Книга - Il Giuramento

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Il Giuramento
Jack Mars


Un Thriller Della Serie di Luke Stone #2
IL GIURAMENTO è il secondo libro della serie bestseller di Luke Stone, che inizia con A OGNI COSTO (libro primo), da scaricare gratuitamente! Un agente biologico viene rubato da un laboratorio di biocontenimento. Utilizzato come arma, potrebbe uccidere milioni di persone, e una disperata caccia a livello nazionale segue i terroristi prima che sia troppo tardi. Luke Stone, capo di un dipartimento speciale dell’FBI e con la famiglia ancora in pericolo, ha promesso di andarsene – ma quando la nuova presidente, appena insiedatasi, lo chiama, non può voltarle le spalle. Segue una terribile devastazione, che arriva fino alla presidente, la cui stessa famiglia viene messa in pericolo. La forza della donna viene messa a dura prova mentre muove i primi passi da presidente, e riesce a sorprendere anche i suoi consiglieri più fidati. I rivali vogliono fuori dal sistema Luke, e con la sua squadra in pericolo, e lasciato ad agire solo affidandosi alle sue risorse, diventa una cosa personale. Ma Luke Stone non molla finché o lui o i terroristi non sono morti. Luke capisce presto che l’obiettivo finale dei terroristi è ancora più importante – e più terrificante – di quanto potesse immaginare. E a pochi giorni dall’apocalisse, è improbabile che riesca a fermare ciò che già si sta compiendo. Thriller politico pieno di azione, ambientazioni internazionali drammatiche, colpi di scena e suspense al cardiopalma, IL GIURAMENTO è il secondo libro della serie di Luke Stone, un’esplosiva nuova serie che vi obbligherà a girare pagina dopo pagina fino a tarda notte. Il Libro terzo della serie di Luke Stone sarà disponibile presto.





Jack Mars

Il Giuramento. Un Thriller Della Serie di Luke Stone 2




Jack Mars

Jack Mars è l’autore della serie thriller best-seller di LUKE STONE, che include i thriller di suspense A OGNI COSTO (libro #1), IL GIURAMENTO (libro #2), SALA OPERATIVA (libro #3), CONTRO OGNI NEMICO (libro #4), OPERAZIONE PRESIDENTE (libro #5), e IL NOSTRO SACRO ONORE (libro #6).

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Copyright © 2016 di Jack Mars. Tutti i diritti riservati. Salvo per quanto permesso dalla legge degli Stati Uniti U.S. Copyright Act del 1976, è vietato riprodurre, distribuire, diffondere e archiviare in qualsiasi database o sistema di reperimento dati questa pubblicazione in alcuna forma o con qualsiasi mezzo, senza il permesso dell’autore. Questo e-book è disponibile solo per fruizione personale. Questo e-book non può essere rivenduto né donato ad altri. Se vuole condividerlo con altre persone, è pregato di aggiungerne un’ulteriore copia per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo e-book senza aver provveduto all’acquisto, o se l’acquisto non è stato effettuato per suo uso personale, è pregato di restituirlo e acquistare la sua copia. La ringraziamo del rispetto che dimostra nei confronti del duro lavoro dell’autore. Questa storia è opera di finzione. Nomi, personaggi, aziende, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in modo romanzesco. Ogni riferimento a persone reali, in vita o meno, è una coincidenza. Immagine di copertina Copyright STILLFX, utilizzata con il permesso di Shutterstock.com.



I LIBRI DI JACK MARS



I THRILLER DELLA SERIE DI LUKE STONE



A OGNI COSTO (Libro #1)

IL GIURAMENTO (Libro #2)

SALA OPERATIVA (Libro #3)

CONTRO OGNI NEMICO (Libro #4)

OPERAZIONE PRESIDENTE (Libro #5)

IL NOSTRO SACRO ONORE (Libro #6)




CAPITOLO UNO




6 giugno

15:47

Dewey Beach, Delaware


Gli tremava tutto il corpo. Luke Stone si guardò la mano destra, la mano con cui teneva la pistola. La osservò scuotersi, posata sulla coscia. Non riusciva a fermarla.

Aveva la nausea; stava abbastanza male da vomitare. Il sole si spostava a ovest, e la sua lucentezza lo stordiva.

Mancavano tredici minuti.

Si trovava sul sedile del conducente di un SUV Mercedes classe M nero, a fissare in fondo all’isolato la casa dove forse si trovava la sua famiglia. Rebecca, sua moglie, e Gunner, suo figlio. La sua mente voleva richiamare delle loro immagini, ma lui non lo avrebbe permesso. Potevano trovarsi da un’altra parte. Potevano essere morti. I loro corpi potevano essere incatenati a blocchi di cemento con delle pesanti catene per ancore, a decomporsi sul fondo della baia di Chesapeake. Per un secondo vide i capelli di Rebecca muoversi come alghe, avanti e indietro con la corrente, nelle profondità marine.

Scosse la testa per schiarirsi le idee.

Becca e Gunner erano stati rapiti la notte precedente da degli agenti al soldo degli uomini che avevano fatto cadere il governo degli Stati Uniti. Era stato un colpo di Stato, i cui pianificatori avevano preso la famiglia di Stone come merce di scambio, sperando di dissuaderlo dal rovesciare il nuovo governo in carica.

Non aveva funzionato.

“Il posto è questo,” disse Ed Newsam.

“Davvero?” disse Stone. Guardò il suo partner, seduto sul sedile del passeggero. “Lo sai?”

Ed Newsam era grosso, nero e pieno di muscoli. Sembrava un difensore della National Football League. Non aveva neanche un briciolo di dolcezza. Portava una barba cortissima e i capelli a spazzola. Le grandi braccia erano scure di tatuaggi.

Ed aveva ucciso sei uomini, il giorno prima. Gli avevano sparato con un mitra. L’aveva salvato il giubbotto protettivo, ma una pallottola vagante l’aveva colpito al bacino. Gliel’aveva rotto. La sedia a rotelle di Ed era nel bagagliaio della macchina. Né Ed né Luke dormivano da due giorni.

Ed osservò il tablet che teneva in mano. Si strinse nelle spalle.

“La casa è sicuramente questa. Che loro ci siano o no, non lo so. Immagino che lo scopriremo presto.”

Era una vecchia casetta da spiaggia con tre camere da letto, un po’ sconclusionata, a tre isolati dall’oceano Atlantico. Dava sulla baia e aveva un piccolo molo. Ci si poteva mettere una barca da trenta piedi lì dietro, percorrere a piedi i tre metri del molo, salire i pochi gradini ed entrare nella casa. La notte era un buon momento per farlo.

La CIA usava da decine di anni il posto come rifugio. In estate Dewey Beach era così piena di turisti e festaioli in età da college che le spie avrebbero potuto nasconderci Osama bin Laden senza che se ne accorgesse nessuno.

“Quando cominciano, ci vogliono fuori,” disse Ed. “Non abbiamo nemmeno un incarico. Lo sai, vero?”

Luke annuì. “Lo so.”

L’FBI era l’agenzia leader per quel blitz, insieme alla SWAT della polizia di Stato del Delaware che era venuta da Wilmington. Si erano riuniti silenziosamente nel quartiere nell’ultima ora.

Luke aveva visto svolgersi azioni del genere un centinaio di volte. C’era un furgone della Verizon FIOS parcheggiato in fondo all’isolato. Doveva essere l’FBI. C’era un peschereccio ancorato a un centinaio di metri dalla baia. Ancora i federali. Tra pochi minuti, alle sedici, la barca sarebbe andata rapida al molo del rifugio.

Nello stesso istante, un furgone corazzato della SWAT avrebbe risalito rombando la strada. Un altro avrebbe risalito la strada un isolato più in là, nel caso in cui qualcuno cercasse di fuggire per i cortili sul retro. Avrebbero colpito duro e velocemente, e non avrebbero lasciato alcuno spazio di manovra.

Luke e Ed non erano stati invitati. Perché avrebbero dovuto? I poliziotti e i federali avevano deciso di gestire le cose secondo le regole. Le regole dicevano che Luke non era obiettivo. C’era la sua famiglia là dentro. Se fosse entrato, avrebbe perso la testa. Avrebbe messo a rischio se stesso, la sua famiglia, gli altri agenti e l’intera operazione. Non avrebbe neanche dovuto trovarsi in strada, in quel momento. Non avrebbe dovuto essere nelle vicinanze. Era questo che dicevano le regole.

Ma Luke sapeva che razza di persone ci fossero là dentro. Probabilmente le conosceva meglio dell’FBI o della SWAT. Erano disperati, adesso. Avevano fatto di tutto per il colpo di Stato, e la trama era fallita. Andavano dritti verso accuse di tradimento, rapimento e omicidio. Erano morte trecento persone nell’attentato, tra cui il presidente degli Stati Uniti, e ancora le vittime si contavano. La Casa Bianca era andata distrutta. Era radioattiva. Potevano volerci anni prima che venisse ricostruita.

Luke la scorsa notte e quella mattina aveva visto la nuova presidente – che non era dell’umore di dispensare grazie. La legge era scritta a chiare lettere sui testi: il tradimento era punibile con la morte. Impiccagione. Plotone d’esecuzione. Il Paese avrebbe potuto fare alla vecchia maniera per un po’, nel qual caso gli uomini come quelli che si trovavano in quella casa ne avrebbero pagato il prezzo.

Ciononostante, non si sarebbero fatti prendere dal panico. Non erano criminali comuni. Erano persone altamente qualificate e addestrate, uomini che avevano visto il combattimento, e che avevano vinto contro ogni previsione. Arrendersi era una parola che non faceva parte del loro vocabolario. Erano molto, molto intelligenti, e sarebbe stato difficile rimuoverli. Un prevedibile raid della SWAT non sarebbe stato sufficiente.

Se lì dentro ci fossero stati la moglie e il figlio di Luke, e se gli uomini fossero riusciti a rispondere al primo attacco… Luke si rifiutò di pensarci.

Non era un’opzione praticabile.

“Che cosa hai intenzione di fare?” chiese Ed.

Luke fissò il cielo azzurro fuori dal finestrino. “Che cosa faresti, se fossi al posto mio?”

Ed non perse un colpo. “Entrerei lì dentro, con tutta la cattiveria possibile. Ucciderei ogni singolo uomo che vedo.”

Luke annuì. “Anch’io.”


*

Quello era un fantasma.

Era in piedi in una camera del piano di sopra sul retro della vecchia casa sulla spiaggia, a osservare i prigionieri. Una donna e un ragazzino, nascosti in una stanza priva di finestre. Sedevano fianco a fianco su delle sedie pieghevoli, con le mani ammanettate dietro la schiena, le caviglie ammanettate insieme. Indossavano dei cappucci neri sulla testa, così da non vedere niente. Li aveva lasciati senza bavagli, quindi la donna poteva parlar piano al figlio per tenerlo calmo.

“Rebecca,” le disse, “potrebbe esserci un po’ di agitazione tra poco. Nel caso, voglio che tu e Gunner ve ne stiate calmi. Non urlate e non chiamate aiuto. Se lo farete dovrò venire qui a uccidervi tutti e due. Capito?”

“Sì,” disse lei.

“Gunner?”

Sotto al cappuccio, il bambino gracchiò appena.

“È troppo spaventato per parlare,” disse la donna.

“Fa bene,” disse l’uomo. “Dovrebbe essere spaventato. È un bambino intelligente. E un bambino intelligente non fa niente di stupido, vero?”

La donna non rispose. Soddisfatto, l’uomo annuì tra sé e sé.

Un tempo, aveva un nome. Poi, nel corso degli anni, ne aveva avuti dieci. Adesso dei nomi non gli importava più niente. Si presentava come “Brown”, se cortesie del genere erano necessarie. Signor Brown. Gli piaceva. Gli faceva pensare a cose morte. Alle foglie morte in autunno. A brulli boschi bruciati, mesi dopo che un incendio aveva devastato tutto.

Brown aveva quarantacinque anni. Era grande, ed era forte. Era un soldato d’élite, e si comportava di conseguenza. Aveva imparato a resistere al dolore e allo sfinimento molti anni prima alla scuola della Navy SEAL. Aveva imparato a uccidere, e a non farsi uccidere, in una dozzina di hotspot sparsi per il mondo. Aveva imparato a torturare alla Scuola delle Americhe. Aveva messo in pratica quel che aveva imparato in Guatemala e a El Salvador, e poi all’aeroporto militare di Bagram e alla baia di Guantánamo.

Brown non lavorava più per la CIA. Non sapeva per chi lavorava, e non gli importava. Era un freelance, e il lavoro glielo pagavano.

I soldi, e si trattava di molti soldi, erano in contanti. Borse di tela piene di nuove banconote da cento dollari lasciate nel bagagliaio di una berlina a nolo all’aeroporto nazionale Reagan. Una valigetta in pelle con mezzo milione di dollari in pezzi da dieci, da venti e da cinquanta serie 1974 e 1977 in attesa in un armadietto di una palestra nei sobborghi di Baltimora. Erano banconote vecchie, ma non erano mai state toccate – ed erano buone come qualsiasi altra banconota raffigurante il generale Grant battuta nel 2013.

Due giorni prima, Brown aveva ricevuto un messaggio che gli diceva di recarsi in quella casa. Era casa sua fino ad aggiornamento ulteriore, e il suo lavoro era gestirla. Se si faceva vedere qualcuno, lui era a capo di tutto. Okay. Brown era bravo in molte cose, e una di queste era fare il capo.

Ieri mattina qualcuno aveva fatto saltare per aria la Casa Bianca. Il presidente e la vicepresidente erano fuggiti nel bunker di Mount Weather, con circa la metà dei civili del governo. La notte scorsa qualcuno aveva fatto saltare per aria Mount Weather con tutti i suoi ragazzetti ancora dentro. Un paio di ore dopo un nuovo presidente era salito alla ribalta, l’ex vicepresidente. Bello.

Un capovolgimento totale, dai liberali che conducevano lo show ai conservatori, e tutto era accaduto nel corso di una giornata. Naturalmente il pubblico aveva bisogno di dare la colpa a qualcuno, e i signori delle notizie avevano puntato il dito contro l’Iran.

Brown aspettava di vedere cosa sarebbe accaduto ancora.

A tarda notte, quattro uomini erano arrivati al molo con un motoscafo. Portavano quella donna e il bambino. I prigionieri appartenevano a qualcuno che si chiamava Luke Stone. Apparentemente la gente pensava che Stone avrebbe potuto trasformarsi in un problema. Quella mattina, fu chiaro di che genere di problema si trattasse.

Quando il fumo si era disperso, tutti i loro piani erano andati a gambe all’aria nel giro di qualche ora. Ed ecco Luke Stone, a cavallo delle macerie.

Però Brown aveva ancora sua moglie e suo figlio, e non aveva idea di cosa farsene. Le comunicazioni erano interrotte, per usare un eufemismo. Probabilmente avrebbe dovuto ucciderli e abbandonare la casa, ma invece aveva aspettato ordini che non erano mai arrivati. Adesso c’era un Verizon FIOS di fronte alla casa, e un indeterminato peschereccio con ponte di volo a un centinaio di metri.

Pensavano che fosse scemo? Gesù. Si vedevano arrivare a un miglio di distanza.

Andò in corridoio. C’erano due uomini. Entrambi sui trentacinque, con capelli assurdi e barbe lunghe – agenti delle forze speciali da una vita. Brown riconosceva il look. Riconosceva anche il loro sguardo. Non era di paura.

Era eccitazione.

“Qual è il problema?” disse Brown.

“Nel caso in cui non avesse notato, stiamo per essere colpiti.”

Brown annuì. “Lo so.”

“Non posso andare in prigione,” disse Barba 1.

Barba 2 annuì. “Neanch’io.”

