetamente dormisse, erasi sempre allontanata senz'altro con ogni cura per ammorzare il suono dei suoi passi.

Ma la mattinata s'inoltrava e nella stanza di Francesco era sempre la medesima immobilità, il medesimo silenzio. Una qualche inquietudine incominciò ad entrare nell'animo della madre. Che il malessere onde Francesco s'era lamentato fosse cresciuto e fosse la causa di quel sì prolungato manco d'ogni segno di vita? che quello non fosse sonno, ma torpore o fors'anche svenimento? Ad un punto ella ebbe un bisogno insuperabile di vedere suo figlio. S'accostò di nuovo pian piano all'uscio della Camera di lui, e ne aprì con ogni cautela un battente. Nulla udì muoversi colà dentro. Guardò, ma le imposte delle finestre erano chiuse sopra le invetriate e la pallida luce di quel giorno invernale non poteva menomamente penetrare nella stanza. Teresa rimase un poco lì sulla soglia, l'animo ed il passo sospeso, ascoltando attentamente, e poichè nulla nulla non le venne fatto d'udire, nemmanco il suono del rifiato del giacente, chiamò con voce contenuta il figliuolo per nome. Nessuna risposta; ella ripetè la chiama e poi, continuando il medesimo silenzio, si inoltrò cautamente, colle mani tese innanzi, a tastone.

Giunse così presso il letto e ci pose sopra le mani. Sentì che era vuoto, che fredde n'erano le coltri nè anco disordinate dall'esservi giaciuto qualcheduno, e sotto la sua destra il contatto d'un'arma. Era la pistola, con cui Francesco s'era mirato nello specchio, e ch'egli aveva poi gettata sopra il letto.

Teresa mandò un grido, corse all'una, poi all'altra delle finestre, ne spalancò le imposte, e si volse a guardare. Il letto ancora rifatto mostrava che Francesco non s'era coricato; il lume sulla scrivania, alcuni fogli di carta disordinati lì presso, un bastone di cera lacca a metà consumato, di cui alcune goccie erano colate sul candeliere e sul tappeto verde, mostravano che Francesco aveva scritto; gli abiti gettati qua e là in un disordine che non gli era abituale, indicavano all'occhio chiaroveggente della madre un certo turbamento nell'animo del giovane: ma quella pistola sopratutto attraeva lo sguardo spaventato della signora Teresa, come un indizio manifesto di pericolo e di sventura.

La povera donna corse tutto sgomenta da suo marito e con affollate e confuse parole espresse il suo timore. Il signor Giacomo non trovò che quelli fossero indizi sufficienti per allarmarsi; volle recarsi ad esaminare la camera del figlio e trovò mille ragioni onde spiegare la sparizione di Francesco; ma in verità non credeva egli stesso a siffatte ragioni e si sentiva profondamente inquieto egli pure.

In quella ecco sopraggiungere Maria. La sua faccia pallida e sconvolta, i suoi occhi rossi e ancora pieni di lagrime dicevano troppo chiaro com'ella venisse annunziatrice di qualche trista novella. Teresa le fu incontro con impetuosa sollecitudine.

– Tu sai qualche cosa!.. Francesco?.. Che gli avvenne?.. Che fu?.. Dov'è?.. Parla, parla in nome di Dio.

La giovinetta sconcertata, posseduta dal maggiore sgomento ancor essa, non seppe rispondere altro che la verità da lei appresa poco prima.

Il colpo fu tremendo per quella povera madre. Divenne bianca come un cadavere, si premette con una mano il cuore, vacillò, si tenne ad un mobile per non cadere, parve le mancasse un momento il respiro sotto le strette dell'angoscia che le oppresse il cuore e la gola; ma non mandò un grido, non diede una lagrima.

– Disgraziato! Esclamò il padre, percotendosi coi pugni chiusi la fronte. Di questi dispiaceri ha da dare ai suoi genitori!

Teresa si rassettò con atto meccanico e colle mani febbrilmente agitate i panni che aveva indosso, come fa chi s'appresta ad uscire.

– Lesti, lesti: diss'ella. I cavalli sono bene ancora attaccati alla carrozza? Non si stacchino… Non bisogna perdere un momento… O Dio! Ogni minuto che passa può essere mortale per Francesco… Corriamo, corriamo.

E strinse nervosamente il braccio del marito per sollecitarlo a muoversi.

– E dove abbiamo da andare? Disse questi con ruvidezza dettata dal dolore. Chi sa mai dove si trovano quegli sciagurati!.. Se avessimo qualche indizio!..

Maria disse che Bastiano aveva visto ad uscire Francesco, e Bastiano fu fatto venire, e interrogato su tutti i particolari ch'egli conosceva. Le sue risposte non valsero a dare la menoma luce. Soltanto i genitori ne appresero che a prendere Francesco erano venuti due giovani, di cui uno era Giovanni Selva, ch'essi sapevano amicissimo del loro figliuolo.

Il signor Giacomo si disponeva a correre in casa di Selva per cercare di apprendere colà qualche cosa di positivo, quando una carrozza con un solo cavallo spinto al galoppo, giungeva alla fabbrica, ed entrava coll'impeto di un turbine sotto il portone della dimora dei Benda.

Giacomo, Teresa e Maria si precipitarono verso il vestibolo, e videro da quella carrozza uscire solleciti e venire alla lor volta due giovani di cui riconobbero Giovanni Selva che camminava primo.

Francesco non c'era.

La madre si gettò contro Giovanni con impeto che si sarebbe potuto chiamare quasi feroce.

– Mio figlio! Esclamò essa con voce arrangolata e convulsa. Mio figlio! Che avete fatto di mio figlio?..

Le forze le mancarono e piegandosi sulle ginocchia, sarebbe ella caduta, se Giovanni non fosse stato lesto a sostenerla. Non isvenne però, e mentre le labbra pallide come di morta non avevano più la capacità di pronunciare la parola, i suoi occhi ardenti, fissi sul volto del giovane che la sosteneva, seguitavano ad esprimere con ansia indicibile quella domanda.

– Si tranquilli: disse affrettatamente Giovanni. Suo figlio è sano e salvo, e sta bene… Glie lo giuro! soggiunse con forza, vedendo l'incredulità dipingersi sul volto di Teresa.

– Si è battuto? Domandò Giacomo con voce, di cui voleva sforzarsi ma non riesciva a dissimulare il tremito.

– No signore, non si è battuto.

– Dov'è? Perchè non è qui? Domandò la madre che aveva ritrovato le forze per parlare e per reggersi sulle proprie gambe.

– Tutto ciò: rispose affrettato Selva, glie lo spiegherà questo signore – il dottor Quercia che doveva essere l'altro testimonio di Francesco. Io, per salvare suo figlio, per salvare molti altri eziandio, ho da compiere una missione, e non bisogna che ci metta indugio di sorta.

Si volse verso il sig. Giacomo e senz'altro preambolo gli disse col tono d'un uomo a cui la pressa non concede di far frasi:

– Ella sa ch'io sono amico intimo e confidente di Francesco; occorre che in tutta fretta io faccia sparire delle carte e dei libri che sono nello scrittoio di suo figlio. Ne va della sua sorte e di quella d'altrui. Si fida ella di me, signor Benda?

– Vada: rispose Giacomo senza la menoma esitazione, come quello che conosceva le strette attinenze che passavano fra quel giovane e suo figlio ed aveva la maggiore stima del carattere di Selva. Questi corse nella camera di Francesco.

Il padre e la madre di quest'ultimo si volsero verso colui che loro era stato presentato col nome di dottor Quercia.

– Ella ci spiegherà…

– Tutto: disse Gian-Luigi affrettatamente; ma per prima cosa, dia ordine, signor Benda, che si chiuda il portone perchè nessuno possa entrare senza farsi sentire picchiando; poi riduciamoci in casa a discorrere.

Bastiano ebbe ordine di chiudere e di non aprire senza prima venire ad annunziare chi fosse: poscia il giovane fu condotto nella sala, e tutti tre, Giacomo, Teresa e Maria, stettero lì ad ascoltare, pendendo dalle labbra di lui, che così fecesi a dire:

– Suo figliuolo è arrestato.

I genitori di Francesco mandarono un grido.

– Arrestato! Ma perchè? Ma come?

– Il duello che doveva aver luogo ne fu il pretesto, la ragione è forse più grave.

– Più grave? O cielo! Si spieghi…

– L'avvocato Benda appartiene alla schiera della gioventù liberale; e la polizia odia assai tale schiera. Potrebbe darsi che questo arresto fosse soltanto uno sfogo della prepotenza di Barranchi, ma potrebbe anche essere che venisse come conseguenza di certi sospetti. Ad ogni modo ho consigliato io stesso al signor Selva di venire a far sparire ogni carta ed ogni libro compromettente che potesse avere il sig. Francesco, e così, se mai si venisse a fare una perquisizione, com'è assai probabile…

– Una perquisizione! A casa nostra?

– Eh! nulla è di più facile.

Giovanni Selva aprì l'uscio e, cacciando dentro la testa, disse:

– Ho finito. Andiamo pure.

Ma da un altr'uscio accorreva Bastiano tutto conturbato.

– Oh signor padrone! Un Commissario di polizia coi carabinieri domandano di lei.

