Книга - Obiettivo Zero

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Obiettivo Zero
Jack Mars


Uno spy thriller della serie Agente Zero #2
Uno dei migliori thriller di quest’anno. Books and Movie Reviews (re A ogni costo) In questo seguito del primo libro (AGENTE ZERO) della serie di spy thriller Kent Steele, Obiettivo Zero (Libro #2) ci porta in un’altra avventura ricca d’azione per tutta l’Europa, quando l’agente Kent Steele viene richiamato in servizio per fermare un’arma biologica prima che devasti il mondo, lottando al contempo con la sua perdita di memoria. La vita torna brevemente alla normalità per Kent, prima di essere richiamato dalla CIA per dare la caccia ai terroristi e fermare un’altra crisi internazionale, una persino più potenzialmente devastante dell’ultima. Perseguitato ancora una volta da un assassino, messo alle strette da una cospirazione e dalle talpe all’interno dell’agenzia, e con un’amante di cui non può fidarsi, Kent rischio di fallire. Tuttavia la sua memoria sta lentamente tornando, e con essa visioni segrete di chi è stato un tempo, che cosa ha scoperto e perché gli stanno dando tutti la caccia. La sua stessa identità potrebbe essere il segreto più pericoloso di tutti. OBIETTIVO ZERO è un thriller di spionaggio che non riuscirete a posare fino alla fine. Il thriller al suo meglio. Midwest Book Review (re A ogni costo) Inoltre è disponibile la serie thriller besteller di Jack Mars LUKE STONE (7 libri), che inizia con A ogni costo (Libro #1), un download gratuito con più di 800 recensioni a cinque stelle!





Jack Mars

OBIETTIVO ZERO




Jack Mars

Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova serie prequel FORGING OF LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.

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LIBRI DI JACK MARS




SERIE THRILLER DI LUKE STONE


A OGNI COSTO (Libro #1)


IL GIURAMENTO (Libro #2)




AGENTE ZERO SPY SERIES


IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO (Libro #1)


OBIETTIVO ZERO (Libro #2)


LA CACCIA DI ZERO (Libro #3)



Riassunto di Agente Zero – Libro 1 (riepilogo da includere nel libro 2)

Un professore del college e padre di due ragazze riscopre un passato dimenticato da agente operativo della CIA. Si fa largo attraverso l’Europa per scoprire perché gli è stata soppressa la memoria, e allo stesso tempo sventa un complotto terroristico per assassinare decine di leader mondiali.



Agente Zero: Quando il professor Reid Lawson è rapito e gli viene estratto dal cranio un dispositivo di soppressione della memoria, recupera i suoi ricordi dimenticati come agente della CIA Kent Steele, anche noto in tutto il mondo come Agente Zero.



Maya e Sara Lawson: Le due figlie adolescenti di Reid, rispettivamente di 16 e 14 anni, non sono a conoscenza del passato del padre come agente della CIA.



Kate Lawson: La moglie di Reid e madre delle sue due figlie, è morta all’improvviso due anni prima degli eventi del Libro 1 per un ictus ischemico.



Agente Alan Reidigger: Migliore amico di Kent Steele e collega agente operativo, Reidigger lo ha aiutato a farsi installare il soppressore di memoria in seguito a una sua aggressione indiscriminata durante la caccia a un pericoloso assassino.



Agente Maria Johansson: Collega operativa diventata amante di Kent Steele dopo la morte della moglie, Johansson si è dimostrata un’improbabile ma gradita alleata, durante il recupero delle sue memorie e nella lotta contro un’organizzazione terroristica.



Amun: L’organizzazione Amun è una fusione delle fazioni terroristiche di tutto il mondo. Il loro attentato al World Economic Forum di Davos, in un momento di distrazione delle autorità per via della presenza delle Olimpiadi Invernali, è stato sventato dall’Agente Zero.



Rais: Un americano espatriato diventato assassino in nome di Amun, Rais ritiene che il suo destino sia di uccidere l’Agente Zero. Durante il combattimento contro Steele alle Olimpiadi Invernali a Sion, in Svizzera, Rais viene gravemente ferito e lasciato per morto.



Agente Vicente Baraf: Baraf, un agente italiano dell’Interpol, si è dimostrato una preziosa risorsa aiutando l’agente Zero e Johansson a fermare l’attentato di Amun a Davos.



Agente John Watson: Un agente della CIA stoico e professionale, Watson ha salvato le figlie di Reid dalle mani dei terroristi in un molo del New Jersey.




PROLOGO


“Dimmi, Renault,” domandò l’uomo anziano. Gli brillavano gli occhi mentre guardava il caffè che ribolliva sotto il tappo della caffettiera in mezzo a loro. “Perché sei venuto qua?”

Il dottor Cicero era un uomo gentile, gioviale, il tipo che amava descriversi ‘un ragazzo di cinquantotto anni’. La sua barba era diventata grigia dopo i trenta e bianca quando ne aveva compiuti quaranta, e anche se di solito era tagliata con cura, il tempo passato nella tundra gliel’aveva assottigliata e arruffata. Indossava un giubbotto color arancione acceso, ma i suoi giovanili occhi blu erano ancora più vibranti.

Il giovane francese fu preso alla sprovvista dalla domanda, ma aveva già la risposta pronta, essendosela ripetuta nella mente diverse volte. “La World Health Organization, la WHO, ha contattato l’università perché aveva bisogno di assistenti ricercatori. E l’università ha offerto il posto a me,” spiegò in inglese. Cicero era nato in Grecia, e Renault veniva dalla regione costiera a sud della Francia, quindi parlavano in una lingua nota a entrambi. “A essere sincero, l’avevano offerto ad altre due persone prima di me. Loro l’hanno rifiutata. Invece io l’ho vista come una bella opportunità per…”

“Bah!” Lo interruppe l’uomo anziano con una smorfia. “Non ti ho chiesto i dettagli dei tuoi studi, Renault. Ho letto il tuo curriculum, e anche la tua tesi sulle previsioni di mutazione dell’influenza B. Un buon lavoro, devo dire. Non credo avrei potuto scrivere di meglio io stesso.”

“La ringrazio, signore.”

Cicero fece una risatina. “Risparmiati i ‘signore’ per i consigli di amministrazione e le raccolte fondi. Qua fuori, siamo tutti uguali. Chiamami Cicero. Quanti anni hai, Renault?”

“Ventisei, si… uh, Cicero.”

“Ventisei,” ripeté pensieroso l’uomo anziano. Tese le mani verso il calore della stufa da campo. “E hai quasi finito il tuo dottorato? È davvero notevole. Ma quello che voglio sapere è, perché sei qui? Come ho detto, ho letto il tuo fascicolo. Sei giovane, intelligente, indubbiamente di bell’aspetto…” Cicero ridacchiò. “Avresti potuto svolgere il tuo tirocinio in qualsiasi luogo al mondo, ne sono certo. Ma in questi quattro giorni che hai passato con noi, non ti ho sentito parlare di te stesso nemmeno una volta. Perché tra tutti i posti, sei venuto proprio qui?”

Come per dimostrare di cosa stava parlando, Cicero agitò una mano per aria, ma era inutile. La tundra siberiana si estendeva a perdita d’occhio in ogni direzione, tranne che a nord-est, dove si allargavano basse montagne coperte di bianco.

Le guance di Renault assunsero una tinta rosata. “Beh, a dirla tutta, dottore, sono venuto qui per studiare al suo fianco,” ammise. “La ammiro molto. Il suo lavoro nell’ostacolare l’epidemia del virus Zika è stato davvero incredibile.”

“Ecco!” replicò compiaciuto Cicero. “L’adulazione ti porterà lontano, o comunque ti farà avere un buon caffè nero.” Si mise un grosso guanto sulla mano destra, sollevò la caffettiera dalla stufa da campo alimentata a butano, e versò il ricco liquido bollente in due tazze di plastica. Era uno dei pochi lussi disponibili nella Siberia selvaggia.

Negli ultimi ventisette giorni della sua vita, la casa del dottor Cicero era diventata il piccolo accampamento stabilito a circa centocinquanta metri dalla riva del fiume Kolyma. L’insediamento era composto da quattro tende a forma di cupola in neoprene, una tettoia in tela chiusa da un lato a mo’ di protezione dal vento, e una camera sterile semi-permanente in kevlar. In quel momento i due scienziati si trovavano sotto la tettoia, preparandosi il caffè su una stufetta con due bruciatori in mezzo a tavolini pieghevoli coperti da microscopi, campioni di permafrost, equipaggiamento archeologico, due robusti computer adatti a ogni condizione meteorologica, e una centrifuga.

“Bevi,” disse Cicero. “È quasi l’ora del nostro turno.” L’uomo sorseggiò il caffè a occhi chiusi, e un basso mugolio di piacere gli sfuggì dalle labbra. “Mi ricorda casa mia,” commentò piano. “Hai qualcuno ad aspettarti, Renault?”

“Sì,” rispose il giovane francese. “La mia Claudette.”

“Claudette,” ripeté Cicero. “Un bel nome. Siete sposati?”

“No,” rispose semplicemente lui.

“È importante avere qualcosa a cui aspirare, nel nostro mestiere,” disse Cicero con tono malinconico. “Serve a dare una prospettiva in mezzo a un distacco spesso necessario. Io sono sposato con Phoebe da trentatré anni che Phoebe. Il mio lavoro mi ha portato per tutto il globo, ma al mio ritorno lei è sempre lì per me. Quando sono via, sento la sua mancanza, ma ne vale la pena; ogni volta che torno a casa è come se mi innamorassi di nuovo. Come si dice, la lontananza rafforza l’amore.”

Renault sorrise. “Non avrei mai pensato che un virologo potesse essere un romantico,” rifletté.

“Le due cose non si escludono a vicenda, ragazzo mio.” Il dottore si accigliò leggermente. “E tuttavia… non credo che sia Claudette a tormentare i tuoi pensieri. Sei un giovane uomo pensieroso, Renault. Più di una volta ti ho notato mentre fissavi la cima delle montagne, come se stessi cercando risposte.”

“Credo che abbia perso la sua vera vocazione, dottore,” disse Renault. “Avrebbe dovuto diventare sociologo.” Il sorriso gli svanì dalle labbra mentre aggiungeva: “In ogni caso ha ragione. Non ho accettato questo incarico solo per lavorare al suo fianco, ma anche perché mi sono dedicato a una causa… una causa fondata sulla fede. Tuttavia, mi spaventa pensare a cosa potrebbe portarmi questa fede.”

Cicero annuì comprensivo. “Come ho detto, il distacco spesso è necessario nel nostro mestiere. Dobbiamo imparare a essere spassionati.” Appoggiò una mano sulla spalla del giovane. “Fidati di un uomo che ormai ha una certa età. La fede è una motivazione importante, certo, ma a volte le emozioni hanno la tendenza a confondere il nostro giudizio e a offuscare le nostre menti.”

“Farò attenzione. Grazie, signore.” Renault gli lanciò un sorriso imbarazzato. “Cicero. Grazie.”

All’improvviso il walkie-talkie gracchiò invadente dal tavolo accanto a loro, spezzando il silenzio introspettivo sotto la tettoia.

“Dottor Cicero,” disse una voce femminile dall’accento irlandese. Era la dottoressa Bradlee, che chiamava dal sito dello scavo lì vicino. “Abbiamo scoperto qualcosa. Deve assolutamente vederlo. Porti la scatola. Passo.”

“Arriviamo subito,” rispose il dottore alla radio. “Passo.” Sorrise con aria paterna a Renault. “Sembra che dovremo muoverci prima del previsto. Faremmo meglio a prepararci.”

I due uomini appoggiarono le tazze ancora fumanti e si diressero in fretta verso la camera sterile in kevlar, entrando nella prima anticamera per indossare le tute anticontaminazione giallo acceso fornite dal World Health Organization. Prima fu il turno di guanti e stivali, sigillati attorno ai polsi e alle caviglie, poi toccò alla tuta che copriva tutto il corpo, e alle fine misero maschera e respiratore.

Si vestirono rapidamente ma in silenzio, quasi con reverenza, usando il breve interludio per una trasformazione fisica ma anche mentale, dalle chiacchiere casuali e piacevoli all’atteggiamento sobrio richiesto dal loro mestiere.

A Renault non piacevano le tute anticontaminazione. Rendevano i movimenti lenti e il lavoro fastidioso. Ma erano assolutamente necessarie per condurre la loro ricerca: individuare e confermare l’esistenza di uno degli organismi più pericolosi noti all’uomo.

Lui e Cicero uscirono dall’anticamera e si avviarono verso la riva del Kolyma, il lento fiume ghiacciato che scorreva a sud delle montagne virando leggermente verso est, fino a sfociare nel mare.

“La scatola,” esclamò poi Renault. “Vado a prenderla.” Corse indietro fino alla tettoia per recuperare il contenitore dei campioni, un cubo di acciaio inossidabile chiuso da quattro ganci e con il simbolo di rischio biologico stampato su ognuno dei lati. Tornò a passo svelto dal dottore, e i due ripresero la camminata frettolosa fino al siti dello scavo.

“Sai che cosa è successo poco lontano da qui, vero?” domandò Cicero nel cammino, attraverso la maschera.

“Sì.” Lui aveva letto il rapporto. Cinque mesi prima, un ragazzo di dodici anni di un villaggio locale si era ammalato subito dopo aver preso l’acqua dal Kolyma. All’inizio si era pensato che il fiume fosse contaminato, ma man mano che i sintomi si erano manifestati, era diventato tutto più chiaro. I ricercatori della WHO si erano mobilizzati non appena gli era giunta voce della malattia ed era stata aperta un’indagine.

Il ragazzo aveva contratto il vaiolo. Più nello specifico, era stato contagiato da un ceppo mai visto prima in età moderna.

Alla fine l’indagine li aveva portati alla carcassa di un caribù vicino alle rive del fiume. Dopo un’accurata analisi, l’ipotesi era stata confermata: il caribù era morto più di duecento anni prima e il suo corpo era diventato parte del permafrost. La malattia che lo aveva ucciso si era congelata con esso, ed era rimasta dormiente, fino a cinque mesi prima.

“È una semplice reazione a catena,” spiegò Cicero. “I ghiacciai si sciolgono e il livello dell’acqua del fiume e la temperatura si alzano. Ciò, a sua volta, scongela il permafrost. Chi sa quali malattie potrebbero essere in agguato sotto questo ghiaccio? Antichi ceppi mai visti prima… è del tutto possibile che alcuni risalgano a prima dell’avvento dell’uomo.” La tensione percettibile nella voce del dottore non era solo dovuta alla preoccupazione, ma anche a un tocco di eccitazione. Dopo tutto, era quello per cui viveva.

“Ho letto che nel 2016 hanno trovato dell’antrace in una fonte d’acqua, per via dello scioglimento di una calotta glaciale,” commentò Renault.

“È vero. Hanno chiamato me per quel caso. E anche per l’influenza spagnola che hanno trovato in Alaska.”

“Che cosa è successo al ragazzo?” domandò il giovane francese. “Il caso di vaiolo di cinque mesi fa.” Sapeva che il paziente, insieme ad altre quindici persone del suo villaggio, era stato messo in quarantena, ma a quel punto il rapporto si concludeva.

“È deceduto,” rispose Cicero. Non c’era emozione nella sua voce, ben diverso da quando aveva parlato di sua moglie, Phoebe. Dopo decenni passati a fare il suo lavoro, l’anziano medico aveva imparato la sottile arte del distacco. “Insieme ad altri quattro. Ma da questo abbiamo ricavato un vaccino adeguato, quindi non sono morti invano.”

“In ogni caso,” mormorò Renault, “è un peccato.”

A pochi passi dalla riva del fiume c’era il sito dello scavo, un’area della tundra di venti metri quadrati isolata da paletti metallici e nastro giallo brillante. Era il quarto sito che il team di ricerca aveva creato fino a quel momento nel corso dell’indagine.

Altri quattro ricercatori in tute anticontaminazione erano all’interno del quadrato isolato, tutti chini su un piccolo spiazzo d’erba vicino al suo centro. Uno di loro notò i due uomini in arrivo e gli si avvicinò.

Era la dottoressa Bradlee, un’archeologa in prestito dall’Università di Dublino. “Cicero,” disse, “abbiamo trovato qualcosa.”

“Che cos’è?” chiese lui, chinandosi per passare sotto il nastro giallo. Renault lo seguì.

“Un braccio.”

“Chiedo scusa?” esclamò Renault.

“Mostramelo,” disse Cicero.

La Bradlee li condusse fino allo spiazzo di permafrost disseppellito. Scavare nel permafrost, e farlo con così tanta precisione, non era un compito facile, Renault lo sapeva. Gli strati superiori di terra gelata di solito si scioglievano d’estate, ma quelli più profondi prendevano il nome dal fatto che erano permanentemente congelati nelle regioni polari. La fossa che Bradlee e la sua squadra avevano scavato era profonda quasi due metri e abbastanza ampia perché un uomo adulto potesse sdraiarvisi dentro.

Come una tomba, pensò cupo Renault.

E come aveva detto la donna, i resti congelati di un braccio umano parzialmente decomposto erano visibili in fondo al buco, contorti, quasi scheletrici, anneriti dal tempo e dalla terra.

“Mio Dio,” bisbigliò Cicero. “Sai cosa è questo, Renault?

“Un corpo?” ipotizzò lui. Almeno sperava che il braccio fosse attaccato ad altro.

Il dottore prese a spiegare in fretta, gesticolando con le mani. “Nel 1880, esisteva un piccolo insediamento non lontano di qui, proprio sulle rive del Kolyma. Gli abitanti originali erano nomadi, ma man mano che il loro numero cresceva, decisero di costruire qui un villaggio. Poi successe l’impensabile. Un’epidemia di vaiolo li colpì, uccidendo il quaranta percento della loro tribù in pochi giorni. Pensarono che il fiume fosse maledetto, e i sopravvissuti scapparono in fretta.

“Ma prima di farlo, seppellirono i loro morti, proprio qui, in una fossa comune sulle rive del fiume Kolyma.” Indicò il buco, dov’era il braccio. “Ora le acque alluvionali stanno erodendo le rive. Lo scioglimento del permafrost presto scoprirà tutti i corpi, e basta che un animale locale li morda e diventi un portatore perché ci troviamo davanti a una nuova epidemia.”

Per un momento Renault si dimenticò di respirare, mentre guardava i ricercatori vestiti di giallo, in fondo alla fossa, che prelevavano campioni dal braccio in decomposizione. Era una scoperta davvero eccitante; fino a cinque mesi prima, l’ultima epidemia di vaiolo naturale di cui si avesse notizia era avvenuta in Somalia, nel 1977. La World Health Organization aveva dichiarato la malattia scomparsa nel 1980. E tuttavia loro erano letteralmente sull’orlo di una tomba che sapevano infetta del pericoloso virus. Era una malattia che avrebbe potuto decimare la popolazione di una grossa città nell’arco di giorni, e il loro incarico era di estrarlo, controllarlo, e mandarne dei campioni alla WHO.

“Ginevra dovrà confermarlo,” disse piano Cicero, “ma se la mia ipotesi è corretta, abbiamo appena disseppellito un ceppo di vaiolo vecchio di ottomila anni.”