Brown era con loro. Anche prima di tutto questo, se l’FBI avesse scoperto la sua vera identità avrebbe scontato molte sentenze a vita. E adesso? Che importa. Avrebbero potuto volerci mesi per identificarlo, e nel frattempo sarebbe rimasto in una prigione di contea da qualche parte, circondato da criminali di poco conto. E per come si erano messe le cose, non poteva fare affidamento su un angelo che scendesse dal cielo per risolvere tutto.

Eppure era calmo. “Questo posto è più resistente di quel che sembra.”

“Sì, ma non c’è via d’uscita,” disse Barba 1.

Vero.

“Allora li teniamo lontani, e vediamo se riusciamo a negoziare qualcosa. Abbiamo degli ostaggi.” Brown smise di crederci nel momento in cui le parole gli uscirono di bocca. Negoziare cosa, un passaggio? Un passaggio per dove?

“Non negozieranno con noi,” disse Barba 1. “Ci mentiranno finché un cecchino non avrà campo libero per sparare.”

“Okay,” disse Brown. “Allora voi cosa volete fare?”

“Combattere,” disse Barba 2. “E se ci abbattono voglio venire quassù per piantare un proiettile nella testa dei nostri ospiti prima di beccarmene uno io.”

Brown annuì. Si era già trovato in tante situazioni difficili, e aveva sempre trovato un modo di uscirne. Poteva esserci una via d’uscita anche qui. Ci pensò, ma aloro non lo disse. Solo alcuni topi potevano abbandonare la nave.

“Giusto,” disse. “È quello che faremo. Adesso prendete posizione.”


*

Luke si strinse nel pesante giubbotto tattico. Il peso gli piombò addosso. Assicurò la cintura del giubbotto, togliendosi un po’ di peso dalle spalle. I pantaloni cargo erano abbinati a un giubbotto antiproiettile Dragon Skin leggero. Per terra ai suoi piedi c’era un elmetto con attaccata una mascherina di seconda mano.

Lui e Ed si trovavano dietro al portabagagli aperto della Mercedes. Il finestrino fumé li nascondeva un po’ dalle finestre della casa. Ed si posò contro l’auto per sostenersi. Luke tirò fuori la sedia a rotelle, la aprì e la mise a terra.

“Fantastico,” disse Ed scuotendo la testa. “Ho la mia carrozza, sono pronto per la battaglia.” Gli sfuggì un sospiro.

“Ecco come funziona,” disse Luke. “Noi non stiamo qui a gingillarci. Quando entrerà, la SWAT probabilmente punterà le armi contro la porta del portico che guarda al molo e abbatterà la porta posteriore. Non credo che funzionerà. Scommetto che la porta sul retro è di doppio acciaio e che non si muoverà di un millimetro, e che il portico si trasformerà in una tempesta di fuoco. Lì dentro ci sono dei fantasmi, e non tengono coperte le uscite? Ma dai. Credo che i nostri verranno costretti a ritirarsi. Sperando che nessuno venga colpito.”

“Amen,” disse Ed.

“Io seguirò l’azione iniziale. Con questo.” Luke prese un mitragliatore Uzi dal bagagliaio.

“E questo.” Prese un fucile a pompa Remington 870.

Soppesò entrambe le armi. Erano pesanti. Il loro peso era rassicurante.

“Se i poliziotti entrano e mettono in sicurezza il posto, fantastico. Se non ce la fanno, non abbiamo tempo da perdere. L’Uzi ha proiettili corazzati ad altra pressione di fabbricazione russa. Dovrebbero penetrare la maggior parte dei giubbotti antiproiettile che probabilmente indossano i cattivi. Ho mezza dozzina di caricatori del tutto pieni, nel caso in cui mi servissero. Se li finisco nel mezzo della battaglia, passo al fucile a pompa. Poi farò a brandelli gambe, braccia, colli e teste.”

“Sì, ma come hai intenzione di entrare?” disse Ed. “Se non ce la fa la polizia, come entri tu?”

Luke andò al SUV e ne prese un lanciagranate M79. Sembrava un grosso fucile a canne mozze con fusto in legno. Lo porse a Ed.

“Mi farai entrare tu.”

Ed prese l’arma tra le grosse mani. “Bellissimo.”

Luke andò a prendere due scatole di granate M406, quattro per scatola.

“Voglio che risali l’isolato dietro alle macchine parcheggiate fin dall’altra parte della strada. Appena prima di arrivare aprimi un bel buco attraverso il muro. Quelli saranno concentrati sulle porte, si aspetteranno che i poliziotti cerchino di buttarle giù. Noi invece gli tireremo una granata proprio in grembo.”

“Carino,” disse Ed.

“Dopo la prima botta, lanciagliene un’altra per sicurezza. Poi sta’ giù e fuori pericolo.”

Ed fece scorrere la mano sulla canna del lanciagranate. “Credi che sia sicuro agire così? Cioè… ci sono i tuoi là dentro.”

Luke fissò la casa. “Non lo so. Ma nella maggior parte dei casi che ho visto la stanza dei prigionieri è tenuta di sopra o nel seminterrato. Siamo sulla spiaggia e il livello freatico è troppo alto perché ci sia un seminterrato. Perciò immagino che se sono in quella casa si trovino al piano superiore, in quell’angolino a destra, quello senza finestre.”

Controllò l’ora. 16:01.

In quel preciso istante un corazzato blu svoltò l’angolo ruggendo. Luke e Ed lo osservarono passare. Era un Lenco BearCat con blindatura in acciaio, bocche da fuoco, faretti e tutto il resto.

Luke sentì qualcosa nel petto. Era paura. Era terrore. Aveva trascorso le ultime ventiquattr’ore fingendo di non provare nulla nel sapere che degli assassini mercenari avevano sua moglie e suo figlio. Ogni tanto i veri sentimenti che provava minacciavano di farsi sentire con violenza. Ma li ricacciò indietro di nuovo.

Non c’era spazio per i sentimenti, in quel momento.

Abbassò lo sguardo su Ed. Era sulla sedia a rotelle, con il lanciagranate in grembo. Aveva un’espressione dura. Aveva gli occhi freddi come l’acciaio. Ed era un uomo che viveva secondo i suoi valori, Luke lo sapeva. Quei valori includevano la lealtà, l’onore, il coraggio e l’applicazione di una forza soverchiante quando era giusto, e corretto. Ed non era un mostro. Però in quel momento avrebbe anche potuto esserlo.

“Sei pronto?” disse Luke.

Ed cambiò a malapena espressione. “Sono nato pronto, uomo bianco. La domanda è: tu lo sei?”

Luke caricò le armi. Raccolse l’elmetto. “Sono pronto.”

Si fece scivolare il liscio elmetto nero sulla testa, e Ed fece lo stesso col suo. Luke abbassò la visiera. “Interfono acceso,” disse.

“Acceso,” disse Ed. Pareva che Ed si trovasse nella sua testa. “Ti sento forte e chiaro. Adesso cominciamo.” Ed prese a scivolare dall’altra parte della strada.

“Ed!” disse Luke alla schiena dell’uomo. “Voglio un grosso buco in quel muro. Una cosa attraverso la quale possa passare.”

Ed sollevò una mano e proseguì. Un attimo dopo si trovava dietro la linea delle macchine parcheggiate sulla strada, e fuori vista.

Luke lasciò il bagagliaio aperto. Ci si accucciò dietro. Accarezzò tutte le armi. Aveva un Uzi, un fucile a pompa, una pistola e due coltelli, nel caso in cui si fosse arrivati a quello. Fece un respiro profondo e alzò gli occhi sul cielo azzurro. Lui e Dio non si scambiavano grandi chiacchierate. Sarebbe stato utile se un giorno avessero potuto chiarirsi su alcune cose. Se Luke aveva mai avuto bisogno di Dio, ne aveva bisogno adesso.

Una grossa e lenta nuvola bianca attraversò l’orizzonte.

“Ti prego,” disse Luke alla nuvola.

Un attimo dopo cominciò la sparatoria.




CAPITOLO DUE


Brown era nella saletta di controllo appena fuori dalla cucina.

Sul tavolo alle sue spalle c’erano un fucile M16 e una Beretta nove millimetri semi-automatica, entrambi carichi. C’erano tre granate a mano e una mascherina respiratore. C’era anche un walkie-talkie nero della Motorola.

Una serie di piccoli schermi televisivi a circuito chiuso era montata sul muro sopra al tavolo. Le immagini gli arrivavano in bianco e nero. Ogni schermo dava a Brown una diretta dalle telecamere installate in punti strategici attorno la casa.

Da lì riusciva a vedere l’esterno delle porte scorrevoli a vetri, così come la cima della rampa che portava al molo; il molo stesso e il suo accesso dall’acqua; l’esterno della porta doppia rinforzata in acciaio sul fianco della casa; l’atrio oltre quella porta; il corridoio di sopra con la finestra che dava sulla strada; e, ultima ma non meno importante, la stanza degli interrogatori senza finestre del piano di sopra dove la moglie e il figlio di Luke Stone se ne stavano seduti tranquilli legati alle loro sedie, con dei cappucci a coprir loro il capo.

Non c’era modo di prendere la casa di sorpresa. Con la tastiera sulla scrivania azionò il controllo manuale della telecamere sul molo. Alzò la camera di un pelo fino a inquadrare il peschereccio sulla baia, poi zoomò. Scorse tre poliziotti col giubbotto antiproiettile fuori sulle murate. Stavano tirando l’ancora. Tra un minuto quella barca sarebbe sfrecciata fin lì.

Brown passò alla panoramica sul portico del retro. Voltò la telecamera per vedere il fianco della casa. Riusciva giusto a vedere l’inferriata sul davanti del furgoncino della tv via cavo dall’altra parte della strada. Non importava. Aveva un uomo alla finestra del piano superiore che teneva sotto tiro il furgone.

Brown sospirò. Immaginava che la cosa giusta da fare fosse contattare i poliziotti alla radio e dir loro che sapeva cosa stavano facendo. Avrebbe potuto portare la donna e il bambino di sotto e posizionarli davanti alla porta a vetri, così che tutti riuscissero a vedere che cosa c’era sul tavolo.

Invece di dare inizio a uno scontro a fuoco e a un bagno di sangue, sarebbe potuto passare subito alle vane negoziazioni. In quel modo magari avrebbe anche risparmiato qualche vita.

Sorrise tra sé e sé. Ma così tutto il divertimento sarebbe stato rovinato, no?

Controllò la panoramica sull’atrio. Aveva tre uomini di sotto, i due Barba e uno a cui pensava come all’Australiano. Uno copriva la porta di acciaio e due quelle scorrevoli a vetri nella zona posteriore. La porta a vetri e il portico subito oltre erano i punti più vulnerabili. Ma non c’era ragione di pensare che i poliziotti sarebbero arrivati fin lì.

Allungò una mano alle sue spalle e prese il walkie-talkie.

“Signor Smith?” disse all’uomo accucciato vicino alla finestra aperta del piano di sopra.

“Signor Brown?” gli rispose una voce sarcastica. Smith era abbastanza giovane da trovare gli pseudonimi ancora buffi. Sullo schermo, Smith fece ciao con la mano.

“Che fa il furgone?”

“Rock and roll. Sembra che lì dentro ci stiano facendo un’orgia.”

“Okay. Tieni gli occhi aperti. Non… ripeto… non permettere a nessuno di raggiungere il portico. Non c’è bisogno che mi avvisi. Hai l’autorizzazione ad agire. Ricevuto?”

“Ricevuto,” disse Smith. “Fuoco a volontà, baby.”

“Bravo ragazzo,” disse Brown. “Magari ci rivedremo all’inferno.”

Proprio allora dalla strada giunse il rumore di un pesante veicolo in avvicinamento. Brown si abbassò. Strisciò in cucina e si posizionò sotto alla finestra. Fuori un mezzo corazzato parcheggiò di fronte alla casa. La pesante portiera posteriore si spalancò, e ne uscirono dei grossi tizi con giubbotti antiproiettile.

Passò un secondo. Due secondi. Tre. Sulla strada si erano raccolti otto uomini.

Smith aprì il fuoco dall’alto dei cieli.

Ta-ta-ta-ta-ta-ta.

Il potere degli spari fece vibrare le assi del pavimento.

Due poliziotti caddero istantaneamente a terra. Altri si ritirarono all’interno del furgone, o dietro di esso. Dietro al mezzo corazzato, tre uomini saltarono fuori dal furgoncino della tv via cavo. Smith diede loro fuoco. Uno, colto da una pioggia di proiettili, si diede a una folle danza per la strada.

“Eccellente, signor Smith,” disse Brown nel Motorola.

Uno dei poliziotti aveva attraversato metà della strada prima di essere colpito. Ora strisciava verso il marciapiede vicino, magari sperando di raggiungere il cespuglio di arbusti che si trovava davanti alla casa. Indossava un giubbotto antiproiettile. Probabilmente era stato colpito proprio tra le fessure, ma poteva ancora essere una minaccia.

“Ne hai uno a terra che si avvicina ancora! Lo voglio fuori dai giochi.”

Quasi immediatamente una grandinata di proiettili colpì l’uomo, facendolo contorcere e sussultare. Brown vide l’uccisione al rallentatore. Venne colpito nella fessura sul retro del collo, tra la parte alta del giubbotto e quella finale dell’elmetto. Una spruzzata di sangue riempì l’aria e l’uomo si immobilizzò completamente.

“Bel colpo, signor Smith. Bellissimo colpo. Adesso teniamoli tutti inchiodati a terra.”

Brown tornò scivolando nella sala di comando. Il peschereccio stava arrivando. Prima ancora che raggiungesse il molo, una squadra di uomini con casco e giacca nera ne saltò giù.

“Mascherine di sotto!” disse Brown. “Arrivano da quella porta scorrevole. Preparatevi a rispondere al fuoco.”

“Affermativo,” disse qualcuno.

Gli invasori presero posizione sul molo. Portavano pesanti scudi balistici, dietro i quali si abbassavano. Un uomo saltò su e spianò un candelotto lacrimogeno. Brown prese la mascherina e osservò il proiettile volare oltre la casa. Colpì la porta a vetri e atterrò nella stanza principale.

Un altro uomo saltò su e lanciò un altro barattolo. Poi un terzo ne lanciò un altro. Tutti i candelotti penetrarono in casa dal vetro. La porta a vetri era andata. Sullo schermo di Brown la zona vicino all’atrio cominciò a riempirsi di fumo.

“Stato di sotto?” disse Brown. Passò qualche secondo.

“Stato!”

“Tranquillo, compare,” disse Australiano. “Un po’ di fumo, e quindi? Abbiamo messo le mascherine.”

“Sparate quando siete pronti,” disse Brown.

Osservò gli uomini alla porta scorrevole aprire il fuoco verso il molo. Gli invasori vennero bloccati lì. Non riuscivano a esporsi dagli scudi balistici. E gli uomini di Brown avevano tonnellate di munizioni pronte.

“Bravi, ragazzi,” disse nel walkie-talkie. “Assicuratevi di affondargli la barca, visto che ci siete.”

Brown sogghignò tra sé e sé. Potevano resistere per giorni.


*

Era un disastro. C’erano uomini a terra ovunque.

Luke andò verso la casa, scrutando in giro. Gli spari peggiori venivano da un uomo che si trovava a una finestra del piano di sopra. Stava facendo dei poliziotti formaggio svizzero. Luke era vicino al fianco della casa. Da lì non aveva angolo di tiro, ma l’uomo probabilmente non riusciva a vederlo.

Mentre osservava, il cattivo finì un poliziotto abbattuto con un colpo dietro al collo.

“Ed, com’è la tua visuale sul tiratore del piano di sopra?”

“Posso ficcargliene una dritta in gola. Sono piuttosto sicuro che da lì non mi veda.”

Luke annuì. “Prima occupiamoci di questo. Qua fuori sta diventando un casino.”

“Sei sicuro di volerlo?” disse Ed.

Luke studiò il piano superiore. La stanza senza finestre era nel punto della casa più lontano dal covo del cecchino.

“Sono ancora incline a pensare che si trovino nella stanza senza finestre,” disse.

Ti prego.

“Basta che me lo dici,” disse Ed.