– Di già! Disse Quercia tranquillamente, mentre tutti gli altri a queste parole impallidivano. E' non ha perduto tempo. Lei, signor Giacomo, vada a parlamentare con loro e li tenga almanco dieci minuti in novelle prima di aprire. Io starò qui colla signora Benda; e Lei, signorina, conduca il signor Selva per la strada più breve nelle officine e lo faccia uscire per una di quelle porte che mettono nella campagna. Se i carabinieri non hanno pensato a custodire tutte le uscite, noi siamo salvi.

– È vero, è vero: disse Selva affrettatamente. Venga, madamigella Maria, ad insegnarmi la strada.

La giovanotta prese Giovanni per mano, e, passando per la scaletta di servizio, attraversarono ambidue correndo il cortile, ed entrarono nei laboratoi, mentre il signor Giacomo, fattosi al finestruolo del portinaio, domandava ai quattro carabinieri e ad un uomo vestito da civile che li guidava:

– Che cosa c'è? che cosa mi si vuole?

Il borghese volse in su il capo e mostrò la faccia volpina di messer Barnaba.

– Servizio di S. M.! Diss'egli con accento imperioso. Apra, e sollecitamente, signor Benda, altrimenti saremo costretti a gettar giù la porta.

– Un momento! un momento! Posso ben chiedere la spiegazione di questo strano procedere: soggiunse il signor Giacomo.

– La spiegazione glie la darò quando saremo entrati.

– Io sono un suddito fedele di S. M.

– Non ne dubito, ed è perciò che le ordino di farmi aprir subito.

I dieci minuti erano passati. Giacomo ordinò a Bastiano di aprire, poi mosse egli stesso all'incontro dell'agente di polizia e dei carabinieri che entravano; si fece forza a mostrare una fisionomia calma e tranquilla, ma sulla fronte gli spuntava a goccioline il sudore.

Per ispiegare divisatamente i fatti che erano successi ed avevano condotto l'arresto di Francesco, bisogna che ci rifacciamo alla sera precedente, ed entriamo nel camerino della portinaia della casa in cui dimoravano Giovanni Selva e i suoi amici, entro il qual camerino abbiamo visto Barnaba introdursi, dopo aver seguitato cautamente Maurilio fino alla sua abitazione.




CAPITOLO VII


Il poliziotto, se vi ricorda, era vestito da povero operaio, ed aveva preso l'aria più timida e peritosa del mondo.

– Buona sera, madama: aveva egli detto con accento tutto rispettoso alla portinaia che per guardare attentamente chi le veniva innanzi, aveva fermate le sue mani nell'opera del far la maglia e stava colle punte dei suoi ferri da calza per aria.

Alle popolane torinesi, e massime a quelle dell'onorevole classe delle portinaie, il titolo di madama è un omaggio che si credono dovuto.

Monna Ghita sorrise graziosamente al nuovo venuto che si mostrava così civile, e rispose tutto garbata:

– Buona sera a Lei. In che cosa la posso servire? To', to': la è strana. Mi pare di conoscerla Lei, e non mi pare. Di certo la sua fisionomia l'ho già adocchiata.

– Può darsi: rispose Barnaba inchinandosi con un sorriso tutto piacenteria.

– Oh oh! io per ritenere le fisionomie non c'è la mia pari. Se mi avviene di vedere il muso di qualcheduno, passano anni ed anni e lo ravviso al primo rincontrarlo, come se non l'avessi visto che da ieri.

– Bella qualità! Disse con molta ammirazione il poliziotto.

– Si figuri che una volta avevo un cardellino, un miracolo di cardellino che era addomesticato così bene da parere un cristiano a cui mancasse soltanto la parola… E Lei saprà come sono difficili ad addomesticare i cardellini.

Barnaba fece un inchino per affermare che lo sapeva.

– Be', gli volevo bene, come ad una creatura ragionevole… e diffatti era tale più che certi bestioni d'uomini… Basta, lasciamola lì… Dunque un bel giorno, come fu, come non fu?.. Io già ho sempre creduto che sia stato quello zoticone del mi' uomo che è il più grossolano del mondo… Allora egli abitava ancora meco… che ora per fortuna di Dio sta lontano e d'un bel tratto… Fuori di città sui viali, nella casa del signor Benda, se lo conosce, quel gran fabbricante di ferro…

– Ah, ah! Esclamò il poliziotto che parve prestare alcuna attenzione a questa circostanza.

– Dunque un bel giorno gli si lascia aperto l'usciolo della gabbia (al cardellino), ed egli frrrt! se ne volò via per la finestra che vallo a vedere!..

– O diavolo! Esclamò Barnaba giungendo le mani con vivo interesse, e sedendo intanto sopra un trespolino ch'era lì presso, per ascoltare più divotamente la mirabile storia.

– Lo credevo perso senza più redenzione, quando la Marta – una mia amica e vicina che quella volta ne fece per miracolo una di bene, perchè è la più melensa e sragionata femmina che sia sotto la luna… e una lingua poi! oh quanto a lingua non dico altro che darebbe dei punti alle forbici del sarto – basta, la Marta venne ad avvisarmi in gran segreto che comare Polonia, la rivenditrice di pignatte e pentoloni che sta di faccia, aveva nelle sue gabbie… – la tiene delle gran gabbione tutte piene di ogni fatta uccelli che abbia creato Iddio – la aveva un uccello di più, e precisamente un cardellino. E la cosa era naturale. Il mio Fifì – lo chiamavo Fifì – era venuto per tornare a casa sua, s'era fermato sulle gabbie di Polonia, e quella sorniona lo aveva acchiappato e poi fatto mostra di niente… Dunque io corro da Polonia, e fra cinque o sei cardellini che la ci aveva – noti bene cinque o sei – riconosco subito alla fisionomia Fifì, e non c'è stato santi che tenessero, me lo feci restituire e la Polonia ci dovette stridere.

– Cospetto! L'ammiro di molto. E quel prezioso cardellino?

Sora Ghita prese l'aria dolorosa di colui a cui si riapre un'antica piaga dell'anima.

– Mi cascò un giorno nel beverino e mi si annegò.

Barnaba assunse un aspetto adatto alla circostanza.

– Che disgrazia!

– Or dunque, che cosa dicevo?.. Ah!.. Nel veder Lei, mi parve subito di riconoscere qualcheduno già visto altra volta. Di certo Lei abita da queste parti… To'! Badi se la indovino… Lei è il fumista e stufista che sta alla cantonata di via Santa Teresa.

Il poliziotto fece il suo sorriso più grazioso ed adulatore, per temperare la negativa con cui doveva rispondere.

– No, non sono il fumista.

– Per bacco! Avrei giurato… Si rassomigliano come le due chiappe d'una mela… Ma senza fallo Lei la deve abitare in questi quartieri.

Barnaba col medesimo sorriso rispose:

– Veramente no… Abito anzi piuttosto lontano… Però (s'affrettò a soggiungere) pratico frequente da queste parti.

– Ecco! Appunto! Gli è ciò. Volevo ben dire! E Lei dunque cerca di qualcheduno? Mi pare che abbia detto che cercava di qualcheduno.

– Sì. Mi fu supposto che in questa casa ci deve stare o ci deve venire alcune volte un medico, un bravo medico, giovane ed elegante, che si chiama… che si chiama… Ho lì il nome sulla punta della lingua… Non saprebb'ella aiutarmi, madama?

Ghita appoggiò al suo mento onorato d'una lanugine che quasi poteva chiamarsi barba, la punta di uno de' suoi ferri da calza, in atto di profonda meditazione.

– Un medico? Diss'ella. No, veramente qui non ce ne abita nessuno di medici… Ah sì… Al secondo piano c'è un dentista.

– No, non gli è ciò.

– Al primo c'è un notaio con sua moglie e sua madre… Liti del diavolo fra la suocera e la nuora. Un giovane di mercante che abita uscio ad uscio fa gli occhi dolci a quest'ultima… La Marta dice che li ha trovati insieme, lei e lui, una mattina in una strada scartata. Basta! Non facciamo giudizi temerarii come fa quella maldicente d'una Marta. Di sopra dunque c'è il dentista e un impiegato al Ministero, un brav'uomo che ha mezza dozzina di ragazzi. Al terzo piano abitano il calzolaio che ha bottega qui vicino al portone, il pizzicagnolo ed una di quelle donne che vanno ad impegnare per altrui la roba al Monte di Pietà. All'ultimo piano poi c'è una frotta di giovani…

Barnaba si accostò alla vecchia ciarliera con un interessamento che era più vero di quello manifestato fino allora.

– Giusto! Il medico che cerco sarà forse tra quelli, od almeno sarà loro conoscente, e verrà a vederli.

– No: disse la donna, tornando a riflettere. Di medici non ce n'è punto. C'è un pittore, che anzi è quello che ha preso a pigione tutto il quartiere.

– E si chiama? Domandò con aria innocente il poliziotto.

– Antonio Vanardi.

– Ah bene… L'ho sentito nominare… E con lui ci stanno parecchi…

– Tre… Anzi adesso quattro… Ma nessuno di loro è medico. Due devono essere avvocati… Ma di quegli avvocati di cui ce ne regge mille sopra un ramo… Credo che non abbiano mai visto l'ombra d'un cliente… Scrivono su per le gazzette e stampano libri o qualche cosa di simile… Spiantati, in una parola.

– E si chiamano? Tornò a domandar Barnaba colla medesima aria innocente.

