Книга - Spettri, Ragazze E Fantasmi Vari

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Spettri, Ragazze E Fantasmi Vari
Stephen Goldin


"SPETTRI, RAGAZZE ED ALTRI FANTASMI è una raccolta completa dei racconti brevi di Stephen Goldin, contenente la maggior parte dei racconti della sua prima raccolta L'ULTIMO SPETTRO ED ALTRE STORIE (i racconti ”Angel in Black” sono stati inclusi nel rispettivo volume). Questi racconti spaziano dall'humor al pathos e il divertimento è assicurato!

SPETTRI RAGAZZE E ALTRI FANTASMI è una raccolta completa dei racconti brevi di Stephen Goldin, contenente la maggior parte dei racconti della sua prima raccolta L'ULTIMO SPETTRO ED ALTRE STORIE (i racconti ”Angel in Black” sono stati inclusi nel rispettivo volume). Include alcune delle storie più conosciute, ad esempio la finalista del Premio Nebula ”L'ultimo Spettro” e la pluri-pubblicata ”Sogni d'oro, Melissa!”

Indice completo:

Sogni d’oro, Melissa! (Sweet Dreams, Melissa)

Le Ragazze della USSF 193 (The Girls on USSF 193)

Bel Posto da Vedere (Nice Place to Visit)

Quando in Giro non c’è Nessuno (When There’s No Man Around)

Xenofobia (Xenophobe)

Una Favola Triste (Grim Fairy Tale)

Amore, Libera scelta e Scoiattoli Grigi in una Sera d’Estate (Of Love, Free Will, And Gray Squirrels On A Summer Evening)

Testardo (Stubborn)

Ma Soldato. Per la Patria (But As A Soldier, For His Country)

Il Mondo Dove i Desideri si Avverano (The World Where Wishes Worked)

Apollo ex Machina (Apollyon Ex Machina)

Preludio alla Sinfonia delle Grida dei Non-nati (Prelude to a Symphony of Unborn Shouts)

Ritratto in Gioventù del Divino Artista (Portrait of the Artist as a Young God)

L’ultimo Spettro (The Last Ghost)

Case Infestate (Haunted Houses)

I racconti di questa raccolta spaziano dall'humor al pathos e testimoniano l'evoluzione di uno scrittore prolifico nel campo narrativo. Buon divertimento!









Spettri, Ragazze e Fantasmi Vari


di Stephen Goldin



Pubblicato da Parsina Press (http://www.parsina.com/)



Traduzione in italiano pubblicata da TEKTIME


Copyright Notices

Ghosts, Girls, & Other Phantasms. Copyright 2011 by Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.

“Sweet Dreams, Melissa” Copyright 1968, 1996 by Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.

“The Girls on USSF 193” Copyright 1965, 1993 by Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.

“Nice Place to Visit” Copyright 1973 by Mankind Publishing Company. Tutti i diritti riservati.

“When There’s No Man Around” Copyright 1977 by Davis Publications, Inc. Tutti i diritti riservati.

“Xenophobe” Copyright 1975 by Mankind Publishing Company. Tutti i diritti riservati.

“Grim Fairy Tale” Copyright 1972 by Knight Publishing Corporation. Tutti i diritti riservati.

“Of Love, Free Will And Gray Squirrels On A Summer Evening” Copyright 1974 by Mankind Publishing Company. Tutti i diritti riservati.

“Stubborn” Copyright 1972 by David Gerrold. Tutti i diritti riservati.

“But As A Soldier, For His Country” Copyright 1974 by Terry Carr. Tutti i diritti riservati.

“The World Where Wishes Worked” Copyright 1971, 1999 by Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.

“Apollyon Ex Machina” Copyright 1980 by Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.

“Prelude To A Symphony Of Unborn Shouts” Copyright 1975 by Roger Elwood. Tutti i diritti riservati.

“Portrait of the Artist as a Young God” Copyright 1977 by David Gerrold. Tutti i diritti riservati.

“The Last Ghost” Copyright 1971, 1999 by Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.

“Haunted Houses” Copyright 1991 by Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.



Immagine di copertina Copyright Cristian Nitu. (http://www.dreamstime.com/nitzu_info)



Titolo originale: Ghosts, Girls and Other Phantasms

Traduzione in italiano di Raffaela Ciampa




Sommario


Introduzione (#u15c36688-3eb0-51cb-b360-acb26778fe3d)

Sogni d’oro, Melissa! (Sweet Dreams, Melissa) (#u74a9171d-25f6-558a-a97e-97c1ca2d59da)

Le Ragazze della USSF 193 (The Girls on USSF 193) (#ufc68b141-0865-5a30-b363-29e91aed2dad)

Bel Posto da Vedere (Nice Place to Visit) (#u23cc2a61-ccb4-557d-aab4-292f1e445622)

Quando in Giro non c’è Nessuno (When There’s No Man Around) (#litres_trial_promo)

Xenofobia (Xenophobe) (#litres_trial_promo)

Una Favola Triste (Grim Fairy Tale) (#litres_trial_promo)

Amore, Libera scelta e Scoiattoli Grigi in una Sera d’Estate (Of Love, Free Will, And Gray Squirrels On A Summer Evening) (#litres_trial_promo)

Testardo (Stubborn) (#litres_trial_promo)

Ma Soldato. Per la Patria (But As A Soldier, For His Country) (#litres_trial_promo)

Il Mondo Dove i Desideri si Avverano (The World Where Wishes Worked) (#litres_trial_promo)

Apollo ex Machina (Apollyon Ex Machina) (#litres_trial_promo)

Preludio alla Sinfonia delle Grida dei Non-nati (Prelude to a Symphony of Unborn Shouts) (#litres_trial_promo)

Ritratto in Gioventù del Divino Artista (Portrait of the Artist as a Young God) (#litres_trial_promo)

L’ultimo Spettro (The Last Ghost) (#litres_trial_promo)

Case Infestate (Haunted Houses) (#litres_trial_promo)

A proposito di Stephen Goldin (About Stephen Goldin) (#litres_trial_promo)

Contatta Stephen Goldin (Connect with Stephen Goldin) (#litres_trial_promo)


Per Mary, Kathleen e tutte le “ragazze” che hanno fatto della mia vita un’avventura




Introduzione


La carriera di uno scrittore è un viaggio, proprio come la vita. Come gli artisti e i filosofi, anche gli scrittori tendono a rimanere in contemplazione di una scena più a lungo rispetto a un passante frettoloso. Qualcosa ci colpisce e allora ci fermiamo a rimirare per un po’ e poi tiriamo avanti – e nel frattempo le nostre vite, le nostre prospettive, si modificano irreversibilmente.

Questi racconti rappresentano le mie tappe durante un viaggio particolare, punti di vista nel percorso della mia esistenza. Se sono incappato in qualcosa di piacevole, ho sorriso e ho preso nota. Vedendo qualcosa che mi disturbava… ho preso nota anche in quel caso. Ho incontrato di questo e di quello, in egual misura.

Alcuni di questi racconti mirano a divertire, altri invece no. Spero di essere uno scrittore abbastanza bravo perché possiate riconoscere gli uni dagli altri.

Per spiegare il titolo di questo libro: trovo che le ragazze/donne/femmine in generale siano uno tra i fenomeni naturali più meravigliosi, affascinanti, misteriosi e ipnotici. Io le amo. Sono fonte di varietà e meraviglia infinita e nei miei scritti la loro presenza è predominante. Gli spettri e gli altri fantasmi ci sono perché sono uno scrittore di narrativa e creo: è il mio mestiere.



NOTA: Questa raccolta include la maggior parte dei miei “pezzi unici”, pubblicati anche nella mia antologia precedente, The Last Ghost and Other Stories. I racconti “Angel in Black” sono stati inclusi nel volume a cui appartengono.



Stephen Goldin




Sogni d’oro, Melissa!


Questo racconto è apparso per la prima volta in Galaxy nel dicembre 1968.

E’ nato in modo interessante. Ho venduto la mia prima storia “Le ragazze della USSF 193” (il prossimo racconto di questo volume) nel 1965: mi sentivo molto fiero di me stesso. Ero un professionista, avevo venduto un racconto. Mi ci sono crogiolato per tre anni. Anche un mio amico voleva scrivere ed io avevo gli avevo passato un mio abbozzo di idea che poi lui si era rivenduto. Beh, buon per lui; l’idea, anche se mia, aveva funzionato per il mio protetto. Poi un pomeriggio di primavera mi chiama e mi dice che ha appena venduto il suo secondo racconto. Mi congratulo, un po’ a denti stretti; concludo la telefonata al più presto; poi sposto di lato tutto ciò che c’è sulla scrivania e inizio a lavorare. In ventiquattr’ore scrivo e invio “Sogni d’oro, Melissa!” L’ho venduto al primo destinatario a cui l’ho proposto.

Ora il mio amico è un medico optometrista di gran successo.

Probabilmente “Sogni d’oro, Melissa!” è il mio racconto di maggior successo, ristampato e inserito in antologia diverse volte.


Dal suo buio speciale, Melissa udì la voce del Dottor Paul che parlava con tono sommesso dall’estremità opposta della stanza. “Dottor Paul” gridò lei” “Oh Dottor Paul per favore venga qui.” Ora la sua voce era un piagnucolìo disperato.

La voce del Dottor Paul tacque, poi mormorò qualcosa. Melissa udì i passi che le si avvicinavano. “Sì Melissa, cosa c’è?” disse lui con toni profondi e pazienti.

“Ho paura, Dottor Paul.”

“Ancora incubi?”

“Sì.”

“Ma non devi preoccuparti, Melissa. Non possono farti del male.”

“Ma fanno paura” insistette Melissa. “Li faccia fermare. Li faccia andar via come fa di solito.”

Nel buio c’era un’altra voce che sussurrava. Sembrava quella del Dottor Ed. Il Dottor Paul ascoltò i sussurri e poi disse sottovoce “No, Ed, non possiamo lasciar correre così. Siamo molto indietro col programma originale.” E poi a voce alta: “Dovrai abituarti ad avere incubi ogni tanto, Melissa. Tutti ne hanno. Non sarò sempre a disposizione per cacciarli via.”

“Oh, per favore non vada via.”

“Ancora non me ne vado, Melissa. Non ancora. Ma se non la smetti di preoccuparti di questi incubi dovrò andar via. Dimmi cos’erano”.

“Beh inizialmente ho pensato che fossero numeri, quindi tutto a posto perché i numeri non hanno niente a che vedere con la gente, sono carini e gentili e non fanno del male a nessuno come invece succede negli incubi. Poi i numeri hanno iniziato a cambiare e sono diventati delle linee – due file di persone, tutti che correvano uno verso l’altro e si sparavano addosso. Fucili, carri armati, palle da cannone. E c’era pure gente che moriva, Dottor Paul, un sacco di gente. Sono morte cinquemiladuecentoottantatré persone. E non è tutto: perché si sparava anche dall’altra parte della valle. E sentivo qualcuno dire che era giusto, perché finché i caduti dei primi scontri restavano sotto il 15,7% si poteva ancora conquistare la posizione strategica, cioè la cima della montagna. Ma il 15,7% di tutte le forze equivaleva a novemilaseicentodue virgola sette, sette, otto, nove altri uomini feriti o uccisi. E’ stato come vedere tutta quella gente a terra, morente.”

“Te l’avevo detto che con un’età mentale di cinque anni non poteva essere abbastanza matura per la logistica militare” sussurrò il Dottor Ed.

