Книга - La caccia di Zero

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La caccia di Zero
Jack Mars


“Non dormirete fino a quando non avrete finito AGENTE ZERO. Un lavoro superbo nella creazione di personaggi totalmente sviluppati e molto godibili. La descrizione delle scene d’azione ci trasporta in un’altra realtà, quasi come si fosse seduti al cinema con suono surround e 3D (ne verrebbe un film hollywoodiano incredibile). Non vedo l’ora di leggere il sequel.”--Roberto Mattos, Books and Movie ReviewsIn LA CACCIA DI ZERO (Libro #3), quando l’agente della CIA agente Zero scopre che le sue giovani figlie sono state rapite e spedite a un giro di traffico umano nell’Europa dell’Est, si getta in un inseguimento al cardiopalma per tutta l’Europa, lasciandosi alle spalle una scia di devastazione, in cui rompe gin regola, rischia la sua stessa vita, e fa di tutto per riprendersi le figlie.Kent, nonostante gli ordini della CIA, rifiuta di farsi da parte. Senza il sostegno dell’agenzia, circondato da talpe e assassini, con un’amante di cui può a malapena fidarsi, e lui stesso nel mirino di un killer, l’agente Zero deve combattere contro un numero immenso di nemici per riprendersi le sue figlie.Costretto ad affrontare la tratta di umani più pericolosa d’Europa, con connessioni politiche molto in alto, la sua sarà una battaglia ardua—un uomo contro un esercito—e una che solo l’agente Zero potrà superare.Allo stesso tempo impara che la sua stessa identità potrebbe essere il segreto più pericoloso di tutti. LA CACCIA DI ZERO (Libro #3) è un thriller di spionaggio che non riuscirete a posare fino alla fine.“Il thriller al suo meglio.”--Midwest Book Review (re A ogni costo)“Uno dei migliori thriller di quest'anno.”--Books and Movie Reviews (re A ogni costo)Inoltre è disponibile la serie thriller besteller di Jack Mars LUKE STONE (7 libri), che inizia con A ogni costo (Libro #1), un download gratuito con più di 800 recensioni a cinque stelle!







LA CACCIA DI ZERO



(UNO SPY THRILLER DELLA SERIE DELL’AGENTE ZERO—LIBRO 3)



J A C K M A R S


Jack Mars



Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova SERIE PREQUEL LE ORIGINI DI LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.

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LIBRI DI JACK MARS



SERIE THRILLER DI LUKE STONE

A OGNI COSTO (Libro 1)

IL GIURAMENTO (Libro 2)

SALA OPERATIVA (Libro 3)

CONTRO OGNI NEMICO (Libro 4)

OPERAZIONE PRESIDENTE (Libro 5)

IL NOSTRO SACRO ONORE (Libro 6)

CASA DIVISA (Libro 7)



SERIE PREQUEL LE ORIGINI DI LUKE STONE

OBIETTIVO PRIMARIO (Libro #1)

COMANDO PRIMARIO (Libro #2)



SERIE SPY THRILLER KENT STEELE

IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO (Libro #1)

OBIETTIVO ZERO (Libro #2)

LA CACCIA DI ZERO (Libro #3)

LA TRAPPOLA DI ZERO (Libro #4)


Riassunto del 2’ Libro dell’Agente Zero - (riepilogo da includere nel Libro 3)



Campioni di un antico e letale virus vengono rubati dalla Siberia e rilasciati in Spagna, uccidendo centinaia di persone in poche ore. Nonostante i ricordi dell’Agente Zero sul suo passato come operativo della CIA siano ancora frammentari, viene reintegrato per aiutare a trovare e fermare il virus prima che l’organizzazione terroristica possa scatenarlo negli Stati Uniti.



Agente Zero: Ha recuperato sempre più ricordi sulla sua vita passata come operativo della CIA, in particolare quelli relativi a un piano segreto del governo americano per dare il via a una guerra con losche motivazioni. I dettagli di quello che sapeva due anni prima sono ancora confusi e sbiaditi, ma prima di poter scavare più a fondo ha scoperto che le due figlie sono state rapite dalla sua casa.