– Uno, che ha l'aria d'essere un po' più innanzi degli altri negli anni, si chiama Romualdo, l'altro Giovanni Selva. Il terzo, che non è punto avvocato nè altro, ma fa lo scrivano pubblico e scrive suppliche e poesie, ha nome Maurilio Nulla: un originale a cui nessuno è capace di far dire quattro parole… È rientrato poco fa in casa, e l'ho visto passare attraverso il vetro del finestrino… Ma non c'è pericolo che mai e poi mai dica uno straccio di parola di saluto.

Barnaba si stampava tutti questi nomi nella memoria. Il giovane ch'egli aveva visto nella bettola di Pelone, poi sotto l'atrio del palazzo dell'Accademia Filarmonica, dove aveva fatto un cenno di meraviglia incontrandosi col dottor Quercia; quel giovane chiamavasi dunque Maurilio Nulla, era scrivano ed abitava insieme con due che alla polizia erano già noti da tempo come liberali e, secondo s'usava dire, patrioti rivoluzionarii.

– E ce n'è ancora un quarto? Soggiunse Barnaba per provocare la portinaia a parlare.

– Sicuro, da poco tempo… Saranno tre mesi tutt'al più… Questo è un forastiere… un italiano. Parla così bene che par sempre un libro stampato… È cantante e fa da secondo… com'è che si dice?.. secondo baritono al teatro Regio… Si chiama Medoro Bigonci… È venuto ad affittare una camera in casa del pittore, e non so davvero dove diavolo lo abbiano cacciato… Di medici fra tutti costoro non c'è nemmanco l'ombra. Forse gli è qui nella casa vicina che Lei dovrebbe andare. Ci sta un flebotomo che un tempo aveva anche la bottega da barbiere, ed ora s'intitola dottore. Un uomo grande e grosso, colla faccia color del vino…

– No, no, non è quello che cerco io: disse Barnaba. Io intendo anzi parlare d'un bel giovanotto che veste proprio coi fronzoli e porta due baffetti neri. Mi si diceva che qualche volta venisse a trovare quei giovani che abitano col pittore, e sopra tutto quel cotale che fa lo scrivano.

– Ah ah! Esclamò la portinaia come illuminata da una nuova idea. Sì che ci viene, ed anco di frequente, un giovane signore, ma signore per davvero e coi baffetti, ma questi baffi invece che neri sono biondi, e chi li porta non è medico altrimenti, ma avvocato ancor egli come il signor Selva e il signor Romualdo. E non è altri che il figliuolo del signor Benda il fabbricante presso cui è allogato il mi' uomo.

– Viene di sovente?

– Soventissimo. E ci si ferma per delle ore: Certe volte io ho già chiuso il portone, sono già andata a letto, sono già bella e addormentata che sor Francesco… l'avvocato Benda si chiama Francesco… non è ancora partito.

– Capisco. Una frotta di giovani. Faranno delle baldorie, cene, giuochi e donnette…

– Oibò! oibò!.. Prima di tutto c'è la signora Rosa, la moglie del pittore, una donna che ha lingua, ed anche le unghie, se occorresse, per farsi rispettare, la quale non tollererebbe mai una cosa simile… E poi conviene essere giusti, quei giovani sono a questo riguardo veramente esemplari. Io che ho buoni occhi ed ho buon naso in queste cose… come nelle altre… non ho mai potuto accorgermi di tanto così che avesse un'aria sospetta riguardo ai costumi.

– Lei mi stupisce. Ci credo perchè gli è Lei che me lo dice; ma che tanti giovinotti si radunino insieme e stieno chiusi in casa sino a notte inoltrata per far che?.. Per guardarsi semplicemente addosso?.. Uhm! la stenterei a mandar giù… Ci deve essere qualche segreto motivo.

– Eh! il motivo ci sarà fors'anco. In verità pare che abbiano le gran cose d'importanza di cui discorrere. La signora Rosa, la quale si ferma alcune volte a scambiar meco quattro ciarle, non sa nemmanco ella, dice, che cosa facciano, ma dice che si chiudono in una stanza tutti insieme e parlano fitto fitto sottovoce. Ella ha bensì origliato alla porta, ma dice non aver mai potuto capire una parola; ed una volta, dice, che dopo uno di questi colloquii suo marito era più cupo e pensieroso del solito, perchè quasi sempre, dice, dopo siffatte conferenze, il pittore si mostra tutto sossopra; una volta dunque che essa l'ha voluto interrogare, egli, dice, le ha risposto brusco brusco che non ficcasse il becco in codesto che non erano cose di cui occuparsi una donna.

– Oh oh! Cospetto! Disse il poliziotto, il quale ora non aveva più bisogno di fingere l'interessamento, ma anzi voleva dissimulare quello vivissimo che provava in realtà. Ch'e' facciano i monetari falsi? soggiunse sorridendo.

– Mai più! L'avvocatino Benda è straricco e non metterebbe le mani in siffatto intruglio…

In quella giungeva il sedicente Medoro Bigonci, ossia Mario Tiburzio il carbonaro, il quale, come abbiamo veduto, credeva opportuno confabulare colla portinaia un momento prima di salire all'alloggio di Vanardi.

Se l'istinto di cospiratore, in Mario Tiburzio, gli aveva fatto presentire la spia e il poliziotto nell'uomo che trovavasi nel camerino della portinaia, l'istinto proprio del segugio di polizia aveva da parte sua fatto subodorare a Barnaba in quel sedicente artista di canto qualche cosa che sapeva della ribellione alle leggi ed all'ordine vigente, e Mario non s'era niente affatto sbagliato, quando aveva creduto di accorgersi che quello sconosciuto, tuttochè cercando nascondersene, lo osservava con esperta attenzione.

Appena Mario venne fuori della stanza di monna Ghita, Barnaba disse vivamente a quest'essa:

– Quegli è il cantante Medoro Bigonci?

– Appunto. Gli è un pezzo che mi ha promesso dei biglietti d'entrata al teatro per me e per mio figlio… il quale si chiama Bastiano come suo padre, ma spero che non diventerà un bestione come suo padre.

Barnaba meditava fra sè.

– L'aspetto di quell'uomo non mi è nuovo. Fra le tante figure che mi sono passate innanzi nella mia vita così avvicendata, vi fu certamente anche quest'essa; ma dove e quando e come?.. L'accento della sua parola è romano… che io abbia dunque veduto codestui nel mio soggiorno a Roma?

Ad un tratto la nebbia che avvolgeva i suoi sovveniri parve squarciarsegli innanzi alla mente, e credette veder chiaro in essi, col suo vero nome e col vero esser suo, la figura dell'uomo che era passato.

Non potè frenare un'esclamazione, mentre e' si diceva a se medesimo:

– Conviene che ne esamini di meglio la persona, che lo veda almanco a camminare.

– Che cos'è stato? Disse la portinaia stupita, vedendo il suo compagno alzarsi di scatto.

Il poliziotto non ebbe altro spediente per ispiegare la sua mossa che dire la verità.

– Mi pare aver ravvisato quel signore per un cotale che ho conosciuto altrove, e voglio chiarirmi se ciò gli è vero o no.

Uscì sollecito dal camerino e seguitò con passo riguardoso il cospiratore, la cui ombra vedeva disegnarglisi innanzi nello scuriccio della scala male illuminata.

Mario Tiburzio s'accorse d'esser seguìto, ma non mostrò di porvi mente e continuò col suo solito passo il suo cammino.

Quando furono giunti all'ultimo pianerottolo, i sospetti di Barnaba s'erano quasi convertiti in certezza.

– Gli è lui senza fallo: disse a se stesso. È il rivoluzionario che fuggì in Roma medesima ai gendarmi papali che l'avevano arrestato.

Poichè Mario si fu introdotto nella stanza dove l'aspettavano i compagni, Barnaba s'accostò con cautela all'uscio, pose l'occhio e poi l'orecchio alla toppa, e vedendo che non poteva nulla scorgere nè udire di quanto avveniva colà dentro, si dirizzò della persona e collo stesso andar riguardoso si tolse di là e tornò nello stanzotto di monna Ghita.

– M'ero affatto sbagliato, diss'egli a costei; quel signor cantante mi è perfettamente sconosciuto. Ora non mi resta che ringraziarla della gentilezza con cui Lei mi ha trattato e partirmene che gli è tardi.

– Si figuri!.. Tutta a suo servizio. La Ghita è conosciuta per essere la più servizievole del mondo. Mi rincresce non saperle dir nulla del medico che Lei cerca…

Il poliziotto pensò fare ancora uno sperimento.

– Ah! Ora me n'è venuto in mente il nome: esclamò egli. Si chiama il dottor Quercia.

La portinaia tornò a riflettere un momentino e poi rispose:

– Non lo conosco davvero; non l'ho mai sentito a menzionare.

Barnaba soggiunse:

– È amico dell'avvocato Benda. Glie l'ho visto insieme più volte.

– Allora forse mio marito che è portiere alla casa Benda saprebbe dirgliene qualche cosa.

– Lei non lo vede mai suo marito?

– Una volta ogni morte di vescovo… e non cerco di più sicuramente. Un villanzone manesco che quando è in collera usa certi argomenti per aver ragione… E non c'è verso di parlargli senza farlo andare in collera. Avrebbe avuto bisogno di aver per moglie un ceppo di legno e non una donna viva. Con lui avrei dovuto tagliarmi la lingua, cucirmi la bocca e vivere come una mummia… Basta! Una buona ispirazione glie ne venne, sono già anni parecchi, d'andarsene egli pei fatti suoi e di lasciar me ai miei. È tornato al servizio dei Benda, dove era già stato fin da giovinotto. Ha una divozione per quella famiglia, che la sommission del cane pel suo padrone non gli è nulla.