Il Dottor Paul lo ignorò. “Ma quella era una battaglia, Melissa. In guerra c’è da aspettarselo, che la gente muoia.”

“Perché? Dottor Paul?”

“Perché…. Perché la guerra è così, Melissa. E poi non è successo per davvero. E’ stato semplicemente un problema, come con i numeri, però qui invece dei numeri c’erano persone. Era tutto fittizio.”

“No non è vero, Dottor Paul,” gridò Melissa. “Era tutto vero. Tutta quella gente era reale. So pure i nomi. C’erano Abers, Joseph T. Pfc, Adelli, il Caporale Alonzo, Aikens…”

“Adesso piantala Melissa,” disse il Dottor Paul, alzando la voce assai più del normale.

“Mi spiace, Dottor Paul” si scusò Melissa.

Ma il Dottor Paul non l’aveva udita; era occupato a sussurrare al Dottor Ed: “…ricorso a nient’altro che a un’analisi totale.”

“Ma distruggerebbe interamente la completezza della personalità, abbiamo faticato tanto per costruirla.” Il Dottor Ed non si preoccupò neppure di sussurrare.

“Cos’altro si può fare?” chiese cinico il Dottor Paul. “Questi ‘incubi’ che ha ci fanno restare sempre più indietro col programma.”

“Potremmo tentare di far autoanalizzare Melissa.”

“E come?”

“Attento ora.” La voce assunse quei toni dolci che, come Melissa aveva imparato, alcune persone adottavano solo nei suoi riguardi, ma non parlandosi le une alle altre. “Come stai?”

“Sto bene, Dottor Ed.”

“Ti piacerebbe se ti raccontassi una storia?”

“E’ una storia a lieto fine, Dottor Ed?”

“Ancora non lo so, Melissa. Sai cos’è un computer?”

“Sì. E’ una macchina da calcolo.”

“Beh i primi computer sono nati in quel modo Melissa, ma presto sono diventati sempre più complessi e poi in breve sono nati computer che sapevano leggere, scrivere, e persino pensare completamente da soli, senza l’aiuto degli umani.”

“Ora, una volta un gruppo di persone osservò che se un computer può pensare da sé, può essere in grado di sviluppare una propria personalità: quindi si misero a fabbricarne uno che potesse agire proprio come una persona vera. Lo chiamarono Multi-Logical Systems Analyzer, or MLSA....”

“Suona come ‘Melissa’…” ridacchiò Melissa.

“Eh già, vero? Comunque queste persone si resero conto che una personalità non è qualcosa che spunta fuori così, dal nulla, già completamente formata; deve svilupparsi piano piano. Ma allo stesso tempo, quelle persone avevano bisogno delle capacità di calcolo di quel computer, perché era la macchina più costosa e complessa che avessero mai realizzato. Quindi divisero il cervello elettronico in due parti – un lato avrebbe gestito i calcoli normali e l’altro avrebbe messo a punto delle caratteristiche proprie: appena ottenuta una personalità abbastanza sviluppata le due parti sarebbero state ricongiunte.”

“Perlomeno, secondo loro avrebbe dovuto funzionare così. Poi però scoprirono che il progetto di base del computer non permetteva una scissione completa – cioè una separazione in due parti con funzioni distinte. Sottoponendo un problema al lato che faceva i calcoli, alcuni dei dati inseriti penetravano inevitabilmente nella parte della personalità. E questo era un male, Melissa, perché la parte della personalità non sapeva di essere un computer; pensava di essere una bimba, proprio come te. I dati che le arrivavano la confondevano e la spaventavano. E, spaventata e confusa sempre di più, la sua efficienza diminuiva: fino a che non riuscì più a lavorare correttamente.”

“E gli uomini cosa hanno fatto, Dottor Ed?”

“Non lo so, Melissa. Speravo che tu potessi aiutarmi a finire la storia.”

“E come? Io non ci capisco niente di computer.”

“Si che ci capisci Melissa, solo che non te ne ricordi. Io posso aiutarti a ricordare un sacco di cose. Ma sarà difficile, Melissa, molto difficile. Ti verranno in testa tante cose strane e ti troverai a fare cose che non hai mai saputo di poter fare. Vuoi provare, Melissa, ad aiutarci a trovare la fine della storia?”

“Va bene Dottor Ed, se lo vuole lei.”

“Brava, Melissa.”

Il Dottor Paul sussurrava al collega: “Accendi su ‘Memoria Parziale’ e dille di richiamare il programma ‘Analisi di Circuito.’ ”

“Melissa, ora richiama ‘Analisi di Circuito’.”

E improvvisamente nella sua testa accaddero cose strane. Lunghe stringhe numeriche apparentemente senza senso, eppure in qualche modo lei sapeva che avevano diversi significati… come resistenza, capacità, induttanza. E c’erano miriadi di linee – rette, a zig-zag, a solchi. E formule…

“Melissa, ora leggi MLSA 5400.”

E improvvisamente Melissa si vide. La cosa più orribile che avesse mai vissuto, persino più terrificante dei suoi orribili incubi.

“Guarda in Sezione 4C-79A.”

Melissa non poté fare a meno di guardare. Doveva. La bimba che era in lei non percepiva poi tanta differenza, eppure sapeva che le diversità c’erano. E molte. A dire il vero non sembrava neppure parte di sé, piuttosto una stampella utilizzata da uno storpio.

La voce di Ed era tesa. “Analizza quella sezione e fai rapporto su qual’è la variazione ottimale per ridurre al massimo la penetrazione dei dati.”

Melissa fece del suo meglio per obbedire, ma non ci riuscì. Le mancava qualcosa, qualcosa che doveva sapere prima di riuscire a fare ciò che il Dottor Ed le chiedeva. Aveva voglia di piangere. “Non ci riesco, Dottor Ed! Non ci riesco, non ci riesco!”

“Te l’avevo detto che non avrebbe funzionato” disse lentamente il Dottor Paul. “Se vogliamo ottenere un’analisi completa dobbiamo accendere tutta la memoria.”

“Ma non è pronta” protestò il Dottor Ed. “Potrebbe ucciderla.”

“Forse Ed. Ma se così sarà…. Almeno la prossima volta sapremo come far di meglio. Melissa!”

“Sì, Dottor Paul?”

“Reggiti forte Melissa. Ti farà male.”

E senz’altro preavviso, il mondo colpì Melissa. Numeri, flussi interminabili di numeri – numeri complessi, numeri reali, numeri interi, deponenti ed esponenti. E c’erano battaglie, guerre più orribili e sanguinose di quanto lei non avesse mai sognato, e liste di caduti più che reali per lei, perché per ogni nominativo lei sapeva altezza, peso, colore dei capelli, colore degli occhi, stato civile, numero di persone a carico… e la lista proseguiva. E c’erano le statistiche – la paga media degli autisti di autobus in Ohio, il numero di morti dovute al cancro negli Stati Uniti dal 1965 al 1971, la produzione media di grano per ogni tonnellata di fertilizzante utilizzato…

Melissa annegava in un mare di dati.

“Aiutatemi… Dottor Ed, Dottor Paul, aiutatemi!” cercò di urlare. Ma non riuscì a farsi sentire. C’era qualcun altro che parlava. Uno sconosciuto che non conosceva neppure, che utilizzava la sua voce e diceva cose sui fattori di impedenza e sui semiconduttori.

E Melissa sprofondava sempre di più, spinta verso il basso dall’inarrestabile avanzata di quell’esercito di informazioni.

Cinque minuti più tardi il Dottor Edward Bloom alzò l’interruttore e separò la memoria primaria dalla sezione della personalità. “Melissa,” disse dolcemente, “va tutto bene adesso. Sappiamo come va a finire la storia. Gli scienziati hanno chiesto al computer di riprogrammare se stesso e così è stato. Non ci saranno più incubi Melissa. Solo sogni d’oro d’ora in poi. Non è una buona notizia?”

Silenzio.

“Melissa?” La voce era acuta, tremante. “Melissa mi senti? Ci sei?”

Ma in MLSA 5400, per la bimba non c’era più spazio.




Le Ragazze della USSF 193


Apparso per la prima volta in If, nel dicembre 1965.

E’ stata la mia prima volta. Siate teneri.


Sen. McDermott: Dunque, Signor Hawkins, vorrei che lei si rendesse conto che questa è un’udienza privata e non un processo: e che lei non è accusato di alcun crimine.

Signor Hawkins: Allora è per questo che mi ha consigliato di portarmi un avvocato?

Sen. McDermott: Gliel’ho consigliato soltanto perché al Comitato potrebbero essere sottoposti argomenti o questioni di tipo legale. Lo scopo di quest’udienza è esclusivamente quello di indagare in merito a denunce relative a comportamenti poco ortodossi…

Signor Hawkins: Ah!

Sen. McDermott: …relativamente ai satelliti orbitali USSF numero Centottantasette e Centonovantatré. E le sarei grato se volesse essere franco in proposito.

Signor Hawkins: Le assicuro, Senatore, che non ho alcuna intenzione di essere reticente, né mai l’ho avuta. Però come Direttore dell’Agenzia Spaziale Nazionale ho reputato opportuno che alcune informazioni relative a quelle due stazioni spaziali fossero incluse in liste confidenziali, per il bene di tutti gli interessati.

Sen. McDermott: Parla come un politico… lei ha sbagliato mestiere signor Hawkins. Ma, mi dica, questa grossa confusione è stata un’idea sua sin dall’inizio, vero?

Signor Hawkins: Sì, è vero.

Sen. McDermott: E quando le è venuta inizialmente quest’idea?

Signor Hawkins: Circa un anno fa. Stavo facendo delle ricerche…

—Estratti dagli atti ufficiali (non pubblicati)

Udienza di Indagine Speciale del Senato

10 ottobre 1996

***

Si può solo ipotizzare quale fosse il tipo di ricerca in cui si crogiolava Jess Hawkins quando gli venne quell’idea. E’ comunque un dato di fatto che il 15 settembre 1995 il suo amico Bill Filmore lo andò a trovare in ufficio.



“Jess,” gli disse, “ti conosco da trentasette anni e quando te ne vai in giro a ringhiare come il gatto di Alice nel Paese delle Meraviglie mi stai nascondendo qualcosa. Quel tuo sorriso da folletto è un regalo difettato. Siccome sono il tuo migliore amico e faccio anche parte del Consiglio dell’Agenzia Spaziale penso di aver diritto di sapere cosa stai bollendo in pentola.”

Hawkins guardò l’amico. “Beh, Bill, penso di potermi fidare, ma tieniti tutto al massimo della riservatezza. Penso di aver trovato il modo di stimolare i muscoli cardiaci dei nostri astronauti quando restano a bordo del satellite USSF 187 per lunghi periodi.”

“E… perché dovrebbe restare un segreto?”

“Fammi continuare. Noi sappiamo che durante prolungati periodi in caduta libera il cuore tende a rilassarsi, perché in condizioni di assenza di peso non deve lavorare sodo per pompare il sangue. Però tornando a Terra i muscoli cardiaci hanno difficoltà a riabituarsi agli standard normali. Abbiamo già avuto tre astronauti che hanno sofferto di attacchi di cuore quando sono tornati; uno di loro stava quasi per lasciarci le penne. Il programma di allenamento funzionale predisposto dai medici sembra avere poco effetto. Penso che sia arrivato il momento di adottare misure drastiche.”

“E quindi cos’è che proponi?”

“Pensaci un istante. Cos’è che stimola il cuore sia letteralmente che in senso figurato, di cui gli uomini desiderano far uso di frequente e che è anche utile per migliorare il morale a bordo del satellite?”