“Ottomila?” ripeté Renault. “Pensavo che avesse detto che l’insediamento risaliva al tardo diciannovesimo secolo.”

“Ah, è così!” esclamò l’altro uomo. “Ma allora la domanda diventa, come hanno fatto loro, un’isolata tribù nomade, a contrarlo? In una maniera simile, immagino. Scavando nella terra e trovando per caso qualcosa di congelato da molto tempo. Il ceppo ritrovato nella carcassa scongelata del caribù cinque mesi fa risaliva all’inizio dell’epoca dell’Olocene.” L’anziano virologo non sembrava riuscire a togliere gli occhi dal braccio che spuntava dal terreno congelato. “Renault, prendi la scatola, per favore.”

Il giovane recuperò il contenitore d’acciaio per i campioni e lo appoggiò sulla terra gelata vicina alla fossa. Aprì i quattro ganci che lo sigillavano e sollevò il coperchio. All’interno, dove l’aveva conservata in precedenza, c’era una MAB PA-15. Era una pistola vecchia ma non troppo pesante, non raggiungeva neanche un chilo con il suo caricatore da quindici colpi più uno in canna.

L’arma era appartenuta a suo zio, un veterano dell’esercito francese che aveva combattuto a Maghreb e in Somalia. Tuttavia a Renault non piacevano le pistole; erano troppo dirette, troppo limitate e troppo artificiali per i suoi gusti. Non come un virus, una perfetta macchina della natura, capace di spazzare via intere specie, sistematico e acritico allo stesso tempo. Insensibile, irremovibile e rapido; tutto ciò che doveva essere lui in quel momento

Infilò la mano dentro la scatola d’acciaio e la chiuse attorno alla pistola, ma ebbe un leggero tentennamento. Non voleva usarla. In effetti, si era affezionato molto all’ottimismo contagioso di Cicero, e alla luce negli occhi dell’anziano dottore.

Ma tutto ha un fine, pensò. La prossima esperienza aspetta.

Renault si erse con l’arma in pugno. Tolse la sicura e sparò spassionatamente ai due ricercatori su ciascun lato della fossa, diritto nel petto.

La dottoressa Bradlee emise uno strillo spaventato al rimbombo improvviso e scioccante della pistola. Indietreggiò goffamente riuscendo a fare due passi, ma poi Renault l’abbatté con due colpi. Il dottore inglese, Scott, tentò con poca fortuna di uscire dal buco prima che il francese lo trasformasse nella sua tomba con un singolo colpo alla sua testa.

Gli spari furono tonanti, assordanti, ma non c’era nessuno nel raggio di chilometri che potesse sentirli. Quasi nessuno.

Cicero era rimasto bloccato al suo posto, paralizzato dalla shock e dalla paura. A Renault erano serviti solo sette secondi per mettere fine a quattro vite, solo sette secondi perché la spedizione di ricerca diventasse un omicidio di massa.

Le labbra dell’anziano dottore tremarono dietro il suo respiratore mentre cercava di parlare. Alla fine balbettò una sola parola: “Pe-perché?”

Lo sguardo gelido di Renault era stoico, distaccato come avrebbe dovuto essere quello di qualsiasi virologo. “Dottore,” disse piano, “sta iperventilando. Rimuova il respiratore prima di svenire.”

Il respiro dell’altro uomo era laborioso e affannato, troppo rapido per la funzionalità del respiratore. Spostò lo sguardo dalla pistola nella mano di Renault, tenuta con semplicità lungo il fianco, alla fossa dove ormai il dottor Scott giaceva morto. “Io… io non posso,” balbettò. Se si fosse tolto la maschera avrebbe rischiato il contagio della malattia. “Renault, ti prego…”

“Il mio nome non è Renault,” disse il giovane uomo. “Io mi chiamo Cheval, Adrian Cheval. È esistito un Renault, uno studente universitario che era stato scelto per svolgere questo tirocinio. È morto ormai. Il curriculum e la tesi che ha letto erano le sue..”

Cicero sgranò ancora di più gli occhi iniettati di sangue. L’oscurità avanzava ai margini della sua visuale, minacciando di avvolgerlo e fargli perdere i sensi. “Io non… non capisco… perché?”

“Dottor Cicero, la prego. Rimuova il respiratore. Se deve morire, non preferirebbe farlo con una certa dignità? Alla luce del sole, invece che dietro una maschera? Se perderà i sensi, le assicuro che non si sveglierà mai più.”

Con dita lente e tremanti, lo scienziato afferrò lo stretto cappuccio giallo della tuta e lo abbassò sui capelli brizzolati. Poi prese il respiratore e la maschera e se li sfilò. Il sudore che gli aveva imperlato la fronte si raffreddò subito e si gelò.

“Voglio che sappia,” disse il giovane francese, Cheval, “che rispetto davvero lei e il suo lavoro, Cicero. Non trovo alcun piacere in questo.”

“Renault, o Cheval, chiunque tu sia, sii ragionevole.” Senza il respiratore, Cicero recuperò quanto bastava delle sue facoltà per supplicarlo. C’era solo un motivo per cui l’uomo davanti a lui stava compiendo un gesto tanto atroce. “Qualsiasi cosa stia progettando di fare con questo, ti prego, ripensaci. È molto pericoloso…”

Cheval sospirò. “Ne sono consapevole, dottore. Vede, ero veramente uno studente all’università di Stoccolma, e stavo davvero facendo un dottorato. Tuttavia l’anno scorso ho fatto un errore. Ho falsificato delle firme su un modulo di richiesta per ottenere i campioni di un raro enterovirus. Sono stato scoperto e mi hanno espulso.”

“Allora… lascia che ti aiuti,” lo supplicò l’altro. “I-io posso firmare una richiesta di quel tipo. Posso aiutarti con le tue ricerche. Qualsiasi cosa tranne…”

“Ricerche,” ripeté piano Cheval. “No, dottore. Non sono le ricerche a interessarmi. La mia gente sta aspettando, e non sono persone pazienti.”

Gli occhi di Cicero si riempirono di lacrime. “Non verrà niente di buono da questo. Lo sai.”

“Si sbaglia,” disse il giovane. “Molti moriranno, è vero. Ma moriranno nobilmente, aprendo la strada a un futuro migliore.” Cheval distolse lo sguardo. Non voleva sparare al vecchio dottore gentile. “Ma aveva ragione su una cosa. La mia Claudette, lei è reale. E la lontananza rafforza davvero l’amore. Devo andare ora, Cicero, e così anche lei. Ma la rispetto, e sono disposto a esaudire un ultimo desiderio. C’è qualcosa che vorrebbe dire alla sua Phoebe? Ha la mia parola che consegnerò il messaggio.”

Cicero scosse lentamente la testa. “Non rischierei mai di mandare un mostro come te sulla sua strada, per nessun messaggio al mondo.”

“Molto bene. Addio, dottore.” Cheval alzò la PA-15 e gli sparò un singolo colpo alla fronte. La ferita schiumò, e l’anziano dottore barcollò e collassò sulla tundra.

Nel silenzio scioccante che seguì, Cheval si prese un momento e in ginocchio mormorò una breve preghiera. Poi si mise al lavoro.

Ripulì la pistola dalle impronte e dalla polvere e la gettò nel gelido fiume Kolyma. Poi spinse i quattro corpi nella fossa insieme al dottor Scott. Con una pala e un picchetto, passò novanta minuti a coprire i cadaveri e il braccio decomposto esposto con la terra parzialmente gelata. Smontò il sito dello scavo, estraendo i picchetti e strappando il nastro. Fece con calma, lavorando meticolosamente; nessuno avrebbe tentato di contattare il team di ricerca per almeno altre otto o dodici ore, e ne sarebbero passate altre ventiquattro prima che la WHO mandasse qualcuno al sito. Un’indagine avrebbe di certo rivelato i corpi sepolti, ma Cheval non aveva intenzione di render loro le cose facili.

Infine, prese le fiale di vetro che contenevano i campioni del braccio in decomposizione e le infilò con cura, una alla volta, nei tubi di gommapiuma all’interno della scatola in acciaio inossidabile, acutamente consapevole del letale potere di ciascuna di loro. Poi richiuse i quattro ganci e riportò i campioni all’accampamento.

Nella camera sterile improvvisata, Cheval entrò nella doccia di decontaminazione portatile. Sei erogatori lo spruzzarono da ogni singola angolazione con una miscela di acqua bollente e un emulsionante. Una volta che ebbe finito, con cura e metodo si sfilò la tuta protettiva gialla, abbandonandola sul pavimento della tenda. Era possibile che i suoi capelli o la sua saliva, fattori che avrebbero potuto identificarlo, fossero dentro la tuta, ma aveva ancora una cosa da fare.

Nel retro della jeep fuoristrada di Cicero c’erano due taniche rosse rettangolari piene di benzina. Gliene sarebbe servita solo una per tornare alla civiltà. L’altra la versò liberamente nella camera sterile, sulle quattro tende di neoprene e la tettoia.

Poi gli diede fuoco. Subito si scatenarono le fiamme, alzando un fumo nero e unto verso il cielo. Cheval salì sulla jeep con la scatola d’acciaio per campioni e si allontanò. Non prese velocità, e non guardò nello specchietto retrovisore per vedere l’incendio nel sito. Guidò con calma.

L’Imam Khalil sarebbe stato in attesa. Ma il giovane francese aveva ancora molto da fare prima che il virus fosse pronto.




CAPITOLO UNO


Reid Lawson sbirciò attraverso le veneziane del suo studio per la decima volta in meno di due minuti. Stava diventando ansioso; l’autobus sarebbe dovuto già arrivare.

Il suo studio era al secondo piano, il più piccolo delle tre camere della loro nuova casa a Spruce Street in Alexandria, Virginia. Era un contrasto piacevole rispetto allo sgabuzzino stretto e soffocante che aveva usato come ufficio nel Bronx. Aveva già tolto dalle scatole metà dei suoi averi; il resto era ancora chiuso nei cartoni sparsi per la stanza. Le librerie erano state montate ma i libri erano impilati in ordine alfabetico sul pavimento. Le uniche cose che si era preso il tempo per sistemare e organizzare adeguatamente erano la sua scrivania e il computer.

Reid si era detto che quello sarebbe stato il giorno in cui finalmente avrebbe fatto ordine, quasi un mese intero dopo aver traslocato, e in cui avrebbe finito di disimballare l’ufficio.

Era riuscito ad aprire una scatola. Almeno era un inizio.

L’autobus non è mai in ritardo, pensò. È sempre qui tra le tre e ventitré e le tre e venticinque. Sono le tre e trentuno.

Le chiamo.

Prese il cellulare dalla scrivania e compose il numero di Maya. Mentre squillava si aggirò avanti e indietro per la stanza, cercando di non pensare a tutte le cose tremende che potevano essere accadute alle sue figlie nel tragitto tra la scuola e la casa.

La chiamata finì nella segreteria.

Allora fece di corsa le scale fino all’ingresso e si infilò una giacca leggera; il mese di marzo in Virginia era decisamente più mite che a New York, ma era comunque fresco. Con le chiavi dell’auto in mano, inserì il codice di sicurezza di quattro cifre sul pannello a muro per armare il sistema d’allarme in modalità ‘fuori di casa’. Conosceva il percorso preciso che compiva l’autobus, poteva seguirlo fino al liceo se necessario, e…

Non appena aprì la porta di casa, lo scuolabus giallo brillante si fermò con un sibilo davanti al suo vialetto.

“Beccato,” mormorò Reid. Non poteva ritornare dentro. Lo avevano già notato di sicuro. Le sue due figlie adolescenti erano uscite dal bus e stavano attraversando il marciapiede. Mentre il mezzo si allontanava raggiunsero la porta che lui stava bloccando.

“Ciao, ragazze,” disse lui il più allegramente possibile. “Come è andata la scuola?”

La figlia maggiore, Maya, gli lanciò uno sguardo sospettoso incrociando le braccia sul petto. “Dove stai andando?”

“Uhm… a prendere la posta,” rispose.

“Con le chiavi della macchina?” La ragazza gli indicò il pugno, nel quale stringeva le chiavi del SUV argentato. “Raccontane un’altra.”

Già, pensò lui. Beccato. “L’autobus era in ritardo. E ti ricordi quello che ho detto, che se siete in ritardo dovete chiamare. E perché non rispondevi al telefono? Ho provato a chiamare…”

“Sei minuti, papà.” Maya scosse la testa. “Sei minuti non è ‘ritardo’. Sei minuti è il traffico. C’era un ingorgo sulla Vine.”

Reid si fece da parte per lasciarle entrare in casa. La figlia più giovane, Sara, gli diede un rapido abbraccio e gli mormorò: “Ciao, papà.”

“Ciao, tesoro.” Richiuse la porta dietro di loro, girò la chiave e inserì di nuovo il codice nel sistema d’allarme prima di rigirarsi verso Maya. “Traffico o meno, voglio che tu mi faccia sapere quando siete in ritardo.”

“Sei nevrotico,” borbottò la ragazza.

“Chiedo scusa?” Reid sbatté le palpebre in un’espressione sorpresa. “Sembra che tu stia confondendo la nevrosi con la preoccupazione.”

“Oh, per favore,” ribatté Maya. “Non ci hai perse di vista per settimane. È così da quando sei tornato.”

Come al solito aveva ragione. Reid era sempre stato un padre protettivo, e lo era diventato solo di più dopo la morte della moglie e loro madre, Kate, due anni prima. Ma nelle ultime quattro settimane, si era trasformato in un genitore davvero assillante, opprimente e (se doveva essere sincero) forse persino un po’ insopportabile.

Ma non aveva intenzione di ammetterlo.

“Mia cara, dolce bambina,” la rimproverò, “entrando nell’età adulta, dovrai imparare una dura verità, e cioè che a volte si compiono degli sbagli. E in questo momento, tu ti stai sbagliando.” Sorrise, ma lei non lo fece. Era nella natura di Reid cercare di allentare le tensioni con le figlie usando il senso dell’umorismo, ma Maya non ne voleva sapere.

“Come credi.” La ragazza marciò nell’ingresso ed entrò in cucina. Aveva sedici anni, ed era estremamente intelligente per la sua età, a volte quasi troppo per il suo stesso bene. Aveva gli stessi capelli scuri di Reid e una propensione per i discorsi drammatici, ma di recente sembrava aver guadagnato un’inclinazione per la rabbia adolescenziale, o almeno un certo malumore… probabilmente causata da una combinazione della costante presenza del padre e delle informazioni sbagliate sugli eventi del mese prima.

Sara, la più giovane delle due, salì su per le scale. “Vado a fare i compiti,” mormorò.

Rimasto da solo nell’ingresso, Reid si appoggiò con un sospiro a una parete bianca. Gli dispiaceva da morire per le sue ragazze. Sara aveva quattordici anni, e di solito era dolce e vivace, ma ogni volta che la conversazione si spostava su ciò che era successo a febbraio si chiudeva in se stessa oppure lasciava in fretta la stanza. Non voleva parlarne in alcun modo. Solo qualche giorno prima, lui aveva cercato di convincerla a vedere uno psicologo, una terza persona neutrale con cui avrebbe potuto confidarsi. (Ovviamente, doveva essere un dottore affiliato alla CIA.) Sara si era rifiutata con un semplice e succinto “no, grazie” ed era scappata dalla stanza prima che Reid potesse dire un’altra parola.

Odiava nascondere la verità dalle sue figlie, ma era necessario. Al di fuori dell’agenzia e dell’Interpol, nessuno poteva conoscere la verità: che poco prima di un mese prima aveva recuperato una parte dei suoi ricordi come agente della CIA con lo pseudonimo di Kent Steele, anche noto ai colleghi e ai nemici come Agente Zero. Un dispositivo sperimentale di soppressione della memoria nella sua testa gli aveva fatto dimenticare ogni cosa su Kent Steele e sul suo lavoro come agente per quasi due anni, fino a quando l’impianto non gli era stato strappato dal cranio.

Non aveva ancora recuperato la maggior parte dei suoi ricordi come Kent. Erano là dentro, chiusi da qualche parte nelle profondità del suo cervello, ma gocciolavano come da un rubinetto che perdeva, di solito quando erano smossi da uno spunto verbale o visivo. La brutale rimozione del soppressore di memoria aveva fatto qualcosa al suo sistema limbico che aveva impedito ai ricordi di tornare tutti in una volta, e per lo più Reid ne era felice. In base a ciò che sapeva della sua vita come Agente Zero, non era certo di volerli tutti indietro. Il suo maggior timore era che avrebbe potuto ricordare qualcosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno, un doloroso rimorso o un gesto orrendo con cui Reid Lawson non sarebbe mai riuscito a convivere.

Oltretutto, era stato molto impegnato dopo gli eventi di febbraio. La CIA lo aveva aiutato a trasferire la sua famiglia; dopo il ritorno negli Stati Uniti, lui e le ragazze erano stati mandati ad Alexandria in Virginia, poco distante da Washington, DC. L’agenzia lo aveva aiutato a ottenere un lavoro come professore associato all’università di Georgetown.

Da allora si era scatenato un turbine di attività: aveva dovuto iscrivere le ragazze a una scuola nuova, ambientarsi nel suo nuovo lavoro, e trasferirsi nella casa nuova in Virginia. Ma lui aveva creato ancora più lavoro per sé, contribuendo alla propria distrazione. Aveva verniciato stanze. Aveva aggiornato gli elettrodomestici. Aveva acquistato nuovi mobili e abiti per la scuola delle ragazze. Poteva permetterselo, la CIA lo aveva ricompensato con un grosso bonus per il suo coinvolgimento nello smantellamento dell’organizzazione terroristica chiamata Amun. Era più di quanto guadagnasse all’anno come professore. Gli stavano consegnando il denaro in rate mensili per evitare i controlli. Gli assegni arrivavano nel suo conto in banca come parcelle di consulenza da una finta casa editrice che dichiarava di essere in procinto di creare una serie di testi scolastici di storia.

Tra il denaro e la grande quantità di tempo libero—stava facendo solo qualche lezione alla settimana al momento—Reid si teneva più impegnato possibile. Perché fermarsi anche solo per qualche istante significava pensare, e pensare significava riflettere, non solo sulla sua memoria frammentata, ma su altre cose ugualmente spiacevoli.

Come i nove nomi che aveva memorizzato. I nove volti che aveva studiato. Le nove vite che erano andate perdute per via del suo fallimento.

“No,” mormorò a bassa voce, da solo nell’ingresso della sua nuova casa. “Non farti questo.” Non voleva ripensarci. Invece andò in cucina, dove Maya stava frugando nel frigo alla ricerca di qualcosa da mangiare.

“Credo che ordinerò della pizza,” annunciò lui. Quando Maya non rispose, aggiunse: “Che cosa ne pensi?”

La figlia chiuse il frigo con un sospiro e vi si appoggiò contro. “Va bene,” rispose semplicemente. Poi si guardò attorno. “La cucina è più bella. Mi piace il lucernario. Anche il cortile è più grande.”

Reid sorrise. “Stavo parlando della pizza.”