“Vai.”

Luke udì il distintivo rimbombo vuoto del lanciagranate.

Doonk!

Un missile volò da dietro la fila di auto attraverso la strada. Non fece un arco – percorse una traiettoria piana che sfrecciò in alto in diagonale. Colpì giusto la finestra. Passò un secondo, poi:

BANG.

Il lato della casa esplose verso l’esterno, con pezzi di legno, vetro, acciaio e vetroresina. L’arma alla finestra tacque.

“Bene, Ed. Davvero bene. Adesso fammi quel buco nel muro.”

“Come dici?” disse Ed.

“Per favore.”

Luke corse a nascondersi dietro a una macchina.

Doonk!

Sfrecciò ancora in linea retta, a poco più di un metro da terra. Colpì il fianco della casa come un incidente d’auto, e aprì una ferita nel muro. Dentro eruttò una palla di fuoco, sputando fumo e detriti.

Luke balzò quasi in piedi.

“Tieniti forte,” disse Ed. “Ce n’è un altro in arrivo.”

Ed sparò ancora, e questo entrò nella casa. Il rosso e l’arancione divamparono attraverso il buco. La terra tremò. Okay. Era ora di andare.

Luke si mise in piedi e cominciò a correre.


*

La prima esplosione fu sopra alla sua testa. L’intera casa ne fu scossa. Brown guardò il corridoio del piano di sopra sullo schermo.

Il fondo del corridoio era andato. Il punto dove prima si trovava Smith non esisteva più. C’era solo un buco a brandelli dove prima c’erano la finestra e il signor Smith.

“Signor Smith?” disse Brown. “Signor Smith, ci sei?”

Nessuna risposta.

“Qualcuno vede da dove è venuto?”

“Sei tu gli occhi, yankee,” disse una voce.

Avevano dei problemi.

Pochi secondi dopo un razzo colpì la parte anteriore della casa. L’onda d’urto fece cadere Brown. I muri stavano collassando. Il soffitto della cucina improvvisamente crollò. Brown era disteso sul pavimento tra pezzi di casa che precipitavano. Stava succedendo tutto il contrario di quel che si era aspettato. I poliziotti buttavano giù le porte con gli arieti – non sparavano razzi attraverso i muri.

Arrivò un altro razzo, questo fin dentro la casa. Brown si coprì la testa. Tutto tremò. L’intera casa poteva venire giù.

Passò un momento. Adesso c’era qualcuno che gridava. Per il resto, era tutto silenzio. Brown saltò in piedi e corse su per le scale. Per strada raccolse la sua pistola e una granata.

Attraversò la stanza principale. Era una carneficina, un mattatoio. La stanza andava a fuoco. Uno dei Barba era morto. Più che morto – era esploso in pezzi che si erano sparpagliati dappertutto. Australiano si era fatto prendere dal panico e si era tolto la maschera. Aveva la faccia coperta di sangue scuro, ma Brown non capiva dove fosse stato colpito.

“Non ci vedo!” urlava. “Non ci vedo!”

Aveva gli occhi apertissimi.

Un uomo con un giubbotto antiproiettile e un elmetto passeggiava tranquillamente sul muro a pezzi. Zittì Australiano col brutto chiasso di un’arma automatica. La testa di Australiano scoppiò come un pomodoro. Rimase in piedi per un secondo o due senza la testa, e poi si afflosciò sul pavimento.

Barba 2 era disteso a terra accanto alla porta sul retro, quella doppiamente rinforzata in acciaio di cui Brown era stato tanto contento appena pochi momenti prima. I poliziotti non riuscivano mai a superare quella porta. Barba 2 era rimasto massacrato nell’esplosione, ma combatteva ancora. Si trascinò al muro, si tirò su e prese l’arma che aveva assicurata alla spalla.

L’invasore sparò a Barba 2 in viso a bruciapelo. Sangue e ossa e materia grigia si spiaccicarono contro il muro.

Brown si voltò e si precipitò su per le scale.


*

L’aria era densa di fumo, ma Luke vide l’uomo scattare in direzione delle scale. Si guardò intorno nella stanza. Tutti gli altri erano morti.

Soddisfatto, prese di corsa le scale. Il suo stesso respiro gli rimbombava nelle orecchie.

Lì era vulnerabile. Le scale erano così strette che sarebbe stata l’occasione perfetta perché qualcuno gli aprisse il fuoco addosso. Non lo fece nessuno.

In cima l’aria era più pulita che di sotto. Alla sua sinistra c’erano la finestra e la parete andate in frantumi dove era stato appostato il cecchino. Le sue gambe erano sul pavimento. Gli stivali comodi marrone chiaro puntavano in direzioni opposte. Il resto del suo corpo era sparito.

Luke andò a destra. Istintivamente corse alla stanza che si trovava alla fine del corridoio. Lasciò cadere l’Uzi nel corridoio. Prese il fucile a pompa dalla spalla e lasciò cadere anche quello. Estrasse la Glock dalla fondina.

Girò a sinistra ed entrò nella stanza.

Becca e Gunner erano seduti, legati a due sedie pieghevoli. Avevano le braccia bloccate dietro la schiena. Avevano i capelli spettinati, come se un simpaticone glieli avessi arruffati con la mano. E c’era un uomo dietro di loro. Gettò i due cappucci neri a terra e mise la bocca della pistola contro la nuca di Becca. Si abbassò tantissimo, portando Becca davanti a sé per usarla come scudo umano.

Becca aveva gli occhi sgranati. Gunner teneva i suoi chiusi con forza. Piangeva senza controllo. Aveva tutto il corpo scosso da singhiozzi silenziosi. Aveva bagnato i pantaloni.

Ne valeva la pena?

A vederli così, indifesi, terrorizzati – ne era valsa la pena? Luke la sera prima aveva contribuito a fermare un colpo di Stato. Aveva salvato la nuova presidente da morte praticamente certa – ma ne era valsa la pena?

“Luke?” disse Becca, come se non lo riconoscesse.

Ovvio che non lo riconosceva. Si tolse l’elmetto.

“Luke,” disse. Trasalì, magari di sollievo. Luke non lo sapeva. Le persone emettevano suoni nei momenti estremi. Suoni che non avevano sempre un significato specifico.

Luke sollevò la pistola, puntandola direttamente tra la testa di Becca e quella di Gunner. Quell’uomo era bravo. Non gli concedeva nulla da colpire. Ma Luke continuò lo stesso a puntare lì la pistola. Osservò con pazienza. L’uomo non sarebbe stato sempre bravo. Nessuno poteva essere bravo per sempre.

Luke ora non sentiva nulla, niente di niente tranne… una calma… di morte.

Non sentiva il sollievo percorrergli il sistema nervoso. Non era ancora finita.

“Luke Stone?” disse l’uomo. Grugnì. “Fantastico. Da un paio di giorni sei dappertutto. Sei davvero tu?”

Luke riuscì a immaginarsi il viso dell’uomo ripensando al momento prima che si nascondesse dietro a Becca. Aveva una grossa cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra. Aveva un taglio di capelli a spazzola. Aveva i lineamenti taglienti di chi aveva trascorso la vita nell’esercito.

“Chi lo vuole sapere?” disse Luke.

“Mi chiamano Brown.”

Luke annuì. Un nome che non era un nome. Il nome di un fantasma. “Be’, Brown, come vuoi che la risolviamo?”

Sotto di loro, Luke udì la polizia entrare in casa.

“Che opzioni vedi?” disse Brown.

Luke rimase immobile, con la pistola in attesa di avere campo libero. “Io vedo due opzioni. Puoi morire in questo istante oppure, se sei fortunato, in prigione, tra moltissimo tempo.”

“Oppure posso farti esplodere il cervello della tua adorabile moglie addosso.”

Luke non rispose. Puntava la pistola e basta. Non aveva il braccio stanco. Non si sarebbe mai stancato. Ma la polizia sarebbe salita tra un attimo, e così l’equazione sarebbe cambiata.

“E tu un secondo dopo sarai morto.”

“Vero,” disse Brown. “Oppure potrei fare così.”

Con la mano libera lanciò una granata nel grembo di Becca.

Mentre Brown scappava, Luke mollò la pistola e si buttò sulla granata. In una serie di movimenti raccolse la granata, la lanciò verso il muro opposto della stanza, fece cadere le due sedie e spinse a terra sia Becca che Gunner.

Becca urlò.

Luke se li tenne lì, in modo brusco, non c’era tempo per le delicatezze. Li spinse sempre più vicini, salì loro sopra, li coprì col suo corpo e con il suo giubbotto. Cercò di farli sparire.

Per un secondo, non accadde nulla. Forse era solo un trucco. La granata era finta, e adesso l’uomo chiamato Brown avrebbe avuto la meglio su di lui. Li avrebbe uccisi tutti.

BUUUUUM!

Ecco l’esplosione, assordante nella stanza chiusa. Luke li tenne più vicini. Il pavimento tremò. Frammenti di metallo lo colpirono. Abbassò la testa. Gli venne lacerata la carne esposta del collo. Li coprì e li tenne fermi.

Passò un momento. La sua famigliola tremava sotto di lui, sconvolta dallo shock e dalla paura, ma viva.

Adesso era ora di uccidere quel bastardo. La Glock di Luke era sul pavimento accanto a lui. La afferrò e balzò in piedi. Si girò.

C’era un enorme buco frastagliato nel muro. Attraverso di esso, Luke vedeva la luce del giorno e il cielo azzurro. Vedeva l’acqua verde scuro della baia. E vedeva che l’uomo chiamato Brown se n’era andato.

Luke si avvicinò alla voragine da un angolo, usando i resti della parete per farsi scudo. I bordi erano un mix frastagliato di legno, cartongesso e isolamento in vetroresina a pezzi. Si aspettava di vedere un corpo a terra, possibilmente in molti pezzi sanguinolenti. No. Non c’era nessun corpo.

Per un secondo Luke pensò di vedere uno schizzo. Forse un uomo si era tuffato nella baia ed era sparito. Luke batté le palpebre per schiarirsi la vista, poi tornò a guardare. Non ne era sicuro.

Comunque, l’uomo chiamato Brown era sparito.




CAPITOLO TRE




21:03

Bethesda Navy Medical Center – Bethesda, Maryland


La luce del laptop sfarfallò nella semioscurità della stanza privata dell’ospedale. Luke era tutto curvo su una scomoda poltrona, a fissare lo schermo, con un paio di auricolari bianchi che lo collegavano al computer.

Era quasi senza fiato dalla gratitudine e dal sollievo. Gli faceva male il petto per aver rantolato in cerca d’aria per le ultime quattro o cinque ore. A volte aveva pensato di piangere, ma ancora non l’aveva fatto. Magari più tardi.

C’erano due letti nella stanza. Luke si era mosso dietro le quinte, e adesso Becca e Gunner erano distesi a letto, a dormire profondamente. Erano sotto sedativi, ma non aveva importanza. Nessuno dei due aveva dormito un secondo tra il momento in cui erano stati rapiti e quello in cui Luke era penetrato nel rifugio.

Avevano vissuto diciotto ore di assoluto terrore. Adesso erano incoscienti. E sarebbero rimasti incoscienti per un bel po’.

Nessuno dei due era rimasto ferito. È vero, si sarebbero portati dietro delle cicatrici emotive, ma fisicamente stavano bene. I cattivi non danneggiavano la merce. Forse c’era stata la mano di Don Morris, lì da qualche parte a proteggerli.

Pensò un attimo a Don. Adesso che gli eventi erano terminati, sembrava giusto farlo. Don era stato il più importante mentore di Luke. Da quando a ventisette anni Luke era entrato a far parte della Delta Force fino a quella mattina presto, dodici anni dopo, Don era stata una presenza costante nella vita di Luke. Quando Don aveva creato lo Special Response Team in seno all’FBI, aveva creato un posto per Luke. No, di più – lo aveva reclutato, lo aveva curato e coccolato, e lo aveva sottratto alla Delta.

Però a un certo punto Don era cambiato, e Luke mai se lo sarebbe aspettato. Don era stato tra i cospiratori che avevano cercato di rovesciare il governo. Un giorno Luke avrebbe potuto capire le motivazioni di Don, ma non oggi.

Sullo schermo di fronte a lui veniva trasmessa una sequenza live dalla sala multimediale piena zeppa di quella che chiamavano “la Nuova Casa Bianca.” La stanza aveva almeno cento posti a sedere. Aveva una pendenza graduale che scendeva dal fondo, come a rispecchiare una sala cinematografica. Tutti i posti erano occupati. Tutti i posti lungo la parete posteriore erano occupati. Dense folle di persone erano in piedi a entrambi i lati del palco.

Sullo schermo apparvero brevemente le immagini della dimora presidenziale. Era bellissima, una villa timpanata e con le torrette, nello stile di metà Ottocento della regina Anna, sulla proprietà dell’osservatorio navale di Washington, DC. Ed era davvero bianca, per la maggior parte.

Luke ne sapeva qualcosa. Per decenni era stata la residenza ufficiale della vicepresidente degli Stati Uniti. Adesso, e per il prossimo futuro, era la casa e l’ufficio della presidente.

Lo schermo tornò alla sala multimediale. Mentre Luke guardava salì sul podio la presidente stessa: Susan Hopkins, l’ex vicepresidente, che aveva prestato giuramento proprio quella mattina. Era la prima volta che si rivolgeva al popolo americano come presidente. Indossava un completo blu scuro e aveva i capelli biondi acconciati in un caschetto. Il completo sembrava ingombrante, il che significava che sotto indossava anche un giubbotto antiproiettile.

Aveva gli occhi allo stesso tempo severi e dolci – gli addetti stampa probabilmente le avevano detto di apparire arrabbiata, coraggiosa e speranzosa contemporaneamente. Un eccellente truccatore aveva coperto le bruciature che aveva in faccia. A meno che non si sapesse dove guardare, non si vedevano. Susan, come sempre era stata per tutta la sua vita, era la donna più bella della stanza.

Il suo curriculum era impressionante. Includeva supermodella teenager, giovane moglie di un miliardario della tecnologia, madre, senatrice degli Stati Uniti in California, vicepresidente e adesso, improvvisamente, presidente. Thomas Hayes, l’ex presidente, era morto in un ardente inferno sotterraneo da cui Susan stessa era stata fortunata a sopravvivere.

Luke il giorno prima le aveva salvato la vita – due volte.

Tolse il muto dal computer.

Era circondata da pannelli di vetro antiproiettile. Dieci agenti dei servizi segreti erano sul palco con lei. La folla di reporter nella stanza le stava facendo una standing ovation. Gli annunciatori televisivi parlavano sottovoce. La telecamera fece una panoramica, trovando così il marito di Susan, Pierre, e le loro due figlie.

Di nuovo sulla presidente: teneva le mani alzate, chiedendo il silenzio. Nonostante la sua stessa volontà, sorrise luminosa. La folla eruttò di nuovo. Quella era la Susan Hopkins che conoscevano loro: l’entusiasta reginetta eccessivamente zelante dei talk show giornalieri, delle cerimonie durante le quali si tagliavano nastri e dei raduni politici. Adesso le sue piccole mani si strinsero a pugno e le alzò sopra la testa, quasi come un arbitro che indica un touchdown. Il pubblico era rumoroso, e si fece ancora più rumoroso.

La telecamera fece una panoramica. La recidiva Washington, DC e i giornalisti nazionali, uno dei più stanchi gruppi di persone che l’uomo conosca, in piedi con gli occhi umidi. Alcuni piangevano apertamente. Luke scorse per un attimo Ed Newsam in un gessato scuro, appoggiato alle stampelle. Era stato invitato anche Luke, ma aveva preferito rimanere in quella stanza d’ospedale. Non avrebbe mai preso in considerazione l’idea di andare da qualsiasi altra parte.

Susan andò al microfono. Il pubblico si quietò abbastanza da sentirla. Mise le mani sul podio, come per recuperare l’equilibrio.

“Siamo ancora qui,” disse con la voce che tremava.