L'agente della polizia che non aveva più cosa alcuna da spillare alle ciancie di monna Ghita, troncò lì il discorso, salutandola ed augurandole la felice notte con mille ringraziamenti, ed uscito di quella casa, s'avviò di buon passo verso Piazza Castello.

– Ecco un uomo assai gentile e garbato: disse la portinaia chiudendo dietro di lui il portone. È strana come ei rassomiglia al fumista!.. Ma guarda mò che ha finito per non dirmi chi egli è!




CAPITOLO VIII


Barnaba, giunto in Piazza Castello, entrò nel Palazzo Madama e s'intromise in una stanzaccia a pian terreno che serviva di anticamera all'ufficio del Commissario. Due guardie di polizia sonnecchiavano là dentro, mezzo sdraiate su panche di legno, vicino alla stufa in cui ardeva un fuoco vivace. Allo entrare di Barnaba le guardie si alzarono in piedi e salutarono militarmente con segno di rispetto.

– Il Commissario? Domandò con accento asciutto e vibrato il nuovo venuto.

– È fuori dell'ufficio, rispose una delle guardie, ma ordinò che se Lei veniva le si dicesse d'aspettarlo.

Barnaba fece un segno col capo come per dire:

– Sta bene; e passò in una camera vicina, a cui si accedeva per uno stretto e scuro corridoio.

Era meno grande della stanza in cui si trovavano le guardie. Una lampada ad olio con un cappello da riflettere il lume pendeva dalla metà della vôlta e la rischiarava debolmente. Le pareti nude, colorite a calce, erano grigie per la polvere e pei ragnateli. Il pavimento fatto di quadrelli di cotto era ronchioso per sudiciume rammontatovi su dai piedi di chi andava e veniva, senza che la granata si fosse immischiata mai a tentare una spazzatura. Da due parti correvano presso la muraglia delle panche lunghe, coperte di cuoio imbottito, ma questo cuoio, in parecchi luoghi lacero, lasciava scappare qua e colà la stoppa dell'imbottitura, come in varii punti pendeva a brandelli la lista, che, imbullettata all'estremità presso il legno della panca, doveva formare l'orlo da rattenere l'imbottitura. Alla parete che si trovava di faccia a chi venisse dal corridoio, non c'era panca, ma si vedeva in mezzo una scrivania posta in modo che chi vi sedesse avesse le spalle volte al muro, e in un angolo una porticina stretta e bassa con un uscio di legno di rovere irto delle capocchie di grossi chiovi, che pareva affatto un uscio di prigione. A destra di chi entrava si apriva un gran finestrone che guardava nei fossi del castello. Una tavola con sopravi un tappeto di panno verde sbiadito e sporco stava a metà della stanza sotto la lampada. Non c'era camino nè stufa e si sentiva entrando colà dentro un freddo umido ed uggioso che vi penetrava nelle ossa.

Barnaba si diresse tosto verso la scrivania e guardò le carte che vi si trovavan sopra. Erano rapporti di agenti subalterni, di carabinieri reali e lettere diverse d'ufficio: tutte cose indifferenti che il poliziotto scorse con occhio sbadato. Uno soltanto di quei fogli parve commuoverlo. Era il rapporto d'una rissa avvenuta a Porta Palazzo sulla piazza del mercato fra due saltimbanchi, di cui uno aveva ferito di coltello l'altro: il feritore era stato arrestato. Barnaba lesse due volte quel foglio, e la sua faccia si imbrunì stranamente; poi depose colle altre quella carta e fece due o tre giri per la stanza, la testa china, il volto cupo, come chi è assalito da dolorosi pensieri. Si fermò un istante presso la finestra, appoggiò ad una traversa dell'intelaiatura dell'invetrata la fronte, e rimase lì un istante a guardar fuori, innanzi a sè, ma con certi occhi che non vedevano gli oggetti esteriori, sibbene le immagini di qualche scena del passato evocata dalla sua memoria. Dopo un poco egli si riscosse, mandò un profondo sospiro, e venne a sedere presso la tavola di mezzo, sul tappeto della quale appoggiò il suo gomito, facendo sorreggere la testa alla palma della mano. Rimase immobile in quella positura, e pareva tutto intento a guardare il fiato che usciva dalla sua bocca addensato in vapore dal freddo ambiente di quella stanza.

Passò così più d'un'ora senza che quest'uomo si movesse altrimenti. Già da tempo era suonata la mezzanotte alla chiesa di S. Lorenzo, quando una voce rauca, ruvida ed imperiosa suonò improvvisa alle spalle di Barnaba.

– Ah! siete voi pur finalmente!

Barnaba sorse in piedi di scatto, e volgendosi si trovò in faccia al sig. commissario Tofi.

Un uomo alto e magro, di ossatura grossa e di membra asciutte: una faccia lunga colla mascella inferiore larga e molto sviluppata; una bocca enorme ed un naso monumentale; una fronte quadra colle ossa sopraccigliari proeminentissime e le occhiaie infossate; un colorito ulivigno e i capelli neri brizzolati; non un pelo di barba sulla faccia rasa accuratamente; un'espressione burbera e maligna; un alto e duro cravattino sotto il mento, un lungo soprabitone abbottonato sino al collo, con due grosse tasche ai due lati in sulle anche, un cappello basso a larga tesa in testa: tale era il temuto e temibile commissario, signor Tofi.

Barnaba lo salutò con umile deferenza, e l'altro, coll'accento più severo di rampogna che possa usare un superiore verso un subordinato in fallo:

– Gli è bene una fortuna, disse, che abbiate ancora avuta la degnazione di venire: di tutta stassera non ci è stato verso di vedervi.

– Signor Commissario: rispose Barnaba: non ho mica impiegato tutto questo tempo a divertirmi; e credo aver giovato anzi non poco al servizio. Vengo apportatore di informazioni che ritengo assai preziose.

Il signor Tofi lo guardò un poco entro gli occhi con quell'espressione feroce e minacciosa che gli era ordinaria.

– Sì? Diss'egli poi col medesimo tono ruvido e rimbrottoso. Udremo queste meravigliose informazioni, e vedremo se il loro valore è da farvi scusare del vostro ritardo. Intanto comincierete per istamparvi bene in mente le istruzioni e gli ordini che vi ho da dare. Venite nel mio gabinetto.

Camminò con passo militare verso l'uscio cui ho detto irto di chiovi di ferro; trasse di tasca una grossa chiave che introdusse nella toppa, ed aprì. Entrò esso primo ed a tastoni fu ad un caminetto, sopra la pietra di sporto del quale eravi un candeliere con una mezza candela di cevo. Accese quest'essa con un fiammifero che sfregò alla muraglia; depose il candeliere sopra la scrivania che si trovava nella profonda strombatura della sola finestra per cui là dentro penetrasse luce ed aria, e poi volgendosi a Barnaba che stava dritto sulla soglia, dissegli con quell'accento secco e imperativo:

– Entrate e chiudete.

Barnaba s'inoltrò, chiuse l'uscio e fece scorrere un catenaccio; poi rimase lì aspettando i comandi e le interrogazioni del suo superiore.

Questi depose il suo largo cappello sopra un forzierino che trovavasi presso il caminetto, trasse dalle tascone laterali del soprabito due pistole a doppia canna e le mise sopra la scrivania, poi si accoccolò presso il focolare e colle sue mani medesime si diede a frugar fra la cenere se ancora vi fosse qualche carbone acceso; ne trovò alcuni, li raccolse, vi pose su delle scheggie di legna, un po' di carte stracciate che prese in una cesta apposita, e vi soffiò su robustamente colla sua bocca; si scaldò un momento le mani grosse, quadrate, nere, villose, alla fiamma che non tardò a levarsi, e poi drizzatosi della persona, fregandosi ancora l'una contro l'altra le sue manaccie, si volse a Barnaba, che era sempre stato immobile al suo posto, e gli disse:

– Ora a noi!

Sedette alla scrivania, e Barnaba si accostò fino ad appoggiarsi con una mano all'orlo della medesima. La fiamma della candela, oscillando all'aria che s'intrometteva dalle fessure della finestra, mandava una luce rossigna, ora più, ora meno intensa, sulle fisionomie caratteristiche di quei due uomini, sulle protuberanze della fronte bassa, sulle linee aspre, direi quasi, della faccia del Commissario, sui lineamenti pallidi ed incerti e sull'aspetto reso insignificante per mirabile effetto di dissimulazione dell'agente segreto; al di sopra di quest'ultimo quella luce oscillante faceva danzare le ombre sul fondo della parete e tingeva di color sanguigno i busti di Carlo Felice e di Carlo Alberto che sopra due mensole appiccate alla parete guardavano coi loro occhi senza pupille e colla loro faccia impassibile di gesso le misteriose scene che succedevano in quel sancta sanctorum della Polizia.

– Vengo adess'adesso da S. E. il conte Barranchi: così disse il Commissario. E' mi ha mandato a chiamare per un grave scandalo che è successo poco fa al ballo dell'Accademia filarmonica. Un borghese da nulla ha osato insultare il figliuolo d'un'Eccellenza: il marchesino di Baldissero; e ciò mentre nel palazzo medesimo trovavasi Sua Maestà!