“Lo so,” replicò lei scrollando le spalle. “È solo che ultimamente sembri preferire evitare l’argomento, e quindi ho pensato di fare lo stesso.”

L’uomo fece bruscamente retromarcia di fronte alla sfrontatezza della figlia. In più di un’occasione la ragazza aveva cercato di farsi raccontare cosa era successo quando era sparito, ma la conversazione finiva sempre quando Reid prendeva a insistere che la sua storia di copertura era la pura verità. Maya era furiosa perché sapeva che le mentiva. Lasciava cadere l’argomento per una settimana circa e poi il circolo vizioso ricominciava.

“Non c’è bisogno che ti comporti così, Maya,” disse.

“Vado a vedere come sta Sara.” La figlia girò sui tacchi e uscì dalla cucina. Un momento più tardi la udì salire rumorosamente le scale.

Si strinse la base del naso in preda alla frustrazione. Era in momenti come quello che gli mancava di più Kate. Lei aveva sempre saputo che cosa dire. Avrebbe saputo come gestire due adolescenti che avevano subito un trauma come le sue ragazze.

Era sempre meno convinto di voler continuare a mentirgli. Non riusciva a costringersi a recitare un’ennesima volta la sua storia di copertura, la bugia fornita dalla CIA perché potesse spiegare alla famiglia e ai colleghi dove fosse svanito per una settimana. La storia era che degli agenti federali si erano presentati alla sua porta, richiedendo la sua assistenza in un caso importante. In quanto professore dell’Ivy League, Reid era stato nella particolare posizione di poterli aiutare con delle ricerche. Per quanto le ragazze ne sapevano, aveva passato la maggior parte di quella settimana in una sala conferenze, a sgobbare su libri e fissando uno schermo del computer. Era tutto quello che aveva il permesso di dire, e non poteva condividere nessuno dettagli con loro.

Di certo non poteva dir loro del suo passato clandestino come agente Zero, né che aveva aiutato a fermare l’attentato terroristico di Amun al World Economic Forum a Davos, in Svizzera. Non poteva dir loro che aveva ucciso da solo più una decina di persone nel corso di pochi giorni, ognuna di esse un noto terrorista.

Doveva attenersi alla sua vaga storia di copertura, non solo non creare problemi alla CIA, ma per la sicurezza delle sue ragazze. Durante il suo spericolato viaggio per tutta l’Europa, le sue due figlie erano state costrette a scappare da New York, avevano passato da sole qualche giorno e poi erano state ritrovate dalla CIA e portate in una casa sicura. Erano state quasi rapite da un paio di estremisti di Amun, un pensiero che gli faceva ancora rizzare i peli sul collo, perché significava che il gruppo terroristico aveva membri negli Stati Uniti. Sicuramente anche quello aveva contribuito ad accrescere la sua recente natura iperprotettiva.

Alle ragazze era stato detto che i due uomini che avevano cercato di avvicinarle erano membri di una gang locale che stavano rapendo bambini nella zona. Sara non era parsa convinta dalla storia, ma l’aveva accettata perché credeva che il padre non le avrebbe mai mentito (cosa che, ovviamente, aveva fatto sentire Reid persino peggio). Ciò, in aggiunta alla sua totale avversione nei confronti dell’argomento, avevano reso facile aggirare la questione e andare avanti con la normalità.

Maya, invece, nutriva anche serissimi dubbi. Non solo era abbastanza furba da sapere che era una storia impossibile, ma era stata in contatto con Reid tramite Skype durante le sue traversie e apparentemente aveva captato abbastanza informazioni per fare qualche ipotesi. Era anche stata testimone delle morti dei due estremisti per mano dell’agente Watson, e da allora non era stata più la stessa.

Reid non sapeva cosa fare, a parte cercare di andare avanti con le loro vite con più normalità possibile.

Prese il cellulare e chiamò la pizzeria lungo la strada, per ordinare due pizze medie, una con formaggio extra (la preferita di Sara) e l’altra alla salsiccia e peperoni verdi (la preferita di Maya).

Mentre riappendeva, udì dei passi per le scale. Maya stava tornando in cucina. “Sara fa una dormita.”

“Di nuovo?” Sembrava che ultimamente la figlia minore dormisse davvero tanto durante il giorno. “Non dorme di notte?”

Maya scrollò le spalle. “Non lo so. Magari dovresti chiederglielo.”

“Ci ho provato. Non mi vuol dire niente.”

“Forse perché non capisce che cosa è successo,” ipotizzò la ragazza.

“Ho spiegato a tutte e due che cosa è successo.” Non farmelo ripetere, pensò lui disperatamente. Ti prego, non costringermi di nuovo a mentirti in faccia.

“Forse è spaventata,” insistette Maya. “Forse perché sa che suo padre, di cui dovrebbe potersi fidare, le sta mentendo…”

“Maya Joanne,” l’avvisò Reid, “è meglio che scegli con cura le tue prossime parole…”

“E forse non è la sola!” Sembrava che Maya non volesse fermarsi. Non quella volta. “Forse anche io ho paura.”

“Siamo al sicuro qui,” disse fermamente Reid, cercando di sembrare convincente nonostante non ci credesse del tutto nemmeno lui stesso. Gli stava salendo un’emicrania nella parte anteriore della testa. Prese un bicchiere dallo stipo e lo riempì con l’acqua fredda dal rubinetto.

“Già, e credevamo di essere al sicuro a New York,” ribatté Maya. “Magari se sapessimo che cosa sta succedendo, e in che cosa sei stato veramente coinvolto, le cose sarebbero più semplici. Ma no.” Non importava cosa stesse spingendo la ragazza, se l’improvvisa riluttanza del padre a lasciarle sole anche per pochi minuti o i suoi stessi sospetti. Lei voleva delle risposte. “Tu sai maledettamente bene che cosa ci è successo. Ma noi non abbiamo nessuna idea di cosa è successo a te!” Ormai stava quasi gridando. “Dove sei andato, che cosa hai fatto, come ti sei ferito…”

“Maya, giuro che…” Reid appoggiò il bicchiere sul bancone e puntò un dito verso di lei in segno di avvertimento.

“Giuri cosa?” sbottò la ragazza. “Di dire la verità? Allora dimmela!”

“Non posso dirti la verità!” urlò lui. Nell’esplosione alzò le mani sopra i fianchi. Nell’impeto fece cadere il bicchiere d’acqua dal ripiano.

Reid non ebbe il tempo di pensare o riflettere. I suoi istinti presero il sopravvento e in un gesto rapido ed elegante piegò le ginocchia e afferrò il bicchiere in volo prima che potesse atterrare sul pavimento.

Emise un sospiro pentito mentre l’acqua ondeggiava senza che ne cadesse per terra una sola goccia.

Maya lo fissò con occhi sgranati, anche se lui non avrebbe saputo dire se era più sorpresa dalle sue parole o dall’azione. Era la prima volta che lo vedeva muoversi in quella maniera, e anche la prima volta che lui confermava, ad alta voce, che la storia che gli aveva raccontato forse non era tutta la verità. Non importava che lei lo avesse saputo, né che lo avesse solo sospettato. Gli era sfuggito e non poteva più riprenderselo indietro.

“Presa fortunata,” disse in fretta.

Con lentezza Maya incrociò le braccia sul petto, con un sopracciglio alzato e le labbra strette insieme. Reid conosceva quello sguardo, era un’espressione accusatoria che aveva ereditato dalla madre. “Potrai aver ingannato Sara e la zia Linda, ma io non ci casco, nemmeno per un secondo.”

Lui chiuse gli occhi e sospirò. La figlia maggiore non avrebbe lasciato perdere, quindi abbassò la voce e parlò con attenzione.

“Maya, ascolta. Tu sei molto intelligente, di sicuro abbastanza da farti una tua idea su ciò che  è successo,” disse. “La cosa più importante che devi capire è che potrebbe essere pericoloso per te conoscere delle informazioni specifiche. Il rischio potenziale che avete corso quella settimana che sono stato via, potrebbe durare sempre se sapeste tutto. Non posso dirti se hai ragione o torto. Non confermerò né negherò nulla. Quindi per ora, diciamo solo che… puoi credere a qualsiasi ipotesi tu abbia fatto, basta che stai attenta a tenertela per te.”

Maya annuì lentamente. Lanciò un’occhiata lungo il corridoio per accertarsi che Sara non fosse lì prima di dire: “Non sei solo un professore. Stai lavorando per qualcuno, a livello governativo, l’FBI forse, o la CIA…”

“Gesù, Maya, ho detto di tenertelo per te!” mugugnò Reid.

“La faccenda delle Olimpiadi Invernali, e il forum a Davos,” insistette lei. “Tu eri coinvolto.”

“Te l’ho detto, non confermerò né negherò niente…”

“E il gruppo terroristico di cui continuano a parlare al telegiornale, Amun. Hai aiutato a fermarlo?”

Reid si voltò dall’altra parte, guardando fuori dalla finestrella che dava sul loro cortile. A quel punto era troppo tardi. Non serviva che confermasse o negasse. Lei glielo aveva letto in faccia.

“Questo non è un gioco, Maya. È una faccenda seria, e se le persone sbagliate lo sapessero…”

“Mamma lo sapeva?”

Di tutte le domande che poteva fargli, quella era la più complicata. Rimase in silenzio per un lungo momento. Ancora una volta la sua figlia maggiore si era dimostrata furba, forse persino troppo per il suo stesso bene.

“Non credo,” rispose piano.

“E tutti i viaggi che facevi prima,” continuò Maya. “Non erano conferenze e lezioni in altri college, vero?”

“No. Non lo erano.”

“Poi ti sei interrotto per un po’. Hai smesso dopo… dopo che la mamma… ?”

“Sì. Ma poi hanno avuto di nuovo bisogno di me.” C’era abbastanza verità in quella bugia che gli sembrava di non mentire, e sperava che avrebbe saziato la curiosità della figlia.

Si rivoltò verso di lei. La ragazza stava fissando le piastrelle del pavimento, il volto segnato da un cipiglio. Era ovvio che aveva molte altre domande. Reid sperò che non le facesse.

“Un’ultima domanda.” La sua voce era quasi un sussurro. “Questa storia ha qualcosa a che vedere con… con la morte della mamma?”

“Oddio, no, Maya. Certo che no.” Reid attraversò in fretta la stanza e la strinse forte in un abbraccio. “Non pensarci nemmeno. Quello che è successo alla mamma è stato un problema di salute. Avrebbe potuto accadere a chiunque. Non è stato… non è stato per questo.”

“Credo di averlo saputo,” disse lei a bassa voce. “Ma dovevo chiedertelo…”

“Va tutto bene.” Era l’ultima cosa che voleva che la ragazza pensasse, che la morte di Kate fosse in qualche modo legata alla vita segreta in cui era coinvolto.

Qualcosa gli attraversò la mente, una visione. Una memoria del passato.

Una cucina familiare. La loro casa in Virginia, prima di trasferirsi a New York. Prima che lei morisse. Kate è davanti a te, bella proprio quanto ricordi, ma ha le sopracciglia aggrottate e il suo sguardo è duro. È arrabbiata. Sta gridando. Indica con le mani qualcosa sopra il tavolo…

Reid indietreggiò, liberando Maya dall’abbraccio mentre il vago ricordo gli riaccendeva l’emicrania nella fronte. A volte il suo cervello cercava di ricordare certi eventi del passato che erano ancora sepolti, e il recupero forzato gli lasciava un vago mal di testa nella parte anteriore del cranio. Ma quella volta era stato diverso, strano; il ricordo era stato di Kate e di un qualche litigio che lui non ricordava di aver avuto.

“Papà, stai bene?” chiese Maya.

All’improvviso squillò il campanello, facendoli sobbalzare entrambi.

“Uhm, sì,” mormorò lui. “Sto bene. Questa deve essere la pizza.” Guardò l’orologio e si accigliò. “Sono stati molto veloci. Torno subito.” Attraversò l’ingresso e guardò attraverso lo spioncino. Fuori c’era un giovane uomo con la barba scura e uno sguardo vacuo, che indossava una maglietta polo rossa con il logo della pizzeria.

Nonostante ciò, Reid si lanciò uno sguardo alle spalle per accertarsi che Maya non stesse guardando, e poi infilò una mano nel giubbotto di pelle marrone scuro appeso a un gancio vicino la porta. Nella tasca interna c’era una Glock 22 carica. Tolse la sicura e se la nascose dietro i pantaloni prima di aprire la porta.

“Consegna per Lawson,” disse con voce monotona il fattorino della pizza.

“Sì, sono io. Quanto devo?”

L’uomo strinse le due scatole con una mano mentre tendeva l’altra verso la tasca di dietro. Istintivamente Reid fece lo stesso.

Notò un movimento con la coda dell’occhio e spostò lo sguardo sulla sinistra. Un uomo con un taglio militare stava attraversando in fretta il suo cortile, ma più importante ancora era il fatto che portava una pistola nella fondina al fianco, e aveva la mano destra sul calcio.




CAPITOLO DUE


Reid sollevò un braccio come un vigile che stesse fermando il traffico.

“Va tutto bene, signor Thompson,” gridò. “È solo la consegna della pizza.”

L’uomo anziano sul suo prato, con i capelli grigi rasati e il ventre prominente, si bloccò sui suoi passi. Il fattorino della pizza si guardò alle spalle e per la prima volta, mostrò una qualche emozione. Sgranò gli occhi per lo shock quando notò la pistola e la mano appoggiata sopra.

“Sei sicuro, Reid?” Il signor Thompson studiò sospettoso l’uomo con le pizze.

“Sono sicuro.”

Lentamente il fattorino estrasse uno scontrino dalla tasca. “Uh, sono diciotto,” disse, sconcertato.

Reid gli consegno una banconota da venti e una da dieci, per poi prendergli le scatole. “Tieni il resto.”

L’uomo non se lo fece dire due volte. Corse alla sua coupé ancora accesa, saltò dentro e si allontanò con uno stridio di pneumatici. Il signor Thompson lo guardò andare via, con gli occhi socchiusi.

“Grazie, signor Thompson,” disse Reid. “Ma è solo la pizza.”

“Non mi piaceva la faccia di quel tizio,” ringhiò il suo vicino di casa. A Reid piaceva l’anziano signore, anche se riteneva che Thompson avesse preso l’incarico di tenere d’occhio la famiglia Lawson un po’ troppo seriamente. Nonostante ciò, preferiva un eccessivo zelo a un atteggiamento pigro sul lavoro.

“Non si può mai essere troppo attenti,” aggiunse Thompson. “Come stanno le ragazze?”

“Stanno bene.” Reid sorrise con aria garbata. “Ma, ah… quella la deve proprio portare sempre in bella vista?” Indicò la Smith & Wesson al fianco di Thompson.

L’uomo anziano sembrò confuso. “Beh… sì. Il mio permesse per le armi nascoste è scaduto, e la Virginia è uno stato in cui è legale girare armati.”

“… Giusto.” Lui si costrinse a sorridere di nuovo. “Ha ragione. Grazie ancora, signor Thompson. Le farò sapere se abbiamo bisogno di qualcosa.”

Thompson annuì e poi attraversò in fretta il cortile fino a casa sua. Il vice direttore Cartwright aveva garantito a Reid che l’uomo anziano era molto in gamba; era un agente della CIA in pensione, e anche se mancava dall’azione da più di due decenni era ovvio che fosse lieto, se non persino ansioso, di tornare a essere utile.

Reid sospirò e si chiuse la porta alle spalle. Girò la chiave e attivò di nuovo l’allarme di sicurezza (un gesto che stava diventando un rituale ogni volta che apriva o chiudeva la porta), e poi si voltò per trovare Maya in piedi dietro di lui nell’ingresso.

“E quello cosa è stato?” domandò la ragazza.

“Oh, niente. Il signor Thompson voleva solo salutare.”

Maya incrociò di nuovo le braccia. “E io che credevo che stessimo facendo progressi.”

“Non essere ridicola.” Reid sbuffò. “Thompson è solo un vecchietto innocuo…”

“Innocuo? Porta una pistola ovunque vada,” protestò Maya. “E non pensare che non lo abbia visto mentre ci guarda dalle sue finestre. È come se ci stesse spiando…” Rimase a bocca aperta. “Oddio, sa di te? Anche il signor Thompson è una spia?”

“Santo Cielo, Maya, io non sono una spia…”

In realtà, pensò, è esattamente quello che sei…

“Non ci credo!” esclamò lei. “È per questo che gli chiedi di tenerci d’occhio quando vai via?”

“Sì,” ammise Reid a bassa voce. Non doveva confessarle verità non richieste, ma non aveva senso nasconderle quei dettagli quando le sue ipotesi erano tanto accurate.

Si aspettava che la figlia si arrabbiasse e iniziasse di nuovo ad accusarlo, ma invece Maya scosse la testa e mormorò: “Incredibile. Mio padre è una spia, e il nostro vicino di casa fuori di testa è una guardia del corpo.” Poi, con sua sorpresa, gli gettò le braccia al collo, facendogli quasi cadere le pizze di mano. “So che non puoi dirmi tutto. Volevo almeno una parte della verità.”

“Sì, sì,” borbottò lui. “Sto solo rischiando la sicurezza internazionale per essere un bravo padre. Ora vai a svegliare tua sorella prima che la pizza si raffreddi. E Maya? Non una parola di tutto questo a Sara.”

Andò in cucina, prese qualche piatto e dei tovaglioli, e versò tre bicchieri di gazzosa. Qualche momento più tardi, Sara entrò in cucina, strofinandosi gli occhi assonnati.

“Ciao, papà,” mormorò.

“Ehi, tesoro. Siediti. Dormi male ultimamente?”

“Mmh,” mugugnò vagamente lei. Prese una fetta di pizza e ne morse la punta, masticando piano e con poco entusiasmo.

Reid era preoccupato per la figlia minore, ma cercò di non darlo a vedere. Invece prese una fetta della pizza salsiccia e peperoni. L’aveva quasi portata alla bocca quando Maya intervenne, strappandogliela di mano.

“Che cosa credi fare?” volle sapere la ragazza.

“… Mangio? O almeno ci sto provando…”

“Uhm, no. Hai un appuntamento, ricordi?”

“Cosa? No, è domani…” si interruppe, incerto. “Oddio, è stasera, non è vero?” Si trattenne dal darsi una manata in fronte.

“Certo che lo è,” disse Maya con la bocca piena di pizza.

“E comunque non è un appuntamento. È una cena con un’amica.”

La figlia maggiore scrollò le spalle. “Come dici tu. Ma se non vai a prepararti, arriverai in ritardi per la tua ‘cena con un’amica’.”

Lui guardò l’orologio. Maya aveva ragione; avrebbe dovuto incontrare Maria alle cinque.

“Muoviti, su. Vai a cambiarti.” Lo spinse fuori dalla cucina e Reid corse al piano di sopra.

Con tutto quello stava succedendo e i suoi continui sforzi per evitare di riflettere, si era quasi dimenticato della promessa di vedersi con Maria. Avevano fatto diversi tentativi di ritrovarsi nelle ultime quattro settimane, ma per un motivo o per l’altro i loro piani erano sempre andati a monte; se doveva essere sincero con se stesso, la maggior parte delle volte era stata colpa sua. Alla fine Maria era sembrata stancarsi e non solo aveva programmato l’uscita, ma aveva scelto un posto a metà strada tra Alexandria e Baltimora, dove viveva lei, purché Reid le avesse promesso di vederla.