Ora la folla esplose.

“E la sapete una cosa? Non ce ne andremo da nessuna parte!”

Dagli auricolari uscì un rumore assordante. Luke abbassò il volume.

“Voglio…” disse Susan, e poi si fermò di nuovo. Aspettò. L’esultanza andò ancora avanti. Aspettò ancora. Si allontanò dal microfono, sorrise, e disse qualcosa all’altissimo agente dei servizi segreti che le stava accanto. Luke lo conosceva un po’. Si chiamava Charles Berg. Anche lui le aveva salvato la vita, ieri. Nel giro di diciotto ore, la vita di Susan era stata a rischio quasi senza soluzione di continuità.

Quando il rumore della folla si fu un po’ calmato, Susan tornò sul podio.

“Prima di parlare, voglio che facciate qualcosa con me,” disse. “Va bene? Voglio cantare ‘God Bless America.’ È sempre stata una delle mie canzoni preferite.” Le si spezzò la voce. “E voglio cantarla stasera. Volete cantare con me?”

La folla ruggì il suo assenso.

E poi lei cantò. Da sola, con vocina inesperta, cantò. Non c’era una famosa pop star con lei. Non c’erano musicisti di fama mondiale ad accompagnarla. Cantava, solo lei, davanti a una stanza piena di gente e con centinaia di milioni di persone che la guardavano in tutto il mondo.

“‘God bless America,’” cominciò. Sembrava una ragazzina. “‘Land that I love.’”

Era come osservare qualcuno camminare su un filo sospeso a grande altezza tra due edifici. Era un atto di fede. A Luke si strinse la gola.

La folla non la lasciò lì da sola. Istantaneamente prese a cantare. Delle voci migliori, più forti, si unirono alla sua. E lei le conduceva.

Fuori dalla sala buia, da qualche parte nel corridoio di un ospedale chiuso, la gente al lavoro prese a cantare.

Nel letto accanto a Luke, Becca si mosse. Aprì gli occhi e trasalì. Girò rapida la testa a sinistra e a destra. Sembrava sul punto di saltare giù dal letto. Vide Luke, ma i suoi occhi non mostrarono segno di averlo riconosciuto.

Luke si tolse gli auricolari. “Becca,” disse.

“Luke?”

“Sì.”

“Mi stringi?”

“Sì.”

Chiuse il laptop. Scivolò nel letto accanto a lei. Il suo corpo era caldo. Le fissò il viso, bello come quello di una top model. Lei si schiacciò contro di lui. Lui la tenne tra le sue forti braccia. La tenne vicina – quasi come se volesse diventare lei.

Questo era meglio che guardare la presidente.

In fondo al corridoio, e ovunque nel Paese, nei bar, nei ristoranti, nelle case e nelle automobili, il popolo cantava.




CAPITOLO QUATTRO




7 giugno

20:51

Galveston National Laboratory, campus dell’Università del Texas, Medicina – Galveston, Texas


“Lavori di nuovo fino a tardi, Aabha?” disse una voce dal Paradiso.

L’esotica donna dai capelli neri risultava quasi eterea nella sua bellezza. In effetti il suo nome era una parola hindi che significava bella.

Sussultò per la voce, e sobbalzò involontariamente. Si alzò in piedi, con addosso una bianca tuta ermetica di isolamento, nei recessi dell’edificio con livello 4 di biosicurezza del Galveston National Laboratory. La tuta che la proteggeva la rendeva anche simile a un’astronauta sulla luna. Odiava sempre indossarla. Vi si sentiva intrappolata. Ma era ciò che il suo lavoro richiedeva.

La tuta era attaccata a un tubo giallo che scendeva dal soffitto. Il tubo pompava continuamente aria pulita dall’esterno dell’edificio nella tuta di isolamento. Persino in caso di rottura della tuta la pressione positiva esercitata dalla pompa assicurava che l’aria del laboratorio non potesse entrarvi.

I BSL-4 erano i laboratori con la maggior sicurezza al mondo. Lì dentro gli scienziati studiavano organismi mortali e altamente infettivi che costituivano una seria minaccia alla sicurezza e alla salute pubbliche. Proprio in quel momento, nella sua mano guantata di azzurro, Aabha teneva nel palmo una fiala sigillata del virus più pericoloso noto all’uomo.

“Mi conosci,” disse. La tuta era provvista di un microfono che trasportava la sua voce all’addetto alla sicurezza che la osservava dal televisore a circuito chiuso. “Sono un animale notturno.”

“Lo so. Ti ho vista spesso qui in giro a ore molto più tarde di questa.”

Lei si immaginò l’uomo che la stava osservando. Si chiamava Tom. Era sovrappeso, di mezz’età, divorziato, credeva lei. Solo loro due, soli dentro a quel grande edificio vuoto di notte, e lui aveva molto poco da fare oltre che guardarla. Le dava i brividi pensarci su troppo.

Aveva appena preso la fiala dal freezer. Muovendosi con cautela si avvicinò alla cappa di sicurezza biologica, dove in circostanze normali avrebbe aperto la fiala per studiarne il contenuto.

Quella sera le circostanze non erano normali. Quella sera era il culmine di anni di preparazione. Quella sera era quella che gli americani chiamavano Caccia Grossa.

I suoi colleghi del laboratorio, incluso Tom il guardiano, pensavano che la giovane e bellissima donna si chiamasse Aabha Rushdie.

Non era così.

Pensavano che fosse nata in una famiglia benestante nella grande città di Delhi, nell’India del nord, e che la sua famiglia si fosse trasferita a Londra quando era una ragazzina. Era ridicolo. Non le era mai accaduto nulla del genere.

Pensavano che avesse preso il Ph.D. in microbiologia e che si fosse addestrata esaurientemente per i BSL-4 al King’s College di Londra. Non era vero neanche questo, ma avrebbe anche potuto esserlo. Ne sapeva abbastanza su come maneggiare batteri e virus quanto un qualsiasi candidato per il Ph.D. – se non di più.

La fiala che teneva in mano conteneva un campione liofilizzato del virus Ebola, che negli ultimi anni aveva portato tanto scompiglio in Africa. Se si fosse trattato semplicemente di un virus Ebola preso da una scimmia, da un pipistrello, o persino da una vittima umana… già così sarebbe stato molto, molto pericoloso da maneggiare. Ma c’era tanto altro da aggiungere a quella storia.

Aabha guardò l’orologio digitale sul muro. Le 20:54. Mancava un minuto. Le serviva solo un altro po’ di tempo.

“Tom?” disse.

“Sì?” disse la voce.

“Hai visto la presidente in tv ieri sera?”

“Sì.”

Aabha sorrise. “Che ne pensi?”

“Che ne penso? Be’, penso che abbiamo dei problemi.”

“Davvero? A me lei piace moltissimo. Penso che sia una grande donna. Al mio Paese…”

Nel laboratorio si spensero le luci. Accadde senza alcun preavviso – nessuno sfarfallio, nessun bip, niente di niente. Per parecchi secondi Aabha rimase in piedi nel buio assoluto. Il rumore dei forni a convenzione e delle apparecchiature elettriche, che era un costante ronzio di sottofondo nel laboratorio, rallentò fino a spegnersi. Poi ci fu il silenzio totale.

Aabha mise nella voce quella che sperava essere una giusta nota di allarme.

“Tom? Tom!”

“Va bene, Aabha, va tutto bene. Sto cercando di prendere… Che succede qui? Le telecamere sono spente.”

“Non lo so. Sto…”

Si accese una serie di luci gialle d’emergenza, e le ventole dei forni ripresero a girare. La luce bassa trasformò il laboratorio in un mondo inquietante e ombroso. Era tutto offuscato, eccetto che per le luci rosso brillante che dicevano USCITA luccicando nella semioscurità.

“Wow,” disse lei. “È stato spaventoso. Per un minuto il tubo dell’aria ha smesso di funzionare. Ma adesso si è riacceso.”

“Non so cosa sia successo,” disse Tom. “Stiamo usando l’energia di riserva su tutto l’edificio. Abbiamo dei generatori di scorta pieni che sarebbero dovuti entrare in funzione, ma non l’hanno fatto. Penso che una cosa del genere non sia mai accaduta prima. E sono ancora senza telecamere. Tu stai bene? Riesci a uscire?”

“Io sto bene,” disse. “Un po’ spaventata, ma bene. Le luci dell’uscita sono accese. Posso seguire quelle?”

“Sì. Ma devi seguire tutti i protocolli di sicurezza, anche al buio. La doccia chimica per la tuta, la doccia normale per te – tutto quanto. Oppure, se senti di non riuscire a seguire il protocollo, dobbiamo aspettare finché non riesco a mandarti giù qualcuno, o finché non torna la corrente.”

La voce di lei tremò appena appena. “Tom, mi si è spenta l’aria. Se si spegne ancora… Diciamo solo che non voglio trovarmi qui senza il tubo dell’aria. Potrei seguire il protocollo a occhi chiusi. Ma devo proprio uscire.”

“Okay. Tutte le procedure alla lettera, però. Mi fido di te. Ma non ho luce. Sembra che sia tutto al buio, fino all’uscita. La camera di equilibrio è rimasta fuori uso per un minuto, ma si è appena riattivata. Probabilmente la cosa migliore è che ti facciamo uscire per di là. Una volta attraversata la camera non dovresti avere problemi. Fammi sapere quando l’hai superata, okay? Voglio richiuderla per risparmiare energia.”

“Okay,” disse lei.

Si spostò lentamente nell’oscurità verso la porta d’uscita che portava alla camera di equilibrio, con la fiala del virus ancora nel palmo della mano destra guantata. Ci sarebbero voluti venti o trenta minuti per seguire tutte le procedure per l’uscita. Non sarebbe andata così. Aveva pianificato di fare il minimo indispensabile da lì in avanti. Sarebbe stata l’uscita dal laboratorio più veloce che avessero mai visto.

Tom le stava ancora parlando. “Per favore, assicurati anche di mettere in sicurezza tutti i materiali e tutta l’attrezzatura prima di uscire. Non vogliamo che qualcosa di pericoloso se ne vada a spasso.”

Aprì la prima porta e ci passò attraverso. Appena prima che si chiudesse, udì la sua voce per l’ultima volta.

“Aabha?” le disse.


*

Aabha guidava la BMW Z4 convertibile con il tettuccio tirato giù.

Era una serata calda, e voleva sentire il vento tra i capelli. Era la sua ultima notte a Galveston. Era la sua ultima notte come Aabha. Aveva portato a termine la missione affidatale, e dopo cinque lunghi anni di lavoro sotto copertura, quella parte della sua vita era finita.

Era una sensazione fantastica – levarsi di dosso un’identità come fosse stata un vestito. Era libertà, era euforia. Sentiva di poter essere la protagonista di una pubblicità televisiva.

Si era stancata della seria e studiosa Aabha molto tempo fa. Chi sarebbe diventata adesso? Era una domanda deliziosa.

Il viaggio fino al porto fu breve – erano poche miglia appena. Uscì dalla strada principale per scendere lungo la rampa di un parcheggio. Prese lo zaino per la notte e la borsa dal bagagliaio e lasciò le chiavi nel vano portaoggetti. Tra un’ora una donna che non aveva mai visto, ma che aveva lineamenti simili ad Aabha, sarebbe salita in macchina e se ne sarebbe andata. La macchina si sarebbe trovata a duecento miglia di distanza entro la mattina dopo.

La cosa la rendeva un pochino triste, perché quella macchina l’adorava.

Ma che cos’era una macchina? Niente di più di molte parti individuali, saldate e avvitate e assicurate insieme. Un’astrazione, in realtà.

Camminò sui tacchi alti per il porto. Le scarpe risuonavano sul terreno piastrellato. Superò la piscina, chiusa a quell’ora della sera, ma illuminata dall’alto da una spettrale luce azzurra. I tetti di paglia dei ripari dal sole per picnic frusciavano nella brezza. Scese la rampa fino al primo molo.

Da lì riusciva a vedere la grande barca brillare nella sera sull’acqua, ben al di là del più lontano raggio del dedalo di moli interconnessi. La barca, uno yacht transatlantico di settantasei metri, era decisamente troppo grande per avvicinarsi la porto. Era un hotel galleggiante, completo di discoteca, piscina con idromassaggio, palestra e del suo elicottero da quattro persone con pista d’atterraggio. Era un castello mobile, perfetto per un re moderno.

Lì al molo l’aspettava un piccolo motoscafo. Un uomo le offrì la mano per aiutarla a salire sulla murata e poi per farla scendere nella cabina di pilotaggio. Si sedette sul retro mentre l’uomo scioglieva la barca e poi la spingeva, e il conducente ingranava la marcia.

Avvicinarsi allo yacht sul motoscafo era come pilotare una capsula minuscola verso il molo della più gigantesca nave star destroyer dell’universo. Non attraccarono neanche. Il motoscafo si avvicinò alla parte posteriore dello yacht, e un altro uomo la aiutò a salire la scala a cinque pioli fin sulla porta. Quell’uomo era Ismail, il famoso assistente.

“Hai l’agente?” le chiese quando fu salita a bordo.

Lei fece un sorrisetto. “Ciao, Aabha, come stai?” disse. “È un piacere vederti. Sono contento che tu ne sia uscita indenne.”

Lui mosse la mano come per mimare una ruota che gira. Dai, dai. “Ciao, Aabha. Etc. etc. Hai l’agente?”

Lei prese dalla borsa la fiala piena del virus Ebola. Per un secondo ebbe una voglia improvvisa di gettarla nell’oceano. La esibì invece perché lui la ispezionasse. Lui la fissò.

“In quel piccolissimo contenitore,” disse. “Incredibile.”

“Ho dato cinque anni della mia vita per questo contenitore,” disse Aabha.

Ismail sorrise. “Sì, ma tra cent’anni la gente canterà canzoni sull’eroica ragazza di nome Aabha.”

Allungò una mano come se Aabha fosse sul punto di mettergli nel palmo la fiala.

“La do a lui,” disse.

Ismail si strinse nelle spalle. “Come desideri.”

Salì una rampa di scale illuminate di verde ed entrò nella cabina principale attraverso una porta in vetro. Nella gigantesca cabina contro una parete c’era un lungo bar, molti tavoli lungo i muri e una pista da ballo nel centro. Il suo capo usava la stanza per il divertimento. Aabha c’era stata quando era come un club di Berlino – solo posti in piedi, musica a volume così alto che i muri sembravano pulsare a ritmo, luci stroboscopiche, corpi schiacciati uno contro l’altro sulla pista. Adesso la stanza era silenziosa e vuota.

Si spostò su un corridoio con un tappeto rosso con mezza dozzina di scompartimenti privati su ogni lato, e poi percorse un’altra rampa di scale. Sulla cima c’era un altro corridoio. Si trovava nelle profondità della barca adesso, e stava andando ancor più in profondità. La maggior parte degli ospiti non era mai arrivata fin lì. Raggiunse la fine del corridoio e bussò alla grande porta doppia che vi trovò.

“Avanti,” disse una voce maschile.

Aprì la porta sinistra ed entrò. La stanza non aveva mai smesso di meravigliarla. Era la camera padronale, ubicata direttamente al di sotto della casa pilota. Dall’altra parte della stanza rispetto a dove si trovava lei c’era una finestra curva che andava dal pavimento al soffitto a 180 gradi, e che dava sul punto a cui si stava avvicinando la barca, così come su ciò che si trovava alla sua destra e alla sua sinistra. Spesso erano panorami del mare aperto.

Sul lato sinistro della stanza c’era un salottino con un grande sofà a sezioni a formare una zona festa. C’erano anche due poltrone, una tavola da pranzo per quattro e un enorme pannello televisivo piatto appeso al muro, con una lunga soundbar montata appena sotto. Un alto mobiletto in vetro pieno di liquori era vicino al muro, nell’angolo.

Alla sua destra c’era il letto enorme personalizzato, completo di specchio montato sul soffitto che lo sovrastava. Al proprietario della barca piaceva divertirsi, e il letto poteva contenere facilmente quattro persone, a volte cinque.