Maya e Sara Lawson: Mentre il padre era via, il signor Thompson, loro vicino di casa ed ex agente della CIA aveva ricevuto l’incarico di sorvegliarle. Quando l’assassino Rais ha fatto irruzione, Thompson ha fatto del suo meglio per respingerlo ma è caduto durante la lotta, e Maya e Sara sono state rapite.



Agente Maria Johansson: Ancora una volta Maria si è dimostrata un’alleata indispensabile aiutando a impedire il rilascio del virus del vaiolo. Nonostante la sua ritrovata relazione con Kent abbia toni romantici, rimane una donna piena di segreti. Si è incontrata con un misterioso agente ucraino in un aeroporto a Kiev per discutere della lealtà dell’agente Zero.



Rais: Dopo essere stato sconfitto e lasciato per morto in Svizzera, Rais ha passato diverse settimane in manette in un ospedale per guarire. Avendo a disposizione tutto il tempo necessario, non solo è riuscito a organizzare un’abile e sanguinosa fuga, ma è anche rientrato in America prima della chiusura dei confini internazionali dovuta al virus del vaiolo. In seguito non gli è stato difficile trovare la casa dei Lawson, uccidere l’anziano agente in pensione di guardia e rapire le due figlie adolescenti dell’agente Zero.



Agente John Watson: In quanto membro del team mandato a impedire il rilascio del virus del vaiolo, Watson ha espresso chiaramente il suo disagio con le tattiche troppo rischiose dell’agente Zero. Nonostante ciò, dopo essere riusciti a fermare l’Imam Khalil, i due uomini hanno raggiunto un’intesa e un rispetto reciproco.



Vice Direttrice Ashleigh Riker: Un’ex agente dei servizi segreti che ha fatto carriera all’interno del Gruppo Operazioni Speciali. Riker ha lavorato alle dirette dipendenze del Vice Direttore Shawn Cartwright durante l’operazione per fermare il virus. Non nasconde il suo disprezzo nei confronti dell’agente Zero e delle libertà che l’agenzia gli concede. In seguito all’attacco inaspettato di un altro operativo, Zero ha iniziato a sospettare che Riker sia coinvolta nella cospirazione, e che quindi non ci si possa fidare di lei.


Indice

CAPITOLO UNO (#uc5051d9b-da4d-544f-b48b-f46fe208f16c)

CAPITOLO DUE (#u2aa26ed0-7949-580f-8b43-2f8eb5d603f9)

CAPITOLO TRE (#u048a66e6-2326-5a6b-81c3-8d39cba35f37)

CAPITOLO QUATTRO (#udd92a4c0-4c23-5f90-8352-7f250b44a851)

CAPITOLO CINQUE (#u4b2e23db-1eba-5cdd-9c32-7caaa1bf571c)

CAPITOLO SEI (#udf928c4f-496c-5fe8-b661-6c28a40a91b8)

CAPITOLO SETTE (#ub086c2e9-e742-58a4-8bac-fcc210c3ec5e)

CAPITOLO OTTO (#u5fdc6c7f-ea02-5ead-a5ec-4277f1905216)

CAPITOLO NOVE (#u58fba92f-9314-544d-a66a-1e03e24887f4)

CAPITOLO DIECI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO UNDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DODICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TREDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUATTORDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUINDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIASSETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIANNOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIDUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTITRE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTICINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTINOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTADUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTATRE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTAQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTACINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTASEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTASETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTANOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTADUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTATRE (#litres_trial_promo)




CAPITOLO UNO


Ad appena sedici anni compiuti, Maya Lawson era certa di stare per morire.

Era seduta sui sedili posteriori di un grosso pick-up che sfrecciava lungo la I-95, diretto a sud attraverso la Virginia. Si sentiva ancora le gambe deboli per il trauma e il terrore di quello che aveva subito meno di un’ora prima. Fissava impassibile davanti a sé, con la bocca socchiusa in un’espressione svuotata e sconvolta.