Sentiva la mancanza della collega. Gli mancava la sua presenza. Non erano solo partner nell’agenzia, ma condividevano un passato, anche se Reid non riusciva a ricordarne la maggior parte. In effetti quasi niente. Tutto ciò che sapeva era che quando era con Maria, aveva la netta sensazione di essere in compagnia di qualcuno che teneva a lui, un’amica, qualcuno di cui potersi fidare, e magari anche qualcosa di più.

Andò all’armadio e tirò fuori un completo che riteneva sarebbe stato adatto all’occasione. Preferiva uno stile classico, anche se era consapevole che il suo guardaroba lo invecchiava di almeno un decennio. Estrasse un paio di pantaloni color cachi, una camicia plaid, e una giacca di tweed con le toppe di pelle sui gomiti.

“È così che ti vuoi vestire?” domandò Maya, facendolo sobbalzare. Era appoggiata allo stipite della porta della sua camera, masticando pensierosa una crosta di pizza.

“Che cosa ha che non va?”

“Quello che non va è che sembra che tu abbia appena finito di far lezione. Andiamo.” Lo prese per un braccio per riportarlo all’armadio, e iniziò a spulciare tra i suoi vestiti. “Accidenti, papà, ti vesti come se avessi ottant’anni.”

“Che cosa hai detto?”

“Niente!” replicò la ragazza. “Ah. Ecco.” Tirò fuori un cappotto nero dal taglio sportivo, l’unico che aveva. “Metti questo, con qualcosa di grigio sotto. O di bianco. Una maglietta o una polo. Liberati dei pantaloni da papà e indossa dei jeans. Scuri. Aderenti.”

Su richiesta della figlia, cambiò l’outfit mentre lei aspettava nel corridoio. Supponeva che avrebbe fatto meglio ad abituarsi a quello strano rovesciamento dei ruoli. Un momento prima era un padre iperprotettivo, quello dopo cedeva agli ordini della figlia furba ed esigente.

“Molto meglio,” disse Maya quando le si presentò di nuovo. “Sembra quasi che tu sia pronto per un appuntamento.”

“Grazie,” replicò, “e non è un appuntamento.”

“Continui a dirlo. Ma se vai a cena e poi a bere con una donna misteriosa che definisci una vecchia amica, anche se non hai mai parlato di lei e noi non l’abbiamo mai incontrata…”

“Lei è una vecchia amica…”

“E, potrei aggiungere,” continuò a parlargli sopra Maya, “è piuttosto attraente. L’abbiamo vista mentre scendeva dall’aereo a Dulles. Quindi se anche solo uno tra voi due sta cercando qualcosa di più di ‘una vecchia amicizia’, questo è un appuntamento.”

“Buon Dio, io e te non parleremo di questo argomento.” Reid sussultò. Ma dentro di sé, si stava facendo prendere dal panico. Ha ragione. Questo è un appuntamento. Aveva fatto talmente tante acrobazie mentali di recente che non si era soffermato a riflettere su che cosa significasse veramente ‘una cena e qualche bicchiere’ per una coppia di adulti single. “Va bene,” ammise, “diciamo che è un appuntamento. Uhm, che cosa faccio?”

“Lo stai chiedendo a me? Non sono esattamente un’esperta.” Maya sorrise. “Parla con lei. Conoscila meglio. E ti prego, cerca di fare del tuo meglio per essere interessante.”

Reid sbuffò e scosse la testa. “Guarda che io sono molto interessante. Quante persone conosci che sanno esporre l’intera storia orale della rivolta di Bulavin?”

“Solo una.” Maya roteò gli occhi. “E non esporre a quella donna l’intera storia orale della rivolta di Bulavin.”

Reid ridacchiò e abbracciò la figlia.

“Andrai bene,” lo rassicurò lei.

“Anche voi starete bene,” disse il padre. “Chiederò al signor Thompson di passare per un po’…”

“Papà, no!” Maya si liberò dal suo abbraccio. “Andiamo. Ho sedici anni. Posso tenere d’occhio Sara per un paio d’ore.”

“Maya, sai quanto è importante per me che voi due non siate da sole…”

“Papà, quell’uomo puzza di olio per motori, e tutto quello di cui vuole parlare sono ‘i bei vecchi tempi’ con i Marines,” disse lei esasperata. “Non succederà niente. Mangeremo la pizza e guarderemo un film. Sara sarà a letto prima del tuo ritorno. Andrà tutto bene.”

“Credo ancora che il signor Thompson dovrebbe venire…”

“Può spiare dalle sue finestre come fa di solito. Staremo bene. Te lo prometto. Abbiamo un ottimo sistema di sicurezza, catenacci a tutte le porte, e so della pistola vicino all’ingresso…”

“Maya!” esclamò Reid. Come faceva a saperlo? “Quella non devi toccarla, hai capito?”

“Non la toccherò,” lo rassicurò lei. “Sto solo dicendo. Lo so che è lì. Per favore. Lascia che ti dimostri che posso farlo.”

A Reid non piaceva l’idea che le sue ragazze rimanessero da sole in casa, neanche un po’, ma Maya lo stava praticamente supplicando. “Ripetimi il piano di fuga,” disse.

“Tutto quanto?” protestò la figlia.

“Tutto quanto.”

“Va bene.” Si lanciò i capelli dietro una spalla, come faceva spesso quando era irritata. Roteò gli occhi al soffitto mentre recitava, con tono piatto, il piano che Reid aveva messo a punto poco dopo il loro arrivo nella casa nuova. “Se qualcuno arriva alla porta d’ingresso, prima devo accertarmi che l’allarme sia armato, e che il catenaccio e i lucchetti siano chiusi. Poi controllo dallo spioncino per accertarmi che sia qualcuno che conosco. Se non lo è, chiamo il signor Thompson e gli chiedo di indagare.”

“E se lo è?” insistette lui.

“Se è una persona che conosco,” ripeté Maya, “controllo dalla finestra di lato, con attenzione, per vedere se c’è qualcun altro. Se c’è, chiedo al signor Thompson di venire a indagare.”

“E se qualcuno prova a entrare con la forza?”

“Allora scendiamo nello scantinato e andiamo nella palestra,” recitò la ragazza. Uno dei primi lavori che Reid aveva fatto, dopo aver traslocato, era stato sostituire la porta della stanzetta nello scantinato con una dall’anima in acciaio. Aveva tre pesanti catenacci e cardini in lega d’alluminio. Era a prova di proiettili e ignifuga, e il tecnico della CIA che l’aveva installata aveva dichiarato che sarebbero serviti una dozzina di arieti della SWAT per buttarla giù. Aveva trasformato a tutti gli effetti la piccola palestra in un bunker improvvisata.

“E poi?” domandò lui.

“Prima chiamiamo il signor Thompson,” disse Maya. “E poi il 911. Se dimentichiamo i cellulari o non possiamo raggiungerli, c’è un telefono fisso nello scantinato pre-programmato con il suo numero.”

“E se qualcuno fa irruzione, e non riuscite ad arrivare allo scantinato?”

“Allora andiamo all’uscita disponibile più vicina,” continuò Maya. “Non appena siamo fuori, facciamo più rumore possibile.”

Thompson era molte cose, ma duro d’orecchio non era fra di esse. Una notte Reid e le ragazze avevano tenuto il volume della televisione troppo alto mentre guardavano un film d’azione, e l’uomo anziano era arrivato di corsa al suono di quello che aveva pensato fossero spari silenziati.

“Ma sarebbe meglio se avessimo sempre i cellulari con noi, nel caso dovessimo fare una telefonata non appena arriviamo in un posto sicuro.”

Reid annuì in segno d’approvazione. Maya aveva recitato tutto il piano, con l’eccezione di una parte piccola ma cruciale. “Hai dimenticato qualcosa.”

“No, non l’ho fatto.” Si accigliò.

“Non appena siete in un luogo sicuro, e dopo aver chiamato Thompson e le autorità…?”

“Oh, giusto. Allora ti chiamiamo subito e ti facciamo sapere che cosa è successo.”

“Okay.”

“Okay?” Maya sollevò un sopracciglio. “Okay significa che ci lascerai da sole per una volta?”

Ancora non gli piaceva. Ma era solo per un paio d’ore, e Thompson sarebbe stato alla porta accanto. “Sì,” disse alla fine.

Maya emise un sospiro di sollievo. “Grazie. Staremo bene, te lo giuro.” Lo abbracciò di nuovo, brevemente. Si girò per tornare al piano di sotto, ma poi le venne in mente qualcos’altro. “Posso farti un’altra domanda?”

“Certo. Ma non ti prometto di darti una risposta.”

“Comincerai di nuovo a… viaggiare?”

“Oh.” Ancora una volta fu preso alla sprovvista. La CIA gli aveva offerto di restituirgli il lavoro, e in effetti il direttore del National Intelligence stesso aveva richiesto che Kent Steele fosse pienamente reintegrato, ma Reid non aveva ancora accettato, e l’agenzia aveva evitato di insistere. La maggior parte del tempo faceva in modo di non pensarci.

“Io… vorrei davvero dirti no. Ma la verità è che non lo so. Non ho ancora deciso.” Si interruppe per un momento prima di chiederle: “Che cosa penseresti se lo facessi?”

“Vuoi la mia opinione?” domandò lei sorpresa.

“Sì, certo. Tu sei davvero una delle persone più intelligenti che conosca, e la tua opinione è molto importante per me.”

“Voglio dire… da una parte, è una bella cosa, sapendo quello che so ora…”

“Sapendo quello che credi di sapere,” la corresse Reid.

“Ma mi fa anche paura. So che ci sono buone possibilità che resti ferito, o… o peggio.” Maya rimase in silenzio per un po’. “Ti piace? Lavorare per loro?”

Reid non le rispose subito. Aveva ragione; quello che gli era successo era stato terrificante, e aveva messo in pericolo la sua vita più di una volta, oltre che quelle delle sue ragazze. Non avrebbe sopportato se fosse successo loro qualcosa. Ma la dura verità, e una delle maggiori ragioni per cui si era tenuto tanto impegnato di recente, era che gli era piaciuto, e che gli mancava. Kent Steele bramava la caccia. C’era stato un tempo, quando era ricominciato tutto, in cui aveva considerato quella parte di lui come una persona diversa, ma non era vero. Kent Steele era solo uno pseudonimo. Lui bramava la caccia. Gli mancava. Era una parte di Reid, proprio come insegnare e crescere le sue due figlie. Anche se aveva ancora i ricordi confusi, facevano parte di lui e della sua identità. Smettere del tutto sarebbe stato come quando un’incidente metteva fine alla carriera di una star dello sport, lasciandola a domandarsi: Chi sono, se non uno sportivo?

Non fu necessario rispondere alla sua domanda ad alta voce. Maya poté vederlo nel suo sguardo distante.

“Com’è che si chiama?” domandò la ragazza all’improvviso, cambiando argomento.

Reid sorrise imbarazzato. “Maria.”

“Maria,” ripeté lei pensierosa. “Va bene. Goditi l’appuntamento.” Poi tornò al piano di sotto.

Prima di seguirla, Reid ebbe un piccolo ripensamento. Aprì il primo cassetto del comò e frugò nel fondo fino a quando non trovò quello che stava cercando, una vecchia bottiglia di costosa colonia che non metteva da due anni. Era stata la preferita di Kate. Annusò il diffusore e sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Era un profumo familiare e muschiato che portò con sé un’ondata di bei ricordi.

Ne spruzzò un po’ sui polsi e se lo diede ai lati del collo. L’odore era più forte di quanto ricordasse, ma piacevole.

Poi… un altro ricordo gli lampeggiò davanti agli occhi.

La cucina in Virginia. Kate è arrabbiata, sta indicando qualcosa sul tavolo. Non è solo arrabbiata, è spaventata. “Perché hai una cosa del genere, Reid?” chiede in tono accusatorio. “E se una delle ragazze l’avesse trovata? Rispondimi!”

Allontanò la visione prima dell’arrivo dell’inevitabile emicrania, ma ciò non rese l’esperienza meno inquietante. Non riusciva a ricordare quando o perché fosse avvenuto quel litigio; lui e Kate avevano discusso di rado, e nel ricordo lei era sembrata spaventata. Doveva aver avuto paura di quello per cui stavano litigando, o forse persino di lui. Ma non le aveva mai dato motivo per temerlo. Almeno non che riuscisse a ricordare…

Gli tremarono le mani quando fu colpito da un nuovo pensiero. Non riusciva a ricordare l’evento, il che significava che doveva essere tra quelli soppressi dall’impianto che gli avevano messo nel cranio. Ma perché una memoria riguardante Kate era stata cancellata insieme all’agente Zero?

“Papà!” Maya lo chiamò dal fondo delle scale. “Arriverai in ritardo.”

“Sì,” borbottò. “Vengo.” Prima o poi doveva affrontare la realtà: o cercava una soluzione al suo problema, oppure quelle memorie occasionali avrebbero continuato a tornare alla superficie, confuse e scioccanti.

Ma ci avrebbe pensato più tardi. In quel momento aveva una promessa da mantenere.

Andò al piano di sotto, baciò entrambe le figlie sul capo e si diresse verso l’auto. Prima di attraversare il vialetto, si accertò che Maya avesse attivato l’allarme dietro di lui, e poi salì sul SUV argentato che aveva comprato un paio di settimane prima.

Anche se era molto nervoso ed emozionato di vedere di nuovo Maria, ancora non riusciva a liberarsi dalla stretta di panico nello stomaco. Non riusciva a evitare di pensare che lasciare da sole le figlie, anche se per poco, fosse una pessima idea. Se gli eventi del mese precedente gli avevano insegnato qualcosa, era che innanzitutto aveva moltissimi nemici che desideravano vederlo soffrire.




CAPITOLO TRE


“Come si sente stasera, signore?” chiese educatamente l’infermiera del turno di notte entrando nella camera d’ospedale. Rais sapeva che si chiamava Elena ed era svizzera, anche se gli parlava in un inglese accentato. Era minuta e giovane, molti l’avrebbero definita persino attraente, ed era piuttosto allegra.

Rais non disse nulla in risposta. Non lo faceva mai. Si limitò a fissarla mentre lei appoggiava una tazza di plastica sul suo comodino e gli controllava con attenzione le ferite. Era consapevole che l’allegria serviva a compensare la paura. Era ovvio che non le piacesse stare in quella stanza insieme a lui, nonostante le due guardie armate alle sue spalle, che guardavano ogni sua mossa. Non era felice di curarlo, né di parlare con lui.

Nessuno lo era.

L’infermiera, Elena, ispezionò con cautela le sue ferite. Era ovvio che fosse nervosa standogli tanto vicina. Sapevano tutti che cosa aveva fatto, che aveva ucciso in nome di Amun.

Sarebbero molto più spaventati se sapessero quante persone ho ammazzato, pensò sarcastico.

“Sta guarendo bene,” gli stava dicendo. “Più velocemente del previsto.” Glielo ripeteva ogni sera, cosa che lui interpretava come un modo per dire: “Con un po’ di fortuna te ne andrai presto.”

Non erano buone notizie per Rais, perché quando finalmente fosse stato abbastanza in salute da andarsene, di certo sarebbe stato mandato in un orrendo e squallido buco scavato nella terra, una prigione segreta della CIA nel deserto, per subire nuovi strazi mentre lo torturavano per ottenere informazioni.

In quanto Amun, noi sopportiamo. Era stato il suo mantra per più di un decennio della sua vita, ma non era più così. Amun non esisteva più, per quanto ne sapeva; il piano a Davos era fallito, i suoi capi erano stati imprigionati o uccisi, e ogni organo di polizia al mondo sapeva del marchio, il glifo di Amun che i suoi membri si erano bruciati nella pelle. Rais non aveva il permesso di guardare la televisione, ma captava notizie dalle sue guardie armate, che chiacchieravano spesso (e a lungo, con sua grande irritazione).

Lui stesso si era tagliato via il marchio dalla pelle prima di essere portato all’ospedale a Sion, ma alla fine era stato tutto inutile; sapevano chi era e almeno una parte di ciò che aveva fatto. Nonostante ciò, l’irregolare cicatrice rosata sul braccio dove un tempo aveva avuto il marchio era un perpetuo ricordo che Amun non esisteva più, e quindi sembrava solo giusto che il mantra cambiasse.

Io sopporto.

Elena prese la tazza di plastica, piena di acqua fredda e con una cannuccia. “Vuole bere un po’?”

Rais non disse nulla, ma si sospinse in avanti e aprì le labbra. La donna guidò con cautela la cannuccia verso di lui, tenendo le braccia completamente estese, i gomiti rigidi e il corpo reclinato all’indietro. Era spaventata; quattro giorni prima l’assassino aveva tentato di mordere il dottor Gerber. Gli aveva solo graffiato il collo con i denti, non lo aveva nemmeno fatto sanguinare, ma il gesto gli aveva fatto ricevere un pugno alla mascella da una delle guardie.

Quella volta non cercò di fare nulla. Prese lunghe e lente sorsate attraverso la cannuccia, godendosi la paura della giovane donna e la tensione dei due agenti di polizia alle sue spalle. Quando ebbe bevuto abbastanza, si sdraiò di nuovo. Lei emise un percettibile sospiro di pensiero.

Io sopporto.

Aveva sopportato molto nelle ultime quattro settimane. Aveva subito una nefrectomia per rimuovere un rene perforato e un secondo intervento chirurgico per estrarre una parte del suo fegato lacerato. Poi c’era stata una terza procedura per accertarsi che nessuno degli altri organi vitali fosse danneggiato. Era rimasto diversi giorni in terapia intensiva prima di essere trasferito nel reparto di chirurgia, ma non aveva mai lasciato il letto al quale era ammanettato per entrambi i polsi. Gli infermieri lo giravano, gli cambiavano la padella e lo tenevano più comodo possibile, ma non aveva il permesso di sollevarsi, di alzarsi e di muoversi di sua volontà.

Le sette ferite da taglio sulla sua schiena e quella sul suo petto erano state suturate e, come Elena, l’infermiera notturna, gli ricordava di continuo, stavano guarendo bene. Tuttavia, non c’era molto che i dottori potessero fare per i danni ai nervi. A volte tutta la spina dorsale gli si intorpidiva fino alle spalle e di tanto in tanto persino fino ai bicipiti. Non sentiva nulla, come se quelle parti del suo corpo fossero state di qualcun altro.

Altre volte si svegliava da un sonno profondo con un urlo in gola e un dolore bruciante che lo attraversava come una tempesta di lampi. Quegli attacchi non duravano mai a lungo, ma erano acuti, intensi e si ripetevano a intervalli irregolari. I dottori li definivano “dolori neuropatici”, un effetto collaterale che poteva capitare a chi aveva subito danni ai nervi tanto estesi. Gli avevano assicurato che spesso si attenuavano e sparivano del tutto, ma non gli avevano potuto dire quando sarebbe successo. Invece lo avevano informato che era stato fortunato a non aver riportato danni alla spina dorsale, e ad essere sopravvissuto alle sue ferite.