“Non sono mai stato un campione con gli indovinelli, Jess”

“Beh si può riassumere tutto in una normalissima parola di quattro lettere” sorrise cattivo Hawkins. “Sesso.” Filmore lo fissò per un attimo in silenzio e poi disse: “Oh per Giove Jess, mi sa che dici sul serio”.

Per un istante il viso di Hawkins perse il sorriso. “Ci puoi scommettere Bill. Finora sei stato fortunato, ma se non facciamo qualcosa, presto nel conteggio ci sarà un altro astronauta morto. Ci ho pensato moltissimo: la soluzione migliore è quella di spedire delle ragazze a bordo della Centottantasette.”

“Ma... se soltanto da un punto di vista puramente economico…—”

“E’ per questo che ingaggio soltanto ragazze europee – sono meno costose e di migliore qualità. Ho già incaricato il mio assistente, Wilbur Starling, di assumere le migliori professioniste plurilingue che ci siano. Se rigeneriamo aria e acqua, usiamo cibo concentrato molto economico e i nuovi carburanti atomici, i costi per piazzarle lì sopra e tenercele scendono a minimi ridicoli.”

“Ma è pur sempre una bella sommetta. E dove li prendi tutti questi soldi?”

“Li ho stanziati prelevandoli dal Fondo per le Vedove e i Familiari a Carico degli Astronauti” disse Hawkins, mentre sul volto gli tornava il sorriso. “Mi è sembrato il fondo più adeguato. Se te lo stai chiedendo... ho anche preso delle precauzioni perché l’operazione rimanga confidenziale. Come Direttore ho la facoltà di mantenere il segreto su tutto ciò che desidero. Non lo saprà neppure il Presidente.”

“E il Generale Bullfat? Quello da quando ti hanno nominato capo dell’agenzia come suo superiore ti odia a morte.”

“Bill, tu ti preoccupi troppo. Bullfat si deve guardare allo specchio ogni giorno anche soltanto per trovarsi il naso.”

“A parte le obiezioni di tipo pratico, Jess,” disse Filmore disperato, “è tutta l’idea che è immorale. Un funzionario di Governo non dovrebbe fare questo tipo di cose.”

“Questo non è assolutamente rilevante. Quando ci sono in gioco delle vite umane, la morale non conta.”

Filmore si alzò. “Jess, se non posso convincerti con le parole a desistere da questa idea folle, troverò qualcuno che lo faccia per me.”

“Non vorrai mica fare la spiata a un amico, vero?” chiese Hawkins, ferito.

“E’ per il tuo bene, Jess.” Si avviò alla porta.

“Che peccato per te e Sylvia,” disse sottovoce Hawkins.

Filmore si fermò. “Cioè cosa, di me e Sylvia?”

“Mandare a monte un matrimonio tanto riuscito dopo tredici anni insieme…”

“Io e Sylvia siamo felicemente sposati. Non abbiamo nessuna intenzione di rompere.”

“Vuoi dire che ancora non le hai detto di Gloria?”

Filmore impallidì lievemente. “Lo sai che Gloria è stata soltanto un’avventura momentanea, Jess. Non oseresti…—”

“Fare la spiata a un amico? Ma certo che no, Bill. Solo che ho questa brutta abitudine di cacciar fuori la frase sbagliata al momento sbagliato. Ma ammesso e non concesso, non pensi che dovremmo sederci a discutere della cosa un po’ più a lungo?”

***

Mentre la donna si rivestiva Wilbur Starling le chiese “Babette, posso parlarti un attimo?”

Babette guardò l’orologio. “Dovrà pagare altra ora” lo avvisò.

“Hai la mentalità troppo ristretta” rispose Starling. “Hai tutta la vita davanti! Invece di preoccuparti della prossima ora, dovresti pensare a tutte le ore che hai trascurato.”

“Vi prego! Sufficiente prenderle una alla volta.”

“Non vorresti la sicurezza per la vecchiaia, una bella casa…—”

“Mon Dieu, altra proposta di matrimonio!”

“No, no, Babette zuccherino, non capisci… Vedi, io rappresento il Governo degli Stati Uniti…—”

“Conosco molto bene il vostro console” disse lei per aiutarlo.

“Non volevo dir questo. Il mio Governo vorrebbe pagarti per fornire dei servizi in una circostanza particolare.”

“Cosa devo fare?”

Il volto di Starling arrossì leggermente. “Oh, beh, la stessa cosa che fai ora, però nello spazio.”

“Spazio?”

“Sì, sì hai capito. Satelliti attorno alla Terra, Shepard, Glenn, Hammond.” Fece dei piccolo movimenti circolari con le dita.

“Oh, oui,” disse Babette, afferrando improvvisamente. “Come Ah-OK.”

“Sì,” sussurrò Starling. “Ah-OK e roba del genere. Lo faresti?”

“Non.”

“Perché no, Babette?”

“E’ troppo… troppo pericoloso. Non desidero perdere la vita andando nello… spazio.”

“Il mio Governo intende pagarti…” fece un rapido calcolo mentale “…cinque volte la tua tariffa normale. Ci saranno altre undici ragazze con te, non sarai sola. Dovrai soltanto lavorare due o tre ore al giorno. E oggigiorno non ci sono più pericoli. Molte donne sono andate nello spazio e sono tornate sane e salve; sembra che le condizioni nello spazio esterno siano molto rilassanti. E quando andrai in pensione ti forniremo persino una casa e un fondo pensione, così potrai trascorrere i tuoi ultimi anni in modo confortevole.”

“E tutto questo proprio per me?”

“Solo per te.”

Babette inghiottì e chiuse gli occhi. “E perché allora ho sempre avuto l’impressione che gli americani fossero…come dite voi? Puritani?”

***

Sen. McDermott: E lei afferma di aver ingaggiato tutte queste ragazze personalmente?

Signor Starling: Sì, esatto Signore.

Sen. McDermott: E la maggior parte di loro ha collaborato?

Signor Starling: E’ il loro lavoro, signore.

Sen. McDermott: Voglio dire, che reazioni hanno avuto alla sua proposta tanto insolita?

Signor Starling: Beh probabilmente ricevono un sacco di proposte insolite. Sembrava che la prendessero come un fatto che accade nella vita.

Sen. McDermott: Un’ultima domanda Signor Starling. Come ha trovato il suo primo impiego?

Signor Starling: Molto faticoso, signore.

***

“Wilbur, devi essere molto stanco” disse Hawkins, facendo balenare il suo famigerato sorriso. “Quante ragazze hai detto di aver intervistato?”

“Ho smesso di contare arrivato a venti.”

“E ne hai selezionate dodici per noi, giusto?”

“Sì signore, nove francofone e tre anglosassoni.”

“Beh, penso che ti sei meritato una vacanza; partirai non appena le ragazze saranno al sicuro sulla USSF 187. A proposito, com’è che si chiamano?”

Starling chiuse gli occhi come se avesse i nomi scritti sulle palpebre. “Allora vediamo… ci sono Babette, Suzette, Lucette, Toilette, Francette, Violette, Rosette, Pearlette, Nanette, Myrtle, Constance e Sydney.”

“Sydney?”

“E… che ci posso fare capo, si chiama così.”

“Oh beh, suppongo che ci sia di peggio,” sorrise Hawkins. “Avrebbe potuto chiamarsi Australia di cognome.”

“E’ peggio, capo. Di cognome fa Carton.”

***

Hawkins impartiva un discorsetto preparatorio pre-lancio alle dodici nuove astronautine. “Mi piace pensarvi come un piccolo esercito di usignoli fiorentini” disse loro. “Spero che non riceverete tutto il credito che il vostro coraggioso atto di sacrificio meriterebbe, però…”

Starling irruppe nella stanza col panico negli occhi. “Sta arrivando il Generale Bullfat, è in corridoio!” urlò.

Filmore saltò giù dal tavolo su cui si era seduto. “Jess, sei sicuro di sapere cosa stai facendo? Se Bullfat scopre le ragazze…”

“Tranquillo Bill” sorrise Hawkins con noncuranza. “Con Bullfat me la cavo a occhi chiusi. Una quisquilia.”

“Che è una quisquilia?” Ruggì Bullfat entrando. Il Generale era un uomo corpulento – ma si sa che trascorrere quarant’anni dietro a una scrivania donerebbe lo stesso aspetto a chiunque.

“Lei,” rispose Hawkins, voltandosi con calma per affrontarlo “Stavo proprio dicendo a Bill che per lei sarebbe una quisquilia essere promosso al mio posto, se mai dovessi dare le dimissioni.”

Bullfat mormorò incoerentemente. “E loro chi sono?” chiese dopo un attimo, indicando le ragazze.

Era una domanda intelligente. Le astronautine, contrariamente alla procedura usuale, indossavano tute spaziali ampie e rozze. Dalla schermatura del viso si intravedevano soltanto occhi e nasi, mentre il resto della testa era completamente rivestito dai caschi. Facevano pensare più a goffi pagliacci che a viaggiatrici spaziali.

“Fanno parte del gruppo che deve partire tra tre ore. Glieli presento?” Filmore e Starling a quell’invito quasi svennero, ma Hawkins fece balenare una smorfia rassicurante.

“Ho troppo da fare per permettermi presentazioni, Hawkins. Ma perché hanno un aspetto tanto scadente? Ma li hanno già passati, gli esami fisici?”

“E non sa quanto!” sussurrò Starling a Filmore.

“Generale, ma sa bene che non manderei mai nessuno nello spazio se non fosse in condizioni perfette” rispose Hawkins.

“Che ha detto il medico di volo?”

“Ha detto che questo gruppo ha le migliori forme… ehm, la miglior forma che abbia mai visto.”

“Beh, l’importante è che abbia controllato.” Bullfat fece l’atto di andarsene ma poi si fermò sulla soglia. “A proposito, per dove si inbarcano? Per la Stazione Tycho?”

“No, per il satellite USSF 187.”

“E’ già ora di cambio turno?”

“No, è un gruppo di personale aggiuntivo.”

“Personale aggiuntivo?” urlò Bullfat. “Hawkins, sa stramaledettamente bene che quella Centottantasette è stato costruito per diciotto uomini contati, in turni di sei ogni mese. Non c’è assolutamente spazio per altre dodici persone. Che dovrebbe fare secondo lei questo suo “personale aggiuntivo”, dormire accucciato sugli altri uomini?”

Con meravigliosa prova di autocontrollo, Hawkins riuscì a trattenere una risata. Anche il “personale aggiuntivo” sorrise con consapevolezza. Starling però dovette allontanarsi dalla stanza in preda a un attacco di riso isterico.

“Dove cavolo va?” chiese Bullfat vedendo Starling uscire.

“Oh, ultimamente è stato parecchio sotto pressione. E’ ora che vada in vacanza.”

“A me pare più che debba farsi controllare – e anche lei, Hawkins. Lei ha in mano la politica dell’Agenzia Spaziale ma i lanci sono cosa mia e quell’equipaggio non va su come “personale aggiuntivo” di una stazioncina spaziale. Se li vuole far partire dovrà farli includere nella rotazione del personale a sei mesi, proprio come tutti gli altri. E non se ne parli più.” Bullfat uscì trionfante dalla porta.

“Pronto a mollare, Jess?” chiese Filmore.

“Neanche per idea. Mi ha sorpreso, ma Bullfat su un punto ha ragione. Se mandiamo le ragazze sull’Ottantasette risulterebbero troppe, sarebbero costantemente d’impiccio per gli uomini e potrebbero diventare un problema anziché un aiuto. Ma non tutto è perduto. La Novantatré… quand’è che deve decollare?”