In piedi davanti al letto c’era il proprietario stesso. Indossava un paio di pantaloni bianchi in seta chiusi da un cordoncino, un paio di sandali ai piedi, e nient’altro. Era alto e moro. Forse aveva quarant’anni, con capelli sale e pepe e una barba corta che stava appena cominciando a farsi bianca. Era molto bello, con occhi marrone scuro.

Il suo corpo era slanciato, muscoloso, e perfettamente proporzionato in un triangolo capovolto – ampie spalle e un torace affusolato con gli addominali a tartaruga e la vita sottile, con gambe muscolose al di sotto. Sul pettorale sinistro c’era il tatuaggio di un cavallo nero gigante, un destriero arabo. L’uomo aveva una serie di destrieri, e li prendeva come suo simbolo personale. Erano forti, virili, regali – come lui.

Appariva in forma, in salute e ristorato, proprio come gli uomini ampliamente benestanti con facile accesso a personal trainer competenti, ai cibi migliori e a medici pronti a somministrare i precisi trattamenti ormonali per combattere il processo di invecchiamento. In una parola, era bellissimo.

“Aabha, mia adorabile, adorabile ragazza. Chi sarai dopo stasera?”

“Omar,” disse. “Ti ho preso un regalo.”

Sorrise. “Non ho mai dubitato di te. Nemmeno per un momento.”

Le fece cenno di avvicinarsi, e lei andò da lui. Gli porse la fiala, ma lui la mise sul tavolino accanto al letto quasi senza neanche guardarla.

“Dopo,” disse. “Possiamo pensarci dopo.”

La tirò a sé. Lei entrò nel suo forte abbraccio. Gli schiacciò il viso sul collo e sentì il suo profumo, il discreto odore della sua colonia sopra e il più profondo e più semplice odore di lui. Non era un patito della pulizia, quell’uomo. Voleva che sentissi il suo odore. Lei lo trovava eccitante, il suo odore. Di lui trovava tutto eccitante.

Lui la girò e la spinse a faccia in giù sul letto. Lei obbedì volontariamente, con impazienza. Un attimo dopo si contorceva mentre le mani di lui le toglievano i vestiti e vagavano per il suo corpo. La sua voce profonda le mormorava delle cose, parole che normalmente avrebbero potuto scioccarla, ma lì, in quella stanza, la fecero gemere di piacere animale.


*

Quando Omar si svegliò, era solo.

Era un bene. La ragazza conosceva le sue preferenze. Mentre dormiva non gli piaceva essere disturbato dai movimenti e dagli irritanti rumori altrui. Il sonno era riposo. Non un incontro di wrestling.

La barca si muoveva. Avevano lasciato Galveston, proprio come da programma, ed erano diretti verso la Florida passando per il golfo del Messico. A un certo punto, l’indomani, avrebbero attraccato vicino a Tampa, e la fialetta che gli aveva portato Aabha sarebbe sbarcata a terra.

Andò al tavolino e sollevò la fiala. Era solo una fialetta, fatta di spessa plastica indurita e bloccata in cima da un tappo rosso brillante. Il contenuto era anonimo. Sembrava poco più di una pila di polvere.

Eppure…

Toglieva il fiato! Possedere quel potere, il potere di vita e di morte. E non semplicemente il potere di vita e di morte su un’unica persona – il potere di uccidere molte, molte persone. Il potere di distruggere un intero popolo. Il potere di tenere nazioni in ostaggio. Il potere di guerra totale. Il potere della vendetta.

Chiuse gli occhi e respirò profondamente col diaframma, cercando la calma. Per lui era stato un rischio venire a Galveston di persona, nonché un atto non necessario. Ma aveva voluto esserci nel momento in cui un’arma del genere fosse passata nel novero dei suoi averi. Voleva toccare l’arma, e sentirne il potere nella mano.

Posò di nuovo la fiala sul tavolino, si mise i pantaloni e rotolò fuori dal letto. Indossò una maglietta del Manchester United e uscì sul ponte. La trovò lì, seduta comoda su una sedia a sdraio a fissare la notte, le stelle e la vasta acqua scura che li circondava.

Una guardia del corpo se ne stava zitta e tranquilla vicino alla porta.

Omar fece un cenno all’uomo, e questi si avvicinò alla ringhiera.

“Aabha,” disse Omar. Lei si voltò, e lui si accorse di quanto fosse assonnata.

Sorrise, e lui le sorrise a sua volta. “Hai fatto una cosa meravigliosa,” le disse. “Sono molto orgoglioso di te. Forse è ora che tu dorma.”

Annuì. “Sono stanchissima.”

Omar si curvò e le loro labbra si incontrarono. La baciò profondamente, assaporando il suo sapore e il ricordo delle curve del suo corpo, dei suoi movimenti, e dei suoi gemiti.

“Per te, tesoro mio, il riposo è decisamente meritato.”

Omar lanciò un’occhiata alla guardia. Era un uomo alto e forte. Lui prese una borsa di plastica dalla tasca della giacca, avvicinò la ragazza da dietro, e con un unico abile movimento le fece scivolare la borsa sulla testa e la strinse forte.

Istantaneamente il corpo di lei si fece elettrico. Si allungò all’indietro nel tentativo di graffiarlo e colpirlo. I piedi le saltarono in aria. Combatté, ma era impossibile. L’uomo era decisamente troppo forte. Aveva i polsi e gli avambracci tesi, con le vene che si increspavano e i muscoli che facevano il loro dovere.

Attraverso la borsa traslucida, il viso di lei divenne una maschera di terrore e disperazione, gli occhi spalancati. La bocca era una grossa O, una luna piena, che rantolava in cerca di aria senza trovarne. Risucchiava sottile plastica invece di ossigeno.

Il corpo le si tese, e divenne rigido. Era come un intaglio nel legno di donna, il corpo in pendenza, leggermente curvato all’indietro nel mezzo. Gradualmente cominciò a scendere. Si indebolì, calò, e poi si fermò del tutto. La guardia allora le permise di affondare lentamente di nuovo sulla sedia. Lui affondò con lei, guidandola. Adesso che era morta, la trattava con dolcezza.

L’uomo fece un respiro profondo e alzò lo sguardo su Omar.

“Cosa devo farne?”

Omar fissò la notte buia.

Era un peccato uccidere una ragazza tanto brava come Aabha, ma era macchiata. A un certo punto, presto, forse addirittura l’indomani mattina, gli americani avrebbero scoperto che il virus era sparito. Subito dopo avrebbero scoperto che Aabha era stata l’ultima persona a mettere piede nel laboratorio, e che si trovava lì quando era mancata la luce.

Sarebbero giunti alla conclusione che la mancanza di elettricità era dovuta a un cavo sotterraneo tagliato deliberatamente, e che il mancato funzionamento dei generatori di scorta era il risultato di un attento sabotaggio condotto molte settimane prima. Avrebbero cercato disperatamente Aabha, avrebbero fatto una ricerca senza regole, e non avrebbero mai dovuto trovarla.

“Fatti aiutare da Abdul. Ha dei secchi vuoti e del cemento a presa rapida nell’armadietto dell’attrezzatura, nella stanza dei motori. Portala lì. Appesantiscila con un secchio di cemento attorno ai piedi e ai polpacci, e gettala nel punto più profondo del mare. Un migliaio di piedi di profondità o più, per cortesia. I dati sono subito disponibili, vero?”

L’uomo annuì. “Sì, signore.”

“Perfetto. In seguito fa’ lavare tutte le mie lenzuola, i cuscini e le coperte. Dobbiamo stare attenti a distruggere tutte le prove. Nell’ipotesi molto improbabile che gli americani assaltino la barca, non voglio avere nei miei paraggi il DNA della ragazza.”

L’uomo annuì. “Certamente.”

“Benissimo,” disse Omar.

Lasciò la sua guardia del corpo con il cadavere e tornò nella camera padronale. Era ora di fare un bagno caldo.




CAPITOLO CINQUE




10 giugno

11:15

Contea di Queen Anne, Maryland – Spiaggia orientale della baia di Chesapeake


“Be’, magari dovremmo solo vendere la casa,” disse Luke.

Stava parlando della loro vecchia casa di campagna sul litorale, a venti minuti di strada da dove si trovavano in quel momento. Luke e Becca avevano preso in affitto un’altra casa, molto più spaziosa e moderna, per le due settimane seguenti. A Luke la nuova casa piaceva di più, ma erano lì solo perché Becca non sarebbe mai tornata a casa loro.

Capiva la sua riluttanza. Ovvio che la capiva. Quattro notti prima sia Becca che Gunner erano stati rapiti, in quella casa. Luke non era lì a proteggerli. Avrebbero potuto essere uccisi. Sarebbe potuto succedere di tutto.

Diede un’occhiata alla grande e luminosa finestra della cucina. Gunner era fuori in jeans e t-shirt a fare un gioco immaginario, come ogni tanto fanno i bambini di nove anni. Tra pochi minuti Gunner e Luke avrebbero tirato fuori la barca a vela per andare a pesca.

Vedere suo figlio gli diede una stilettata di terrore.

E se Gunner fosse rimasto ucciso? E se entrambi fossero semplicemente scomparsi, per sempre? E se tra due anni Gunner non avesse più fatto giochi immaginari? Luke aveva una baraonda in testa.

Sì, era stato orribile. Sì, non sarebbe mai dovuto accadere. Ma c’erano problemi più importanti. Luke e Ed Newsam e una manciata di persone avevano bloccato un violento tentativo di colpo di Stato, e avevano reinstallato ciò che era rimasto del governo degli Stati Uniti eletto democraticamente. Era possibile che avessero salvato la democrazia americana stessa.

Era stata una bella cosa, ma Becca non sembrava interessata ai problemi più importanti in quel momento.

Sedeva al tavolo della cucina in un abito celeste, a bere la sua seconda tazza di caffè. “È facile dirlo per te. Quella casa appartiene alla mia famiglia da cent’anni.”

Rebecca aveva i capelli lunghi che le ricadevano sulle spalle. Aveva gli occhi azzurri, incorniciati da folte ciglia. Per Luke il suo bel viso era magro e tirato. Gli dispiaceva. Gli dispiaceva per tutto, ma non riusciva a pensare a qualcosa da dire che potesse migliorare le cose.

Una lacrima le rotolò giù per la guancia. “Lì c’è il mio giardino, Luke.”

“Lo so.”

“Non posso lavorare nel mio giardino perché ho paura. Ho paura di casa mia, la casa alla quale torno da quando sono nata.”

Luke non disse nulla.

“E il signore e la signora Thompson… sono morti. Lo sai, no? Quegli uomini li hanno uccisi.” Guardò tagliente Luke. Aveva gli occhi cattivi. Becca aveva la tendenza ad arrabbiarsi con lui, a volte per questioni davvero minori. Si dimenticava di fare i piatti, o di portar fuori la spazzatura. Quando lei si arrabbiava, aveva negli occhi sempre uno sguardo simile a quello di adesso. Luke tra sé e sé lo chiamava lo Sguardo che incolpa. E per Luke, in quel momento, lo Sguardo che incolpa era troppo.

Riportò alla mente una breve immagine dei suoi vicini, il signore e la signora Thompson. Se a Hollywood avessero dovuto ingaggiare una gentile e anziana coppietta della porta accanto, i Thompson sarebbero stati perfetti per il ruolo. A lui piacevano i Thompson, e non avrebbe mai voluto che le loro vite finissero così. Ma quel giorno erano morte molte persone.

“Becca, non li ho uccisi io i Thompson. Okay? Mi dispiace che siano morti, e mi dispiace che tu e Gunner siate stati rapiti – me ne dispiacerò per il resto della vita e farò tutto ciò che posso per sistemare le cose con voi due. Ma non sono stato io. Non ho ucciso i Thompson. Non ho mandato delle persone a rapirvi. Sembri aver confuso le cose, e questo proprio non mi va.”

Fece una pausa. Era un buon momento per smettere di parlare, ma non smise. Le parole gli uscirono in torrenti.

“Tutto quello che ho fatto è stato farmi strada in una tormenta di proiettili e bombe. Hanno cercato di uccidermi per tutto il giorno e per tutta la notte. Mi hanno sparato, sono saltato per aria, sono stato mandato fuori strada. E ho salvato la presidente degli Stati Uniti, la tua presidente, da morte praticamente certa. Questo ho fatto.”

Respirò pesantemente, come se avesse appena fatto una corsa.

Si pentì di tutto. Che fosse la verità. Lo feriva pensare che il lavoro che faceva le avesse causato del dolore, lo feriva più di quanto lei avrebbe mai saputo. Aveva lasciato il suo lavoro l’anno precedente proprio per quella ragione, ma era stato richiamato per una sola notte – una notte che si era trasformata in una notte, un giorno, un’altra notte incredibilmente lunga. Una notte durante la quale aveva pensato di aver perso per sempre la sua famiglia.

Becca non si fidava più di lui. Lui lo vedeva bene. La sua sola presenza la spaventava. Lui era la ragione di quello che era accaduto. Era spericolato, fanatico, e avrebbe fatto ammazzare lei e suo figlio.

Le lacrime le scendevano silenziose lungo il viso. Passò un lungo minuto.

“Ha poi importanza?” gli disse.

“Che cosa?”

“Ha importanza chi è presidente? Se io e Gunner fossimo morti, ti importerebbe davvero di chi è presidente?”

“Ma siete vivi,” disse. “Non siete morti. Siete vivi e vegeti. C’è una bella differenza.”

“Okay,” disse lei. “Siamo vivi.” Era un’intesa che non era un’intesa.

“Voglio dirti una cosa,” disse Luke. “Lascio. Non ho intenzione di farlo più. Nei prossimi giorni magari avrò qualche riunione a cui partecipare, ma non prenderò più nessun incarico. Ho fatto la mia parte. Adesso ho finito.”

Lei scosse la testa, ma appena appena. Era come se non avesse neanche l’energia di muoversi. “Me l’hai già detto in passato.”

“Sì. Ma questa volta dico sul serio.”


*

“Tieni sempre la barca in equilibrio.”

“Okay,” disse Gunner.

Lui e il padre caricavano l’attrezzatura. Gunner indossava i jeans, una t-shirt e un grande e floscio cappello da pescatore per ripararsi il viso dal sole. Aveva anche un paio di occhiali da sole Oakley che gli aveva dato il padre perché erano fighi. Suo padre ne indossava un paio identico.

La t-shirt andava bene – era di 28 giorni dopo, un filmetto carino di zombie con gli inglesi. Il problema della maglietta era che non aveva veri e propri zombie disegnati sopra. C’era solo il simbolo rosso del rischio biologico su sfondo nero. Immaginò che avesse senso. Gli zombie del film non erano davvero dei non-morti. Erano persone infettate da un virus.

“Metti di traverso il frigo portatile,” gli disse il padre.

Suo padre conosceva tutte queste parole strane che usava ogni volta che andavano a pescare. A volte facevano ridere Gunner. “Di traverso!” urlò. “Signorsì, capitano.”

Suo padre spostò la mano per mostrargli dove voleva che lo mettesse; nel mezzo, di lato, non vicino al parapetto posteriore dove Gunner l’aveva invece messo. Gunner fece scivolare il grosso frigo azzurro al suo posto.

Rimasero lì, a fissarsi l’uno con l’altro. Suo padre gli rivolse un’occhiata buffa da dietro gli occhiali. “Come stai, figliolo?”

Gunner esitò. Sapeva che era preoccupato per lui. L’aveva sentito sussurrare il suo nome, la notte precedente. Ma stava bene. Davvero. Era stato spaventato, ed era ancora un po’ spaventato. Aveva anche pianto molto, il che andava bene. Si doveva piangere, ogni tanto. Non si doveva tenere tutto dentro.

“Gunner?”

Be’, poteva anche parlarne.

“Papà, a volte tu uccidi persone, vero?”