Già, fortunato, pensò amaramente. Fortunato di essere in via di guarigione, solo per finire sepolto in una prigione segreta della CIA. Fortunato che tutto ciò per cui aveva lavorato gli fosse stato strappato in un solo giorno. Fortunato ad essere stato sconfitto non solo una volta, ma due, da Kent Steele, un uomo che disprezzava e odiava con ogni fibra del suo essere.

Io sopporto.

Prima di lasciare la sua camera, Elena ringraziò i due agenti in tedesco e promise a entrambi di portar loro del caffè quando fosse tornata più tardi. Una volta che si fu allontanata, gli uomini riassunsero le loro posizioni fuori dalla porta, che era sempre aperta, e ripresero la loro conversazione, qualcosa su una recente partita di calcio. Rais conosceva bene il tedesco, ma i dettagli del dialetto svizzero-tedesco e la velocità con cui parlavano a volte lo eludevano. Gli agenti del turno di giorno tendevano a parlare in inglese, ed era grazie a loro che otteneva la maggior parte delle notizie su ciò che succedeva fuori dalla sua stanza d’ospedale.

Entrambi gli uomini erano membri dell’Ufficio Federale della Polizia Svizzera, che aveva dato ordini che avesse due guardie davanti alla sua porta, ventiquattro ore al giorno. Facevano turni da otto ore, con agenti del tutto diversi il venerdì e nel weekend. Ce n’erano sempre due, di continuo; se un agente doveva usare il bagno o prendere da mangiare, prima doveva chiamare una delle guardie di sicurezza dell’ospedale, e poi doveva aspettare il suo arrivo. La maggior parte dei pazienti nelle sue condizioni e a quello stadio avanzato di guarigione di solito era trasferito a un centro traumatologico di livello inferiore, ma Rais era rimasto all’ospedale. Era una struttura più sicura, con i suoi reparti chiusi a chiave e le guardie armate.

Ce n’erano sempre due. Sempre. E Rais aveva deciso che li avrebbe sfruttati per i suoi scopi.

Aveva avuto molto tempo per progettare la sua fuga, in particolare negli ultimi giorni, quando avevano iniziato a diminuirgli le dosi di tranquillanti e aveva ripreso a pensare lucidamente. Aveva preso in considerazione molti scenari diversi, analizzandoli ancora e ancora. Aveva memorizzato spostamenti e origliato conversazioni. Non mancava molto perché lo dimettessero, era al massimo una questione di giorni.

Doveva agire, e aveva deciso che lo avrebbe fatto quella sera.

Gli agenti avevano abbassato la guardia nel corso delle settimane in cui erano stati assegnati  alla sua porta. Lo chiamavano ‘terrorista’ e sapevano che era un assassino, ma a parte il piccolo incidente con il dottor Gerber di qualche giorno prima, Rais non aveva fatto altro che stare sdraiato in silenzio, quasi immobile, permettendo allo staff di svolgere i suoi compiti. Se non c’era nessuno nella stanza con lui, quasi non gli prestavano attenzione al di là dell’occasionale sguardo.

Non aveva cercato di mordere il dottore per ripicca o cattiveria, ma per necessità. Gerber era stato chino su di lui, intento a ispezionare la ferita sul braccio doveva aveva tagliato via il marchio di Amun, quando la tasca dl camice bianco del dottore gli aveva sfiorato le dita della mano ammanettata. Rais si era scagliato in avanti, serrando i denti, e quando gli aveva sfiorato il collo l’uomo era saltato indietro per la paura.

E una penna stilografica era rimasta stretta nel pugno dell’assassino.

Uno degli agenti di turno gli aveva sferrato un violento pugno in faccia per quell’atto, e nel momento in cui il colpo era atterrato, Rais aveva infilato la penna sotto le lenzuola, nascondendola sotto la coscia sinistra. Era rimasta lì per tre giorni, celata sotto la coperta, fino alla notte prima. L’aveva tirata fuori mentre le guardie chiacchieravano nel corridoio. Con una mano, senza poter vedere che cosa stava facendo, aveva separato le due metà della penna e aveva rimosso la cartuccia, lavorando piano e con cura per evitare di versare l’inchiostro. La penna era un classico modello con un’acuminata punta d’oro. Aveva riposto quella metà sotto le lenzuola. L’altra metà aveva una clip da taschino in oro, che aveva forzato con attenzione con il pollice fino a staccarla.

La manetta al polso sinistro gli lasciava meno di trenta centimetri di mobilità al braccio, ma se stendeva la mano al limite riusciva a raggiungere l’estremità del comodino. Il ripiano era un semplice pannello liscio di compensato, ma la parte inferiore era ruvida come carta vetrata. Nel corso di quattro estenuanti e dolorose ore la notte prima, Rais aveva strofinato la clip avanti e indietro sotto il tavolo, attento a non fare troppo rumore. Con ogni movimento aveva temuto che la clip potesse sfuggirgli di mano, o che le guardie notassero il gesto, ma la sua stanza era buia e gli uomini erano stati impegnati nella loro conversazione. Poi anche la clip era sparita sotto le lenzuola, insieme alla punta del pennino.

Aveva capito da frammenti di discorsi che quella notte ci sarebbero state tre infermiere del turno notturno nel reparto di chirurgia, inclusa Elena, e altre due reperibili nel caso di necessità. Insieme alle guardie, facevano un totale di cinque persone che avrebbe dovuto affrontare, e un massimo di sette.

A nessuno nello staff medico piaceva particolarmente occuparsi di lui, sapendo chi era, e quindi lo andavano a controllare di rado. Ora che Elena era entrata e uscita, Rais sapeva che aveva tra i sessanta e i novanta minuti prima del suo ritorno.

Il suo braccio sinistro era bloccato con una cinghia standard d’ospedale, del tipo che i professionisti di solito definivano “a quattro punti”. Era una striscia azzurro chiaro avvolta al suo polso, stretta da un aderente cinturino bianco di nylon, la cui estremità era attaccata saldamente alla sponda di ferro del suo letto. Per via della severità dei suoi crimini, anche il suo polso destro era ammanettato.

Le due guardie all’esterno stavano parlando in tedesco. Rais le ascoltò con attenzione; quella sulla sinistra, Luca, sembrava lamentarsi del fatto che sua moglie stava prendendo peso. Rais quasi sbuffò; l’uomo era ben lontano da potersi definire in forma lui stesso. L’altro, un ragazzo di nome Elias, era più giovane e atletico, ma beveva caffè in dosi che sarebbero stati letali per la maggior parte degli esseri umani. Ogni notte, tra i novanta minuti e le due ore dopo l’inizio del turno, Elias chiamava l’agente di sicurezza notturno per poter andare in bagno. Mentre era via, ne approfittava per uscire a fumare, quindi durante la pausa bagno rimaneva via tra gli otto e gli undici minuti. Rais aveva passato molte delle notti precedenti contando i secondi della sua assenza.

Era una finestra d’opportunità molto stretta, ma lui era addestrato.

Infilò la mano sotto le lenzuola alla ricerca della clip affilata e la tenne tra le punte delle dita. Poi, facendo attenzione, la gettò ad arco sopra il proprio corpo. Gli atterrò facilmente nel palmo della mano destra.

La seguente era la parte più difficile del suo piano. Tirò il polso fino a tendere la catena delle manette, e in quella posizione voltò la mano per infilare la punta affilata della clip nella serratura che lo teneva bloccato alle sponde del letto. Era complicato e doloroso, ma aveva già scassinato altre manette in passato, e sapeva che il meccanismo di chiusura all’interno era progettato perché una chiave universale potesse aprirne ogni paia. Dato che conosceva il funzionamento della serratura doveva solo eseguire i movimenti giusti per far scattare i perni. Ma era necessario che la catena fosse ben tesa, per evitare che le manette sferragliassero contro le sponde del letto e allertassero le guardie.

Gli servirono quasi venti minuti di contorcimenti, piegamenti e brevi pause per alleviare il dolore alle dita e riprendere il tentativo, ma alla fine la serratura scattò e la manetta si aprì. Rais la sfilò con attenzione dalla sponda.

Aveva una mano libera.

Si tese e liberò rapidamente la sinistra.

Così erano libere entrambe.

Infilò la clip sotto le lenzuola e afferrò la parte superiore della penna, stringendola nel palmo perché solo la punta fosse esposta.

Fuori dalla porta, l’agente più giovane si alzò all’improvviso. Rais trattenne il fiato e si finse addormentato mentre Elias gli lanciava un’occhiata.

“Chiama Francis, per favore?” disse l’agente in tedesco. “Devo andare a pisciare.”

“Certo,” rispose Luca con uno sbaglio. Usò la radio per contattare la sorveglianza notturna dell’ospedale, che di solito era stazionata dietro la reception al primo piano. Rais aveva visto Francis diverse volte; era un uomo di una certa età, sulla sessantina, forse persino con qualche anno di più, con un fisico snello. Era armato di pistola ma si muoveva con lentezza.

Era proprio quello che Rais aveva sperato. Non voleva lottare contro l’agente di polizia più giovane finché era ancora tanto debole.

Tre minuti più tardi apparve Francis, nella sua uniforme bianca e la cravatta nera, ed Elias si affrettò verso il bagno. I due uomini fuori dalla porta si scambiarono convenevoli mentre la guardia dell’ospedale si accomodava con un sospiro sulla sedia di plastica lasciata vuota dal giovane.

Era tempo di agire.

Rais scivolò lentamente verso il bordo del letto e abbassò i piedi nudi sulle piastrelle fredde. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva usato le gambe, ma era certo che i suoi muscoli non si fossero atrofizzati tanto da essere inservibili.

Si alzò con cura e in silenzio, ma poi gli cedettero le ginocchia. Strinse l’orlo del letto per sopportarsi e lanciò un’occhiata alla porta. Non arrivò nessuno; fuori continuavano a chiacchierare. I due uomini non avevano sentito niente.

Si raddrizzò tremante e ansimando, e fece qualche passo silenzioso. Certo, aveva le gambe deboli, ma quando era necessario era sempre forte, e così doveva essere in quel momento. Il camice d’ospedale gli ondeggiò attorno, aperto sulla schiena. L’immodesto indumento lo avrebbe solo ostacolato, quindi se lo tolse con uno strattone, rimanendo sfrontatamente nudo nella stanza.

Con la punta della penna nel pugno, prese posizione appena dietro la porta aperta, ed emise un basso fischio.

L’improvviso raschio delle gambe delle sedie gli disse che entrambi gli uomini lo avevano sentito e si erano alzati. La stazza di Luca riempì la porta, mentre l’uomo scrutava dentro la stanza buia.

“Mein Gott!” mormorò quando entrò e vide il letto vuoto.

Francis lo seguì, con la mano sulla fondina della pistola.

Non appena l’agente più anziano ebbe varcato la soglia, Rais fece un balzo avanti. Spinse la punta della penna nella gola di Luca e la torse, aprendogli la carotide. Il sangue spruzzò copioso dalla ferita aperta, e in parte schizzò sul muro davanti.

Lasciò andare la punta e assalì Francis, che stava cercando di liberare la pistola. Sgancia, estrai dalla fondina, togli la sicura, punta: la reazione della guardia più anziana era lenta, e gli costò diversi preziosi secondi che semplicemente non aveva.

Rais gli sferrò due colpi, il primo verso l’alto appena sotto l’ombelico, seguito subito da uno verso il basso al plesso solare. Uno gli riempì i polmoni d’aria, mentre l’altro lo costrinse bruscamente a esalare, e sul suo fisico confuso ebbero un effetto così scioccante e inaspettato da fargli appannare la vista e perdere i sensi.

Francis barcollò, non riuscendo più a respirare, e cadde in ginocchio. Rais si portò con una piroetta alle sue spalle, e con un gesto fluido gli spezzò il collo.

Luca si stava stringendo la gola con entrambe le mani mentre sanguinava, emettendo gorgoglii e leggeri ansimi. Rais lo guardò e contò fino a undici, quando finalmente l’uomo svenne. Senza fermare il flusso sanguigno sarebbe morto in meno di un minuto.

Sfilò le pistole a entrambe le guardie e le appoggiò sul letto. La fase seguente del suo piano non sarebbe stata semplice: doveva sgattaiolare lungo il corridoio, senza essere visto, fino al ripostiglio dove erano conservati i camici di ricambio. Non poteva lasciare l’ospedale nell’uniforme di Francis, era troppo riconoscibile, né in quella di Luca che ormai era fradicia di sangue.

Udì una voce maschile in fondo al corridoio e si fermò.

Era l’altro agente, Elias. Così presto? Fu assalito dall’ansia. Poi sentì una seconda voce, quella dell’infermeria notturna, Elena. A quanto pareva il ragazzo aveva saltato la pausa sigaretta per chiacchierare con la giovane e attraente infermiera, e ora entrambi erano diretti verso la sua stanza. Sarebbero arrivati in pochi secondi.

Avrebbe preferito non dover uccidere la donna. Ma se doveva scegliere tra lei e se stesso, Elena non avrebbe avuto scampo.

Afferrò una delle pistole dal letto. Era una Sig P220, tutta nera, calibro 45. La strinse nella mano sinistra. Il suo peso era gradevole e familiare, come una vecchia fiamma. Con la destra strinse la metà aperta delle manette. E poi rimase in attesa.

Le voci nel corridoio si ammutolirono.

“Luca?” chiamò Elias. “Francis?” Il giovane agente aprì la chiusura della fondina e mise la mano sulla pistola, entrando nella camera buia. Elena si insinuò dietro di lui.

Gli occhi dell’agente si sgranarono per l’orrore alla vista dei due cadaveri.

Rais abbatté il gancio delle manette aperte nel lato del collo del giovane uomo, e poi tirò il braccio all’indietro. Il metallo gli morse il polso e le ferite nella schiena bruciarono, ma lui ignorò il dolore e tagliò la gola dell’agente. Il sangue schizzò in enorme quantità e colò su di lui.

Con la mano sinistra premette la Sig alla fronte di Elena.

“Non gridare,” disse in fretta e a bassa voce. “Non chiamare nessuno. Rimani zitta e vivrai. Fai un rumore e morirai. Hai capito?”

Dalle labbra di Elena si alzò uno squittio, e la donna cercò di soffocare il singhiozzo che seguì. Annuì, con gli occhi pieni di lacrime, mentre Elias cadeva in avanti sulle piastrelle del pavimento.

Lui la studiò da capo a piedi. Era minuta, ma il suo camice era largo e aveva la vita elastica. “Togliti i vestiti,” le disse.

La donna spalancò la bocca in preda al terrore.

Rais emise un suono sdegnato. Poteva capire la sua confusione, certo, dopo tutto era ancora nudo. “Non sono quel tipo di mostro,” le garantì. “Mi servono solo i vestiti. Non te lo chiederò di nuovo.”

Tremando, la giovane donna si sfilò la casacca e si tolse i pantaloni, abbassandoseli sopra le scarpe da ginnastica bianche, in piedi nella pozza del sangue di Elias.

Rais li prese e li indossò, facendo una certa fatica dovendo usare una mano sola, dato che aveva la Sig puntata sulla ragazza. Gli abiti erano stretti, e i pantaloni un po’ corti, ma sarebbero bastati. Infilò la pistola dietro l’elastico delle brache, e recuperò l’altra arma dal letto.

Elena era rimasta in biancheria, e si stringeva il torace con le braccia. Rais lo notò; prese il suo camice d’ospedale e glielo tese. “Copriti. Poi sali sul letto.” Mentre lei faceva come gli aveva ordinato, trovò un anello di chiavi alla cintura di Luca e si aprì l’altra manetta. Poi passò la catena attorno a una delle sponde del letto e ammanettò le mani della donna.

Appoggiò le chiavi all’estremità del comodino, lontano dalla sua portata. “Arriverà qualcuno a liberarti dopo che me ne sarò andato,” le disse. “Ma prima ho delle domande. Mi serve che tu sia sincera, perché se non lo sarai, tornerò a ucciderti. Lo capisci?”

Lei annuì freneticamente, con la guance rigate dalle lacrime.

“Quanti altri infermieri ci sono in questo reparto stanotte?”

“Ti prego, non far loro del male,” balbettò la donna.

“Elena. Quanti altri infermieri sono in questo reparto, stanotte?” ripeté Rais.

“Du-due…” Tirò su con il naso. “Thomas e Mia. Ma Tom è in pausa. Dovrebbe essere al piano di sotto.”

“Okay.” Il cartellino con il nome appeso al petto di Rais era delle dimensioni di una carta di credito. C’era una piccola foto di Elena, e sull’altro lato era attraversato per il lungo da una striscia nera. “Quest’unità di sera viene chiusa a chiave? E il tuo badge è la chiave?”

Lei annuì e tirò di nuovo su con il naso.

“Bene.” Si infilò la seconda pistola nell’elastico dei pantaloni e si inginocchiò vicino al corpo di Elias. Gli sfilò entrambe le scarpe e ci spinse dentro i piedi. Erano un po’ strette, ma abbastanza vicine al suo numero da poterle usare per la fuga. “Un’ultima domanda. Sai che cosa guida Francis? La guardia notturna?” Indicò l’uomo morto nell’uniforme bianca.

“No-non ne sono sicura. Un… un pick-up, credo.”

Rais frugò nelle tasche del cadavere e ne sfilò un mazzo di chiavi. Ce n’era elettronica; ciò lo avrebbe aiutato a trovare il veicolo. “Grazie per la tua onestà,” le disse. Poi strappò un angolo del lenzuolo e glielo infilò in bocca.

Il corridoio era vuoto e ben illuminato. Rais aveva la Sig in mano ma la teneva nascosta dietro la schiena mentre avanzava. Il corridoio si apriva su un ampio piano occupato dalla postazione a forma di U delle infermiere, e al di là di quella, l’uscita del reparto. Una donna con occhiali dalla montatura rotonda e un caschetto moro stava scrivendo a un computer, con la schiena rivolta verso di lui.

“Girati, per favore,” le disse.

La donna sorpresa si voltò e si trovò davanti il loro paziente/prigioniero con indosso un camice e un braccio insanguinato, che le stava puntando una pistola. Rimase senza fiato e strabuzzò gli occhi.

“Tu devi essere Mia,” disse Rais. L’infermiera sembrava sulla quarantina, con un aspetto materno, e cerchi scuri sotto gli occhi sgranati. “Mani in alto.”

Lei obbedì.

“Che cosa è successo a Francis?” domandò a mezza voce.

“Francis è morto,” rispose lui freddamente. “Se desideri unirti a lui, ti basta fare una mossa avventata. Se vuoi vivere, ascolta con attenzione. Adesso me ne andò di qui da quella porta. Una volta che si sarà chiusa alle mie spalle, conterai lentamente fino a trenta. Poi andrai nella mia stanza. Elena è viva ma ha bisogno di aiuto. Dopodiché potrai fare qualsiasi cosa tu sia addestrata a fare in una situazione di questo tipo. Hai capito?”

L’infermiera fece un secco cenno affermativo con il capo.

“Ho la tua parola che seguirai queste istruzioni? Preferisco non uccidere le donne quando posso evitarlo.”