Il pick-up era appartenuto al suo vicino, il signor Thompson. Ormai lui era morto, probabilmente ancora steso sulle piastrelle dell’ingresso di casa Lawson ad Alexandria. L’attuale autista del veicolo era il suo assassino.

Seduta accanto a Maya c’era sua sorella minore, Sara, di soli quattordici anni. La ragazzina aveva le gambe raccolte sotto di sé e il corpo stretto al suo. Aveva smesso di piangere, almeno per il momento, ma ogni respiro che emetteva era accompagnato da un basso gemito.

La sorellina non aveva idea di che cosa stava succedendo. Sapeva solo a cosa aveva assistito: un uomo era entrato in casa loro. Il signor Thompson era morto. L’aggressore aveva minacciato di spezzare le ossa di Maya per convincerla ad aprire la porta del bunker che avevano nel seminterrato. Non conosceva i dettagli che invece la ragazza più grande aveva messo insieme. Ma d’altra parte neanche Maya sapeva tutta la verità.

L’unica cosa di cui la Lawson maggiore era certa, o almeno di cui era quasi sicura al cento percento era che presto sarebbe morta. Non aveva idea dei piani dell’autista del pick-up—l’uomo aveva promesso che non avrebbe fatto loro del male se avessero obbedito ai suoi ordini—ma non aveva importanza.

Nonostante l’espressione instupidita, la mente di Maya era freneticamente al lavoro. Ormai contava solo una cosa, e cioè la salvezza di Sara. L’uomo al volante era sveglio e in gamba, ma a un certo punto avrebbe vacillato. Se avessero continuato a fingere obbedienza lui sarebbe diventato compiacente, magari anche solo per un istante, e in quel momento Maya avrebbe agito. Non aveva ancora chiaro che cosa avrebbe fatto, ma sarebbe dovuta essere un’azione diretta, spietata e debilitante. Doveva dare a Sara l’occasione per scappare, per mettersi al sicuro, raggiungere altre persone e un telefono.

Con ogni probabilità il gesto le sarebbe costato la vita. Ne era consapevole.

Un altro lieve singhiozzo lasciò le labbra della sorellina. È sotto shock, pensò Maya. Ma poi il suono si trasformò in un mormorio e capì che Sara stava cercando di parlare. Chinò il capo verso la sua bocca per sentire la fioca domanda.

“Perché ci sta succedendo tutto questo?”

“Shh.” Le strinse la testa al petto e le accarezzò gentilmente i capelli. “Andrà tutto bene.”

Se ne pentì non appena l’ebbe detto; era una frase inutile, qualcosa che la gente diceva quando non aveva nient’altro da offrire. Era chiaro che erano nei guai, e non poteva prometterle che sarebbe finita bene.

“I peccati del padre.” L’uomo al volante parlò per la prima volta da quando le aveva costrette a salire sul furgone. Lo disse con tono noncurante e una calma spaventosa. Poi a voce più alta continuò: “Quello che vi sta succedendo è stato causato delle azioni e delle decisioni prese da Reid Lawson, altrimenti noto come Kent Steele, conosciuto a molti altri con il nome di agente Zero.”

Kent Steele? Agente Zero? Non aveva idea di che cosa stesse parlando quell’uomo, l’assassino che si chiamava Rais. Quello che invece ormai aveva capito era che suo padre era un agente al soldo di qualche agenzia governativa, l’FBI, o forse la CIA.

“Mi ha tolto tutto.” Rais guardava dritto davanti a sé verso la strada, ma il suo tono era di puro odio. “Ora io farò lo stesso a lui.”

“Ci troverà,” rispose Maya. Parlò a bassa voce, non piena di sfida ma come se stesse semplicemente esponendo un fatto. “Verrà a cercarci e ti ammazzerà.”