Chinò il capo in atto di riverenza, e Barnaba fece altrettanto.

– L'insultatore è l'avvocato Francesco Benda.

Barnaba levò il viso, e fece un atto che significava:

– Conosco chi è e ne so le novelle.

Tofi seguitava:

– Spinse l'audacia fino a sfidare a duello il marchese. S. E. è decisa d'impedire che un simile eccesso abbia luogo. Credevo che fosse per ordinare senz'altro l'arresto di quell'avvocatuzzo, e glie ne dissi; ma S. E. per certi nuovi riguardi preferisce farlo cogliere in sull'atto al momento del duello. Ho pensato di affidare a voi questa operazione. Conviene adunque che scopriate l'ora ed il luogo in cui dovrà succedere lo scontro e che allorquando sieno coll'armi alla mano li sopraccogliate in flagranti. Il marchese lo lascierete andare, l'avvocato, colle armi che sequestrerete, lo condurrete qui. Avete capito?

L'agente fece un cenno affermativo.

– Ora, continuava il Commissario, vediamo un poco l'impiego della vostra serata, e sentiamo quelle informazioni che voi dite tanto preziose.

Barnaba cominciò modestamente a parlare.

– Sono stato, come il solito, nella bettola di Pelone…

Il Commissario lo interruppe con ruvida ironia:

– E vi credete avere scoperto qualche cosa di nuovo intorno al furto avvenuto la notte scorsa nella casa del signor Bancone?

– No: rispose ancora più modesto il poliziotto: non ho scoperto nulla; ma mi sono persuaso sempre pili che gli autori di esso appartengono alla famosa cocca, di cui i caporioni si radunano nella taverna di Pelone.

– Bella scoperta! interruppe di nuovo il signor Tofi, crollando villanamente le spalle. Ve ne dirò io di più: fra i ladri c'erano di sicuro i due galeotti scappati Graffigna e Stracciaferro.

– Sì signore: disse con qualche calore l'agente subalterno: ma codestoro non sono che il braccio che eseguisce. A immaginare, ordinare i piani e condurre le imprese di quella cocca c'è una mente superiore, ed è l'uomo che la rappresenta cui converrebbe scoprire ed afferrare.

– Ah ah! Esclamò il Commissario con una specie di sorriso su quelle sue labbra grosse. Sempre la vostra idea fissa?

– Signor sì. Ed ogni giorno più s'afforzano i miei sospetti.

– Eh! non sono che sospetti in aria.

– Pazienza! Spero un giorno o l'altro di convertirli in prove reali. Nella bottega di Pelone capita sempre quel misterioso personaggio cui chiamano il medichino e che si nasconde così bene ch'io non ho ancora potuto vederlo per quant'arte e cautele adoperassi. Questa sera, quando io giunsi colà, egli era di certo nella camera riposta. Al vedermi comparire, Maddalena, la fante dell'oste, si precipitò in quella stanza, e quando io entrai in essa, e mi vi affrettai benchè alcuni tentassero trattenermene per via, quando entrai colà dentro non c'era altri più che la serva ed un giovane che non avevo ancor visto mai.

– E se ci fosse stato quell'altro, secondo che voi dite, interruppe il Commissario, e' non avrebbe potuto svanire come un fantasma. Conosco ancor io quella camera e so che non ci ha altra uscita fuor quella che mette nello stanzone del banco.

Barnaba crollò la testa in segno negativo.

– Così credevo ancor io, soggiunse, ma da qualche tempo avevo sospettato che fosse diversamente, e stassera mi sono affatto chiarito del contrario. L'imbarazzo di Pelone, la sollecitudine di Maddalena, le risposte che quell'imbecille di Meo fece ad alcune mie domande, mi persuasero che il medichino era sfuggito al mio sopraggiungere, e siccome pensai ancor io ciò che Ella ha detto or ora, ch'e' non poteva essere sfumato per aria, mi dissi che ci doveva essere un passaggio nascosto nell'impiallacciatura di legno che copre le pareti di quella stanza sino all'altezza d'un uomo. Rimasto solo un momento, mi diedi ad esaminare attentamente quell'impiallacciatura, e credo aver trovato il luogo preciso in cui s'apre l'uscio nascosto.

– Eh! questa è tal cosa che ha di certo la sua importanza: disse il Commissario pensieroso. Finora ho sempre inchinato a credere che il medichino fosse un personaggio di fantasia.

– Ah no! Proruppe con calore il poliziotto. Creda pure a tutta la realtà di esso.

– Allora bisogna assolutamente che ne sappiamo più precise le novelle. È già troppo tempo che si nasconde.

– Io credo che potremmo averle compiute queste novelle, se le cercassimo presso il dott. Quercia.

– Ecco la vostra idea fissa!

– È un istinto della verità. Non ho ancora nessuna prova positiva da poterlo stabilire; ma io penso, ma io sento che il medichino ed il dottor Quercia sono una medesima persona. E stassera medesima ne ho avuto un altro indizio.

Il Commissario guardò fisamente Barnaba a suo modo.

– Quale? domandò egli più breve e più imperativo.

– Le ho detto che nella camera riposta dell'osteria m'incontrai con un cotale non ancora veduto mai. Or bene, più tardi questo medesimo individuo io vidi sotto l'atrio del palazzo dell'Accademia Filarmonica tosto dopo che era passata la Corte; il dottor Quercia entrava giusto in quel momento, e il mio sconosciuto – allora era ancora tale per me, ora non lo è più – nel vedere il dottore fece un atto di conoscenza e pronunziò alcune parole cui non potei intendere ed alle quali il dottore mostrò di non badar punto.

– Sì, disse il signor Tofi: in codesto c'è un principio di indizio, ma così vago che non vi ci possiamo appoggiare per nulla imprendere.

– Ah! se Ella volesse far arrestare quel signor dottore!..

– Sarebbe forse un buon consiglio. Ma egli ha delle potenti raccomandazioni. Che cosa non direbbe il conte di Staffarda? e il conte San-Luca e il marchesino di Baldissero, che lo trattano da amico? Se noi non potessimo stabilir nulla di positivo a suo carico, avremmo torto e ci guadagneremmo il danno e la beffa. Piuttosto converrebbe sorvegliare quel tale che incontraste nella bettola, e che mostrò poi di essere in relazione col dottore. Voi avete detto che ora esso non vi è più sconosciuto.

– No signore, rispose Barnaba. Lo stesso pensiero che Ella ora manifesta, venne a me di presente, e determinai tosto cercar di scoprire alcuna cosa de' fatti di quel tale; ed ecco il risultamento delle mie indagini. Esso chiamasi Maurilio Nulla, abita in via ***, al num. 7, piano 4º, in casa d'un cotal pittore Antonio Vanardi, e fa lo scrivano pubblico.

– Oh oh! Vanardi: esclamò il Commissario: non mi è un nome nuovo. L'abbiamo scritto di sicuro in qualcuna delle pagine dei nostri libri. Aspettate un po'…

Si alzò e recossi al forzierino sul quale aveva deposto il suo cappello. Giunto colà sbottonò il suo soprabito, aprì il panciotto, e trasse fuori una chiavettina che ci portava sottopanni appesa al collo per un cordoncino; aprì con essa il forziere e ne tolse un grosso libro legato di pelle nera. Tornò con questo libro alla scrivania e lo spalancò al punto in cui sul margine era scritta in maiuscolo la lettera V. Fece correre l'occhio e l'indice della mano destra su varii nomi che erano scritti colà in colonna con una filza di note accanto.

– Vanardi, eccolo qua: diss'egli arrestando il dito a metà d'una pagina. Lo sapevo bene che ci era. Abbiamo un bel numero di nomi scritti qua dentro e in quegli altri libri che son là, ma pure io li so quasi tutti a memoria. Dunque vediamo un po' quali note abbiamo sul conto di questo soggetto.

E lesse le parole seguenti vergate con una magnifica scrittura all'inglese:

«Vanardi Antonio, pittore. Spirito inquieto e turbolento. Nipote d'un onesto droghiere non volle ubbidire alle volontà dello zio e ne abbandonò la casa. Di carattere sarebbe piuttosto timido, ma ha amici intraprendenti che lo spingono sulla cattiva strada. Parla poco rispettosamente della R. autorità, dei nobili e dei ministri del culto: sogna e desidera novità; si vanta d'essere italiano. Stette per qualche anno nell'Università come studente di leggi, e mancava sempre alla congregazione e dovette essere punito per aver presentato delle fedi di confessione false. Legge libri proibiti e non frequenta la chiesa. È molto legato coi caporioni della gioventù liberale, Giovanni Selva e Francesco Benda. Prese parte alla sottoscrizione per regalare una spada al nominato Giuseppe Garibaldi.»

– Ah sì: disse il Commissario cessando di leggere. I liberali inventarono un eroe in un certo Garibaldi, un ribelle esigliato che trovasi laggiù a Montevideo, dove fece non so che cosa, e per ispirito fazioso avviarono una colletta destinata a regalargli una spada. Io suggerii al conte Barranchi, e S. E. aveva accettato, di far prendere e chi teneva le liste di questa sottoscrizione e chi ci aveva dato il nome e di mandarli tutti in cittadella almanco per 15 giorni; ma Sua Maestà, a cui il conte Barranchi ebbe il torto di parlarne prima, volle che non se ne facesse nulla.