Lei annuì di nuovo, più lentamente.

“Bene.” Rais oltrepassò la stazione, togliendosi nel frattempo il badge dalla casacca dell’ospedale per passarlo nello slot a destra della porta. Una piccola luce rossa divenne verde e la serratura si aprì. Con un ultimo sguardo a Mia, che non si era mossa, spinse la porta e aspettò che gli si richiudesse alle spalle.

Poi corse.

Si affrettò lungo un corridoio, infilandosi la Sig nei pantaloni. Prese le scale per il primo piano due gradini alla volta, ed emerse da una porta laterale nella notte svizzera. L’aria fresca lo accolse come una doccia purificatrice, e lui si prese un momento per respirare liberamente.

Gli tremavano le gambe, minacciando di cedere di nuovo. L’adrenalina della fuga si stava esaurendo in fretta, e i suoi muscoli erano ancora deboli. Prese la chiave elettronica di tasca e premette il pulsante rosso per le emergenze. Sentì accendersi l’allarme di un SUV e vide lampeggiare le sue luci. Lo spense subito e lo raggiunse di corsa.

Avrebbero cercato l’auto rubata, era ovvio, ma tanto non l’avrebbe usata a lungo. Presto avrebbe dovuto abbandonarla, trovare nuovi abiti, e il mattino seguente si sarebbe diretto verso l’Hauptpost, dove aveva tutto il necessario per scappare dalla Svizzera con una falsa identità.

E quanto prima avrebbe trovato e ucciso Kent Steele.




CAPITOLO QUATTRO


Reid non era nemmeno uscito dal vialetto d’ingresso per andare a incontrarsi con Maria, che già aveva chiamato Thompson per chiedergli di tenere d’occhio casa Lawson. “Ho deciso di concedere un po’ d’indipendenza alle ragazze, stasera,” spiegò. “Non starò via a lungo. Ma in ogni caso, terrebbe gli occhi aperti?”

“Certo,” concordò l’uomo anziano.

“E, uhm, se sente qualsiasi cosa di strano, ovviamente, vada a controllare.”

“Lo farò, Reid.”

“Lo sa, se non riesce a vederle o qualcosa del genere, può bussare alla porta, o chiamarle a casa…”

Thompson ridacchiò. “Non preoccuparti, ho la situazione sotto controllo. E anche loro. Sono adolescenti. Hanno bisogno di un po’ di spazio di tanto in tanto. Goditi il tuo appartamento.”

Tra lo sguardo attento di Thompson e la determinazione di Maya a dimostrarsi responsabile, Reid riteneva di poter stare tranquillo, sapendo che le ragazze sarebbero state al sicuro. Ovviamente, una parte di lui sapeva che era solo l’ennesimo esempio delle sue acrobazie mentali. Ci avrebbe continuato a pensare per tutta la notte.

Dovette usare il GPS sul telefono per trovare il posto. Non conosceva ancora bene Alexandria o i suoi dintorni. Maria invece era già pratica, grazie alla sua vicinanza a Langley e al quartier generale della CIA. Nonostante quello, la donna aveva scelto un posto in cui neanche lei era mai stata, probabilmente per giocare alla pari, per così dire.

Durante il tragitto sbagliò due svolte nonostante la voce del GPS gli dicesse dove andare e quando. Stava pensando allo strano flashback che ormai aveva avuto due volte, prima quando Maya gli aveva chiesto se Kate sapesse di lui, e di nuovo quando aveva sentito l’odore della colonia che la sua defunta moglie aveva amato. Continuava a tormentarlo, tanto che persino mentre cercava di prestare attenzione alle indicazioni stradali continuava a distrarsi.

Il motivo per cui era così strano era che ogni altro ricordo di Kate era estremamente vivido nella sua mente. A differenza di Kent Steele, lei non era mai svanita per davvero; Reid si ricordava il loro primo incontro, gli appuntamenti, le vacanze e l’acquisto della loro prima casa. Si ricordava il loro matrimonio e la nascita delle figlie. Ricordava persino le loro discussioni, o almeno così aveva creduto.

L’idea stessa che avesse perduto una qualsiasi parte di Kate lo turbava. Il dispositivo di soppressione della memoria aveva già dimostrato di avere qualche effetto collaterale, come l’occasionale emicrania provocata da un ricordo ostico. Era una procedura sperimentale, e il metodo di rimozione era stato tutt’altro che professionale.

E se mi avesse rubato di più del mio passato come agente Zero?

Quel pensiero non gli piaceva affatto. Era una brutta china; non ci sarebbe voluto molto perché cominciasse a credere di aver perso anche dei ricordi delle sue ragazze. E la cosa peggiore era che non aveva modo di accertarsene senza recuperare del tutto la sua memoria.

Era troppo, e sentì salirgli di nuovo il mal di testa. Accese la radio e alzò il volume per cercare di distrarsi.

Il sole stava calando quando entrò nel parcheggio del ristorante, un gastropub chiamato The Cellar Door. Aveva qualche minuto di ritardo. Uscì rapidamente dall’auto e corse verso l’ingresso dell’edificio.

Poi rimase di sasso.

Maria Johansson era una svedese-americana di terza generazione, e come copertura per la sua vera attività di agente della CIA faceva la contabile per l’amministrazione pubblica di Baltimora. Secondo Reid avrebbe dovuto essere una fotomodella per le copertine delle riviste, o magari per i paginoni centrali. Intorno al metro e ottanta, era alta quasi quanto lui, con lunghi capelli lisci e biondi che le ricadevano con eleganza sulla schiena. I suoi occhi erano color grigio ardesia, e molto intensi. Nell’aria fresca della primavera, indossava solo un semplice abito blu scuro con una profonda scollatura a V e uno scialle bianco sulle spalle.

La donna lo notò mentre lui si avvicinava e sorrise. “Ehi. Da quanto tempo.”

“Io… wow,” esclamò Reid. “Voglio dire, uhm… sei bellissima.” Gli venne in mente che non l’aveva mai vista truccata. L’ombretto blu era in tinta con l’abito e faceva sembrare i suoi occhi quasi luminescenti.

“Neanche tu sei male.” Maria annuì con aria d’approvazione per la sua scelta di vestiario. “Vogliamo entrare?”

Grazie, Maya, pensò Reid. “Sì, certo.” Afferrò la maniglia della porta e la tenne aperta per lei. “Ma prima di iniziare, avrei una domanda. Cosa accidenti è un ‘gastropub’?”

Maria scoppiò a ridere. “Credo che ai nostri tempi lo definissimo una bettola, solo che ora servono cibo più alla moda.”

“Chiaro.”

L’interno era intimo, se non addirittura piccolo, con mura di mattoni e travi di legno esposte sul soffitto. L’illuminazione veniva da lampadine in stile vintage, che contribuivano a creare un ambiente caldo e circoscritto.

Perché sono nervoso? pensò mentre si accomodavano. Conosceva quella donna. Insieme avevano impedito a un’organizzazione terroristica internazionale di assassinare centinaia, se non migliaia, di persone. Ma quella era una situazione diversa, non era un’operazione o una missione. Era piacere, e in qualche modo ciò faceva la differenza.

Conoscila meglio, gli aveva detto Maya. Fai del tuo meglio per essere interessante.

“Dunque, come va il lavoro?” finì per domandarle. Dentro di sé gemette per quel tentativo poco riuscito.

Maria sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto. “Sai che non posso parlarne.”

“Certo,” replicò Reid. “Ovviamente.” La donna era un agente operativo attivo della CIA. Anche se lui fosse stato un agente attivo, non avrebbe potuto condividere i dettagli di un’operazione a meno che non stessero lavorando insieme.

“E tu?” chiese Maria. “Come va con il nuovo lavoro?”

“Non male,” ammise lui. “Sono un associato, quindi per ora è part-time, ho solo qualche lezione alla settimana. Un po’ di compiti da correggere e cose del genere. Ma non è particolarmente interessante.”

“E le ragazze? Come stanno?”

“Eh… cercano di scendere a patti con la situazione,” rispose. “Sara non vuole parlare di quello che è successo. E Maya, in realtà…” Si fermò prima di dire troppo. Si fidava di Maria, ma allo stesso tempo non voleva confessare che la figlia maggiore aveva indovinato, con molta precisione, in che cosa fosse coinvolto. Gli si colorarono le guance di rosa e disse: “Mi ha preso in giro. Ha detto che questo è un appuntamento.”

“E non lo è?” domandò Maria a bruciapelo.

Reid sentì il volto cambiare di nuovo colore. “Sì, immagino che lo sia.”

La donna sorrise di nuovo con aria maliziosa. Sembrava che stesse ridendo del suo imbarazzo. In campo, nei panni di Kent Steele, lui aveva dimostrato di essere sicuro di sé, abile, e composto. Ma lì, nel mondo reale, era goffo quanto lo sarebbe stato chiunque altro dopo quasi due anni di celibato.

“E di te cosa mi dici?” continuò Maria. “Come te la cavi?”

“Sto bene,” rispose. “Sono tranquillo.” Non appena l’ebbe detto, se ne pentì. Non aveva appena imparato dalla figlia che l’onestà era la migliore politica? “Non è vero,” si corresse subito. “In realtà non va tutto così bene. Mi tengo impegnato con ogni genere di faccenda inutile, e mi do degli alibi, perché se mi fermo abbastanza a lungo da rimanere da solo con i miei pensieri, mi tornano in mente i loro nomi. Vedo le loro facce, Maria. E non riesco a non pensare che non ho fatto abbastanza per impedirlo.”

Lei sapeva esattamente di che cosa stava parlando, delle nove persone che erano state uccise nell’unica esplosione che Amun era riuscito a innescare a Davos. Maria si sporse attraverso il tavolo e gli prese la mano. Il tocco gli spedì una scarica elettrica su per il braccio, e sembrò calmargli i nervi. Le dita della donna erano calde e morbide sulle sue.

“È questa la realtà con cui dobbiamo fare i conti,” disse lei. “Non possiamo salvare tutti. So che non hai ancora recuperato tutti i tuoi ricordi come Zero, ma se li avessi, lo sapresti.”

“Forse non voglio saperlo,” rispose Reid a bassa voce.

“Lo capisco. Dobbiamo provarci lo stesso. Ma se credi di poter tenere tutto il mondo al sicuro diventerai matto. Sono state prese nove vite, Kent. È successo, e non possiamo tornare indietro. Ma avrebbero potuto essere un migliaio. È questo l’unico modo per vederla.”

“E se non ci riesco?”

“Allora… trovati un hobby, magari? Io faccio l’uncinetto.”

A Reid sfuggì una risata. “L’uncinetto?” Non riusciva a immaginare Maria che sferruzzava. Mentre usava i ferri da maglia come arma per storpiare un dissidente? Certo. Ma mentre faceva sul serio l’uncinetto?

Lei rimase a testa alta. “Esatto, faccio l’uncinetto. Non ridere. Ho appena finito una coperta più morbida di qualsiasi cosa tu abbia mai toccato in vita tua. Il punto è che devi trovarti un hobby. Ti serve qualcosa che ti tenga le mani e la mente impegnate. Che mi dici della tua memoria? Ci sono miglioramenti?”

Reid sospirò. “Non molto. Immagino che non mi sia successo niente in grado di smuoverla. È ancora tutto confuso.” Mise da parte il menu e intrecciò le mani sopra al tavolo. “Anche se, dato che ne stiamo parlando… poco fa mi è successa una cosa strana. È riemerso un frammento di un ricordo. Era su Kate.”

“Oh?” Maria si morse il labbro inferiore.

“Già.” Reid rimase in silenzio per un lungo momento. “Le cose tra me e Kate… prima che lei morisse. Andavano bene, giusto?”

Maria lo fissò dritto in faccia, i suoi occhi grigio ardesia puntati su quelli di lui. “Sì. Per quanto ne so, tra di voi le cose sono sempre andate bene. Kate ti amava moltissimo, e tu provavi lo stesso per lei.”

Reid trovò difficile sostenere il suo sguardo. “Già. Certo.” Scosse la testa. “Dio, sentimi. Sto parlando della mia defunta moglie a un appuntamento. Ti prego, non dirlo a mia figlia.”

“Ehi.” La donna gli strinse di nuovo le dita tra le proprie sopra al tavolo. “Va tutto bene, Kent. Lo capisco. Per te è una cosa nuova. Neanche io sono un’esperta qui, quindi… ne verremo a capo insieme.”

Rimasero fermi, mano nella mano. Era una sensazione piacevole. No, era qualcosa di più, era giusto. Lui ridacchiò nervosamente, ma il suo sorriso si trasformò in una smorfia perplessa quando fu colpito da uno strano pensiero, cioè che Maria lo chiamava ancora Kent.

“Che c’è?” domandò la collega.

“No. Stavo solo pensando… Non so nemmeno se Maria Johansson è il tuo vero nome.”

La donna scrollò le spalle, senza sbilanciarsi. “Potrebbe esserlo.”

“Non è giusto,” protestò Reid. “Tu conosci il mio.”

“Non sto dicendo che non sia il mio vero nome.” Si stava divertendo a prenderlo in giro. “Mi puoi sempre chiamare agente Calendula, se preferisci.”

Reid scoppiò a ridere. Calendula era il suo nome in codice, come Zero per lui. Gli sembrava buffo, usare i nomi in codice quando si conoscevano personalmente, ma d’altra parte, la parola Zero sembrava incutere paura in molte persone che aveva incontrato.

“Quale era il nome in codice di Reidigger?” chiese piano poi. Era quasi doloroso da domandare. Alan Reidigger era stato il migliore amico di Kent Steele—no, pensò Reid, era il mio migliore amico—un uomo dalla fedeltà apparentemente incrollabile. L’unico problema era che non ricordava quasi nulla di lui. Ogni memoria di Reidigger era svanita insieme all’impianto che Alan aveva aiutato a inserire.

“Non te lo ricordi?” Maria fece un sorriso gentile, ripensandoci. “È stato Alan a darti il nome Zero, lo sapevi? E tu hai dato a lui il suo. Dio, erano anni che non ci pensavo. Eravamo ad Abu Dhabi, mi sembra, avevamo appena terminato un’operazione ed eravamo ubriachi in un qualche albergo snob. Ti definì ‘Ground Zero’, come il punto d’impatto di una bomba, perché avevi la tendenza a lasciarti dietro solo macerie. Poi divenne solo Zero, e il nome ti rimase attaccato. E tu lo chiamasti…”

Un telefono squillò, interrompendo la sua storia. Istintivamente Reid lanciò un’occhiata al proprio cellulare, appoggiato sul tavolo, aspettandosi di vedere il numero di casa sua o del telefono di Maya sullo schermo.

“Tranquillo,” disse Maria, “sono io. Lo ignorerò…” Guardò il proprio cellulare e corrugò le sopracciglia perplessa. “In realtà, è dal lavoro. Solo un secondo.” Rispose. “Sì? Mmh-mmh.” Il suo sguardo serio incontrò quello di Reid. Lo sostenne mentre la sue espressione si faceva sempre più accigliata. Qualsiasi cosa stessero dicendo dall’altro capo della linea non erano di certo buone notizie. “Ho capito. Okay. Grazie.” Riappese.

“Mi sembri turbata,” notò lui. “Lo so, lo so, non puoi parlare di lavoro e…”

“È scappato,” mormorò la donna. “L’assassino di Sion, quello in ospedale? Kent, è fuggito, meno di un’ora fa.”

“Rais?” esclamò Reid sbalordito. Subito un sudore gelido gli coprì la fronte. “Come?”

“Non ho nessun dettaglio,” rispose in fretta lei mentre rinfilava il cellulare nella borsetta. “Mi dispiace così tanto, Kent, ma devo andare.”

“Sì,” mormorò l’uomo. “Capisco.” Era come se fosse a centinaia di chilometri di distanza dal loro intimo tavolo nel piccolo ristorante. L’assassino che aveva lasciato per morto—non una volta ma due—era ancora vivo, ed era in libertà.

Maria si alzò, e prima di andarsene, si chinò e premette le labbra alle sue. “Presto ci rivedremo di nuovo, te lo prometto. Ma per adesso, il dovere mi chiama.”

“Ma certo,” replicò lui. “Vai e trovalo. E, Maria? Stai attenta. È pericoloso.”

“Lo sono anche io.” Gli fece l’occhiolino, e poi uscì rapidamente dal ristorante.

Reid rimase seduto da solo per un lungo momento. Quando la cameriera si avvicinò, non la sentì nemmeno parlare; le fece solo un vago cenno a indicare che stava bene così. Ma la realtà era che stava tutt’altro che bene. Non aveva nemmeno sentito un brivido nostalgico quando Maria lo aveva baciato. Tutto ciò che aveva provato era una stretta allo stomaco per l’ansia.

L’uomo convinto di essere destinato a uccidere Kent Steele era scappato.




CAPITOLO CINQUE


Adrian Cheval era ancora sveglio nonostante l’ora tarda. Era seduto in cucina su uno sgabello, fissando immobile e con la vista annebbiata lo schermo del portatile davanti a lui, battendo freneticamente sulla tastiera.

Si fermò abbastanza a lungo da sentire Claudette che si avvicinava in silenzio e a piedi nudi sulle scale coperte dalla moquette. Il loro appartamento a Marsiglia era piccolo ma accogliente, all’estremità di una strada tranquilla a soli cinque minuti dal mare.

Un momento più tardi una figura minuta dai capelli color del fuoco apparve nel suo campo visivo. La donna gli mise le mani sulle spalle e gliele accarezzò su e giù, fino al petto, appoggiandogli la testa sulla schiena. “Mon chéri,” mormorò. “Amore mio. Non riesco a dormire.”

“Neanche io,” rispose piano lui in francese. “Ho troppe cosa da fare.”

Claudette gli mordicchiò gentilmente il lobo dell’orecchio. “Parlamene.”

Adrian indicò lo schermo, sul quale era in bella mostra la struttura ciclica a doppia elica del RNA del variola major, il virus comunemente noto come vaiolo. “Questo ceppo della Siberia è… incredibile. Non ho mai visto niente del genere. Secondo i miei calcoli, la sua virulenza dovrebbe essere sbalorditiva. Sono convinto che l’unica cosa che possa avergli impedito di eliminare l’umanità migliaia di anni fa sia stata l’era glaciale.”

“Un nuovo Diluvio universale.” Claudette emise un languido sospiro nel suo orecchio, “Quanto manca perché sia pronto?”

“Devo mutare il ceppo, mantenendo la stessa stabilità e potenza,” spiegò lui. “Non è un compito semplice, ma è necessario. Il WHO ha ottenuto dei campioni di questo stesso virus cinque mesi fa; senza dubbio stanno sviluppando un vaccino, se non lo hanno già fatto. Il nostro ceppo deve essere abbastanza unico perché il loro vaccino sia inefficace.” Quel processo era noto come mutagenesi letale, la manipolazione del RNA che avrebbe eseguito sui campioni che aveva ottenuto in Siberia per accrescere la sua virulenza e ridurre il periodo di incubazione. Grazie ai suoi calcoli, Adrian sospettava che il tasso di mortalità del virus del variola major mutato avrebbe potuto raggiungere il settantotto percento, quasi tre volte quella della varietà naturale del vaiolo che era stata distrutta dal World Health Organization nel 1980.