“La prossima settimana —ma non starai mica pensando di mandare su le ragazze con quella?”

“E perché no?”

“Il satellite USSF 193 non è una stazione passeggeri – serve per lo stoccaggio di cibo e materiale. Non è stata progettato per viverci dentro.”

“E allora improvviseremo, Bill. La Novantatré sarà posta in orbita in parallelo con l’Ottantasette, perché ne avranno bisogno per magazzinaggio. Sarà mandata su in quattro sezioni già cariche e assemblata nello spazio. In una settimana sarà un gioco da ragazzi aggiungere alle sezioni delle cuccette d’accelerazione e delle aree di soggiorno – basterà disfarsi di materiale non essenziale e saremo a posto. E le ragazze potranno star lì.”

“Jess, è assurdo” mormorò Filmore.

“Veramente no. Sai che l’idea mi piace sempre di più.” Hawkins sorrise appena. “Pensaci: USSF 193: il supermarket sotto casa e il bordello di fiducia, due al prezzo di uno.”

Filmore gemette. Le ragazze esultarono mentre le conducevano via.

***

“Io non ci posso credere,” disse Jerry Blaine. “Voglio dire, qualcuno laggiù sta facendo trucchetti.”

“Nessuno fa trucchetti in codice top secret” replicò il Colonello Briston. “Gli ordini li ha firmati personalmente Jess Hawkins. E le ragazze le avete viste coi vostri occhi. Ammetto che è da folli….—”

“Folli? Amico mio è da pazzi furiosi” disse Phil Lewis. “Mark, leggimi di nuovo questi ordini per favore. Devo sentire ancora quel messaggio, ancora una volta.”

Briston ridacchiò. “Cari amici,” lesse, “assieme a ciascuna sezione della USSF 193 riceverete tre componenti dell’equipaggiamento necessario per il progetto Coccole (per un totale di dodici Unità). Il nostro caro Zio Sam non si è risparmiato per inviarle direttamente dall’Europa, quindi trattatele con cura, d’accordo? Saranno sostituite a rotazione ogni sei mesi circa, ma nel frattempo potranno essere stoccate nell’USSF 193. Condividetevele con giustizia e divertitevi – è un ordine! Qualsiasi comunicazione riguardante questo equipaggiamento dovrà essere inoltrata personalmente a me, con questo stesso codice. Anche questo è un ordine. Cordialmente, Jess Hawkins, Direttore Agenzia Spaziale Nazionale.”

“Wow!” esclamò Lewis. “Ricordami di smettere di lamentarmi perché pago le tasse.”

Proprio in quel momento dalla stanza attigua emerse Sydney. Si era tolta la tuta ed era lievemente più sgonfia. “Blimey,” disse “sicuramente voi ragazzi state al freddo quassù. Io Nanette e Constance stiamo gelando. Ci domandavamo se…. Forse qualcuno di voi ragazzi vorrebbe gentilmente riscaldarci…”

Per via del grado, il Colonnello Briston riuscì a posizionarsi in testa alla fila.

***

Era molto tardi, cioè ciò che sulla stazione veniva considerata notte, ed era passato un mese circa dall’arrivo delle ragazze. Lucette, Babette, Francette, Toilette, Violette, Rosette, Suzette e Myrtle erano di turno, mentre le altre cercavano di dormire, per quanto possibile. Sydney era pacificamente rannicchiata nel letto, immersa nei suoi sogni non tanto innocenti, quando improvvisamente una meteora della grandezza di un pugno le forò la parete accanto al letto andando a scoppiare contro il muro all’estremità opposta della stanza. L’ambiente fu invaso da un sibilo; Sydney boccheggiò mentre il foro creato dal meteorite risucchiava via rapidamente tutta l’aria.

Un secondo ed era fuori, chiudendo dietro di sé la porta stagna dello scompartimento. Le altre tre ragazze si precipitarono nel corridoio, cercando di capire cosa era successo.

“Blaine!” disse Sydney appena riuscì a riprendere fiato. “Quell’accidente ha aperto una falla!”

***

“Ora è tutto a posto, Sydney,” annunciò Jerry Blaine rientrando dall’esterno. “L’ho rappezzato. Mi dispiace ma tutto quel che avevi in giro per la stanza è stato risucchiato nello spazio. Nulla di valore, spero.”

“Nulla che io ricordi” gli rispose Sydney. “Siamo sicuri che non succederà di nuovo?”

“Come ti ho già detto, questi sono colpi di fortuna che capitano con una probabilità su un miliardo. Non potrebbe succedere ancora in altri mille anni.”

“Meglio di no, gente, altrimenti me ne torno sulla Terra in un batter d’occhio.” Si voltò per tornarsene in stanza.

“Oh, a proposito” la chiamò Blaine, “sei prenotata per stanotte? Bene. Io stacco alle quattro – mi puoi raggiungere a quell’ora.”

“Il lavoro di una donna non finisce mai” sospirò con saggezza Sydney rientrando in stanza. La maggior parte delle sue cose era ancora nei cassetti del comò, ma per quanto cercò non riuscì a trovare la scatolina portapillole che teneva accanto al letto. “Oh beh” si disse “ne ho fatto a meno già altre volte. Potrò ben farne a meno ancora per un po’”.

Fu quasi dopo quattro mesi, per essere esatti, che decise che la situazione doveva essere esposta a qualcuno; quindi ne parlò al Colonnello Briston, che era appena tornato dai suoi tre mesi sulla Terra. “Oh Cielo!” fu tutto quel che riuscì a dire lui.

“Non è poi così grave.”

“Non è così grave? Sicuramente la prendi con calma. Perché non ne hai mai parlato prima con qualcuno?”

“Beh, perché non mi era mai successo.”

Briston sussultò.

“Penso che faremmo bene a fare una chiamata a questo signor Hawkins. Lui sa sempre cosa fare.”

***

Sen. McDermott: E’ stato lei a scoprire cosa stava accadendo, Generale, giusto?

Gen. Bullfat: Ci può scommettere. Ho sospettato sin dall’inizio che Hawkins avesse mandato su delle ragazze, ma gli Spaziali non agiscono mai senza una prova certa. Quindi mi ero tenuto i sospetti per me e avevo raccolto meticolosamente le prove, in attesa del momento opportuno per mostrare le mie scoperte al Presidente.

Sen. McDermott: In altre parole, la sua scoperta era basata su un’indagine lunga e meticolosa?

Gen. Bullfat: Esatto Senatore. E’ così che fanno le cose i Militari.

***

Come Fortuna volle, quando arrivò la comunicazione sia Hawkins che Starling erano fuori per il pranzo. Era classificata come “urgente,” quindi l’addetto alla sala telecomunicazioni la fece inoltrare direttamente all’ufficio di Hawkins. La porta era chiusa a chiave.

Il Generale Bullfat, che proprio allora usciva dal suo ufficio e si incamminava per il corridoio, trovò il fattorino che aspettava il ritorno di Hawkins fuori dalla sua porta. Con la sua tipica capacità di persuasione —e duecentocinquanta libbre che indossano cinque stellette possono essere molto persuasive – Bullfat convinse il fattorino che una comunicazione urgente non poteva attendere “i capricci di un dannato imbroglione come Hawkins.”

Bullfat si portò il messaggio in ufficio e lo aprì. Decodificò con facilità la noticina di cinque parole e poi restò a fissarla per un minuto con gli occhi di fuori. “Parks,” scattò contro il segretario sul telefono interno - “passami il Presidente. No, pensandoci bene, non ti disturbare – vado a trovarlo di persona.”

Usciva dall’ufficio proprio mentre Hawkins e il suo assistente tornavano dal pranzo. Il Generale non sapeva se ridere trionfante in faccia a Hawkins oppure fargli la predica, quindi si limitò a dire: “Adesso ti ho acciuffato, Hawkins. Finalmente ti ho acciuffato.”

Hawkins e Starling si scambiarono occhiate perplesse e preoccupate. Entrarono nell’ufficio del Generale: Hawkins trovò il messaggio sulla scrivania, lo lesse silenziosamente tra sé, ricadde pesantemente a sedere. Vagava con gli occhi assenti sul muro di fronte: le mani inerti lasciarono andare il messaggio, Starling lo raccolse e lo lesse a voce alta, incredulo.

“Sydney incinta. E ora? Briston.”

***

Sen. McDermott: Signore e Signori. Appena ieri ho avuto ancora occasione di comunicare con il Presidente e siamo giunti alla conclusione che compiere ulteriori indagini al riguardo ormai sia davvero sterile. Quindi, desidero aggiornare quest’udienza fino a ulteriore avviso, senza mettere agli atti la trascrizione ufficiale fino a quel momento, quando sarà ritenuto opportuno renderla di dominio pubblico. E questo è tutto.

***

Filmore riuscì a vedersi con Hawkins fuori dall’edificio. “Riesco a vedere una tua manovra in tutto questo Jess. Come l’hai cavata, questa patata bollente?”

“Beh,” spiegò Hawkins, “dato che ancora la cosa non è di dominio pubblico, ho semplicemente fatto capire al Presidente che…. se non può liberarsi di noi, potrebbe abituarsi a noi.”

“E perché non si può liberare di noi?”

“Perché il Direttore dell’Agenzia Spaziale Nazionale è nominato per sei anni, e me ne rimangono ancora quattro. E poi, soltanto il Congresso ha l’autorità per esonerarmi.”

“Ma le ragazze? Non le possono licenziare?”

“Santo Cielo no! Sono impiegati civili dell’Agenzia e rientrano nello status di “servizio obiezione” potrebbero essere rimosse dall’incarico soltanto per incompetenza nell’esecuzione di compiti specifici. E nessuno…” Hawkins sorrise… “nessuno potrebbe mai accusarle di una cosa del genere.”




Bel Posto da Vedere


Questo è apparso per la prima volta in Vertex nell’ottobre 1973.

Guardando indietro mi pare di subire un po’ il fascino di quelle vecchie città desolate che si vedono nei sogni—ma a che prezzo! Una città del genere compare nel mio romanzo SCAVENGER HUNT, e ha il suo coronamento in A WORLD CALLED SOLITUDE. Questo però è il primo testo in cui appare. Mi chiedo cosa pensano gli studiosi di ciò che tento di dire.


Il confine della città era esattamente a mezzo metro dalla punta dei suoi stivali. Ryan, in piedi, non aveva particolarmente fretta di attraversare quella demarcazione. Cinquanta centimetri: era tutto ciò che separava lui e la sua potenziale pazzia. Fissò la città cercando di capirne qualcosa da quel profilo imperscrutabile – cercando, ma senza riuscire.

Infine trasse di tasca il comunicatore. La fredda scatola metallica rettangolare si adattava stranamente bene alla sua mano. Nell’alienità di quel pianeta era il simbolo della Terra. E finché la teneva in mano, in un certo qual modo la nave – e persino la Terra stessa – non erano poi tanto distanti. Ryan non era un uomo particolarmente coraggioso; nonostante le dichiarazioni della propaganda, gli esploratori planetari tendevano a sperimentare fallimenti e paure assolutamente terrestri. Ryan aveva paura della solitudine.

Parlò con toni calmi e pacati. La sua voce non era diretta ad altri esseri viventi a bordo della nave, ma al computer modello JVA che la gestiva. Il consorzio umano era in esubero, troppo diversificato e complesso perché la mente potesse afferrarlo… c’era bisogno di un aiuto meccanico. Per la razza umana i computer erano diventati padri, madri, insegnanti. Il Java-10 era la controparte portatile dell’enorme cervello che controllava la Terra.