L’assassino annuì come se fosse d’accordo con lei. “Verrà a cercarvi, questo è vero. E cercherà di uccidermi. Ci ha già provato due volte lasciandomi per morto… una volta in Danimarca e una ancora in Svizzera. Lo sapevi?”

Lei non disse nulla. Aveva sospettato che il padre fosse stato coinvolto nell’attentato terroristico sventato un mese prima, a febbraio, quando una fazione radicale aveva cercato di far saltare per aria il World Economic Forum a Davos.

“Ma io sopporto,” continuò Rais. “Capisci, mi era stato fatto credere che uccidere tuo padre fosse il mio destino, ma mi sbagliavo. È il mio fato. Sai che differenza c’è?” Sbuffò piano. “Certo che no. Sei solo una bambina. Il destino è composto dagli eventi che dobbiamo compiere. Possiamo controllarlo e direzionarlo. Il fato, invece, è al di là delle nostre possibilità. È determinato da un altro potere, uno che non possiamo comprendere del tutto. Penso che non mi sia permesso di morire fino a quando non avrò messo fine alla vita di tuo padre.”

“Tu sei Amun,” disse Maya. Non era una domanda.

“Lo ero, un tempo. Ma Amun non esiste più. Ora io solo sopporto.”

L’assassino aveva confermato quello che lei aveva temuto, che era un fanatico, indottrinato dal gruppo terroristico simile a una setta chiamato Amun per credere che le sue azioni fossero giustificate, e persino necessarie. Maya era dotata di una pericolosa combinazione di intelligenza e curiosità e aveva letto molto sull’argomento del terrorismo e del fanatismo in seguito al bombardamento di Davos e ai suoi sospetti sul coinvolgimento del padre nella distruzione dell’organizzazione.

Aveva imparato che un uomo di quel tipo non si sarebbe fatto influenzare da suppliche, preghiere o scongiuri. Non avrebbe potuto fargli cambiare idea, e sapeva anche che non si sarebbe fatto problemi a fare del male a delle bambine. Quella scoperta non fece altro che rafforzare la sua decisione. Avrebbe dovuto agire non appena ne avesse avuto occasione.

“Devo usare il bagno.”

“Non m’importa,” rispose Rais.

Maya si accigliò. Una volta era riuscita a sfuggire a un membro di Amun su un pontile nel New Jersey fingendo di dover andare in bagno—non aveva creduto neanche per istante che si fosse trattato di membri di una gang come le aveva raccontato il padre—e in quel modo era riuscita a mettere Sara al sicuro. In quel momento era l’unica cosa a cui riusciva a pensare che concedesse loro un minuto da sole, ma la sua richiesta era stata respinta.

Viaggiarono per diversi minuti in silenzio, diretti a sud sull’autostrada. Maya accarezzava i capelli della sorella minore. La ragazzina sembrava essersi calmata e non piangeva più, ma forse aveva solo finito le lacrime.

Rais mise la freccia e curvò verso l’uscita. Lei sbirciò fuori dai finestrini e provò una piccola scintilla di speranza: si stavano per fermare in una stazione di sosta. Era minuscola, poco più di un’area da picnic circondata da alberi e un piccolo edificio basso con dei bagni, ma almeno era qualcosa.

Gli avrebbe permesso di usare il bagno.

Gli alberi, pensò lei. Se Sara riesce a nascondersi nel bosco, forse può distanziarlo.

Rais parcheggiò il pick-up e lasciò il motore acceso per un momento mentre studiava l’edificio. Maya fece lo stesso. C’erano altre due macchine, due case mobili parcheggiate in parallelo rispetto al palazzetto, ma non si vedeva anima viva. Davanti ai bagni e sotto una tettoia c’erano un paio di distributori automatici. Con sgomento notò anche che non c’erano telecamere, o almeno nessuna visibile, nei dintorni.

“Il bagno delle donne è sulla destra,” disse l’assassino. “Ti accompagno. Se provi a gridare o chiamare qualcuno, li ammazzerò. Se fai anche il più piccolo gesto o segnale a chiunque per comunicare che c’è qualcosa che non va, li ammazzerò. Il loro sangue sarà sulle tue mani.”