Dopo il suo ritorno dalla Siberia, Adrian aveva visitato per prima Stoccolma e aveva usato le generalità del defunto studente Renault per accedere all’università, dove si era accertato che i campioni rimanessero inattivi mentre lavorava su essi. Ma non poteva sfruttare troppo a lungo l’identità di qualcun altro, quindi aveva rubato l’equipaggiamento ed era tornato a Marsiglia. Aveva montato un laboratorio nello scantinato inutilizzato del negozio di un sarto a tre isolati dal loro appartamento; il gentile proprietario era convinto che Adrian fosse un genetista, che studiasse il DNA umano e niente altro, e lui teneva la porta chiusa con un lucchetto quando non era presente.

“Imam Khalil sarà felice,” sussurrò Claudette nel suo orecchio.

“Sì,” concordò piano Adrian. “Sarà soddisfatto.”

La maggior parte delle donne non sarebbe stata entusiasta di trovare la propria dolce metà a lavoro su una sostanza tanto volatile come un ceppo altamente virulento del vaiolo, ma Claudette non era come la maggior parte delle donne. Era minuta, appena un metro e sessanta rispetto al metro e ottantacinque di Adrian. I suoi capelli erano di un rosso acceso e i suoi occhi verdi come la più fitta giungla, e suggerivano una certa irascibilità.

Si erano incontrati solo l’anno prima, quando Adrian aveva toccato il fondo. Era appena stato espulso dall’università di Stoccolma per aver tentato di ottenere campioni di un raro enterovirus, lo stesso che aveva preso la vita di sua madre solo qualche settimana prima. All’epoca, era stato deciso a creare una cura, persino ossessionato da quell’idea, perché nessuno dovesse soffrire come era successo a lei. Ma era stato scoperto dalla facoltà dell’università e allontanato in modo sbrigativo.

Claudette lo aveva trovato in un vicolo, steso in una pozza della sua stessa desolazione e vomito, mezzo-svenuto per l’alcol. Lo aveva portato a casa, ripulito, e gli aveva dato dell’acqua. Il mattino seguente Adrian si era svegliato con quella donna bellissima seduta al suo capezzale, che gli sorrideva dicendogli: “So esattamente di che cosa hai bisogno.”

Roteò sullo sgabello della cucina per voltarsi verso di lei e le accarezzò la schiena. Da seduto era alto quasi quanto lei. “È interessante che tu abbia parlato del Diluvio Universale,” notò. “Sai, ci sono alcuni studiosi che dicono che se è davvero avvenuto, deve essere stato circa sette o ottomila anni fa… quasi all’epoca a cui risale questo ceppo. Forse il Diluvio è una metafora, ed è stato questo virus a purificare il mondo dai malvagi.”

Claudette scoppiò in una risata. “Non credere che non mi sia accorta dei tuoi continui sforzi per riunire la scienza e la spiritualità.” Gli prese con dolcezza il volto tra le mani e gli baciò la fronte. “Ma ancora non capisci che a volte serve solo avere fede.”

Serve solo avere fede. Era ciò che gli aveva prescritto l’anno prima, quando si era svegliato dalla sbronza. Claudette lo aveva accolto e gli aveva permesso di rimanere nel suo appartamento, quello stesso dove vivevano tuttora. Adrian non aveva creduto nell’amore a prima vista prima di incontrare lei, ma la donna era arrivata a influenzare moltissimo il suo modo di pensare. Nel corso di qualche mese, lo aveva introdotto ai principi dell’Imam Khalil, un sant’uomo islamico della Siria. Khalil non si considerava né sunnita o sciita, ma un semplice devoto di Dio, al punto che permetteva al suo piccolo gruppo di seguaci di chiamarLo con qualsiasi nome volessero, perché Khalil credeva che la relazione di ogni individuo con il proprio creatore fosse strettamente personale. Per Khalil, il nome di quel creatore era Allah.

“Voglio che tu venga a letto,” gli disse Claudette, accarezzandogli la guancia con il dorso della mano. “Hai bisogno di riposarti. Ma prima… hai preparato il campione?”

“Il campione,” ripeté Adrian. “Sì, certo.”

C’era solo una minuscola fialetta, poco più grande di un’unghia, del virus attivo, sigillato ermeticamente nel vetro e racchiuso tra due cubi di gomma, all’interno di un contenitore per il trasporto dei campioni biologici in acciaio inossidabile. La scatola stessa era appoggiata, ben visibile, sul ripiano della loro cucina.

“Bene,” mormorò Claudette. “Perché aspettiamo ospiti.”

“Stasera?” Adrian abbassò le mani dalla sua schiena. Non si aspettava che succedesse tanto presto. “A quest’ora?” Erano quasi le due del mattino.

“Da un momento all’altro,” rispose lei. “Abbiamo fatto una promessa, amore mio, e dobbiamo mantenerla.”

“Sì,” bisbigliò Adrian. Aveva ragione, come sempre. Le promesse non andavano infrante. “Ovviamente.”

Un brusco e violento colpo alla porta del loro appartamento fece sobbalzare entrambi.

Claudette vi si avvicinò in fretta, lasciando inserita la catena e aprendo solo di pochi centimetri. Adrian la seguì, sbirciando sopra la sua spalla per vedere i due uomini dall’altra parte. Nessuno dei due sembrava molto amichevole. Non conosceva i loro nomi, e nella sua mente li aveva nominati ‘gli arabi’, anche se per quel che ne sapeva potevano essere curdi o turchi.

Uno dei due parlò rapidamente a Claudette in arabo. Adrian non capì, il suo arabo era rudimentale nel migliore dei casi, si limitava a poche frasi che la donna gli aveva insegnato, ma lei annuì una volta, tolse la catena e lasciò entrare gli uomini.

Entrambi erano piuttosto giovani, circa sulla trentina, e portavano corte barbe nere sulle guance dalla pelle scura. Indossavano abiti in stile europeo, jeans e magliette, con sopra giacche leggere a proteggerli dalla gelida aria notturna; l’Imam Khalil non pretendeva che i suoi seguaci mettessero abiti o paramenti religiosi. In effetti, da quando erano stati allontanati dalla Siria, preferiva che la sua gente si mescolasse agli altri il più possibile, per motivi che erano ovvi ad Adrian, visto che cosa dovevano recuperare i due uomini lì presenti.

“Cheval.” Uno dei siriani annuì verso di lui, quasi con reverenza. “Avanti? Dicci?” Parlava in un francese molto incerto.

“Avanti?” ripeté Adrian confuso.

“Vuole sapere dei tuoi progressi,” spiegò con gentilezza Claudette.

Lui sogghignò. “Il suo francese è tremendo.”

“Così come il tuo arabo,” ribatté lei.

Giusta osservazione, concesse Adrian. “Digli che il procedimento richiede tempo. È complicato, e richiede pazienza. Ma il lavoro sta andando bene.”

Claudette ripeté il messaggio in arabo, e i due uomini annuirono in segno di approvazione.

“Un piccolo pezzo?” chiese il secondo uomo. Sembrava che volessero far pratica con lui di lingua francese.

“Sono venuti per il campione,” disse Claudette ad Adrian, anche se lui lo aveva capito dal contesto. “Vuoi prenderlo?” Era ovvio che la donna non avesse alcuna intenzione di toccare il contenitore per il trasporto di campioni biologici, che fosse sigillato o meno.

Adrian annuì, ma non si mosse. “Chiedigli perché non è venuto Khalil stesso.”

Claudette si morse il labbro e gli sfiorò un braccio. “Tesoro,” disse piano, “sono sicura che sia impegnato altrove…”

“Che cosa potrebbe essere più importante di questo?” insisté lui. Era stato certo che l’Imam si sarebbe presentato.

Claudette ripeté la domanda in arabo. I due siriani si accigliarono e si scambiarono uno sguardo prima di rispondere.

“Dicono che stanotte è a trovare gli infermi,” disse poi in francese ad Adrian, “sta pregando per la loro liberazione dal mondo fisico.”

Un ricordo della madre gli lampeggiò nella mente, solo qualche giorno prima della sua morte, stesa a letto con occhi aperti ma inconsapevoli. Era stata quasi inconscia per le medicine; senza sarebbe stata in uno stato costante di dolore, e tuttavia dopo averle prese era praticamente comatosa. Nelle settimane prima del suo decesso, non aveva avuto alcun concetto del mondo attorno a sé. Lui aveva pregato spesso perché guarisse, lì al suo capezzale, anche se verso la fine le sue suppliche erano cambiate e si era ritrovato a desiderare una morte rapida e indolore per la madre.

“Come lo userà?” chiese Adrian. “Il campione.”

“Si accerterà che la tua mutazione funzioni,” rispose semplicemente Claudette. “Lo sai.”

“Sì, ma…” Il giovane scienziato si interruppe. Sapeva che non era stava a lui mettere in dubbio le intenzioni dell’Imam, ma all’improvviso sentiva il bisogno impellente di sapere. “Lo testerà privatamente? In un luogo remoto? È importante non mostrare troppo presto le nostre carte. Il resto del lotto non è ancora pronto… ”

Claudette disse rapidamente qualcosa ai due uomini siriani, e poi prese Adrian per mano e lo condusse in cucina. “Amore mio,” mormorò piano, “stai avendo dei dubbi. Parlamene.”

Adrian sospirò. “Sì,” ammise. “Questo è solo un campione molto piccolo, non è affatto stabile quanto lo saranno gli altri. E se non funzionasse?”

“Lo farà.” Claudette lo strinse tra le braccia. “Ho piena fiducia in te, e lo stesso vale per l’Imam Khalil. Ti è stata donata questa opportunità. Sei stato benedetto, Adrian.”

Sei stato benedetto. Erano state le stesse parole che Khalil aveva usato quando si erano incontrati. Tre mesi prima, Claudette aveva portato Adrian a fare un viaggio in Grecia. Khalil, come molti altri siriani, era un rifugiato, ma non uno politico, né per la guerra che stava devastando il paese. Era un rifugiato religioso, cacciato sia dagli sciiti che dai sunniti per le sue nozioni idealistiche. La spiritualità di Khalil era un amalgama di precetti islamici e alcune delle influenze esoteriche filosofiche di Druze, come la verità e la trasmigrazione dell’anima.

Adrian aveva incontrato il sant’uomo in un albergo ad Atene. L’Imam Khalil era una persona gentile con un sorriso gradevole, capelli scuri e una barba ordinata e pettinata, che portava un completo marrone. Il giovane francese era stato preso alla sprovvista quando, durante il loro primo incontro, l’Imam gli aveva chiesto di pregare insieme a lui. Si erano seduti insieme su un tappeto, rivolti verso la Mecca, e avevano pregato in silenzio. La calma aveva avvolto l’Imam come un’aura, una placidità che Adrian non aveva più provato da quando era un bambino tra le braccia della madre ancora in salute.

Dopo la preghiera, i due uomini avevano fumato da un narghilè di vetro e avevano bevuto del tè mentre Khalil parlava delle sue idee. Avevano discusso dell’importanza di essere fedeli a loro stessi; Khalil credeva che l’unico modo in cui l’umanità poteva assolvere i propri peccati era la sincerità assoluta, che avrebbe permesso all’anima di reincarnarsi in un essere puro. Aveva fatto molte domande ad Adrian, sia sulla scienza che sulla spiritualità. Gli aveva chiesto della madre, e gli aveva promesso che da qualche parte sulla terra lei era già rinata, pura, bellissima e in salute. Il giovane francese ne aveva tratto un grande conforto.

Poi il sant’uomo aveva parlato dell’Imam Mahdi, il Redentore e ultimo degli Imam, gli uomini santi. Mahdi sarebbe stato colui che avrebbe portato il Giorno del Giudizio e avrebbe ripulito il mondo dal male. Khalil credeva che sarebbe successo presto, e dopo la redenzione di Mahdi si sarebbe instaurata l’utopia: ogni essere nell’universo sarebbe stato perfetto, genuino e incorrotto.

Per diverse ore i due uomini erano rimasti seduti insieme, fino a notte fonda, e quando la mente di Adrian era stata annebbiata quanto l’aria densa e fumosa che roteava attorno a loro gli aveva finalmente posto la domanda che più gli premeva.

“Sei tu, Khalil?” aveva chiesto il sant’uomo. “Sei tu Mahdi?”

Imam Khalil aveva fatto un ampio sorriso a quelle parole. Aveva preso la mano di Adrian nella propria e aveva detto con gentilezza: “No, figlio mio. Tu lo sei. Tu sei benedetto. Lo riesco a vedere chiaramente quanto vedo il tuo volto.”

Io sono benedetto. Nella cucina del loro appartamento a Marsiglia, Adrian premette le labbra sulla fronte di Claudette. Aveva ragione; avevano fatto una promessa a Khalil e dovevano mantenerla. Prese la scatola d’acciaio per il trasporto dei campioni biologici dal ripiano e la portò agli arabi in attesa. Aprì il coperchio e sollevò la parte superiore del cubo di gomma per mostrare loro la piccola fialetta ermeticamente chiusa all’interno.

Sembrava che non ci fosse nulla nel vetro, ma ciò era caratteristico di una delle sostanze più letali al mondo.

“Tesoro,” disse Adrian risistemando la gomma e richiudendo il coperchio. “Ho bisogno che tu spieghi loro, senza mezzi termini, che in nessuna circostanza devono toccare la fialetta. Deve essere gestita con la massima cura.”

Claudette ripeté il messaggio in arabo. All’improvviso l’uomo siriano che aveva la scatola in mano apparve molto meno a suo agio di un momento prima. L’altro uomo annuì in segno di ringraziamento verso Adrian e mormorò una frase in arabo, una che lui capì: “Che Allah e la Sua pace siano con te,” e senza un’altra parola, i due uscirono dall’appartamento.

Non appena se ne furono andati, Claudette chiuse la serratura e rimise la catena, poi si voltò verso il suo amante con un’espressione sognante e soddisfatta sul volto.

Adrian, tuttavia, rimase fermo dov’era, la sua espressione severa.

“Amore mio?” disse lei con cautela.

“Che cosa ho appena fatto?” bisbigliò. Conosceva già la risposta; aveva messo un virus mortale non nelle mani dell’Imam Khalil, ma di due sconosciuti. “E se non glielo dovessero portare? E se lo facessero cadere, o lo aprissero, o…”

“Amore mio.” Claudette gli strinse le braccia attorno alla vita e gli premette il capo al petto. “Sono seguaci dell’Imam. Faranno attenzione e lo porteranno dove deve andare. Abbi fede. Hai compiuto il primo passo verso un nuovo e migliore mondo. Tu sei il Mahdi. Non dimenticarlo.”

“Sì,” rispose piano “Ma certo. Hai ragione, come sempre. E devo finire.” Se la sua mutazione non avesse funzionato come doveva, o se non ne avesse prodotto una partita completa, senza alcun dubbio sarebbe stato un fallimento non solo agli occhi di Khalil, ma anche a quelli di Claudette. Senza di lei sarebbe crollato. Aveva bisogno di quella donna quanto aveva bisogno dell’aria, del cibo e della luce del sole.

E nonostante tutto, non poteva evitare di chiedersi che cosa avrebbero fatto con il campione, e se l’Imam Khalil lo avrebbe testato privatamente, in un luogo lontano da tutto, o se sarebbe stato liberato in mezzo alla gente.

Ma lo avrebbe scoperto presto.




CAPITOLO SEI


“Papà, non sei costretto ad accompagnarci fino alla porta ogni volta,” si lamentò Maya mentre attraversavano Dahlgren Quad verso Healy Hall, nel campus della Georgetown.

“Lo so che non sono costretto,” disse Reid. “Voglio farlo. Che c’è, ti vergogni di farti vedere con il tuo papà?”

“Non è così,” borbottò Maya. Il viaggio era stato silenzioso, Maya aveva guardato fuori dal finestrino con aria pensierosa mentre Reid aveva cercato inutilmente un argomento di cui parlare.

La figlia maggiore stava arrivando alla fine del suo terzo anno di liceo, ma aveva già scelto le sue classi del college e aveva iniziato qualche corso nel campus della Georgetown. Era un buon modo per cominciare a guadagnare i crediti del college e l’avrebbe aiutata nella domanda di iscrizioni all’università, specialmente dato la sua prima scelta era proprio la Georgetown. Reid aveva insistito per accompagnarla al college, persino fino alla sua classe.

La notte prima, quando Maria era stata costretta a interrompere il loro appuntamento, Reid era tornato in fretta a casa dalle sue ragazze. Era stato sconvolto dalla notizia della fuga di Rais—le sue dita avevano tremato sul volante dell’auto—ma si era costretto a rimanere calmo e aveva cercato di riflettere lucidamente. La CIA era già all’inseguimento e probabilmente anche l’Interpol. Conosceva il protocollo; avrebbero tenuto d’occhio ogni aeroporto, e sarebbero stati posti blocchi stradali in tutte le arterie principali di Sion. E Rais non aveva più nessun alleato a cui chiedere aiuto.

Oltretutto, l’assassino era scappato in Svizzera, a più di quattromila miglia di distanza. Metà del continente e un intero oceano lo separavano da Kent Steele.

Nonostante tutto, sapeva che si sarebbe sentito molto meglio quando avesse ricevuto l’informazione che Rais era stato ricatturato. Si fidava delle capacità di Maria, ma si pentiva di non aver avuto la lungimiranza di chiederle di tenerlo aggiornato il più possibile.

Lui e Maya raggiunsero l’ingresso di Healy Hall e Reid si soffermò qualche istante. “Va bene, immagino che ti rivedrò dopo la lezione?”

La figlia lo guardò sospettosa. “Non mi accompagni dentro?”

“Non oggi.” Aveva la sensazione di sapere per quale motivo Maya fosse così silenziosa quel mattino. La sera prima le aveva concesso un briciolo di indipendenza, ma quel mattino era tornato alla normalità. Doveva ricordarsi che non era più una ragazzina. “Senti, so che ultimamente sono stato un po’ opprimente…”

“Un po’?” sbuffò Maya.

“… e mi dispiace per questo. Tu sei una giovane donna capace, intelligente e piena di risorse. E vuoi solo la tua indipendenza. Lo capisco. La mia natura iperprotettiva è un mio problema, non tuo. Non è colpa tua.”

Maya cercò di nascondere un sogghigno. “Hai appena usato la frase: ‘non sei tu, sono io’?”

Lui annuì. “L’ho fatto, perché è vero. Non potrei perdonarmi se ti succedesse qualcosa e io non fossi presente.”

“Ma non potrai essere sempre insieme a me,” replicò la figlia, “non importa quanto ci provi. E io devo essere in grado di occuparmi da sola dei miei problemi.”

“Hai ragione. Farò del mio meglio per lasciarti un po’ di spazio.”

Maya inarcò un sopracciglio. “Me lo prometti?”

“Prometto.”

“Okay.” La ragazza si alzò in punta di piedi e gli baciò una guancia. “Ci vediamo dopo la scuola.” Si diresse verso la porta, ma poi le venne in mente qualcos’altro. “Lo sai, magari dovrei imparare a sparare, giusto per sicurezza…”

Lui le puntò severamente contro un dito. “Non esagerare.”