Suo padre annuì. “A volte lo faccio, sì. Fa parte del mio lavoro. Ma uccido solo i cattivi.”

“Come fai a sapere che sono cattivi?”

“A volte è difficile capirlo. E a volte è facile. I cattivi fanno male alle persone che sono più deboli, oppure a persone innocenti che pensano solo ai fatti loro. Il mio lavoro consiste nell’impedir loro di farlo.”

“Come gli uomini che hanno ucciso il presidente?”

Il padre annuì.

“Li hai uccisi?”

“Ne ho uccisi alcuni, sì.”

“E quelli che hanno rapito me e la mamma? Hai ucciso anche loro, vero?”

“Sì, li ho uccisi.”

“Sono contento che tu l’abbia fatto, papà.”

“Anch’io, mostriciattolo. Erano proprio il tipo di uomini che è giusto uccidere.”

“Sei tu il miglior killer del mondo?”

Suo padre scosse la testa e sorrise. “Non lo so, campione. Non credo che ci diano punti. Non è uno sport. Non c’è un campione mondiale dell’omicidio. In ogni caso, non lo farò più. Voglio trascorrere più tempo con te e con la mamma.”

Gunner ci pensò su. In tv aveva visto un notiziario su suo padre, il giorno prima. Era un servizio molto breve, ma c’erano la foto e il nome del padre, e un video di quando era più giovane e stava nell’esercito. Luke Stone, agente della Delta Force. Luke Stone, Special Response Team dell’FBI. Luke Stone e la sua squadra hanno salvato il governo degli Stati Uniti.

“Sono orgoglioso di te, papà. Anche se non sarai mai il campione mondiale.”

Suo padre rise. Fece un cenno in direzione del molo. “Okay; siamo pronti?”

Gunner annuì.

“Andiamo al largo, buttiamo l’ancora, vediamo se troviamo un po’ di persici spigola sulla bassa marea.”

Gunner annuì. Si allontanarono dal molo per spostarsi lentamente attraverso la zona in cui si doveva procedere a velocità ridottissima. Si preparò quando la barca prese velocità.

Gunner scrutava l’orizzonte davanti a loro. Era l’osservatore, e doveva tenere gli occhi bene aperti, come a suo padre piaceva dire. Erano usciti a pesca insieme tre volte quella primavera, ma non avevano preso niente. Quando si andava a pescare e non si prendeva niente, papà diceva che erano “in magra”. Adesso erano decisamente in magra.

Poco dopo Gunner vide degli spruzzi a mezza via del fianco di tribordo. C’erano delle sterne che si tuffavano, gettandosi in acqua come bombe.

“Ehi, guarda!”

Il padre annuì e sorrise.

“Persici spigola?”

Il padre scosse la testa. “Pesce serra.” E poi disse, “Aspetta.”

Accelerò e poco dopo schiumavano, correvano, sempre prendendo velocità, mentre la barca si metteva in piano e Gunner quasi veniva buttato all’indietro. Un attimo dopo andavano con calma per la forte rapida, la barca si immerse e si risistemarono sulle lunghe onde.

Gunner afferrò due lunghe canne da pesca con uncini singoli. Ne porse una al padre e poi lanciò la sua senza aspettare. Quasi istantaneamente si sentì strattonare forte. Adesso nella canna c’era un vigore selvaggio, che vibrava di vita. Una forza invisibile quasi gliela strappò dalle mani. Il filo si spezzò e si afflosciò. Il pesce serra si era liberato. Si girò per dirlo al padre, ma anche lui adesso era preso dalla canna, che era piegata in due.

Gunner prese una rete e si preparò. Il pesce serra – argentato e azzurro e verde e bianco e molto, molto arrabbiato, fu issato dall’acqua fin sull’abitacolo.

“Bel pesce.”

“Finalmente!”

Il pesce cadde di peso sul ponte, preso nella maglia verde della rete.

“Lo teniamo?”

“No. Ci ha liberato dalla magra, ma siamo qui per i persici spigola. I pesci serra sono forti, ma i persici spigola sono più grossi, e poi grigliati vengono meglio.”

Liberarono il pesce – Gunner osservò il padre agguantare il pesce che ancora si dimenava e contorceva e rimuovere l’uncino, con le dita a pochi centimetri da quei famelici denti. Suo padre gettò il pesce oltre la sponda, dove con una rapida frustata della coda si tuffò nelle profondità dell’oceano.

Non appena fu scomparso il telefono di suo padre prese a suonare. Lui sorrise e guardò il telefono. Poi lo mise da parte. Vibrava e vibrava. Dopo un po’ smise. Passarono dieci secondi prima che ricominciasse.

“Non rispondi?” disse Gunner.

Scosse la testa. “No. Anzi, lo spengo.”

Gunner sentì un’improvvisa paura nello stomaco. “Papà, ma devi rispondere. E se è un’emergenza? E se i cattivi stanno tornando?”

Suo padre lo fissò per un lungo secondo. Il telefono aveva smesso di vibrare. Poi ricominciò. Rispose.

“Stone,” disse.

Fece una pausa e il suo viso si oscurò. “Ciao, Richard. Sì, il capo dello staff di Susan. Certo. Ho sentito parlare di te. Be’, senta. Lo sa che mi sto prendendo del tempo per me, no? Non ho nemmeno deciso se faccio ancora parte dello Special Response Team, o in qualsiasi modo si chiami adesso. Sì, lo capisco, ma c’è sempre qualcosa di urgente. Non capita mai che mi chiamino a casa per dirmi che non è urgente. Okay… okay. Se la presidente a questa riunione ci tiene davvero, mi può chiamare di persona. Sa dove trovarmi. Okay? Grazie.”

Quando riappese, Gunner lo osservò.  Non sembrava che si stesse divertendo quanto si divertiva appena un minuto prima. Gunner sapeva che se chiamava la presidente, suo padre avrebbe fatto di corsa i bagagli per andarsene da qualche parte. Un’altra missione, magari altri cattivi da uccidere. E avrebbe lasciato lui e sua madre di nuovo a casa da soli.

“Papà, ti chiamerà la presidente?”

Il padre gli scompigliò i capelli. “Mostriciattolo, di certo spero di no. Adesso che dici? Andiamo a prendere qualche persico spigola.”


*

Ore dopo, la presidente non aveva ancora chiamato.

Luke e Gunner avevano preso tre bei persici spigola, e Luke mostrò a Gunner come eviscerarli, pulirli e tagliarli in filetti. Non era una novità, ma è con la ripetizione che si apprende. Si era aggiunta anche Becca, che aveva portato una bottiglia di vino sul patio e un piatto di formaggio e cracker sulla tavola.

Luke stava accendendo la griglia quando suonò il telefono.

Guardò la sua famiglia. Erano raggelati al primo squillo. Lui e Becca si scambiarono uno sguardo. Lui non riusciva più a leggere i suoi occhi. Qualunque cosa dicessero, non si trattava di un sostegno. Rispose al telefono.

Una voce profonda, di uomo: “Agente Stone?”

“Sì.”

“La prego di attendere in linea la presidente degli Stati Uniti.”

Rimase lì ottuso, ad ascoltare il vuoto.

Si sentì un click e arrivò lei. “Luke?”

“Susan.”

La mente gli ritornò un’immagine della donna, a guidare tutto il Paese, e la maggior parte del mondo, cantando “God Bless America.” Era stato un momento fantastico, ma era tutto ciò che era – un momento. Ed era il tipo di cosa che i politici erano bravi a fare. Era praticamente un trucchetto da salotto.

“Luke, abbiamo per le mani una crisi.”

“Susan, abbiamo sempre una crisi per le mani.”

“In questo momento ci sono dentro fino al collo.”

Ottimo. Era da un po’ che non sentiva un’espressione del genere.

“Faremo una riunione. Qui a casa. Ho bisogno che venga anche lei.”

“Quand’è la riunione?”

Non esitò. “Tra un’ora.”

“Susan, con il traffico sono a due ore di distanza. In una giornata buona. Adesso la metà delle strade è ancora chiusa.”

“Non se ne starà in mezzo al traffico. Sta arrivando un elicottero. Sarà lì tra quattordici minuti.”

Luke guardò di nuovo la sua famiglia. Becca si era versata un bicchiere di vino e sedeva dandogli le spalle, fissando il sole del tardo pomeriggio che affondava nell’acqua. Gunner fissava il pesce sulla griglia.

“Okay,” disse Luke al telefono.




CAPITOLO SEI




18:45

Osservatorio navale degli Stati Uniti – Washington, DC


“Agente Stone, io sono Richard Monk, il capo dello staff della presidente. Abbiamo parlato al telefono, prima.”

Luke era sceso sull’elisuperficie dell’osservatorio navale da cinque minuti. Strinse la mano del tizio alto e in forma di poco meno di quarant’anni, probabilmente dell’età sua. L’uomo indossava una camicia azzurra con le maniche arrotolate sugli avambracci. La cravatta pendeva sbilenca. La parte alta del corpo era rigorosamente muscolosa, come in una pubblicità di Men’s Health. Lavorava duro e giocava duro – questo diceva il look di Richard Monk a chiunque avesse voglia prestare orecchio.

Percorsero il corridoio di marmo della Nuova Casa Bianca verso le ampie porte doppie in fondo. “Abbiamo adattato la nostra vecchia sala conferenze a sala operativa,” disse Monk. “Ci stiamo ancora lavorando, ma ce la faremo.”

“È fortunato a essere vivo, vero?” disse Luke.

La maschera di sicurezza sul viso dell’uomo vacillò, solo per un secondo. Annuì. “Io e la vice… Be’, all’epoca era vicepresidente. Io e la presidente e parte dello staff eravamo sulla costa occidentale quando il presidente Hayes l’ha riconvocata all’est. È stato molto improvviso. Io sono rimasto indietro, a Seattle, con pochi altri per mettere a posto le cose. Quando è accaduto quel che è accaduto a Mount Weather…”

Scosse la testa. “È troppo orribile. Però sì, avrei potuto rimanerci anch’io.”

Luke annuì. Giorni dopo il disastro stavano ancora estraendo corpi da Mount Weather. Trecento finora, e sarebbero aumentati. Tra di loro c’erano l’ex segretario di Stato, l’ex segretario dell’educazione, l’ex segretario degli interni, il capo della NASA e dozzine di altri rappresentanti e senatori degli Stati Uniti.

I vigili del fuoco avevano spento l’incendio sotterraneo principale solo ieri.

“Qual è la crisi per cui Susan mi ha fatto venire qui?” disse Luke.

Monk fece un cenno in direzione della fine del corridoio. “Ah, la presidente Hopkins è nella sala conferenze, insieme ad alcuni membri chiave dello staff. Penso che lascerò che siano loro a dirle che sta accadendo.”

Superarono le doppie porte ed entrarono nella stanza. Erano già sedute a una grande tavola ovale più di una dozzina di persone. Susan Hopkins, la presidente degli Stati Uniti, sedeva nel punto più lontano dalla porta. Era piccola, quasi dimessa, circondata da grossi uomini. Due agenti dei servizi segreti le stavano accanto, da una parte e dall’altra, in piedi. Altri tre erano in vari angoli della stanza.

Un uomo dall’aria nervosa era in piedi in testa al tavolo. Era alto, con una calvizie incipiente, un po’ grasso, portava gli occhiali e un completo della taglia sbagliata. Luke lo valutò in un paio di secondi. Quella non era la sua sede normale, e credeva di essere in guai seri. Sembrava che lo avessero già torchiato in tutti i modi.

Susan si alzò. “Prima di cominciare, voglio presentare a tutti l’agente Luke Stone, ex membro dello Special Response Team dell’FBI. Qualche giorno fa mi ha salvato la vita, ed è stato determinante per salvare la Repubblica per come la conosciamo. Non sto esagerando. Non credo di aver mai conosciuto prima un agente tanto preparato, esperto e coraggioso di fronte alle avversità. È un vanto per la nostra nazione, per le nostre forze armate e per la nostra intelligence il fatto che identifichiamo e addestriamo uomini e donne come l’agente Stone.”

Ora si alzarono tutti per applaudire. Alle orecchie di Luke l’applauso sembrava artefatto e formale. Queste persone dovevano applaudire. La presidente voleva che lo facessero. Alzò la mano, cercando di farle smettere. La situazione era assurda.

“Salve,” disse quando l’applauso terminò. “Scusate il ritardo.”

Luke sedette su un posto vuoto. L’uomo in piedi lo fissò direttamente. Adesso Luke non sapeva che cosa ci fosse in quegli occhi. Speranza? Forse. Sembrava un quarterback disperato sul punto di lanciargli addosso un Ave Maria.

“Luke,” disse Susan. “Questo è il dottor Wesley Drinan, direttore del Galveston National Laboratory all’università del Texas, medicina. Ci aggiornerà su una possibile violazione della sicurezza avvenuta al livello 4 di biosicurezza.”

“Ah,” disse Luke. “Benissimo.”

“Agente Stone, se ne intende di laboratori al livello 4 di biosicurezza?”

“Mi chiami pure Luke,” disse. “Li ho sentiti nominare. Magari mi può spiegare tutto velocemente, comunque.”

Drinan annuì. “Ma certo. Le faccio la presentazione di trenta secondi. I laboratori BSL-4 sono il più alto livello di sicurezza quando si trattano agenti biologici. Il BSL-4 è il livello richiesto per lavorare con virus e batteri pericolosi ed esotici che comportano un alto rischio di infezioni contratte in laboratorio, così come di quelle che causano malattie gravi e/o mortali negli esseri umani. Queste sono malattie per cui al momento non sono disponibili né vaccini né altri trattamenti. In generale sto parlando di ebola, margur e altri virus emorragici emergenti che stiamo scoprendo nelle regioni profonde dell’Africa e del Sudamerica. A volte ci occupiamo anche di virus dell’influenza mutati finché non capiamo i loro meccanismi di trasmissione, indici di infezione, indici di mortalità, etc.”

“Okay,” disse Luke. “Ho capito. Ed è stato rubato qualcosa?”

“Non lo sappiamo. Manca qualcosa. Ma non sappiamo che cosa è accaduto.”

Luke non parlò. Semplicemente annuì all’uomo che continuava a parlare.

“Due sere fa abbiamo avuto una caduta di corrente. Già questo è raro. Ancor più raro è il fatto che i generatori di emergenza non si siano accesi immediatamente. Stando alla progettazione dell’edificio, in caso di blackout ci dovrebbe essere un cambio senza interruzioni dall’energia centrale a quella di scorta. Così non è stato. Invece l’edificio è passato alle riserve di emergenza, che consistono in uno stato di bassa energia che tiene in vita solo i sistemi essenziali.”

“Che genere di sistemi non essenziali si sono spenti?” chiese Luke.

Drinan fece spallucce. “Le cose che può immaginare. Luci. Computer. Telecamere.”

“Telecamere di sicurezza?”

“Sì.”

“Dentro all’edificio?”

“Sì.”

“Dentro c’era qualcuno?”

L’uomo annuì. “In quel momento dentro c’erano due persone. Una era un addetto alla sicurezza che si chiama Thomas Eder. Lavora all’edificio da quindici anni. Era alla postazione di guardia, non all’interno dell’edificio di isolamento. Gli abbiamo parlato, così come ha fatto la polizia e il Bureau of Investigation del Texas. È stato cooperativo.”

“Chi altro c’era?”

“Ehm, c’era una scienziata, nella zona di isolamento. Si chiama Aabha Rushdie. Viene dall’India. È una bellissima persona e una bravissima scienziata. Ha studiato a Londra, ha superato diversi addestramenti per i BSL-4 e ha tutte le autorizzazioni di sicurezza necessarie. È con noi da tre anni e io ho lavorato direttamente con lei in diverse occasioni.”

“Okay…” disse Luke.

“Quando è mancata la corrente, l’aria temporaneamente ha smesso di arrivare attraverso il tubo. Si tratta di una situazione potenzialmente pericolosa. È rimasta anche nell’oscurità più assoluta. Si è spaventata, e pare che Thomas Eder le abbia permesso di uscire dall’edificio senza seguire tutti i protocolli di sicurezza richiesti.”