– Ebbene, soggiunse Barnaba, gli è precisamente in casa di questo pittore che abita quel cotale che ho detto.

– Già; sarà ancor egli un nemico del trono e dell'altare. Ripetetemi un poco il suo nome.

– Maurilio Nulla.

– Questo non è nome da cristiano. Scommetto che egli è un nome finto.

Tacque un momento riflettendo.

– Però neppur esso non mi è affatto nuovo. In un modo o nell'altro mi deve esser già passato sotto gli occhi. Vediamo un po' qua.

Sfogliò il grosso libro alla rubrica N e non trovò cenno nessuno di quell'individuo.

– Ch'egli sia scritto in quell'altro registro dei sospetti e dei puniti per delitti comuni?

Si alzò, andò a riporre nel forziere il libro che ne aveva tolto, e ne prese un altro più grosso. Lo sfogliò come aveva fatto del precedente, e ad un punto mandò un'esclamazione.

– To', to'; eccolo precisamente. È un bastardo; fu accusato di avere avvelenati l'uomo e la donna che lo allevarono: stette parecchi mesi in carcere; non si sa troppo di che guadagni egli viva. Poffare! Qui c'è molto probabilmente un bandolo della matassa.

Barnaba si chinò verso il Commissario, ed abbassando ancora la voce come se avesse paura di essere udito da altri in quello stanzino rimoto le cui pareti erano spesse come quelle d'una fortezza e l'uscio come quello d'una prigione, soggiunse:

– E questo bandolo gli è tale che forse ci aiuterà a dipanarne due alla volta di matasse. In casa di quel Vanardi si sta complottando qualche cosa contro la sicurezza dello Stato.

Il Commissario fece un sobbalzo sulla sua seggiola.

– Alla croce d'Iddio! Barnaba, siete voi certo di quello che dite?

– Ascolti e giudichi Ella stessa. Di frequente nella settimana convengono in quel luogo parecchi dei più accesi liberali, e primi fra essi Romualdo, Selva, Benda. Si chiudono in una stanza e ci stanno delle ore e delle ore fino a notte inoltratissima il più spesso, senza che la moglie stessa del pittore possa aver mai saputo che cosa facciano o dicano. Dopo siffatte conferenze il Vanardi si mostra inquieto e preoccupato. Non basta. Da alcuni mesi abita in quella casa un cotale che si fa chiamare Medoro Bigonci e si spaccia per cantante; anzi ora egli appartiene alla compagnia del Teatro Regio.

– Sì: disse il signor Tofi; e ne ho veduto il passaporto io stesso, che ho trovato pienamente in regola.

– Ebbene, sotto quel finto cantante si nasconde un celebre cospiratore. Egli è Medoro Bigonci come lo sono io: si chiama Mario Tiburzio, è un esule romano, scappato alle carceri papali, uno dei principali agenti dei moti di Rimini: e se Lei vuole saperne di meglio sul conto di lui, consulti le note che riguardo a questo individuo ha trasmesso la polizia di Roma.

Il Commissario fece un sobbalzo, maggiore di quello che avesse fatto un momento prima.

– Poffare! Siete voi ben certo di quello che dite?

– Ne sosterrei la prova del fuoco. Ella che conosce la mia vita passata (nel dire queste parole la voce di Barnaba tremò leggermente) sa che io dimorai alcun tempo in Roma, e cominciai colà ad essere impiegato in questo pubblico servizio. Sono stato io il Delegato che diede l'interrogatorio a costui quando venne preso per la denunzia di due dei complici nella congiura che avevano ordita. Nel tradurlo a Castello, con fortuna pari all'audacia che in lui è grandissima, questo giovane atterrò i due gendarmi che lo accompagnavano, fuggì a tutto un intero corpo di guardia di Svizzeri che si pose ad inseguirlo e scampò meravigliosamente. Fra i nemici del trono e dell'altare, le dico io che questo è uno dei più pericolosi. S'egli è qui, se sta di casa con quei giovani di cui troppo conosciamo le tendenze, se fra essi hanno luogo di quelle segrete e lunghe conventicole, crede Ella che non vi sia sotto qualche perfido disegno contro lo Stato?

– Avete ragione: disse il Commissario pensieroso. Se mi si lasciasse agire liberamente come vorrei, come il bene medesimo del servizio richiederebbe, la cosa sarebbe la più spiccia del mondo. Farei arrestare tutta questa gente, ed una brava perquisizione ci metterebbe subito in chiaro di tutto. Ma Carlo Alberto – che il Cielo gli conceda un glorioso regno – da qualche tempo ha certe velleità cui non saprei definire altrimenti che chiamandole liberali… Alcuni di simili arresti che ho fatto eseguire ebbe la debolezza ultimamente di chiamare arbitrarii e di muoverne aspri rimbrotti a S. E. il conte Barranchi, il quale di rimbalzo me ne strapazzò come un cane. Andate a servire con zelo e con intelligenza il potere. Io mi trovo colle mani un po' impacciate e non posso pigliar nessuno di questi provvedimenti, senza prima farne motto almeno al conte. Uno intanto non ci scappa certo, ed è il Benda che coglieremo domattina al duello come un merlotto al paretaio. Avuto questo tra mani, chi sa che non abbiamo tanto di buono da tirar gli altri! L'arresto dunque del Benda diventa tanto più importante e quindi conto su di voi per eseguirlo a dovere.

Barnaba s'inchinò.

– Eccovi un ordine del generale comandante che mette a vostra disposizione quel numero di carabinieri che crederete; potrete prendere con voi quante di nostre guardie stimerete opportuno. Amo credere che domattina il signor avv. Benda farà colazione in cittadella.

– Ci conti su: rispose Barnaba, inchinandosi di nuovo; e preso il foglio che gli porgeva il Commissario, uscì per tosto prendere le disposizioni acconcie all'affidatogli mandato.

Alcune guardie appostò nei dintorni del palazzo di Baldissero, perchè vegliassero sulle mosse del marchesino e cercassero, quando uscisse al mattino, di seguirne le poste; ed egli stesso andò ad appiattarsi presso la casa dei Benda, accompagnato da due carabinieri che fece nascondere più in là affinchè fosse di meglio dissimulata la loro presenza.

Abbiamo visto come allorchè Quercia disse al cocchiere il luogo dove dirigere la carrozza, Barnaba udisse quelle parole e facesse correre i carabinieri al cimitero dov'era diffatti il convegno dei duellanti, e dove si affrettò egli stesso a recarsi.




CAPITOLO IX


Francesco e i suoi padrini erano giunti i primi al convegno; ma non ebbero ad aspettare di molto che un'altra carrozza soprarrivava al trotto serrato del suo cavallo, e fermandosi ancor essa a capo del viale, dove s'era fermata quella del dottor Quercia, ne scendevano il marchesino, il conte San Luca ed un altro giovane titolato amico di Baldissero.

I due gruppi s'accostarono salutandosi. Quercia, coll'agevolezza d'un uomo praticissimo di queste faccende, cominciò a dire senz'altro:

– Per molte ragioni che è inutile accennare – e fra le altre quella di questo freddo e di questa neve – stimo opportuno sollecitarci il più possibile. Qui dietro il muro del cimitero c'è una stradicciuola per cui a questa stagione, con questo tempo, non passa mai nessuno; se lor piace, possiamo recarci colà.

Tutti annuirono con un chinar del capo. Benda e i suoi due padrini s'avviarono primi; a due passi di distanza vennero dietro loro il marchese e i suoi compagni.

Giunti al luogo accennato da Quercia, i padrini si raccolsero a parlare, mentre Francesco per iscaldarsi i piedi faceva alcuni passi scalpitando sulla neve, lungo il muro del Campo Santo, e il marchesino terminava di fumare un suo sigaro d'Avana guardando la nebbia grigiastra che invadeva la campagna.

– Ho portato una mia cassetta di pistole: disse Gian-Luigi. Giuro loro sul mio onore che esse sono affatto sconosciute all'avvocato Benda, il quale mai non le vide nemmanco.

– Ancor io ho recato meco delle mie pistole: disse a sua volta San Luca; e faccio la stessa affermazione riguardo al marchese, che non le conosce nè punto nè poco.

– Sta bene; tiriamo la sorte quali di queste armi si debbano adoperare.

Il conte San Luca prese dalla sua borsa uno scudo e lo gettò in aria.

– Testa: disse Quercia.

Lo scudo caduto sulla neve mostrava il profilo di Luigi Filippo di Francia.

– Ha vinto: disse il conte inchinandosi. Si adopereranno le loro armi.

Gian-Luigi aprì la sua cassetta e prese a caricare le pistole in presenza degli altri tre padrini; quando ci aveva messo la polvere e il proiettile, passava l'arma al conte San Luca, il quale la innescava col cappellozzo.

– Mi permettano una parola, signori: disse Quercia, poichè le armi furono pronte. Loro sanno che noi siamo gli offesi, e in che modo non occorre rammentare. Il duello adunque, come già ne patteggiammo ier sera il conte San Luca ed io, non avrà termine, finchè da parte nostra non ci dichiareremo soddisfatti.

I padrini del marchese acconsentirono con un cenno di capo; quindi, salutatisi profondamente, Selva e Quercia si accostarono a Benda, mentre gli altri due si dirigevano verso il marchese.