Maya sorrise e svanì nell’edificio. Reid rimase fermo fuori per un paio di minuti. Dio, le sue ragazze stavano crescendo troppo in fretta. In due brevi anni Maya sarebbe stata legalmente adulta. Presto sarebbero arrivate le macchine, le rate del college, e… prima o poi sarebbero arrivati anche i ragazzi. Per fortuna non era ancora successo.

Si distrasse ammirando l’architettura del campus, mentre si dirigeva verso Copley Hall. Non credeva che si sarebbe mai stancato di aggirarsi per l’università, godendosi la vista degli edifici del diciottesimo e diciannovesimo secolo, costruiti in gran parte nello stile romanico fiammingo che andava tanto nel medioevo europeo. Di certo era d’aiuto che la metà di marzo in Virginia fosse il punto di svolta della stagione; il tempo stava migliorando e la temperatura raggiungeva i venti gradi durante le giornate più assolate.

Il suo ruolo come professore associato faceva sì che avesse classi piccole, dai venticinque ai trenta studenti alla volta e principalmente laureandi in storia. Lui era specializzato in lezioni sull’arte bellica, e spesso sostituiva il professor Hildebrandt, che era titolare di una cattedra e spesso viaggiava per un libro che stava scrivendo.

O magari è segretamente nella CIA, pensò Reid.

“Buongiorno,” disse ad alta voce entrando in classe. La maggior parte degli studenti si era già accomodata prima del suo arrivo, quindi si affrettò a raggiungere il centro della sala, appoggiò la borsa sulla cattedra e si sfilò la giacca di tweed. “Sono in ritardo di qualche minuto, quindi cominciamo subito.” Era piacevole essere di nuovo in classe. Quello era il suo elemento, o almeno uno di essi. “Sono sicuro che qui qualcuno sa dirmi: quale è stato l’evento più devastante, per numero di morti, della storia europea?”

“La seconda guerra mondiale,” rispose subito una voce.

“Uno dei peggiori al mondo, certo,” replicò Reid, “ma la Russia se l’è cavata molto peggio dell’Europa, a giudicare dalle cifre. Altre idee?”

“La conquista mongola,” disse una ragazza mora con i capelli raccolti in una coda di cavallo.

“Un’altra buona ipotesi, ma state pensando a dei conflitti armati. Io ho in mente qualcosa di meno antropogenico, e più biologico.”

“La Peste Nera,” borbottò un ragazzo biondo in prima fila.

“Sì, è giusto, signor…?”

“Wright,” rispose il ragazzo.

Reid sorrise. “Signor Wright? Un cognome importante, scommetto che è popolare tra i suoi coetanei.”

Il ragazzo sorrise timidamente e scosse la testa.

“Comunque sì, il signor Wright ha ragione: la Peste Nera. La pandemia della peste bubbonica è iniziata nell’Asia Centrale, ha attraversato la Via della Seta, è stata portata in Europa dai ratti sulle navi mercantili, e si stima che nel quattordicesimo secolo abbia ucciso dalle settantacinque alle duecento milioni di persone.” Per un momento camminò avanti e indietro in silenzio, per enfatizzare il concetto. “C’è un’enorme differenza tra le due cifre, vero? Come mai i numeri sono così incerti?”

La ragazza mora in terza fila alzò appena la mano. “Perché settecento anni fa non avevano un ufficio censimenti?”

Reid e qualche altro studente ridacchiarono. “Beh, certo, questo è vero. Ma è anche per via della velocità con cui la peste si è diffusa. Voglio dire, stiamo parlando della morte di un terzo della popolazione dell’Europa in due anni. Per farvi capire, sarebbe come se l’intera East Coast e la California svanissero.” Si appoggiò alla cattedra e incrociò le braccia. “Ora so che cosa state pensando. ‘Professor Lawson, lei non è il tizio che viene qui e ci parla della guerra?’ Sì, e adesso ci arrivo.”

“Qualcuno ha accennato alla conquista mongola. Per un breve periodo Genghis Khan ha avuto il più grande impero della storia, e il suo esercito marciò contro l’Europa dell’Est negli anni della peste in Asia. Si ritiene che Khan sia stato uno dei primi a usare quella che noi classifichiamo come guerra batteriologica; se una città non si arrendeva a lui, il suo esercito catapultava corpi infetti dalla peste oltre le mura nemiche e poi… gli bastava aspettare un po’.”

Il signor Wright, il ragazzo biondo in prima fila, arricciò il naso per il disgusto. “Non può essere vero.”

“È vero, glielo garantisco. Per esempio durante l’assedio di Caffa, in quella che ora è la Crimea, nel 1346. Vedete, vogliamo pensare che la guerra biologica sia un concetto nuovo, ma non lo è. Prima di avere i carri armati, o i droni, o i missili, o persino le pistole nel senso moderno, noi, uhm… loro, eh…”

“Perché hai una cosa del genere, Reid?” chiede Kate in tono accusatorio. I suoi occhi sono più spaventati che arrabbiati.

Dopo aver pronunciato la parola ‘pistole’, il ricordo gli apparve all’improvviso nella mente, lo stesso del giorno prima, ma più chiaro. Erano nella cucina della loro casa precedente, in Virginia. Kate aveva trovato qualcosa mentre spolverava i condotti dell’aria condizionata.

Una pistola sul tavolo, una piccola, una LC9 da nove millimetri argentata. Kate la indica come un oggetto maledetto. “Perché hai una cosa del genere, Reid?”

“È… solo per protezione,” menti.

“Protezione? Ma almeno sai come si usa? E se una delle ragazze l’avesse trovata?”

“Non la…”

“Lo sai quanto può essere curiosa Maya. Gesù. Non voglio nemmeno sapere come l’hai ottenuta. Non voglio questa cosa a casa nostra. Ti prego, portala via.”

“Ma certo. Mi dispiace, Katie.” Katie, il nome che usi solo quando è arrabbiata.

Prendi con esitazione l’arma dal tavolo, come se non fossi certo di come maneggiarla.

Dopo che se ne sarà andata a lavoro, dovrai recuperare le altre undici nascoste per tutta la casa. Sarà meglio trovare dei posti migliori.

“Professore?” Il ragazzo biondo, Wright, guardò Reid preoccupato. “Sta bene?”

“Uhm… sì.” Reid si raddrizzò e si schiarì la gola. Gli dolevano le dita; aveva stretto forte il bordo della cattedra quando il ricordo era riemerso. “Sì, scusatemi.”

Non aveva più alcun dubbio. Era sicuro che avesse perso almeno un ricordo di Kate.

“Uhm… scusate, ragazzi, ma non sono molto in forma,” disse alla classe. “Tutto a un tratto non mi sento bene. Per oggi… finiamola qui. Vi darò qualche capitolo da leggere, e riprenderemo lunedì.”

Gli tremavano le mani mentre enunciava i numeri delle pagine. Il sudore gli imperlava la fronte durante la lenta sfilata degli studenti fuori dalla porta. La ragazza mora si fermò alla sua cattedra. “Non ha un bell’aspetto, professor Lawson. Ha bisogno che chiamiamo qualcuno?”

Gli stava spuntano un’emicrania al centro della testa, ma si costrinse a sorridere in una maniera che sperò fosse educata. “No, grazie. Starò bene. Mi serve solo un po’ di riposo.”

“Okay. Spero che si senta meglio, professore.” Anche lei uscì dalla classe.

Non appena rimase da solo, frugò nel cassetto della cattedra, trovò un’aspirina e la mandò giù con dell’acqua da una bottiglia che aveva nella borsa.

Si appoggiò allo schienale della sedia e aspettò che i battiti del suo cuore rallentassero. Il ricordo che gli era appena tornato alla mente non aveva avuto solo un impatto psicologico o emotivo, ma anche uno molto fisico. Il pensiero di aver perso anche solo un istante delle sue memorie di Kate, quando già la moglie gli era stata strappata dalla vita, gli aveva fatto venire la nausea.

Dopo qualche minuto l’orrenda sensazione che aveva allo stomaco iniziò a calmarsi, ma non fu così per i pensieri che gli si agitavano nella testa. Non poteva più addurre delle scuse, doveva prendere una decisione. Avrebbe dovuto decidere che cosa voleva fare. A casa, in una scatola nel suo ufficio, c’era una lettera che indicava da chi sarebbe dovuto andare per chiedere aiuto: un medico svizzero di nome Guyver, il neurochirurgo che gli aveva installato il soppressore della memoria. Se qualcuno poteva far qualcosa per ripristinare i suoi ricordi, quello era lui. Reid aveva passato l’ultimo mese in preda all’incertezza, non sapendo se tentare o meno di recuperare tutta la memoria.

Ma un pezzo di sua moglie era svanito, e non aveva modo di sapere che cos’altro fosse stato occultato dal soppressore.

Ormai era pronto.




CAPITOLO SETTE


“Guardami,” disse l’Imam Khalil in arabo. “Per favore.”

Prese il ragazzo per le spalle in un gesto paterno, e si chinò per poterlo guardare direttamente in volto. “Guardami,” disse di nuovo. Non era un ordine, ma una gentile richiesta.

Omar faceva fatica a guardare Khalil negli occhi. Invece gli fissò il mento, la corta barba nera, rasata con cura sul collo. Studiò i risvolti della sua giacca marrone scuro, non molto costosa e tuttavia più elegante di qualsiasi abito Omar avesse mai visto. L’uomo anziano aveva un buon odore e parlava al ragazzo come se fossero stati alla pari, con un rispetto che nessuno gli aveva mai dimostrato prima. Era per tutti quei motivi che Omar non riusciva a costringersi a guardarlo negli occhi.

“Omar, sai che cosa è un martire?” stava chiedendo l’uomo. La sua voce era limpida ma non alta. Il ragazzo non aveva mai sentito l’Imam gridare.

Omar scosse la testa. “No, Imam Khalil.”

“Un martire è un tipo di eroe. Ma è qualcosa di più; è un eroe che si dona del tutto a una causa. Un martire è ricordato. Un martire è celebrato. Tu, Omar, tu sarai celebrato. Tu sarai ricordato. Tu sarai amato per sempre. Sai perché?”

Il ragazzo annuì leggermente, ma non parlò. Credeva negli insegnamenti dell’Imam, vi si era aggrappato come a un salvagente, e anche di più dopo che un bombardamento aveva ucciso la sua famiglia. Anche dopo essere stato cacciato dalla sua patria, la Siria, dai dissidenti. Tuttavia faceva fatica a credere a ciò che l’Imam Khalil gli aveva detto qualche giorno prima.

“Sei benedetto,” disse Khalil. “Guardami, Omar.” Con una certa difficoltà, il ragazzo alzò lo sguardo per incontrare gli occhi marroni dell’Imam, dolci e gentili ma allo stesso tempo intensi. “Tu sei il Mahdi, l’ultimo degli Imam. Il Redentore che libererà il mondo dai peccatori. Tu sei un salvatore, Omar. Lo capisci?”

“Sì, Imam.”

“E ci credi, Omar?”

Il ragazzo non era certo che fosse così. Non si sentiva speciale, o importante, o benedetto da Allah, ma tuttavia rispose: “Sì. Imam. Ci credo.”

“Allah mi ha parlato,” continuò piano Khalil, “e mi ha detto che cosa dobbiamo fare. Ti ricordi che cosa devi fare?”

Omar annuì. La sua missione era piuttosto semplice, anche se Khalil si era accertato che il ragazzo non avesse dubbi su che cosa avrebbe significato per lui.

“Bene. Bene.” Khalil fece un ampio sorriso. I suoi denti erano perfettamente bianchi e brillanti nel sole luminoso. “Prima che ci separiamo, Omar, mi faresti l’onore di pregare insieme a me per un momento?”

Gli tese una mano, e Omar la prese. Era calda e liscia nella sua. L’Imam chiuse gli occhi e mosse le labbra in parole silenziose.

“Imam?” disse il ragazzo in un sussurro. “Non dovremmo voltarci verso la Mecca?”

Ancora una volta Khalil fece un ampio sorriso. “Non oggi, Omar. Il vero Dio mi ha concesso un desiderio; oggi, io mi volto verso di te.”

I due uomini rimasero fermi insieme per un lungo istante, pregando in silenzio rivolti l’uno verso l’altro. Omar sentiva il calore del sole sul volto, e per il silenzioso minuto che seguì, pensò di percepire qualcosa, come se le dita invisibili di Dio gli stessero accarezzando una guancia.

Khalil era inginocchiato all’ombra di un piccolo aeroplano bianco. L’aereo poteva accogliere solo quattro persone e aveva delle eliche sulle ali. Omar non era mai stato più vicino di così a un velivolo, tranne che durante il volo dalla Grecia alla Spagna, che era stata l’unica volta che era stato su un aereo.

“Ti ringrazio per questo.” Khalil allontanò la mano da quella del ragazzo. “Ora devo andare, e tu devi fare lo stesso. Allah è con te, Omar, e che la pace sia con Lui e con te.” L’uomo anziano gli sorrise di nuovo, poi si voltò e salì sulla breve rampa che portava sull’aereo.

I motori partirono, emettendo un fischio iniziale che poi si trasformò in un rombo. Omar fece diversi passi all’indietro mentre il velivolo cominciava ad avanzare sulla piccola pista d’atterraggio. Lo guardò prendere velocità, sempre più rapido, fino a quando non si alzò in aria e alla fine svanì.

Da solo, Omar guardò dritto davanti a sé, godendosi il sole sul volto. Era una giornata calda, più calda rispetto alla media di quel periodo dell’anno. Poi iniziò il cammino di quatto miglia che lo avrebbe portato a Barcellona. Mentre procedeva, infilò una mano nella tasca, stringendo con delicatezza e protettivamente la piccola fiala di vetro.

Non riusciva a non chiedersi perché Allah non si fosse rivolto direttamente a lui. Invece il Suo messaggio era passato attraverso l’Imam. Gli avrei creduto? pensò Omar. O lo avrei ritenuto solo un sogno? L’Imam Khalil era santo e saggio, e aveva riconosciuto i segni quando erano apparsi. Omar era un giovane ragazzo ingenuo di soli sedici anni che sapeva ben poco del mondo, in particolare dell’Occidente. Forse non era stato adatto a sentire la voce di Dio.

Khalil gli aveva dato una manciata di Euro da portare con sé a Barcellona. “Prenditi il tuo tempo,” aveva detto l’uomo anziano. “Goditi un buon pasto. Te lo meriti.”

Omar non parlava spagnolo, e conosceva solo poche semplici frasi in inglese. Oltretutto non aveva fame, quindi invece di mangiare una volta arrivato in città, trovò una panchina da cui ammirare il panorama. Si sedette, chiedendosi perché proprio là, tra tutti i luoghi possibili.

Abbi fede, avrebbe detto l’Imam Khalil. Omar decise che l’avrebbe avuta.

Alla sua sinistra c’era l’Hotel Barceló Raval, uno strano edificio rotondo decorato con luci viola e rosse, da cui entravano e uscivano dei giovani ben vestiti. Non lo conosceva di nome, sapeva solo che sembrava un faro, che attraeva peccatori ricchi come una fiamma attrae le falene. Gli diede coraggio stare seduto davanti a quel palazzo, rinforzò la sua fede per fare ciò che si era ripromesso.

Omar prese con cura la fiala di vetro dalla tasca. Non sembrava che dentro ci fosse niente, o forse qualsiasi cosa contenesse era invisibile, come l’aria o un gas. Non aveva importanza. Sapeva bene che cosa doveva farci. Il primo passo era completo: entrare in città. Il secondo lo eseguì sulla panchina all’ombra del Raval.

Strinse la punta conica della fiala tra le dita e, con un piccolo movimento rotatorio, la staccò.

Un minuscolo frammento di vetro gli si infilò nel polpastrello. Guardò mentre si formava una goccia di sangue, ma resistette alla tentazione di infilarsi un dito in bocca. Invece fece quello che gli era stato detto: si infilò la fiala in una narice e inalò a fondo.

Non appena l’ebbe fatto, gli si strinse lo stomaco per la paura. Khalil non gli aveva spiegato nello specifico che cosa aspettarsi. Gli aveva solo detto di aspettare un po’, quindi rimase in attesa e fece del suo meglio per rimanere calmo. Osservò mentre altre persone entravano e uscivano dall’albergo, ognuna vestita in abiti appariscenti e lussuosi. Era ben consapevole del proprio abbigliamento umile, il logoro maglione, le guance macchiate, i capelli troppi lunghi e spettinati. Ricordò a se stesso che la vanità era un peccato.

Omar stette seduto e aspettò che succedesse qualcosa, di sentirlo agire dentro di sé, qualsiasi cosa ‘esso’ fosse.

Non provò nulla. Non c’era alcuna differenza.

Passò un’intera ora su quella panchina, e alla fine si alzò e si incamminò con lentezza verso nord-ovest, lontano dall’hotel viola e cilindrico per addentrarsi di più nella città. Prese le scale della prima stazione della metropolitana che trovò. Non era in grado di leggere lo spagnolo, ma non aveva bisogno di sapere dove stava andando.

Acquistò un biglietto usando gli euro che Khalil gli aveva dato e aspettò tranquillo l’arrivo di un treno sulla piattaforma. Continuava a non sentire niente di diverso. Forse aveva frainteso la natura della consegna. Tuttavia, c’era un’ultima cosa che doveva fare.

Le porte del treno si aprirono con un sibilo e lui entrò, muovendosi gomito a gomito con il resto della folla. Il vagone della metropolitana era piuttosto pieno; tutti i sedili erano occupati, quindi Omar rimase in piedi e si tenne a una delle barre di metallo che lo attraversavano in lunghezza, appena sopra la sua testa.





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Uno dei migliori thriller di quest’anno. Books and Movie Reviews (re A ogni costo) In questo seguito del primo libro (AGENTE ZERO) della serie di spy thriller Kent Steele, Obiettivo Zero (Libro #2) ci porta in un’altra avventura ricca d’azione per tutta l’Europa, quando l’agente Kent Steele viene richiamato in servizio per fermare un’arma biologica prima che devasti il mondo, lottando al contempo con la sua perdita di memoria. La vita torna brevemente alla normalità per Kent, prima di essere richiamato dalla CIA per dare la caccia ai terroristi e fermare un’altra crisi internazionale, una persino più potenzialmente devastante dell’ultima. Perseguitato ancora una volta da un assassino, messo alle strette da una cospirazione e dalle talpe all’interno dell’agenzia, e con un’amante di cui non può fidarsi, Kent rischio di fallire. Tuttavia la sua memoria sta lentamente tornando, e con essa visioni segrete di chi è stato un tempo, che cosa ha scoperto e perché gli stanno dando tutti la caccia. La sua stessa identità potrebbe essere il segreto più pericoloso di tutti. OBIETTIVO ZERO è un thriller di spionaggio che non riuscirete a posare fino alla fine. Il thriller al suo meglio. Midwest Book Review (re A ogni costo) Inoltre è disponibile la serie thriller besteller di Jack Mars LUKE STONE (7 libri), che inizia con A ogni costo (Libro #1), un download gratuito con più di 800 recensioni a cinque stelle!

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