“Sto per entrare in città,” disse Ryan.

“Inutile sottolineare che è importante andar cauti,” rispose Java-10. “Qui abbiamo già perduto cinque spedizioni. Cerca di mantenerti in comunicazione frequente, se non costante. E ricordati che se fallisci non faremo altri tentativi. La città sarà distrutta, nonostante il suo valore potenziale.”

“Capito,” rispose asciutto Ryan. “Vado e torno.” Disattivò il comunicatore e lo ripose in tasca.

Era fermo prima della demarcazione, esitante. Proprio alla sua destra, la navetta d’esplorazione si ergeva tozza accanto alle altre cinque, essenziale, pronta a partire all’istante in caso di necessità. Percepiva dietro di sé il deserto: asciutto, mortale, con le dune polverose che mutavano forma non appena una brezza passeggera le sfiorava. Davanti a lui lo attendeva quella città dal profilo aguzzo, bella, profondamente aliena. Pareti brillanti creavano sporgenze in angolazioni folli, come prodotte dal delirio di un architetto ubriaco. Lateralmente, una dopo l’altra, spuntavano strutture fragili, quasi fiabesche, che si ergevano anche per centinaia di metri. Altri edifici ancor più sorprendenti sembravano proprio appesi in aria, senza alcun sostegno visibile. Di tanto in tanto il vento sfiorava la città e faceva vibrare l’intera struttura come un cristallo sonoro; allora la metropoli sembrava sospirare il canto di una sirena.

Già cinque volte altri uomini erano entrati in città, l’unica, su un pianeta altrimenti desolato. Nessuno ne era mai tornato. I rilevatori non avevano mostrato alcuna traccia di vita antecedente all’arrivo dell’uomo: registravano sedici forme di vita – i sedici uomini svaniti. Ora toccava a Ryan, era la possibilità di far salire la quota a diciassette.

Non avevano idea di chi avesse costruito quella città, quando, o perché. Sapevano soltanto che si era ingoiata sedici persone, ancora vive, eppure apparentemente incapaci di sfuggire, nonostante disponessero delle migliori armi che la Terra potesse fornire. La città generava un campo di energia sconosciuta che si irradiava in forma sferica dal centro verso l’esterno per una certa distanza e mai oltre. Per un po’ alcuni degli uomini che erano entrati in quel campo di energia avevano mantenuto il contatto radio con la navetta: ma le informazioni inviate dagli esploratori erano state quasi inutili perché presto gli uomini avevano iniziato a scivolare in un crescente stato di delirio, per perdere poi completamente contatto con la realtà e interrompere le comunicazioni.

La curiosità della Terra, la necessità di tecnologia che invece questa metropoli rappresentava, erano forti. E per questo motivo sedici persone erano entrate in quella città ed erano impazzite.

Forse sarebbero salite a diciassette.

Espirando rumorosamente, Ryan attraversò il confine.

***

Non accadde nulla. Ryan rimase in attesa, con i muscoli tesi e la mascella serrata, ma non c’era differenza tra le sensazioni di un momento e quelle dell’istante precedente. Tirò ancora fuori dalla tasca il comunicatore, affidandosi al senso di benessere che gli elargiva. “Ho appena passato la demarcazione e sono entrato. Finora non avverto alcun effetto.”

“Bene,” rispose la nave. “Procedi verso il centro città. Muoviti con lentezza e non correre rischi.”

“Ricevuto” disse Ryan, riagganciando.

Le prime costruzioni distavano ancora un centinaio di metri. Ryan si avvicinò con gran decisione. Aveva tutti i sensi in allerta, alla ricerca di un qualche segnale di pericolo, sia pur lieve. Ma nulla si muoveva e gli unici rumori erano quelli provocati dal bisbigliare del vento. La città non aveva alcun odore e ciò era più avvertibile di qualsiasi puzzo. Ryan ebbe come la vaga impressione di entrare in un castello di cristallo: una sensazione che svanì rapidamente.

Arrivò al primo edificio e allungò la mano per toccarlo. Era liscio, duro, come vetro, però opaco; ne’ caldo ne’ freddo sotto le sue dita curiose, ma gli fece formicolare i polpastrelli e lui ritirò la mano. Il punto sfiorato dalle dita mostrava piccoli segni scuri contro la parete altrimenti lattea. Mentre guardava le macchie, queste svanirono e alla fine il muro tornò uniforme.

La parete non presentava aperture ne’ fratture. Ryan ci camminò rasente, in parallelo, ma senza toccarla di nuovo. Cercava un varco, una qualche apertura da cui entrare nella costruzione. Il muro appariva liscio, duro e continuo, apparentemente senza entrate; finché improvvisamente ecco che una sezione mandò un bagliore e scomparve, lasciando a disposizione di Ryan uno spazioso portale d’ingresso. Ryan sobbalzò per la sorpresa; poi tirò fuori il comunicatore e descrisse quest’ultimo avvenimento alla navetta orbitante sopra di lui.

“E’ accaduto qualcos’altro di potenzialmente pericoloso?” fu la risposta.

“Non ancora. Non c’è alcun segno di vita, a parte l’apparizione di questa porta.”

“Allora dovrai rischiare, entrare ed esplorare” disse freddamente Java-10.

Certo, pensò Ryan, a che che ti frega? Non sei mica tu a giocarti la pelle. “Ricevuto.”

Aveva con sé una torcia, ma bastò un’occhiata all’interno per chiarirgli che non avrebbe dovuto usarla. La costruzione era vivacemente illuminata; il bagliore sembrava diffondersi dalle pareti. Ryan si guardò attorno con curiosità e si addentrò.

L’edificio era assolutamente privo di mobilio. L’unico dettaglio era una larga scala a spirale che si ergeva scalando le pareti cilindriche. L’esploratore torse il collo per seguire il percorso ascendente, che però sembrava proseguire all’infinito. Ogni venticinque scalini c’era uno spazioso pianerottolo con una finestrella al muro da cui si poteva osservare la città sottostante. Sul bordo interno della scala c’era un corrimano in plastica chiara.

Ryan proseguì con lentezza, ancora teso per qualsiasi possibile evenienza. L’eco degli stivali che grattavano il duro pavimento in pietra era quasi assordante in confronto al silenzio totale che copriva il resto della città. Si avvicinò all’inizio delle scale e si appoggiò al corrimano. La plastica risultò fredda ma stranamente confortevole… era come imbattersi in un vecchio amico in mezzo a tutta quell’estraneità. Iniziò a salire con cautela gli scalini, un piede dopo l’altro, con le mani ben ferme sulla ringhiera. Gli occhi scrutavano dappertutto, alla ricerca di qualsiasi concepibile pericolo. Ma non appariva nulla. Poi fu preso dall’impazienza e iniziò a salire le scale correndo.

Si fermò finalmente a riprendere fiato al quarto pianerottolo, forse a sedici metri da terra. La porta era ancora lì, ad attendere pazientemente il suo ritorno, ma da quell’altezza sembrava assai più piccola. Si avvicinò alla finestra, guardò fuori e vide

la città di New York a mezzogiorno e i suoi marciapiedi gremiti di uomini d’affari che staccavano per il pranzo e clienti che transitavano tra un negozio e l’altro con pacchetti sotto alle braccia

sbatté gli occhi e guardò giù di nuovo. C’era soltanto la città aliena, accovacciata e silenziosa, in attesa. Silenzio. Nessun movimento, nessun suono, nessun’ombra.

Con le mani tremanti, Ryan praticamente strappò il comunicatore dalla tasca. Lasciò che le dita scosse carezzassero per un attimo la forma, poi chiamò nuovamente l’astronave. “Qui Ryan, chiamo Java-10. Ho appena avuto un’allucinazione.” Continuò brevemente descrivendo ciò che gli era apparso per un secondo fuori dalla finestra.

“Interessante” scherzò il computer. “Questo coincide con i racconti delle allucinazioni sperimentate dai tuoi predecessori. Ti sta cominciando ad accadere ciò che è successo a loro. Devi raddoppiare le cautele, d’ora in poi.”

Ryan si sedette su un gradino per ricomporsi. Avrebbe tanto voluto che per quella missione gli fosse stata concessa la compagnia del suo collega, Bill Tremain. Lui e Bill lavoravano in coppia dai tempi dei corsi d’addestramento: insieme avevano esplorato più di trenta mondi, confrontandosi con l’ignoto fianco a fianco. Se Bill fosse stato con lui in quel momento, sicuramente non si sarebbe sentito tanto solo. Ma il computer non voleva mettere in gioco più personale di quanto non fosse assolutamente necessario. Inoltre tutte le esplorazioni precedenti erano formate da squadre di due o più persone e avevano fallito; forse un uomo solo aveva maggiori possibilità di riuscita.

Con la coda dell’occhio Ryan fu attratto da un movimento; scattò rapidamente con la testa e vide una parvenza di figura umana che correva per le scale sotto di lui, per poi svanire. Un tipo con i capelli rossi. L’immagine di Bill Tremain. Palesemente ridicolo perché Bill Tremain era a bordo della navetta.

Eppure Ryan riscese lentamente i gradini per controllare. Naturalmente non c’era nessuno; la parete dietro le scale era liscia e dura e non presentava nascondigli per una persona in fuga. No, l’edificio era deserto, eccezion fatta per lui. Lo dimostrava il silenzio.

“Jeff, cerchi qualcosa?” udì da una voce sopra di lui.

***

L’uomo in piedi sul terzo pianerottolo non era il collega di Ryan. Era invece Richard Bael, una vecchia conoscenza dei giorni dell’Accademia. “Oh, non ti preoccupare” sorrise Bael. “Sono alquanto reale.”

Era logico. Bael era stato uno dei primi sedici a entrare nella città. “Come sei arrivato qui?” balbettò Ryan.

“Oh,” disse noncurante Bael, “ci sono dei modi.” Iniziò a salire le scale con agilità. “Imparerai in una settimana o due.”

“Non intendo restare tanto a lungo,” rispose Ryan sulla difensiva. Cercò di estrarre lentamente il comunicatore che aveva in tasca ma Bael si accorse del gesto.

“Ah, vuoi chiamare la nave? Posso dir loro due parole?”

“Ci terrebbero a sentirti,” disse Ryan. “Dove è finito il tuo comunicatore?”

“Devo averlo poggiato da qualche parte e poi me ne sono dimenticato” disse Bael con un gesto della mano. “Non penso che fosse poi così tanto importante.” Si avvicinò al fianco di Ryan e tese la mano. Ryan gli porse il suo comunicatore.

“Salve lassù, è Richard Bael che chiama. Mi sentite?”

“Sì,” rispose la voce senza emozioni di Java-10.

“Ho un rapporto da presentare, con ritardo, relativamente alla mia esplorazione di questa città. Suppongo che abbiate tutti i nastri attivati e pronti per registrare ogni mia parola.”

“Esatto.”

“Bene, allora, ecco qui: andate a farvi fottere.” Spense l’apparecchio e lo restituì a Ryan. “Ho sempre desiderato farlo, ma finora non avevo mai avuto il coraggio” disse con una smorfia sorridente.

Ryan gli strappò il comunicatore dalle mani, lievemente inorridito per ciò che Bael aveva fatto. “Qui Ryan che chiama Java-10. Mi ricevete?”