Luke sorrise. Sembrava facile. “E poi è sparito qualcosa?”

Drinan esitò. “Il giorno seguente con un inventario è venuto fuori che mancava una fiala di uno specifico virus Ebola.”

“Qualcuno ha parlato con questa Rushdie?”

Drinan scosse la testa. “È sparita anche lei. Ieri un allevatore ha trovato la sua auto su una proprietà isolata nella zona collinare a cinquanta miglia a ovest di Austin. La polizia di Stato dice che macchine abbandonate così indicano spesso che siamo in presenza di un crimine. La ragazza non è nel suo appartamento. Abbiamo cercato di contattare la sua famiglia a Londra, senza fortuna.”

“Avrebbe avuto delle ragioni per rubare il virus Ebola?”

“No. È impossibile da credere. Ho lottato con la questione per due giorni. La Aabha che conosco io non è una persona che… non riesco neanche a dirlo. Ma non è così. Non capisco che cosa stia accadendo. Temo che possa essere stata rapita o che possa essere caduta in mani criminali. Sono senza parole.”

“E non abbiamo ancora raggiunto la parte peggiore,” disse bruscamente Susan Hopkins. “Dottor Drinan, può parlare all’agente Stone del virus, per favore?”

Il buon dottore annuì. Guardò Stone.

“Il virus è stato modificato a scopi militari. È simile a quello che troviamo in natura, come l’ebola che ha ucciso diecimila persona durante l’epidemia dell’Africa occidentale, però peggio. È più virulento, ad azione più veloce, può essere trasmesso più facilmente e ha un indice di mortalità più alto. È una sostanza molto pericolosa. Dobbiamo recuperarlo o distruggerlo o determinare con certezza che è già stato distrutto.”

Luke si voltò verso Susan.

“Vogliamo che lei vada là sotto,” gli disse lei. “A vedere che cosa riesce a scoprire.”

Erano le precise parole che Luke non voleva sentire. Al telefono lei lo aveva invitato a una riunione. Ma lo aveva portato lì per affidargli una missione.

“Mi chiedo,” disse Luke, “se possiamo parlarne in privato.”


*

“Possiamo portarle qualcosa?” disse Richard Monk. “Un caffè?”

“Certo, un caffè, grazie,” disse Luke.

Non gli sarebbe dispiaciuto un po’ di caffè in quel momento, ma più che altro aveva accettato l’offerta perché pensava che così avrebbe costretto Monk a lasciare la stanza. Errore. Monk si limitò a prendere un telefono per ordinare qualcosa dalla cucina che si trovava al piano di sotto.

Luke, Monk e Susan si trovavano in una stanza al piano di sopra vicino alla zona abitabile. Luke sapeva che la famiglia di Susan non viveva lì. Quando era vicepresidente non le aveva prestato molta attenzione, ma si era comunque fatto l’idea che lei e suo marito fossero separati.

Luke si appoggiò allo schienale della comoda poltrona. “Susan, prima di cominciare voglio dirle una cosa. Ho deciso di ritirarmi, con effetto immediato. Glielo dico io prima che lo faccia chiunque altro, in modo che possa trovare qualcun altro da mettere a capo dell’SRT.”

Susan non parlò.

“Stone,” disse Monk, “adesso può anche saperlo. Lo Special Response Team è pronto per la decapitazione. È finito. Don Morris è stato coinvolto nel colpo di Stato fin dall’inizio. È almeno in parte responsabile di una delle peggiori atrocità che abbiano mai avuto luogo sul suolo americano. Ed è stato lui a creare lo Special Response Team. Sono certo che può capire che la sicurezza, soprattutto la sicurezza della presidente, è la cosa più importante sul nostro radar al momento. Non si tratta solo dell’SRT. Stiamo indagando sub-agenzie sospette nella CIA, nell’NSA e al Pentagono, tra le altre. Dobbiamo sradicare i cospiratori, in modo che non accada mai più una cosa del genere.”

“Capisco le vostre preoccupazioni,” disse Luke.

E le capiva davvero. Il governo era fragile al momento, forse più fragile di quanto lo fosse mai stato. Il Congresso era stato spazzato via quasi interamente, e una ex top model era stata elevata alla Presidenza. Gli Stati Uniti aveva dimostrato di avere i piedi di argilla, e se c’erano in giro altri cospiratori non c’era motivo di pensare che non avrebbero fatto un altro tentativo di riprendere il potere.

“Se avete comunque intenzione di eliminare l’SRT, per me è il momento perfetto per andarmene.” Più diceva cose del genere, più gli diventavano reali.

Era ora di rimettere insieme la sua famiglia. Era ora di ricreare il luogo idilliaco della sua mente in cui lui, Becca e Gunner sarebbero potuti stare in pace, lontano da preoccupazioni del genere, dove anche se fosse accaduto il peggio non avrebbe avuto chissà quale importanza.

Diamine, magari sarebbe solo dovuto andare a casa a chiedere a Becca se voleva trasferirsi in Costa Rica. Gunner poteva diventare bilingue. Potevano vivere sulla spiaggia. Becca poteva avere un giardino esotico. Luke poteva fare surf un paio di volte a settimana. La costa occidentale del Costa Rica aveva alcune tra le migliori onde delle Americhe.

Susan parlò per la prima volta. “È un pessimo momento perché se ne vada. Il tempismo non potrebbe essere peggiore. Il suo Paese ha bisogno di lei.”

La guardò. “La sa una cosa, Susan? Non è vero. Lo pensa perché sono quello che per caso ha visto in azione. Ci sono milioni di persone come me. Ci sono persone più capaci di me, con più esperienza, più quadrate. Lei pare non saperlo, ma alcuni pensano che io sia una testa calda.”

“Luke, non può lasciarmi così,” disse lei. “Barcolliamo sull’orlo di un disastro. Sono incastrata in un ruolo che non… non me lo aspettavo. Non so di chi fidarmi. Non so chi è buono e chi è cattivo. Quasi mi aspetto di girare l’angolo e beccarmi un proiettile in testa. Devo avere intorno la mia gente. Gente alla quale posso rimettere tutta la mia fiducia.”

“Io faccio parte di questa gente?”

Lo guardò direttamente negli occhi. “Lei mi ha salvato la vita.”

Richard Monk si intromise nella conversazione. “Stone, quello che non sa è che l’Ebola è replicabile. Alla riunione non se n’è parlato. Wesley Drinan ci ha detto in confidenza che è possibile che persone con le giuste attrezzature e conoscenze possano farne dell’altro. L’ultima cosa che ci serve è uno sconosciuto gruppo di persone che se ne va a spasso con il virus Ebola utilizzabile come arma, cercando di farne delle scorte.”

Luke guardò di nuovo Susan.

“Accetti il lavoro,” disse Susan. “Scopra cos’è accaduto alla donna scomparsa. Trovi l’Ebola. Quando torna, se vuole davvero ritirarsi, non le chiederò altro mai più. Qualche notte fa abbiamo cominciato qualcosa insieme. Faccia quest’ultima cosa per me e sono pronta a dire che il lavoro è terminato.”

I suoi occhi non lasciarono mai quelli di Luke. Era il tipico politico, per molti versi. Quando ti raggiungeva, ti aveva preso. Era difficile dirle di no.

Luke sospirò. “Posso partire in mattinata.”

Susan scosse la testa. “Abbiamo già un aereo che l’aspetta.”

Luke sgranò gli occhi, sorpreso. Fece un respiro profondo.

“Okay,” disse alla fine. “Ma prima devo mettere insieme delle persone dello Special Response Team. Sto pensando a Ed Newsam, Mark Swann e Trudy Wellington. Newsam è in malattia adesso, ma sono piuttosto sicuro che se glielo chiedo tornerà in servizio.”

Susan e Monk si scambiarono uno sguardo.

“Abbiamo già contattato Newsam e Swann,” disse Monk. “Hanno accettato entrambi, ed entrambi sono per strada diretti all’aeroporto. Temo che Trudy Wellington non potrà esserci.”

Luke si accigliò. “Non sarà nella squadra?”

Monk abbassò lo sguardo su un taccuino giallo che aveva in mano. Prese un breve appunto. Non si sprecò ad alzare lo sguardo. “Non lo sappiamo, perché con lei non ci siamo messi in contatto. Purtroppo usare la Wellington è fuori questione.”

Luke si voltò verso Susan.

“Susan?”

Adesso Monk alzò il capo. Lasciò passare lo sguardo avanti e indietro da Luke a Susan e viceversa. Parlò ancora, prima che Susan dicesse una parola.

“Wellington non è pulita. Era l’amante di Don Morris. Non è proprio possibile che possa partecipare a questo lavoro. Non verrà neanche impiegata nell’FBI per un mese a partire da adesso, e per allora potrebbe anche essere sotto accusa di tradimento.”

“Mi ha detto che non ne sapeva nulla,” disse Luke.

“E lei le crede?”

Luke non si degnò neanche di rispondere alla domanda. La risposta non la conosceva. “La voglio,” disse semplicemente.

“Oppure?”

“Stasera ho lasciato mio figlio a fissare un persico spigola sulla griglia, un pesce che abbiamo pescato insieme. Potrei ritirarmi subito. Mi piaceva essere un docente universitario. Sto pensando di ricominciare. E sto pensando di veder mio figlio crescere.”

Luke fissò Monk e Susan. Loro lo fissarono.

“Allora?” disse loro. “Che ne dite?”




CAPITOLO SETTE




11 giugno

2:15

Ybor City, Tampa, Florida


Era un lavoro pericoloso.

Così pericoloso che andare al piano del laboratorio non gli piaceva proprio.

“Sì, sì,” disse al telefono. “Abbiamo quattro persone, al momento. Ne avremo sei finito il turno. Entro stanotte? È possibile. Non voglio promettere troppo. Chiamami verso le dieci, e avrò un’idea migliore.”

Rimase un attimo in ascolto. “Be’, direi che un furgone è abbastanza grande. Con quelle dimensioni può arrivare tranquillamente alla zona di carico. Questi cosi sono così piccoli che non si vedono a occhio nudo. Nemmeno un bilione di quei cosi prenderebbe troppo spazio. Se proprio dobbiamo, potremmo metterli tutti nel bagagliaio di una macchina. Ma in caso suggerirei due macchine. Una per andare in strada, e una per andare all’aeroporto.”

Riappese. Il nome in codice dell’uomo era Adam. Il primo uomo, perché era il primo uomo assunto per quel lavoro. Ne comprendeva appieno i rischi, anche se gli altri no. Lui solo conosceva l’intero scopo del progetto.

Osservò il pavimento del piccolo magazzino attraverso la grande finestra dell’ufficio. Lavoravano ventiquattr’ore su ventiquattro, su tre turni. Le persone che adesso erano lì, tre uomini e una donna, indossavano camici bianchi da laboratorio, occhialini, mascherine per l’aria, guanti di gomma e stivali ai piedi.

Gli operai erano stati selezionati per la loro abilità di fare semplice microbiologia. Il loro lavoro consisteva nel far crescere e moltiplicare un virus usando il campione fornito da Adam, per poi liofilizzare i campioni per il trasporto e la trasmissione via aerosol successivi. Era un lavoro noioso, ma non difficile. Qualsiasi assistente di laboratorio o studente di biochimica al secondo anno avrebbe potuto farlo.

Il programma di ventiquattr’ore faceva sì che le scorte dei virus liofilizzati crescessero molto velocemente. Adam faceva rapporto ai suoi datori di lavoro ogni sei o otto ore, e loro esprimevano sempre il loro piacere per il ritmo che tenevano. Nell’ultimo giorno il piacere aveva ceduto il posto alla gioia. Il lavoro sarebbe stato completato presto, forse addirittura oggi.

Adam sorrise al pensiero. I suoi datori di lavoro erano contenti, e lo ripagavano molto, molto bene.

Sorseggiò il caffè da una tazza termica e continuò a osservare i dipendenti. Aveva perso il conto della quantità di caffè che aveva consumato negli ultimi giorni. Tanto. I giorni stavano cominciando a mescolarsi. Quando era esausto si stendeva sulla branda dell’ufficio per dormire un pochino. Indossava la stessa tenuta protettiva degli operai nel laboratorio. Ormai non se la toglieva da due giorni e mezzo.

Adam aveva fatto del suo meglio per costruire un laboratorio di fortuna nel magazzino in affitto. Aveva fatto del suo meglio per proteggere gli operai e se stesso. Avevano degli indumenti protettivi da indossare. C’era una stanza in cui buttare via gli abiti dopo ogni turno, e c’erano delle docce perché dopo gli operai si lavassero via ogni residuo.

Ma c’erano anche i limiti temporali e dei fondi da prendere in considerazione. Il programma aveva tempi stretti, e ovviamente c’era la questione della segretezza. Sapeva che le protezioni non rispettavano gli standard dei centri americani per il controllo delle malattie – se avesse avuto un milione di dollari e sei mesi per costruire quel posto, ancora non sarebbe bastato.

Alla fine aveva costruito il laboratorio in meno di due settimane. Si trovava in una zona accidentata di vecchi e bassi magazzini, nei recessi di un quartiere che per molto tempo era stato un centro di immigrazione cubana e di altro genere negli Stati Uniti.

Nessuno gli avrebbe dato una seconda occhiata. Non c’era insegna sull’edificio, ed era fianco a fianco con un’altra dozzina di costruzioni simili. L’affitto era stato pagato per i sei mesi successivi, anche se ne avevano bisogno solo per un periodo di tempo brevissimo. Aveva il suo piccolo parcheggio, e gli operai andavano e venivano come fanno gli operai di ogni magazzino e fabbrica di ogni luogo – a intervalli di otto ore.

Venivano pagati bene e in contanti, e alcuni non parlavano inglese. Gli operai sapevano cosa fare con il virus, ma non sapevano esattamente di che virus si trattasse né perché. Un’incursione della polizia era improbabile.

Comunque lo rendeva nervoso trovarsi così vicino al virus. Sarebbe stato sollevato di terminare quella parte del lavoro, ricevere il pagamento finale e poi evacuare il posto come se mai fosse stato lì. Dopo, avrebbe preso un volo per la costa occidentale. Per Adam, in questo lavoro c’erano due parti. Una qui e una… da qualche altra parte.

E la prima parte presto sarebbe terminata.

Oggi? Sì, forse addirittura oggi.

Avrebbe lasciato il Paese per un po’, così aveva deciso. Una volta finito tutto avrebbe fatto una lunga e bella vacanza. La costa meridionale della Francia in quel momento gli sembrava invitante. Con i soldi che stava facendo sarebbe potuto andare ovunque avesse voluto.

Era facile. Un furgone, o una macchina, o forse due macchine sarebbero arrivate nel cortile. Adam avrebbe chiuso i cancelli in modo che dalla strada nessuno potesse vedere quel che stava accadendo. I suoi operai si sarebbero presi qualche momento per caricare il materiale sui veicoli. Lui si sarebbe assicurato che stessero attenti, così forse per tutto quanto ci sarebbero voluti venti minuti.

Adam sorrise tra sé e sé. Poco dopo che il materiale fosse stato caricato, lui si sarebbe trovato su un aereo per la costa occidentale. Poco dopo, l’incubo sarebbe cominciato. E non c’era nulla che qualcuno avrebbe potuto fare per fermarlo.




CAPITOLO OTTO




5:40

I cieli sopra la Virginia Occidentale


Il Learjet a sei posti urlava attraverso il cielo delle prime ore del mattino. Era blu scuro con il sigillo dei servizi segreti sul fianco. Dietro, un frammento del sole nascente faceva capolino al di sopra delle nuvole.

Luke e la sua squadra usavano i quattro posti davanti come zona di riunione. Avevano messo i bagagli e l’attrezzatura sui sedili posteriori.