Armato ciascuno d'una pistola, i due avversari furono posti alla distanza di 15 passi l'uno dall'altro.

– L'arma è buona: disse Quercia a Francesco: e non iscarta punto. Mirate giusto a metà corpo; il grilletto non è duro.

– Va bene: rispose freddamente il giovane; e poi stringendo forte la mano a Giovanni, gli susurrò all'orecchio: – In ogni caso ti raccomando sopratutto mia madre, ricordati!

Giovanni corrispose con una stretta di mano forte del pari, che era una promessa ed un solenne impegno.

– Signori: disse ad alta voce il dottore, ponendosi cogli altri padrini a metà della distanza fra i due combattenti: signori, batterò tre colpi colle mani, al primo essi armeranno la loro pistola, al secondo prenderanno la mira, al terzo faranno fuoco.

Egli s'apprestava a battere il primo colpo, quando due carabinieri voltarono correndo la cantonata del muro e comparvero sulla scena gridando:

– Ferma, ferma!

Il marchesino che dava le spalle al luogo onde venivano i carabinieri, si voltò, e viste le monture degli agenti della forza pubblica, la sua faccia espresse la più disgustosa meraviglia.

– Oh, oh! esclamò egli con disdegno: c'è qualcuno che ha saputo informare per bene la polizia del nostro ritrovo e della cagione di esso.

E gettò uno sguardo supremamente sprezzoso sopra Francesco e i suoi padrini che s'erano accostati a gruppo.

– Signor sì: disse con isdegnosa insolenza Gian-Luigi. Tutto sta a vedere da qual parte debba cercarsi questo qualcheduno.

Baldissero arrossì fin sulla fronte.

– Per Dio! Ella oserebbe sospettare di noi?

– Ella osa bene mostrare sospetto sul conto nostro.

A quel punto comparve alla cantonata del muro un uomo studiosamente avviluppato in un mantello, avresti detto più ancora per nascondersi la faccia che per ripararsi dal freddo. Era messer Barnaba che veniva a sopravvegliare l'esecuzione degli ordini ricevuti.

– Qua le armi: disse uno dei carabinieri, e lor signori ci dicano tosto il loro nome.

Scrissero il nome di tutti un per uno sopra un loro taccuino.

– È finita la commedia? Disse il marchesino con isprezzante ironia.

– Finita o non finita; rimbeccò con vivacità Gian-Luigi, non fa punto onore al suo autore; e ciò posso affermare con sicurezza, che simile indegno personaggio non si trova fra noi tre.

– Questa è quistione, rispose superbamente di Baldissero, la quale potrebbe venir sciolta altrove fra di noi, se il modo con cui ha avuto termine la presente non ci levasse del tutto il coraggio e la voglia di siffatte partite con simil gente.

– Tregua agl'insulti! Gridò con imponente accento il dottor Quercia facendo un passo verso il marchesino; ma più innanzi verso codestui si fece Francesco Benda che schizzava fiamme dagli occhi.

– Oh che crede Ella che in questo modo tutto abbia avuto termine fra noi? Non sarà così, per Dio! a niun conto.

L'uomo dal mantello s'accostò d'un passo al gruppo de' nostri personaggi e col capo accennò ai carabinieri la persona di colui che aveva parlato per ultimo.

– È dunque Lei l'avvocato Francesco Benda? Dissero i carabinieri, mettendosi innanzi al giovane e disgiungendolo così dal marchesino.

– Sì.

– Ella avrà la compiacenza di venire con noi sino dal signor Commissario di polizia che molto desidera parlarle.

Tutti gli astanti fecero un moto di spiacevole meraviglia.

– Io? Esclamò Benda. A qual fine?

– Glie lo dirà il signor Commissario.

– E se mi rifiutassi d'andarvi?

– Saremmo costretti di condurvelo colla forza.

– È dunque un arresto il mio?

I carabinieri fecero un cenno affermativo.

L'impressione fu in tutti viva e diversa: Gian-Luigi diede una rapida sguardata all'ingiro, come per vedere se vi fossero probabilità di fuga; Selva si avanzò quasi minaccioso come per opporre la resistenza a quell'atto prepotente; il marchesino ed i suoi compagni mostrarono un orgoglioso disdegno.

– Ecchè? Disse superbamente Baldissero. Avete ordine di arrestarci?

– Lei no, signor marchese, risposero i carabinieri, nè altri qui dall'avv. Benda in fuori.

Selva e Francesco erano un po' impalliditi. La loro mente era corsa alla congiura che paventavano fosse scoperta. Quercia che osservava tutto, s'accorse come vi dovesse essere alcuna ragione da far temere ai due giovani più triste conseguenze da quell'arresto che non quelle cui avrebbe avuto il duello mancato: si rivolse al marchesino e gli disse vivamente:

– Ella vede quanto fossero ingiusti i suoi sospetti. Il suo onore medesimo, signor marchese, non consente che lasci così arrestare il suo avversario.

Baldissero lo interruppe con un gesto vibrato che voleva dire: – Ho capito e so ben io che cosa mi tocca di fare; poi con quell'accento di supremazia che dà la coscienza del proprio grado, disse agli agenti della forza pubblica:

– Io sono il figliuolo del marchese di Baldissero ministro di Stato. Rispondo io per l'avv. Benda.

– Do la mia parola, esclamò vivamente Francesco, che mi presenterò io stesso questa mattina medesima dal signor Commissario: ma prima lasciatemi andare a riabbracciare la mia famiglia.

– Siamo dunque intesi: soggiunse il marchesino con quel tono d'autorità; andate pure, e dite ai vostri superiori che io mi sono reso cauzione di lui.

I carabinieri parvero esitare; ma l'uomo dal mantello fece un altro passo ed un altro cenno.

– Ci rincresce davvero: disse allora uno dei carabinieri; ma non possiamo assecondare il suo desiderio. I nostri ordini sono precisi e formali.

Gian-Luigi, fin dal primo momento che Barnaba era comparso, lo era venuto esaminando con occhio acutamente investigatore.

Hai bel coprirti la faccia, diceva a se stesso, ti riconoscerò quel medesimo ad ogni volta che mi avvenga di vederti.

– Se la è così, disse Francesco, è inutile ogni altro indugio. Andiamo pure, o signori: e tu Giovanni, soggiunse volgendosi a Selva, non tardare a recar di mie notizie a casa mia.

Camminarono verso il luogo dove avevano lasciato le carrozze. Il cocchiere del dottor Quercia aveva gli occhi fissi sul suo pseudo-padrone che si accostava, e questi aveva lo sguardo intento sul suo cocchiere. Fu un cenno leggerissimo di Gian-Luigi, colto a volo da quella faccia furba di cocchiere, o fu veramente che il vivace cavallo attaccato al legno del dottore si spaventasse d'alcuna cosa? Il fatto è che quella stupenda bestia fece un balzo, e, come se avesse tolto la mano al guidatore, prese a correre giù della strada del Parco. Non ci fu più che la carrozza del marchesino di cui si potessero servire i carabinieri per condurre l'arrestato. Vi salirono i militari con Francesco; l'uomo dal mantello salì a cassetta presso il cocchiere e la carrozza partì di trotto serrato.

– Signor marchese; disse Gian-Luigi a Baldissero, il quale si vedeva essere turbato e spiacentissimo di questo fatto: Ella non abbandonerà, ne son persuaso, l'avv. Benda.

– No certo: rispose vivamente il marchesino. Qui è avvenuto non so qual disgradevole equivoco, che mi affretterò a far dileguare. Quanto a difendermi dal sospetto che io possa in alcun modo aver contribuito a questo spiacevole incidente, credo non averne bisogno.

Quercia e Selva s'inchinarono leggermente.

In quella la carrozza del dottore tornava a quel luogo col cavallo affatto ammansato.

– Mi rincresce, disse Gian-Luigi al marchesino ed ai suoi compagni, non poter offrir loro un posto nel mio legnetto. Lo lascierei anzi del tutto a loro servizio, se noi non avessimo il dovere di correre il più sollecitamente possibile in casa Benda.

I nobili avversarii non risposero che con un saluto. Selva si precipitò nella carrozza, e Quercia, salendovi esso pure, diede al cocchiere l'indirizzo dell'officina e soggiunse:

– Di galoppo.

La carrozza partì come una saetta sprigionata dalla cocca.

– Benda avrebbe qualche motivo da temere una perquisizione? Domandò Gian-Luigi al suo compagno, mentre la carrozza andava colla rapidità del vento.

– Pur troppo!

– Bene. Può darsi che arriviamo prima di quelli che verranno a farla. Ella ha tutta la fiducia di Benda e della sua famiglia?

– Sì.

– Ella dunque si affretterà a fare scomparire ciò che possa compromettere il suo amico.

– È quello appunto che pensavo di fare.

Abbiamo veduto come di poco essi avanzassero in casa Benda Barnaba e i carabinieri che venivano a fare la perquisizione.

Ora seguitiamo Francesco, il quale viene condotto alla presenza del terribile signor commissario Tofi.

Il signor Commissario aveva dormito poco e male. Per la mente commossa tutta notte s'erano dimenate le rivelazioni di Barnaba ad eccitarne lo zelo irrequieto, operoso e prepotente. Egli aveva sognato degli arresti a fusone, e la sua fantasia s'era deliziata nella visione d'un reggimento di liberali mandato a impallidire dietro le inferriate del forte di Fenestrelle. S'arrabbiava della impotenza relativa a cui lo condannava la sua condizione di subalterno, e s'angustiava per non essere in grado di tradurre in atto di propria autorità lo splendido disegno della sua poliziesca immaginativa. Avrebbe dato non so che cosa per trovarsi ventiquattr'ore almanco nell'uniforme da generale del conte Barranchi.