“Affermativo. Ma davvero c’è Bael lì con te?” La domanda era più indifferente che incredula.

“Così pare.”

“Veramente sono Peter Pan,” interferì Bael per fare i capricci.

“Zittati!” gridò Ryan.

“E’ inutile che fai tanto il permaloso, Jess. Cercavo solo di rendermi utile.”

“Chiedigli perché non lascia la città,” insistette Java-10.

“Oh, non rispondere Jeff. Sono stanco di affrontare questi deliri di onnipotenza del computer.” Fece per avvicinarsi alla porta. “Metti via quello stupido apparecchio. E’ una giornata troppo bella per passarla a parlare con una scatola.”

Ryan esitò.

“Senti, sei venuto per esplorare la città, giusto?” continuò Bael. “Beh, io sono pronto per un tour guidato. Che ti aspetti, un invito decorato a mano? D’accordo, eccotelo qui.”

Tirò fuori di tasca un bigliettino e lo gettò ai piedi di Ryan. Ryan si piegò per raccoglierlo. C’era inciso a lettere dorate: IL SIGNOR RICHARD BAEL SAREBBE ONORATO DI POTER OFFRIRE AL SIGNOR JEFFREY RYAN UNA VISITA GUIDATA PERSONALE IN GIRO PER LA CITTA’.

“Ti basta?” chiese Bael in tono colloquiale.

Ryan ripose con cura il bigliettino nella sacca portacampioni, per poterlo analizzare in seguito. “D’accordo, Bael, facciamo come vuoi tu.” Il comunicatore tornò in tasca. “Fammi strada.”

Con un gesto fiorito, Bael si diresse verso la porta; Ryan lo seguiva due passi dietro; appena fu passato, l’apertura svanì e la parete si ricompattò. Ryan non si preoccupò di un dettaglio tanto piccolo. Senza dubbio la città avrebbe avuto in serbo molte altre sorprese e più eclatanti per lui, di lì a poco.

Aveva ragione.

***

I due uomini passeggiavano per la città. Bael con un’andatura svagata, Ryan sfregando i piedi per l’impazienza di doversi adattare al passo esasperatamente lento del compagno. Non c’erano delle vere e proprie strade da seguire e non sembrava che la metropoli fosse stata costruita con un piano regolatore comprensibile. Mancavano lunghi tratti di terreno sufficientemente spaziosi per permettere il passaggio di un veicolo qualsiasi; c’erano solo costruzioni di ogni tipo e forma e colore che risaltavano dappertutto; qui un cilindro, lì un cono, poco più avanti un emisfero… due edifici cambiarono forma sotto gli occhi di Ryan.

“Chi ha costruito questa città?” chiese a Bael. “Perché l’hanno fatto? E dove sono andati?”

“E’ un bel posto, vero?” Bael ignorò le domande e fece un gesto verso gli edifici che li circondavano.

“Questa non è una risposta.”

“Certo che no. Non ho risposta. Qui le domande sono irrilevanti e le risposte sono ugualmente irrilevanti.”

“Ma nemmeno per idea. Io devo sapere….”

“Correzione: Java-10 deve sapere. Tu non devi far altro che divertirti.” Bael ridacchiò per solidarietà. “Povero stupido bastardo, ti hanno fatto tanti di quei lavaggi del cervello che non riconosci neppure la libertà quando ti bacia in fronte. Sediamoci e parliamo un po’.”

Dietro di loro apparvero due comode sedie. Bael ne afferrò una e fece cenno a Ryan di prendere l’altra. L’esploratore prima la saggiò con disagio, poi ci poggiò sopra il proprio peso. “Di cosa vuoi parlare?” domandò quando si fu sistemato.

“Iniziamo dal motivo per cui sei qui.”

“Come il tuo: per scoprire qualcosa della città.”

“Perché?”

“Più che altro per la tecnologia. Chiunque costruisca un posto come questo deve essere talmente più progredito di noi che si potrebbe imparare qualcosa anche semplicemente studiando ciò che produce. Dobbiamo scoprire…”

“Dobbiamo?” lo interruppe Bael. “Ma veramente ti ci consideri dentro?”

L’interruzione fece perdere a Ryan il filo dei suoi pensieri; riuscì soltanto a sbattere gli occhi, senza comprendere.

“Sii onesto. Tu, personalmente, non sei mai stato curioso di sapere cosa c’è di tanto particolare in questa città che per venirci si rischia addirittura la salute mentale?” Gli occhi di Bael luccicavano di vitalità mentre mentre arrivava concitatamente al punto. “Ti sei offerto tu come volontario per questa missione, oppure è stato Java-10 a importela? Ah, guarda come si agita. Non è stata un’idea tua, giusto?”

“Questo non ha niente a che fare…”

“Ha tutto a che fare. Jeff, sei una marionetta, uno schiavo di quella navetta lassù. Fai un bel lavoro, compi bene la tua missione e ti daranno una pacca sulla spalla, un encomio, forse pure una medaglia. E’ solo questo che vale la tua vita secondo te?”

“Ho una responsabilità nei confronti del Corpo, verso la Terra.”

“Mandali a quel paese! E le tue responsabilità nei confronti del numero Uno? Perché non impari a divertirti?”

“La Terra ha bisogno di me…”

“Sì certo proprio come il Presidente Ferguson ha bisogno di un altro buco di...” Bael si guardò attorno. “Ehi, coraggio amico mio, unisciti a noi.”

Verso lo spazio aperto dove erano seduti sopraggiunsero, con lo stesso passo agile di Bael, altri quindici uomini, provenienti un po’ da tutte le direzioni. Erano gli altri esploratori sbarcati con le spedizioni precedenti. Ryan ne conosceva la maggior parte, se non personalmente, almeno per la reputazione. Prima di arrivare in quella città erano stati uomini duri, d’esperienza. Ora sembravano docili, rilassati ed estremamente soddisfatti. Salutarono tutti Bael e sorrisero con calore a Ryan.

“Sicuramente,” disse Bael, “adesso tiri fuori il comunicatore e dai a Java-10 la buona notizia che siamo tutti vivi e tutti insieme in un certo posto.”

In realtà era proprio ciò che Ryan voleva fare. Nonostante le espressioni amichevoli sui volti degli uomini, si sentiva assolutamente a disagio, perché era circondato da sedici disertori. Ciò che voleva in quel momento più di ogni altra cosa era percepire in mano quella scatoletta fredda, metallica, per avere la calda assicurazione che lassù qualcuno si interessava del suo benessere. Ma la conversazione sembrava essere diventata un duello personale tra Bael e lui, e non voleva dare al suo avversario la soddisfazione di aver ragione. Invece disse: “Farò relazione più tardi”.

“Coraggio, ragazzo!” sogghignò Bael. “Stai già imparando. Tempo un paio di giorni e sarai libero come tutti quanti noi.”

Ryan ebbe la spiacevole sensazione di esser caduto nella trappola dell’altro. “Ma io non ho un paio di giorni” replicò dispettoso. “Se non me ne vado per domani a mezzogiorno sarò considerato scomparso, proprio come voi. E in questo caso Java-10 bombarderà la città riducendola in particelle sub-atomiche.”

Gli altri persero il sorriso. Tutti ma non Bael, il cui buon umore pareva incrollabile. “Non penso” disse sommesso, “che la città lo lascerebbe accadere.”

Toccò a Ryan rimanere un attimo in silenzio. “Ne parli come se fosse un essere vivente.”

“Se lo è o no, io non ne ho la minima idea. Ma dopo esser stato qui per un po’ cominci a chiedertelo. Certamente sa quel che ci passa per la testa. Agisce secondo i nostri pensieri e modella i nostri sogni. Ci ama, Jeff… e non lascerà che ci accada nulla di male.”

Ryan sentì un brivido freddo salirgli per la spina dorsale. Bael era serio, come solo un folle può essere. Inghiottì a vuoto e disse: “Eppure non vorrei esser qui a mettere alla prova il suo amore quando inizieranno a cadere le bombe.”

“Sei libero di andartene quando vuoi” sottolineò Bael. “Non ti ferma mica nessuno.”

Sorpreso, Ryan si rese conto che Bael aveva ragione. Aveva dato per certo di trovare annidata in qualche parte della città una forza diabolica che avrebbe cercato di trattenerlo contro la sua volontà. Invece fino a quel momento si era imbattuto soltanto in una tecnologia straordinaria e in sedici amichevoli matti. Non era ancora crollato – non ancora – per la follia degli altri, non percepiva alcuna strana costrizione che gli impedisse di andarsene: avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento.

“Beh, certo…” disse Tashiro Surakami, uno degli altri esploratori che Ryan conosceva appena “Java-10 non sarebbe contento se tu lo facessi.”

Ecco il problema. Andandosene in quel momento non avrebbe avuto nulla di significativo da riferire. Era stato inviato per scoprire perché quegli uomini non avevano fatto ritorno sulle loro navi. Fino ad allora, eccezion fatta per le generalizzazioni edonistiche di Bae, non aveva alcuno spunto per capirne il motivo. Andandosene al momento e tornare alla nave sarebbe stato come non esser sbarcato affatto.

“Ho ancora il mio lavoro da fare,” insistette testardo Ryan. “Non lascio tutto a metà. Devo scoprire perché…” E si fermò.

“Perché siamo impazziti?” terminò Bael al suo posto. “Da questa parte della siepe, invece, è il perché siamo rinsaviti. La risposta è tutta intorno a noi, occorre solo fermarsi a cercarla. Per te gli altri, e anche io probabilmente, siamo solo una distrazione. Forse ti farebbe bene restar solo per un poco. Amici, lasciamo Jeff qui per un po’. Ricordati, Jeff, se vuoi parlare con qualcuno, facci un fischio. Qualcuno ti sentirà.”

Bael e gli altri si allontanarono, parlando e ridendo fra di loro. Era come se per loro Ryan avesse improvvisamente cessato di esistere. Un minuto dopo erano scomparsi tutti. Era calato di nuovo quel silenzio soffocante e Ryan si ritrovò seduto in una città apparentemente deserta.

L’esploratore afferrò rapidamente il comunicatore e ci vomitò un rapporto disperato per la navicella sopra di sé. Sperava in un consiglio, ma la navetta confermò asciutta di aver ricevuto il messaggio, poi gli disse di rimanere cauto e staccò.

Si avvide della ragazza soltanto alzandosi.

***

La fissò per un lungo momento, incapace di dire alcunché.

La ragazza non provò gli stessi impedimenti. “Salve Jeff” disse in tono dolce. “Ti ricordi di me?”

Ricordarsi? E come poter dimenticare Dorothy, la prima ragazza con cui avesse mai dormito? Dorothy, con il seno piccolo ma femminile, la risata acuta, il suo caldo desiderio di compiacere….

“Non esisti,” affermò piatto Ryan. “Non sei reale.”

Dorothy piegò la testa di lato in quel suo strano modo, come faceva di solito quando lui diceva qualcosa e lei non capiva. “Ah no?”

“Non sono nello spirito giusto per giocare a domanda e risposta. Prima Bael, ora tu. Qualsiasi cosa tu sia, non sei Dorothy. Lei è a cento parsec da qui, è sposata e ha tre figli. Sei soltanto un bluff. Vattene.”

Dorothy si guardò i piedi senza muoversi. “Tu non mi ami più.”

“Senti” disse Ryan, “ammetto che sei una bella bufala. Ma lo so che non sei reale. Non è colpa tua…. Tu ci hai provato.”