Sara aveva ripreso a tremare tra le sue braccia. Maya le strinse le spalle.

“Voi due vi terrete per mano. Se vi separate, farò del male a Sara.” Si girò per guardarle, fissando Maya in particolare. Aveva già indovinato che tra le due, era più probabile che lei gli desse dei problemi. “Mi avete capito?”

Maya annuì, distogliendo lo sguardo dai suoi selvaggi occhi verdi. Erano cerchiati di nero, come se non dormisse da diverso tempo, e i suoi capelli scuri erano tagliati corti in cima alla testa. Non sembrava tanto vecchio, di certo era più giovane di loro padre, ma non riusciva a capire quanti anni avesse.

Teneva in mano una pistola nera, la Glock che era stata in casa loro. Maya aveva cercato di usarla su di lui dopo che aveva fatto irruzione, e l’uomo gliel’aveva presa. “Questa sarà in mano mia, e io la terrò in tasca. Ti ricordo di nuovo che se causi problemi a me, li causi a tua sorella.” Indicò Sara con il capo. La ragazzina piagnucolò piano.

Rais uscì per primo dal pick-up, infilandosi la mano e l’arma nella tasca della giacca nera. Poi aprì la porta posteriore del veicolo. Maya emerse con gambe tremanti e appoggiò i piedi sul cemento. Tese una mano verso Sara e l’aiutò a uscire.

“Andate.” Le ragazze camminarono davanti a lui dirette verso il bagno. Sara rabbrividì; era la fine di marzo in Virginia e quindi la temperatura stava iniziando ad alzarsi, ma era ancora sui dieci o quindici gradi, ed entrambe erano in pigiama. Maya aveva un paio di infradito ai piedi, pantaloni di flanella a righe e una canottiera nera. Sua sorella portava scarpe da ginnastica ma niente calzini, pantaloni del pigiama in popeline decorati con disegni di ananas, e una delle magliette del padre, che era praticamente uno straccio tinto a nodi con il logo di una band che nessuna delle due aveva mai sentito.

Maya girò la maniglia ed entrò in bagno per prima. Istintivamente arricciò il naso per il disgusto; il posto puzzava di urina e muffa, e il pavimento era bagnato per via di un tubo del lavello che perdeva. Attirò comunque Sara dentro la toilette.

Nella stanza c’era una sola finestra, un vetro smerigliato in alto sul muro che sembrava si sarebbe spalancato con una sola spintarella. Se fosse riuscita a sollevare la sorella fino a lì e a farla uscire, avrebbe potuto distrarre Rais fino a che Sara…

“Datevi una mossa.” Sussultò quando l’assassino entrò nel bagno dietro di loro. Il cuore le sprofondò sotto i piedi. Non le avrebbe lasciate da sole neanche per un minuto. “Tu vai là.” Indicò il secondo dei tre camerini a Maya. “Tu, là.” Indicò il terzo a Sara.

Lei lasciò la mano della sorella ed entrò nel cubicolo. Era lurido; non lo avrebbe voluto usare nemmeno se avesse dovuto urinare per davvero, ma almeno doveva fingere. Fece per chiudere la porta ma Rais glielo impedì con il palmo della mano.

“No,” le disse. “Lasciala aperta.” E poi le diede la schiena, voltandosi verso l’uscita.

Non vuole correre nessun rischio. Si sedette lentamente sul coperchio chiuso del gabinetto e si soffiò sulle mani. Non poteva fare niente. Non aveva armi contro di lui. L’assassino aveva un coltello e due pistole, una delle quali era attualmente stretta nella sua mano, nascosta in una tasca della giacca. Avrebbe potuto tentare di aggredirlo per far scappare Sara, ma stava bloccando la porta. Oltretutto aveva già ucciso il signor Thompson, un ex Marine grande e grosso contro cui la maggior parte delle persone non avrebbe osato alzare un dito. Quante chance avrebbe avuto lei?