Effetto di questa insonnia si fu che, appena il mattino, il signor Tofi era nell'anticamera del suo superiore ad insistere presso un domestico sonnoloso che sbadigliava, affinchè lo introducesse presso il padrone. Il domestico che sapeva bene non trattarsi di giuggiole, quando la faccia scura e il soprabito lungo del Commissario comparivano in quelle soglie, si lasciò vincere dalle imperiose parole di messer Tofi ed osò introdursi nella camera del conte a turbarne i dolci sonni mattutini.

Si ha bell'essere generale dei carabinieri reali e comandante supremo della Polizia, e tuttavia non si va esente da qualche piccolo difettuccio. Ahimè! Non c'è nessuno di perfetto su questa terra. Il conte Barranchi amava supremamente due cose: mangiar molto e bene con ghiottoneria istruita a perfezione nella difficil arte della cucina, e dormire beatamente la grassa mattinata. La sera innanzi egli avea pranzato a Corte, dove i pranzi di Carlo Alberto erano conosciuti per parsimoniosa frugalità; la notte aveva dovuto vegliarla al ballo, ed a sbrigar poi varie faccende, di cui lo aveva intrattenuto il Commissario: e quindi era naturale e necessaria conseguenza di ciò che il suo umore fin dalla sera innanzi non si trovasse nello stadio della sua maggiore amenità, e che massimo fosse in lui il desiderio e il bisogno di dormire tranquillamente sino all'alba dei tafani.

Per dire il vero, affatto affatto ameno l'umore del signor generale non lo era pur mai. Il suo carattere brusco e violento si era di molto rinforzato nell'impertinente disdegno d'altrui mercè la prepotenza concessa al suo grado ed alle sue funzioni. I suoi modi erano aspri come quegli ispidi baffi che gli ombreggiavano il labbro superiore. Avvezzo a parlare a carabinieri che lo ascoltavano in posture di rispetto per obbedirlo ciecamente, ad inferiori e subordinati che s'inchinavano innanzi allo scoppio della sua voce, come le umili erbe del prato al passaggio del vento, a poveri diavoli o timorosi o colpevoli che tremavano alla impettita severità del suo aspetto, il conte Barranchi trattava con tutti ch'ei non credesse suoi pari, come un caporal tamburo tratta con un allievo tamburino. Figuratevi un po' che cosa dovesse essere quest'umore quella mattina in cui il domestico venne a rompergli il più quieto dei sonni per dirgli che il Commissario era lì che voleva parlargli! Il fatto d'essere stato svegliato era già doloroso e grave; ma vi era di più che sotto il soprabitone del Commissario venivano occupazioni e fastidi da non lasciarlo riaddormentar poi, perchè era persuaso che senza una pressante necessità Tofi non l'avrebbe disturbato. Il signor conte, che bestemmiava in francese, quantunque fosse austriaco in cuore, sparò una dozzina di sacrebleu! minacciò di prendere il domestico per il collo, diede un pugno sul tavolino da notte che mandò in aria il verre d'eau di cristallo di Boemia, agitò minacciosamente la ciocca di cotone che si drizzava con superbia in alto del suo berrettino notturno, e finì per dire che quel malaugurato signor Commissario fosse introdotto.

Tofi si avanzò con aspetto umile ma sicuro. La pervicacia della sua natura, la coscienza del suo merito poliziesco, l'essere addentro in tutti i misteri di quell'ufficio e in più a varii degli altri rami dell'amministrazione, gli davano eziandio, appetto al suo bizzarro superiore, una certa sicurezza di sè, che, trattandosi d'altro e per altre attinenze, avrebbe potuto anche dirsi dignità. Ciò non toglieva punto che S. E. il conte Barranchi non lo strapazzasse come un cane.

E fu appunto con una vera bordata d'improperii che il sig. Tofi venne accolto quella fatale mattina. E che gli era insopportabile l'essere perseguitato in quella maniera; e che fastidiosissimo e da sdegnar chicchessia non avere un Commissario che valesse a far da sè e sapesse come governarsi, senza venir a romper la testa e il sonno ad ogni momento a cui la sua alta posizione avrebbe dovuto lasciare più loisirs e meno seccature: parlasse presto e poco e bene, e guai a lui se le comunicazioni che aveva da fargli non fossero di tanta importanza da scusare quell'irriverente procedere.

Il Commissario, dritto nella postura del soldato senz'armi, il suo largo cappello in mano, i suoi occhi infossati, fissi sul generale, la faccia ossea ferma sul cravattino duro, ascoltò impassibile la sfuriata del conte, e poi colla sua voce rauca, bassa, contenuta, disse ordinatamente e laconicamente quanto aveva appreso da Barnaba.

A prima giunta siffatte informazioni non parvero abbastanza di rilievo al bravo signor generale. Gridò sbuffando che gli era un prendersi gabbo di lui il venirlo a sturbare per sì poca cosa. Bel miracolo che quattro arfasatti di liberale si radunassero in casa d'un pitocco per combriccolare; cani che vogliono prender la luna coi denti. Che sì che lo Stato aveva da tremare di que' mascalzoni! I becchi d'un cappello da carabiniere li avrebbe fatti scappar tutti come una legione di diavoli dall'acquasantino. Poi se la prese con questa empia incorreggibil razza dei liberali, stupidi matti che avrebbero potuto mangiar e bere e star tranquilli, e volevano ficcare il becco in ciò che loro non toccava. Gli era tempo di finirla mercè qualche buon provvedimento di rigore con questi paladini del disordine; ecchè eravi egli bisogno di andarlo a disturbare di quella guisa, un Commissario che sapesse secondo conviene il dover suo? Si arrestava, si procedeva, si perquisiva; e poi quando e individui, e carte, e tutto, fosse al sicuro, si aspettava un'ora un po' da cristiano per andarne a romper la testa al proprio superiore.

Tofi sostenne la seconda bordata colla medesima impassibilità colla quale aveva sopportata la prima; quando il conte si tacque, il Commissario fece balenare le sue pupille grifagne nelle occhiaie incavate e chinò leggermente la testa in moto affermativo.

– Va bene, e mi basta: diss'egli. Avevo appunto in animo di far così; ma le sue raccomandazioni di temperanza ultimamente fattemi e ripetutemi erano riuscite a pormene un po' in suggezione. Ora le sue parole mi levano ogni scrupolo ed io non mancherò di fare secondo le mie ispirazioni. Mi rincresce aver disturbata S. E.: non la scomodo oltre e vado a dar gli ordini che mi sembreranno più opportuni.

E girò sui suoi talloni per avviarsi alla porta da cui era entrato.

– Un momento, un momento: gridò il conte levandosi a sedere sul letto, appoggiato al gomito. Diavolo! Come voi ci andate di gamba lesta. Corpo d'uno squadrone! Innanzi a S. M. sono io che porto la responsabilità di tutto.

La risposta di Tofi gli aveva richiamato alla mente le rampogne fattegli dal pallido, severo labbro di Carlo Alberto per alcune maggiori prepotenze commesse da ultimo dalla Polizia, gli avevano ricordato che ancora il giorno prima il Re, fermandosi innanzi a lui a favorirlo di quella mezza dozzina di parole che soleva regalare ad ogni convitato, facendo il giro della sala dopo il pranzo, avevagli detto:

– E la sua Polizia, conte Barranchi?

– Cammina alla perfezione: aveva risposto il generale inchinandosi.

– Va bene: aveva soggiunto il Re. Spero che non sentirò più richiami di sorta per eccessi che ella commetta. Bisogna essere vigilanti, severi, ma nei limiti delle leggi e senza violare i diritti dei cittadini. Si ricordi, conte, che è mia intenzione precisa che la Polizia nei miei Stati cessi d'essere un arbitrio e diventi sempre più una magistratura.

Il generale non aveva saputo far altra risposta che inchinarsi di nuovo ed il Re era passato.

Che cosa precisamente significassero le parole di Carlo Alberto, lo spirito poco arguto del conte Barranchi non lo capiva ben bene. La Polizia una magistratura? Egli non vedeva nessun'attinenza fra queste due cose La Polizia e la sciabola, meno male! Ma il Re da qualche tempo si piaceva a tirar fuori di queste frasi; e il marchese di Villamarina, ministro della guerra, da cui Barranchi dipendeva direttamente, sembrava d'accordo col Re. Ragione di più per acconciarsi a quelle intenzioni, che in fin dei conti erano di mettere la sordina allo zelo degli agenti. Ma il Re aveva pur detto che bisognava essere severi e vigilanti. Fin dove andava la vigilanza e la severità che piacevano al Re, senza cadere in quell'arbitrio ch'ei non voleva più tollerare? La quistione era troppo seria e complicata per i mezzi intellettuali del fiero comandante della Polizia; e questa aggrovigliata quistione gli avevano riposta innanzi in tutta la sua gravità le ultime parole del commissario Tofi.

Questi s'era fermato come un buon fantaccino che abbia udito il comando dell'alt





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notes



1


Vedi I Derelitti, capitolo VII.




2


Vedi la prima parte, capitolo IX.



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