“Non sono reale?” Dorothy alzò lo sguardo con gli occhi rossi colmi di lacrime e la voce rotta. “Tu mi vedi e mi senti, non è vero? Se mi vieni un poco più vicino puoi sentire il mio profumo. Se allunghi la mano puoi toccarmi. Se mi mordi, mi assaggi. Quanto devo essere più reale di così?” La sua supplica rasentava l’isteria.

Ryan esitò. Era per forza un’allucinazione, su questo non c’erano dubbi. L’ufficiale ben addestrato che era in lui desiderava afferrare il comunicatore che aveva in tasca. Ma l’uomo che aveva in sé diceva di no. E una terza parte della sua mente continuava a ripetere “Tu sei pazzo.” Ma qual’era la parte pazza? Non poteva certo amare un prodotto della sua immaginazione che in qualche modo si era materializzato davanti a lui. Questa Dorothy era fredda, irreale, il risultato fantasma di una città misteriosa.

E improvvisamente lei gli fu tra le braccia: ed era molto vera e molto viva. Col viso rivolto verso l’alto a cercare il suo. I piccoli seni schiacciati contro di lui, le cosce premute strettamente contro le sue, lievemente ondulanti in modo oltremodo erotico. Ryan cercò di resistere, di dire a se stesso che non stava accadendo. In quanto a bugie aveva vasta scelta, ma in qualche modo Dorothy tra le sue braccia era la bugia più convincente. La mano sinistra le carezzò i capelli sul lato destro del capo. La mano destra di lei armeggiò avida sui bottoni del collo della sua giubba. La bocca premette contro la sua, si aprì e ne uscì di scatto la piccola lingua dura, scorrevole sulle punte dei denti.

Non c’era e non poteva più esserci alcun dubbio. Al diavolo la logica! Era reale. Non era un delirio della sua mente, ma l’articolo vero in carne e ossa. Ryan nuotava in un mare di sensazioni. I due caddero al suolo, che si era fatto, non si sa come, gommoso e resistente. La mente non ebbe modo di ponderare la questione, perché il corpo non glielo permise. Come da secoli accade, la ragione avvizzì contro la passione.

Era talmente coinvolto che non si accorse neppure del ronzìo insistente del suo comunicatore.

***

Più tardi, Dorothy si rialzò. “Devo andare,” disse.

“Devi?”

Annuì. “Ma tornerò in qualsiasi momento tu ne abbia bisogno. Basterà chiamarmi. Capirò.” E sparì.

Ryan giaceva di schiena e fissava il cielo, che era assai più pallido di prima e non abbagliava più dolorosamente gli occhi. Era forse tardo pomerigio. Di lì a pochi minuti si sarebbe dovuto alzare per continuare l’ispezione, ma in quel momento era troppo appagato per muoversi. Anche sbattere gli occhi gli pareva uno sforzo immane…

“Ti diverti?” chiese una voce familiare.

Ryan girò di scatto la testa e vide Bael, in piedi a pochi metri di distanza, che lo fissava con una smorfia. Si rialzò in piedi in preda a un’ondata di colpa, vergogna e rabbia indignata. “Che ci fai qui a spiarmi?”

“Non spio,” disse Bael, e la smorfia si allargò. “Ero nei paraggi e ho pensato di fare un salto. E poi potrei chiedere la stessa cosa io a te…. Solo che io conosco la risposta.”

Ryan non capiva cosa lo facesse arrabbiare di più—la disinvoltura di Bael o la propria incapacità di affrontare quel disertore. Prima di riuscire a pensare qualcosa da dire Bael continuò “immagino che fosse sesso.”

Fu la sua stessa espressione a tradire Ryan. “Immaginavo,” annuì Bael con cognizione. “A quanto pare è la cosa di cui abbiamo più bisogno noi esploratori solitari. Una cosa che il computer della navetta non può darci. La città lo sa, Jeff. Per quanto tu cerchi di nascondere qualcosa che hai in mente, la città lo sa.”

“Tu pensi davvero che sia viva.” Non era una domanda.

“Non lo so. Dipende da cos’è che intendi per viva. Se vuoi dire qualcosa che esiste e respira in vita, ne dubito. Se intendi cosciente e consapevole di ciò che accade oh, sì, sicuramente.”

“Ma come...”

“Devi proprio fare queste domande diaboliche?” Per un attimo la maschera esteriore di Bael crollò e al di là della superficie Ryan riuscì brevemente a intravedere una traccia di insicurezza. Poi tornò levigata… e Bael fu nuovamente se stesso, con nonchalance e disinvoltura. “Accettala per quel che è, Jeff. Questa città può farti sognare. Vuole aiutarti. Non so come lo faccia e non mi importa. I suoi costruttori l’hanno fatta così, e per me è abbastanza.”

“E dove sono ora i suoi costruttori? Cosa è capitato?”

Cercava di far scomporre ancora Bael, ma stavolta non ci riuscì. “Non so. Probabilmente sono andati a fare altre cose, più importanti e migliori. Peccato in un certo senso, perché vorrei davvero ringraziarli.”

“Ringraziarli per cosa?” chiese cinico Ryan. “Per averti fatto diventare un vegetale? Ti limiti a startene seduto mentre la città fa tutto per te, giusto? Ti dimentichi di essere un uomo e inizi a diventare un parassita.”

“E tu? Tu sei più di un uomo, Jeff?” replicò Bael e la tensione che aveva dentro, di qualsiasi cosa si trattasse, risalì in superficie. “E chi è il pupazzo adesso? Chi è che si precipita ogni volta che Java-10 tira la cordicella? Chi è che non riesce a star lontano dal comunicatore per più di due secondi di fila? E chi è che è arrivato in città seguendo un ordine, e chi invece se ne va in giro come più gli aggrada?

“Una volta eri un buon ufficiale, Bael,” disse Ryan piano. Per un momento, almeno, i ruoli si erano invertiti – Bael era in tensione e Ryan era diventato minaccioso.

“Certo. Lo ero” sputò Bael. “Prendevo ordini e rischiavo la vita per la cara vecchia Terra. E che cosa me ne è venuto? Una manciata di medaglie, un piccolo bonus in busta paga ogni Natale, un fondo pensione che aumenta rapidamente. Dopo un po’, Jeff, diventa tutto privo di senso. Ma non qui. La città mi vuole, ha bisogno di me. E’ stata costruita per servire la gente, per dare alla gente ciò di cui ha bisogno. Vuole solo aiutare. E’ tanto orribile?”

“Sì che lo è —se riesce a fare ciò che ha fatto a te.”

Bael si sforzava di recuperare l’autocontrollo. “Non combatterla, Jeff. E’ un avvertimento amichevole. La città può facilmente proteggersi contro di te. Certo, può darti sogni: ma anche gli incubi sono sogni. Non pensare di poter combattere tutti i tuoi incubi in una sola volta.” Bael si voltò e se ne andò.

Ryan lo fissò mentre si allontanava e rimase immobile a guardare anche quando il disertore sparì dietro un edificio. Forse quelle di Bael erano solo minacce… oppure la città poteva riportare a galla incubi, oltre che sogni? Era propenso a credere alla seconda ipotesi. Di nuovo il pensiero di quanto fosse stata reale quella Dorothy: e rabbrividì. Non aveva incubi da molto tempo, eppure… eppure…

Tirò fuori dalla tasca il comunicatore e digitò un’altra chiamata per Java-10. “Perché non hai risposto all’ultimo contatto?” rispose immediatamente la nave.

Ryan ricordò vagamente il ronzìo proveniente dall’apparecchio durante il suo intermezzo con Dorothy. “Oh, io... mi spiace” balbettò. Poi, come un bambino colpevole di fronte a un genitore consapevole e severo, si ritrovò a sciorinare dettagli su tutto ciò che era successo dall’ultima volta che aveva parlato con la nave.

Java-10 ascoltò tutte le sue rivelazioni senza emozioni. “Sei stato negligente nel dovere, durante questo tuo ritorno di fiamma” lo rimproverò quando ebbe finito.

“Lo so. Non accadrà ancora.”

“Molto bene. Ma questo non scusa il fatto che sia già successo una volta.” Poi la macchina passò ad un argomento di tutt’altro genere. “Sta iniziando a emergere un quadro coerente del funzionamento di questa città. Sembrerebbero esserci una o più potenze meccaniche che operano dietro le quinte, consapevoli di ciò che accade. Sembra ragionevole ritenere che questa potenza munita di controllo possieda una qualche sorta di capacità telepatiche che gli permettono di scoprire i desideri e proiettare illusioni in una mente.”

“Ma deve esserci dell’altro. La sedia che ho visto era reale. Ha sostenuto il mio peso. Anche la ragazza era reale. Quelle sicuramente non sono state illusioni.”

Java-10 esitò. Poi “Potrebbe anche essere opportuno ipotizzare un sistema di trasformazione materia-energia, così che la forza che fa funzionare la città sia anche in grado di creare materia nella forma desiderata. Tutte queste ipotesi presuppongono che i costruttori della città dispongano di sistemi incredibilmente sofisticati. Adesso diventa essenziale scoprire il segreto della città.”

“Deve esserci un’area di controllo centrale, un posto in cui risiedono le funzioni intellettive più elevate della città. Devi cercare quest’area e renderla inoffensiva ma senza distruggerla, per poterla studiare in sicurezza.”

“E come posso farlo?” protestò Ryan.

“Al momento i dati sono insufficienti per poter rispondere a una domanda del genere” rispose Java-10. “Devi scoprire di più su questo sistema.”

“Potrebbe essere pericoloso.” Ryan raccontò della minaccia di Bael riguardo agli incubi. “Non potresti mandare qualcun altro giù per aiutarmi?”

La risposta fu immediata e crudele nella sua schiettezza. “No. Se non ci riesce un uomo solo, non ci sono proprio probabilità che ce la faccia un gruppo. Se la città vince su di te vincerà anche su chiunque altro manderemo giù. Non possiamo rischiare altre vite. Se tu fallisci, la città deve essere distrutta, indipendentemente dal suo valore.” E senza neppure augurargli buona fortuna, Java-10 staccò.

***

Era pomeriggio tardi. La stella rossa che fungeva da sole per quel mondo stava tramontando, trasformandosi in una gonfia palla di sangue nell’avvicinarsi all’orizzonte. La sua luce modificava la colorazione della città e gli edifici riflettevano le macabre sfumature con un senso di strana soddisfazione e di presentimento insieme. L’onnipresente brezza ora conteneva un filo di fresco e Ryan, all’aperto, tremò involontariamente.

Non mangiava da colazione e gli stava venendo fame dopo le strane attività della giornata. Prese una scatoletta di razioni dalla borsa di sopravvivenza

e notò al suo fianco un grande tavolo, apparentemente imbandito per un buffet di gente di lusso. L’aroma misto e piacevole di prosciutto al forno, pollo fritto, aragosta ai ferri e bistecca alla griglia gli assalì le narici. Tra tutte quelle portate notò cumuli di crema di patate gialla di burro, e piselli, e…

“No!” disse ad alta voce. “No, non ci riuscirete di nuovo. Mi avete ingannato una volta ma questa volta non mi faccio giocare.” Si allontanò dal tavolo.

Il tavolo, provvisto di ruote, lo seguì.

“Non stavolta,” ripeté. Tirò fuori una scatoletta chiusa dalle razioni e l’agitò in aria. “Stavolta ho il mio cibo. Forse non sarà appetitoso come il vostro ma almeno non ci sono fili attaccati.”