Sara singhiozzò nel cubicolo accanto al suo. Non è il momento giusto per agire, lo capiva. Ci aveva sperato, ma avrebbe dovuto aspettare.

All’improvviso sentì un cigolio rumoroso. Qualcuno aveva aperto la porta del bagno e una voce femminile sorpresa esclamò: “Oh! Chiedo scusa… Sono nel bagno sbagliato?”

Rais si fece da parte, allontanandosi dal suo cubicolo e dal capo visivo di Maya. “Chiedo scusa, signora. No, è nel posto giusto.” La sua voce assunse subito un affettato tono di cortesia. “Le mie due figlie sono qui dentro e… beh, forse sono un po’ troppo protettivo, ma non si è mai troppo cauti di questi tempi.”

A quella menzogna il petto di Maya si gonfiò di rabbia. L’idea che l’uomo che le aveva strappate dal padre osasse fingersi lui le colorò il volto per l’ira.

“Oh, capisco. Tanto devo solo usare il lavello,” disse la donna.

“Ma certo.”

La ragazza sentì le scarpe ticchettare sulle piastrelle, e poi la sconosciuta apparve davanti alla sua porta. Le dava le spalle mentre girava la manopola difettosa. Sembrava una donna di mezza età, con capelli biondi lunghi fino alle spalle e abiti eleganti.

“Non posso dire di biasimarla,” stava dicendo a Rais. “Normalmente non mi fermerei mai in un posto del genere, ma mi sono versata addosso il caffè lungo la strada e, uhm…” Si interruppe quando guardò allo specchio.

Nel riflesso aveva visto la porta del cubicolo aperta e Maya seduta sopra il gabinetto chiuso. La ragazza non aveva idea di che aspetto avesse—con i capelli spettinati, le guance gonfie di pianto e gli occhi arrossati—ma poteva immaginare di essere motivo d’allarme.

Lo sguardo della sconosciuta si spostò da Rais all’immagine nel vetro. “Uhm… non potevo viaggiare per un’altra ora e mezza con le mani appiccicose…” Si lanciò uno sguardo alle spalle, senza spegnere l’acqua, e mimò silenziosamente due parole a Maya.

Stai bene?

A lei tremarono le labbra. La prego non mi parli. Non mi guardi nemmeno. Scosse piano la testa. No.

Rais doveva essersi girato di nuovo verso la porta, perché la donna rispose con un movimento del capo. No! pensò disperatamente Maya. Non aveva cercato il suo aiuto.

Voleva solo evitare che facesse la stessa fine di Thompson.

Fece un cenno verso di lei e le disse in silenzio una parola. Vada. Vada.

La sconosciuta si accigliò, con le mani gocciolanti d’acqua. Lanciò di nuovo un’occhiata a Rais. “Immagino che sarebbe troppo chiederle qualche asciugamano di carta, eh?”

Lo disse con un po’ troppa veemenza.

Poi alzò il pollice e il mignolo verso Maya, come a mimare un telefono. Sembrava le volesse dire che avrebbe chiamato qualcuno.

La prego, vada via.

Mentre la donna si voltava verso la porta, Rais fece un movimento tanto rapido da risultare impercettibile. Successe così in fretta che all’inizio Maya pensò di aver avuto le traveggole. La bionda si paralizzò, sgranando gli occhi per lo shock.

Un sottile getto di sangue fuoriuscì dalla sua gola squarciata, spruzzando lo specchio e il lavandino.

La ragazza si strinse entrambe le mani sulla bocca per soffocare il grido che le si alzò dalle labbra. La donna cercò di chiudersi la gola ma non c’era modo per riparare il danno che aveva subito. Il sangue le scorse in rivoli tra le dita e lei cadde sulle ginocchia, emettendo un gorgoglio.

Maya strinse forte gli occhi, continuando a pigiarsi la bocca. Non voleva guardare. Non voleva vedere quella donna che moriva a causa sua. Respirò in lunghi singulti tremanti. Dal cubicolo accanto sentì Sara piangere piano.