Era riuscito a rimettere insieme la squadra. Sul sedile accanto a lui c’era il grosso Ed Newsam, con i pantaloni cargo kaki e una t-shirt con le maniche lunghe. Aveva un paio di stampelle appoggiate accanto al sedile, appena sotto al finestrino.

Davanti sulla sinistra di Luke c’era Mark Swann. Era alto e magro, con capelli biondi rossicci e gli occhiali. Aveva allungato le lunghe gambe sul corridoio di passaggio. Indossava un vecchio paio di jeans strappati e un paio di Chuck Taylor rosse. Era stato sollevato dal suo incarico di esca per pedofili, e sembrava che non potesse esserne più felice.

Direttamente davanti a Luke sedeva Trudy Wellington. Aveva i capelli mossi castani, era snella e attraente nel maglione verde e con i pantaloni eleganti. Indossava grandi occhiali rotondi sul viso. Era molto carina, ma gli occhiali la facevano quasi sembrare un gufo.

Luke si sentiva bene, non benissimo. Prima di partire aveva chiamato Becca. La conversazione non era andata bene. Anzi, era a malapena andata.

“Dove vai?” gli aveva detto.

“In Texas. A Galveston. C’è stata una violazione della sicurezza in un laboratorio.”

“Il laboratorio BSL-4?” aveva detto. Becca era una ricercatrice sul cancro. Aveva lavorato per anni a una cura per il melanoma. Faceva parte di una squadra, con base in diverse istituzioni di ricerca, che stava riscuotendo un certo successo uccidendo le cellule del melanoma iniettandovi il virus Herpes.

Luke aveva annuito. “Esatto. Il laboratorio BSL-4.”

“È pericoloso,” aveva detto. “Lo capisci, immagino.”

Lui aveva quasi riso. “Tesoro, non mi chiamano quando non c’è pericolo.”

La voce di lei era fredda. “Be’, fa’ attenzione, per piacere. Ti vogliamo bene, lo sai.”

Ti vogliamo bene.

Era un modo strano di dirlo, come se lei e Gunner fossero una squadra che gli voleva bene, ma non necessariamente individualmente.

“Lo so,” le aveva detto. “Vi voglio tantissimo bene.”

Ci fu silenzio sulla linea.

“Becca?”

“Luke, non posso garantirti che saremo qui quando tornerai.”

Adesso, a bordo dell’aereo, scosse la testa per schiarirsi le idee. Faceva parte del suo lavoro. Doveva compartimentalizzare. Aveva dei problemi in famiglia, sì. Non sapeva come sistemarli. Ma non poteva neanche portarseli dietro a Galveston. Lo avrebbero distratto da quello che stava facendo, e poteva essere pericoloso, per lui e per chiunque fosse coinvolto. La concentrazione sulla questione doveva essere assoluta.

Guardò fuori dal finestrino. Il jet spaccava in due il cielo, muovendosi veloce. Sotto di loro scivolavano via delle nuvole bianche. Fece un respiro profondo.

“Bene, Trudy,” disse. “Che cos’hai?”

Trudy sollevò il tablet perché lo vedessero tutti. Era raggiante. “Mi hanno ridato il mio vecchio tablet. Grazie, capo.”

Lui scosse la testa e sorrise appena. “Basta parlare di me. Adesso dicci tutto. Per favore.”

“Parto dal presupposto che non sappiate nulla.”

Luke annuì. “Okay.”

“Allora. Stiamo andando al Galveston National Laboratory, a Galveston, in Texas. È uno dei soli quattro edifici conosciuti con livello di biosicurezza 4 degli Stati Uniti. Sono gli edifici di ricerca in microbiologia con la maggior sicurezza, con i protocolli di sicurezza più estesi per i lavoratori. In questi posti vengono trattati alcuni dei più letali e infettivi virus e batteri noti alla scienza.”

Swann alzò una mano dal grembo. “Hai detto uno dei quattro edifici conosciuti. Ce ne sono di sconosciuti?”

Trudy si strinse nelle spalle. “Alcune società in scienze naturali, soprattutto quelle con un numero limitato di azionisti, potrebbero avere degli edifici BSL-4 senza che il governo lo sappia. Sì, è possibile.”

Swann annuì.

“Ciò che distingue quello di Galveston è che gli altri tre BSL-4 si trovano su installazioni governative altamente sicure. Galveston è l’unico che si trova su un campus accademico, fatto che è stato ripetutamente sollevato come preoccupazione per la sicurezza prima che l’edificio fosse aperto, nel 2006.”

“Che cosa hanno fatto, allora?” disse Ed Newsam.

Trudy sorrise di nuovo. “Hanno promesso di stare super-attenti.”

“Ottimo,” disse Ed.

“Andiamo al punto,” disse Luke.

Trudy annuì. “Okay. Tre notti fa è mancata la corrente.”

Luke si mosse appena mentre Trudy esponeva le informazioni che il direttore del laboratorio aveva condiviso con Susan e il suo staff la sera prima. L’addetto alla sicurezza notturna, la donna, la fiala di Ebola. Sentì tutto, ma ascoltava appena.

Un’immagine di Becca e Gunner sul patio mentre stava partendo gli passò per la mente. Cercò di scacciarla, ma lei restò lì. Per un lungo secondo tutto ciò che vide fu Gunner con lo sguardo basso e avvilito sul persico spigola sulla griglia.

“Pare proprio un sabotaggio,” disse Newsam.

“Con tutta  probabilità lo è,” disse Trudy. “Il sistema è stato costruito per ridondanza, e non solo la prima fonte di energia ha smesso di funzionare, ma non ha funzionato neanche la ridondanza. Una cosa del genere non succede spesso, a meno che qualcuno non la faccia succedere.”

“Che cosa sappiamo della donna che in quel momento si trovava nell’edificio?” disse Luke. “Come si chiama? Sappiamo qualcosa di nuovo su di lei?”

“Ho fatto qualche ricerca. Aabha Rushdie, ventinove anni. Ancora scomparsa. Ha un curriculum esemplare come junior scientist. Dottorato in microbiologia. Lode al King’s College di Londra. Addestramento avanzato nei protocolli BSL-3 e BSL-4, inclusa una certificazione per lavorare da sola in laboratorio, cosa che non tutti raggiungono.

“È stata a Galveston tre anni, e ha lavorato su molti programmi importanti, incluso il programma sulle armi di cui ci occupiamo noi.”

“Okay,” disse Swann. “Questo è un programma sulle armi?”

Trudy alzò una mano. “Ci arrivo tra un minuto. Lasciami finire con Aabha. La cosa più interessante che la riguarda è che è morta nel 1990.”

Tutti fissarono Trudy.

“Aabha Rushdie è morta in un incidente d’auto a Delhi, India, quando aveva quattro anni. I genitori si sono trasferiti a Londra subito dopo. Poi hanno divorziato, e la madre di Aabha è tornata in India. Il padre è morto di attacco cardiaco sette anni fa. E cinque anni fa improvvisamente Aabha è tornata in vita, con un passato, certificazioni scolastiche, lavori e brillanti raccomandazioni da docenti universitari dell’India, tutto quanto giusto in tempo per fare il dottorato in Inghilterra.”

“È un fantasma,” disse Luke.

“Sembrerebbe di sì.”

“Ma perché è indiana?”

Trudy guardò i suoi appunti. “In India c’è circa un miliardo di persone, ma non si è certissimi della cifra totale. Quel Paese è molto indietro rispetto all’Occidente per quanto riguarda la registrazione elettronica delle nascite e dei decessi. C’è una corruzione diffusa nei servizi civili, perciò è piuttosto semplice comprare l’identità di un morto. L’India è la maggiore fonte mondiale di identità false.”

“Già,” disse Swann, “ma poi devi assumere un fantasma indiano.”

Trudy sollevò un dito. “Non necessariamente. Per gli occidentali c’è pochissima differenza nell’aspetto delle persone che vengono dal nord dell’India, dove si trova Delhi, e quelle del Pakistan, che è proprio lì vicino. Anzi, per gli indiani e i pachistani stessi la differenza è minima. Perciò qui mi sbilancio e dico che Aabha Rushdie in realtà è pachistana, e molto probabilmente musulmana. Potrebbe essere un’agente della loro intelligence – oppure peggio, un membro di una setta conservatrice sunnita o wahhabita.”

Ed Newsam grugnì sonoramente.

Il cuore di Luke fece una pigra capovolta da qualche parte nel petto. Di tutti gli analisti con cui aveva lavorato, Trudy era quella con le intuizioni migliori. La sua capacità di dipingere uno scenario poteva benissimo essere la migliore di tutte. Se in questo caso aveva ragione, una sunnita del Pakistan aveva appena rubato una fiala del virus Ebola.

Buongiorno. Alzati e splendi.

Fece scorrere lo sguardo sugli altri tre. I suoi occhi atterrarono su Trudy.

“Dicci tutto,” le disse.

“Okay, ecco la parte peggiore,” disse Trudy.

“Peggiora?” disse Swann. “Pensavo che la parte peggiore l’avessimo appena sentita. Come può essere peggio di così?”

“Innanzitutto, i capi dell’edificio di Galveston hanno trascorso le quarant’otto ore successive alla scoperta del furto coprendolo. Be’, non voglio dire che l’hanno coperto. Hanno fatto le loro indagini interne, che non hanno portato a niente. Hanno mandato delle persone in cerca di Aabha Rushdie, anche se probabilmente se n’era già andata da molto. All’inizio non riuscivano a credere che Aabha avesse rubato un virus. La gente con cui ho parlato ieri notte non ci credeva ancora. Tutti la adoravano lì, apparentemente, anche se nessuno sapeva granché su di lei.”

“Cioè non sapevano che è stata morta per venticinque anni?” disse Swann.

Trudy proseguì. “Quindi hanno interrogato tutti i tecnici di laboratorio, per vedere se qualcuno aveva preso la fiala per sbaglio. Non ha confessato nessuno, e non c’era ragione di sospettare nessuno. Hanno controllato i registri dell’inventario, e ovviamente la fiala era stata registrata come messa in sicurezza appena poche ore prima che andassero via le luci.”

“Perché secondo te hanno preso tempo?”

“Questa è la seconda cosa, e probabilmente la parte peggiore di tutto. La fiala che è stata portata via non è un semplice virus Ebola. È una versione a scopi militari del virus Ebola. Tre anni fa il laboratorio ha ricevuto un grande finanziamento dai centri di controllo per le malattie degli Stati Uniti, e un finanziamento analogo dalle istituzioni nazionali per la salute e dal dipartimento della difesa. Il finanziamento aveva come scopo quello di trovare il modo di modificare il virus per renderlo persino più virulento di quanto non fosse già – aumentandone la facilità con cui può trasmettersi da persona a persona, la velocità con cui la malattia inizia e la percentuale di persone infette che il virus può uccidere.”

“Perché diavolo hanno fatto una cosa del genere?” disse Swann.

“L’idea era rendere il virus un’arma prima che potessero farlo i terroristi, per poi studiarne le proprietà, identificarne i punti deboli e trovare un modo di curare le persone che un giorno avrebbero potuto esserne infettate. Gli scienziati del laboratorio hanno avuto successo nella prima parte del lavoro – rendere il virus un’arma – un successo che è andato oltre i sogni più arditi di chiunque. Usando una tecnica di una terapia genica conosciuta come inserzione, i ricercatori sono riusciti a creare un numero di mutazioni a partire dal virus Ebola originale.

“Il nuovo virus può essere introdotto in una popolazione attraverso uno spray aerosol. Una volta infettata, una persona diverrà contagiosa nel giro di un’ora, e mostrerà un principio di sintomi nel giro due o tre ore. In altre parole una persona infetta può cominciare a infettare gli altri prima che appaiano i sintomi della malattia.

“È importante. È un cambiamento radicale dal virus al suo stato naturale. La progressione dell’ebola nelle popolazioni umane normalmente viene fermata quando le vittime vengono messe in quarantena in ospedale prima, o pochissimo dopo, che siano diventate contagiose. Per fermare questo virus dovrebbe essere messa in quarantena un’intera area geografica, con malati e sani. Non si potrebbe sapere subito chi ha preso il virus e chi no. Ciò significa strade chiuse, posti di blocco e barricate.”

“Legge marziale,” disse Ed Newsam.

“Precisamente. E, anche peggio, questo virus può passare da persona a persona attraverso minuscole goccioline presenti nell’aria, e la malattia di solito si presenta con una violenta tosse. Quindi non è necessaria nessuna esposizione a sangue, vomito o escrementi – un altro cambiamento radicale rispetto alla malattia originale.”

“C’è dell’altro?” disse Luke. Gli pareva di aver già sentito abbastanza.

“Sì. La parte decisamente peggiore, per quanto mi riguarda. Il virus è altamente aggressivo e mortale. La letalità della malattia emorragica che porta con sé è stimata sul novantaquattro percento, senza intervento medico. Questo è l’indice al quale ha sterminato una colonia di trecento macachi in un edificio di sicurezza di San Antonio due mesi fa. Il virus è stato deliberatamente introdotto nella colonia, e in quarantotto ore duecentoottantadue scimmie erano morte. Più della metà sono morte nelle prime sei ore. Delle diciotto che sono sopravvissute, tre non hanno mai contratto la malattia e quindici sono guarite da sole nel corso delle settimane seguenti.

“La malattia presenta uno scenario da incubo nel quale gli organi cedono, i vasi sanguigni collassano e la vittima diventa del tutto debilitata e si dissangua, spesso in modo spettacolare. Stiamo parlando di sangue dalla bocca, dalle orecchie, dagli occhi, dall’ano e dalla vagina – praticamente da ogni orifizio del corpo, inclusi a volte i pori della pelle.”

Swann alzò le mani. “Okay. Hai detto novantaquattro percento di morti senza intervento medico. Quale sarebbe l’indice di mortalità se ci fosse un intervento?”

Trudy scosse la testa. “Non lo sa nessuno. Il virus è così contagioso, agisce così velocemente ed è così letale che l’intervento medico potrebbe non essere possibile. Per quanto ne sappiamo finora quasi qualsiasi persona non protetta che entri in contatto con il virus si ammala. L’unico modo efficace di fermare un’epidemia sarebbe mettere in quarantena la popolazione finché la malattia non ha fatto il suo corso.”

“Con le persone intrappolate all’interno della zona di quarantena lasciate a morire?” disse Ed Newsam.

“Sì, nella maggior parte dei casi. Ed è una morte orribile.”





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IL GIURAMENTO è il secondo libro della serie bestseller di Luke Stone, che inizia con A OGNI COSTO (libro primo), da scaricare gratuitamente! Un agente biologico viene rubato da un laboratorio di biocontenimento. Utilizzato come arma, potrebbe uccidere milioni di persone, e una disperata caccia a livello nazionale segue i terroristi prima che sia troppo tardi. Luke Stone, capo di un dipartimento speciale dell’FBI e con la famiglia ancora in pericolo, ha promesso di andarsene – ma quando la nuova presidente, appena insiedatasi, lo chiama, non può voltarle le spalle. Segue una terribile devastazione, che arriva fino alla presidente, la cui stessa famiglia viene messa in pericolo. La forza della donna viene messa a dura prova mentre muove i primi passi da presidente, e riesce a sorprendere anche i suoi consiglieri più fidati. I rivali vogliono fuori dal sistema Luke, e con la sua squadra in pericolo, e lasciato ad agire solo affidandosi alle sue risorse, diventa una cosa personale. Ma Luke Stone non molla finché o lui o i terroristi non sono morti. Luke capisce presto che l’obiettivo finale dei terroristi è ancora più importante – e più terrificante – di quanto potesse immaginare. E a pochi giorni dall’apocalisse, è improbabile che riesca a fermare ciò che già si sta compiendo. Thriller politico pieno di azione, ambientazioni internazionali drammatiche, colpi di scena e suspense al cardiopalma, IL GIURAMENTO è il secondo libro della serie di Luke Stone, un’esplosiva nuova serie che vi obbligherà a girare pagina dopo pagina fino a tarda notte. Il Libro terzo della serie di Luke Stone sarà disponibile presto.

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