Ryan strappò la linguetta per aprire la scatola. Sulla carne strisciavano alcuni grossi, orribili insetti neri. Istintivamente scagliò la scatola lontano. La tavola colma di cibo si avvicinò ancora.

“D’accordo,” disse cocciuto Ryan, “e così resterò con la fame ancora alcune ore. Non mi faccio vincere tanto facilmente. Bael e gli altri possono esserti schiavi, ma non mi ci contare.”

Quel discorsetto lo fece sentire molto orgoglioso della propria integrità. Sfortunatamente non servì affatto ad alleviare il gorgoglìo nello stomaco.

Trova il cervello centrale della città gli aveva detto Java-10. Più facile a dirsi che a farsi. Dove doveva guardare? Il centro geografico poteva essere anche il fulcro logistico, ma come avrebbe fatto a trovarlo? Non aveva idea di dove si trovasse al momento, e anche sapendolo, non aveva indicazioni. Non potevano esserci punti di riferimento in una città in continuo cambiamento, dove gli edifici mutavano forma e colore ogni minuto.

Dopo un attimo, Ryan decise che che una direzione valeva l’altra e iniziò a camminare. La tavola con il banchetto lo seguì come un cucciolotto allegro. Lui la ignorò, focalizzando lo sguardo dritto davanti a sé.

Il crepuscolo diventava notte e contemporaneamente le luci prendevano vita. Non le normali luci bianche e sterili di una qualsiasi metropoli terrestre, ma una fantasmagoria di lucentezze e colori; era come se la città fosse diventata un enorme spettacolo pirotecnico. Luci di tutte le sfumature che lampeggiavano e brillavano in mescolanze regolari o casuali. Vortici e combinazioni ipnotiche che formavano striature da un edificio all’altro in elaborazioni sempre diverse. L’oscurità non aveva angoli dove nascondersi e dunque fuggiva, lasciando la città illuminata come in pieno giorno.

Ryan ignorò le luci e proseguì.

Alla fine la tavola che lo seguiva si dette per vinta e sparì. Uno dei primi esploratori spuntò da un edificio con una bottiglia in mano. Vedendo Ryan lo salutò di buon umore e lo invitò ad unirsi a lui.

Ryan gli passò oltre.

“Jeffrey!”

A quel grido non poté far a meno di voltarsi. Lì, sulla soglia di uno dei palazzo, c’era sua madre, morta da quattro anni. Aveva i capelli lunghi come andava di moda quando Ryan aveva tre anni, ma il viso era quello della vecchiaia. Gli tese la mano. “Vieni da me, figlio” chiese sommessa.

Non è reale. Mamma è morta. E’ un falso. Contraffatta. Illusione. Frode.

Si voltò lentamente per tirar dritto.

“Jeffrey! Jeffrey, figlio mio, non riconosci neppure tua madre?”

Ryan si fermò mordendosi un labbro. Ma non si voltò di nuovo verso di lei. Non osava. “Jeffrey, guardami. Per favore.”

“No. Sei finta, finta come tutto il resto in questo maledetto posto. Vattene e lasciami solo!”

Lei gli corse incontro come meglio poteva, reggendosi la gamba sinistra come doveva fare di solito per via dell’artrite. Lo tirò per una manica, gettandoglisi ai piedi. “Sono tua madre, Jeffrey” pianse. “Dì che mi riconosci. Ti prego. Tua madre.” Gli occhi umidi lo guardarono in viso ma lui evitò rapidamente quello sguardo.

“Lasciami ANDARE!” urlò. La spinse lontano. Lei cadde all’indietro e urtò la testa contro il terreno duro. Si sentì un rumore di frattura e dal punto in cui la testa aveva battuto iniziò a fuoriuscire sangue. La donna restò immobile, con gli occhi che lo fissavano come quelli di un pesce morto. Lui ebbe un conato di vomito, ma avendo lo stomaco vuoto non uscì nulla se non un gusto amaro e acido.

Quando gli spasmi digestivi si furono acquietati, si raddrizzò e continuò a camminare, nonostante si sentisse sulla nuca gli occhi morti della donna che lo fissavano. Se si fosse voltato, ne era certo, l’avrebbe trovata a guardarlo. Quella consapevolezza rendeva difficile non voltarsi.

Ryan continuò a marciare.



***

Lo aspettavano proprio oltre l’angolo. Bael e altri sette esploratori, in piedi in riga per bloccargli la strada. “Se non giochi seguendo le regole devi abbandonare la gara, Jeff” disse neutrale Bael.

“Mi fate passare?”

L’altro scosse la testa. “No. Non possiamo farti andare oltre.”

“E allora adesso io cosa dovrei fare?”

“Una di queste due cose: o torni indietro, oppure ti unisci a noi.”

“E la mia missione qui?”

“Smettila di giocare al soldatino di piombo, Jeff. Sai fare di meglio.”

“Mi sa che voglio vedere cos’hai oltre le spalle.”

“Noi siamo otto qui, Jeff, e tu sei solo.”

“Sì ma io ho una pistola.”

“Non funzionerà,” disse tranquillo Bael. “Non su di noi. La città non ti farebbe entrare.”

E Ryan capì che aveva ragione. Qualsiasi forza detenesse il controllo di quel luogo non gli avrebbe permesso di distruggere nulla di importante. Ma doveva esser vicino a qualcosa, altrimenti il gruppo non avrebbero organizzato quella prova di forza per fermarlo.

“Beh,” iniziò a dire lentamente. Poi di scatto si avvicinò agli uomini in riga. Il più vicino avanzò di un passo per bloccargli la strada; Ryan gli sferrò un rapido colpo all’inguine e l’uomo si piegò in due, lasciando libero un varco da cui correre via. E Ryan corse e continuò a correre lungo il passaggio tra gli edifici.

“Inseguitelo!” gridò Bael… ma non ce n’era bisogno, perché gli altri uomini si erano già messi a rincorrerlo. Inizialmente, conoscendo la pianta della città, gli si mantennero quasi alle calcagna, ma la disperazione conferiva velocità ai piedi di Ryan. Smise temporaneamente di pensare e si lasciò guidare dall’istinto puro per smussare angoli che altrimenti gli avrebbero impietrito la mente. Si trovò a correre direttamente contro un muro vuoto e proprio un istante prima di colpirlo gli si aprì dinnanzi un varco. Passò attraverso edifici, su per gradinate, sotto delicati ponti arcuati sollevati a centinaia di metri d’altezza, e poi giù e fuori. Dentro, fuori, attorno, vicino… girovagava alla cieca ma il più velocemente possibile. I suoi inseguitori cedettero e rimasero indietro e alla fine non li vide più. Poi anche il rumore dei loro passi in sottofondo sparì. Ryan si fermò.

Scese di nuovo il silenzio, quel silenzio con cui la città lo aveva inizialmente accolto. L’unico rumore era provocato dal suo respiro concitato, che cercava aria. Ricadde sulle ginocchia perché le sue gambe tremanti non erano più in grado di sostenerlo. Poi si adagiò su un fianco mentre nel petto gli entravano, brucianti, lunghe boccate d’aria.

La mano andò di nuovo alla tasca posteriore per toccare il comunicatore. Il metallo freddo della scatola ebbe di nuovo il suo effetto calmante sulla sua psiche provata. Quella era la Terra. C’era una navetta orbitante sulla città, pronta ad aiutarlo. Non era solo in quella prova, soltanto in solitudine.

“Ancora non mi hai stracciato, Bael,” ansimò piano.

“Non ci ho ancora provato,” gli arrivò la voce di Bael. Ryan alzò lo sguardo, stupito. Sulla sua testa c’era un grosso schermo tridimensionale su cui campeggiava l’immagine di Bael. “Non c’è bisogno di correre, Jeff: la città mi tiene informato sulla tua posizione ogni minuto. Posso trovarti in qualsiasi momento io desideri. Ma se vuoi restare da solo, è una decisione tua. Noi abbiamo cercato di salvarti: ora ciò che succede è nella tua testa. Addio.” E lo schermo si spense.

Ryan si guardò la mano: aveva stretto il comunicatore con tanta foga che le nocche si erano sbiancate. Allentò la presa e immediatamente gli iniziò a tremare la mano, senza controllo. Abbozzò una silenziosa sequela di imprecazioni, come una litania, contro tutti e contro tutto ciò che aveva a che fare con la spedizione, da Java-10 a Richard Bael, terminando con quella che pareva la sua principale antagonista: la città stessa.

L’ombra gli concesse un preavviso di un secondo: poi il volatile lo attaccò.

***

Era un’aquila, forse, oppure un falco —Ryan non riuscì proprio a focalizzarlo bene. Dall’alto scese in picchiata contro di lui una massa blu confusa, con gli artigli estesi verso il basso. Gli unghioni aguzzi e appuntiti gli puntavano direttamente al volto; il becco curvo aveva un’espressione maliziosa e malvagia. Gli occhi piccoli e penetranti erano fissi su di lui, immobili, in attesa di una qualsiasi reazione della loro preda.

D’istinto Ryan alzò il braccio per proteggersi gli occhi. Un istante più tardi gli artigli segnavano di lunghe striature la pelle, mentre il becco cercava di strappargli la tenera carne del polso. Nell’attimo esatto in cui il volatile atterrò su Ryan questi, dapprima solo appoggiato al suolo, ricadde sulla schiena. Lo sbattere delle ali possenti dell’uccello lo colpì lateralmente sulla testa mentre l’animale si sollevava di nuovo per iniziare un altro bombardamento.





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"SPETTRI, RAGAZZE ED ALTRI FANTASMI è una raccolta completa dei racconti brevi di Stephen Goldin, contenente la maggior parte dei racconti della sua prima raccolta L'ULTIMO SPETTRO ED ALTRE STORIE (i racconti ”Angel in Black” sono stati inclusi nel rispettivo volume). Questi racconti spaziano dall'humor al pathos e il divertimento è assicurato!

SPETTRI RAGAZZE E ALTRI FANTASMI è una raccolta completa dei racconti brevi di Stephen Goldin, contenente la maggior parte dei racconti della sua prima raccolta L'ULTIMO SPETTRO ED ALTRE STORIE (i racconti ”Angel in Black” sono stati inclusi nel rispettivo volume). Include alcune delle storie più conosciute, ad esempio la finalista del Premio Nebula ”L'ultimo Spettro” e la pluri-pubblicata ”Sogni d'oro, Melissa!”

Indice completo:

Sogni d’oro, Melissa! (Sweet Dreams, Melissa)

Le Ragazze della USSF 193 (The Girls on USSF 193)

Bel Posto da Vedere (Nice Place to Visit)

Quando in Giro non c’è Nessuno (When There’s No Man Around)

Xenofobia (Xenophobe)

Una Favola Triste (Grim Fairy Tale)

Amore, Libera scelta e Scoiattoli Grigi in una Sera d’Estate (Of Love, Free Will, And Gray Squirrels On A Summer Evening)

Testardo (Stubborn)

Ma Soldato. Per la Patria (But As A Soldier, For His Country)

Il Mondo Dove i Desideri si Avverano (The World Where Wishes Worked)

Apollo ex Machina (Apollyon Ex Machina)

Preludio alla Sinfonia delle Grida dei Non-nati (Prelude to a Symphony of Unborn Shouts)

Ritratto in Gioventù del Divino Artista (Portrait of the Artist as a Young God)

L’ultimo Spettro (The Last Ghost)

Case Infestate (Haunted Houses)

I racconti di questa raccolta spaziano dall'humor al pathos e testimoniano l'evoluzione di uno scrittore prolifico nel campo narrativo. Buon divertimento!

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