Quando osò riaprirli, la donna sembrava fissarla. Aveva una guancia appoggiata sul pavimento sporco e bagnato.

La pozza del sangue che le era colato dalla ferita le raggiungeva quasi i piedi.

Rais si chinò per pulire il coltello sulla camicetta della morta. Quando alzò lo sguardo su Maya, non c’era né rabbia né turbamento nelle sue iridi verdi. C’era solo delusione.

“Ti avevo detto che cosa sarebbe successo,” disse a bassa voce. “Hai cercato di farle un segno.”

Le lacrime le annebbiarono la vista. “No,” riuscì a rispondere tra i singhiozzi. Non riusciva a controllare il tremito delle labbra, né quello delle dita. “Non ho…”

“Sì,” la interruppe lui calmo. “L’hai fatto. Il suo sangue è sulle tue mani.”

Maya cominciò a iperventilare. Respirava in ansimi strozzati. Si sporse in avanti per mettere la testa tra le ginocchia, con gli occhi stretti e le dita tra i capelli.

Prima il signor Thompson e poi quella sconosciuta innocente. Erano morti entrambi perché le si erano avvicinati troppo, perché avevano cercati di opporsi a quel maniaco. E lui aveva già dimostrato due volte di essere disposto a uccidere per raggiungere il suo obiettivo.

Quando finalmente riprese il controllo di sé e alzò lo sguardo, Rais aveva preso la borsa nera della donna e stava controllando il contenuto. Lo guardò estrarre un telefono e togliergli la batteria e la carta SIM.

“Alzati,” le ordinò poi entrando nel suo cubicolo. Lei obbedì in fretta, spingendosi contro la parete metallica e trattenendo il fiato.

Rais scaricò la batteria e la carta nel gabinetto. Si voltò verso di lei, ad appena pochi centimetri di distanza nello spazio stretto. Maya non riusciva a incontrare il suo sguardo, e invece gli fissò il mento.

L’uomo le fece dondolare qualcosa davanti al volto: le chiavi di un’auto.

“Andiamo,” disse piano. Uscì dallo spazio ristretto, camminando senza alcuna esitazione in mezzo alla pozza di sangue per terra.

Maya batté le palpebre. Non si erano fermati perché lei potesse andare in bagno. Non era stata una dimostrazione di umanità da parte dell’assassino. Era stato solo un modo per liberarsi del pick-up di Thompson. Perché la polizia lo sta cercando.

Almeno sperava che fosse così. Se suo padre non era ancora tornato, era improbabile che qualcuno si fosse accorto della loro scomparsa.

Avanzò con cautela per evitare il sangue, e per non guardare troppo a lungo il cadavere sul pavimento. Si sentiva le membra di gelatina. Era debole e impotente contro quell’uomo. Tutta la determinazione che aveva radunato solo qualche minuto prima in auto si dissolse come zucchero nell’acqua bollente.

Prese Sara per mano. “Non guardare,” le sussurrò, e guidò la sorellina attorno al corpo. Sara fissò il soffitto, prendendo profondi respiri con la bocca. Aveva le guance macchiate di lacrime fresche. Il suo volto era bianco come un foglio di carta e le sue dita erano fredde e bagnate di sudore.

Rais aprì la porta del bagno di qualche centimetro per controllare l’esterno. Poi alzò una mano. “Aspettate.”

Maya sbirciò oltre di lui e notò un uomo in carne con un cappellino da camionista uscire dalla toilette dei maschi, asciugandosi le mani sui jeans. Strinse Sara a sé, cercando istintivamente di riordinarsi i capelli scompigliati.

Non poteva lottare contro quell’assassino, non senza un’arma. Non poteva cercare l’aiuto di uno sconosciuto, o gli avrebbe fatto fare la stessa fine della donna morta alle loro spalle. Aveva solo una possibilità: doveva aspettare e sperare che il padre le trovasse… e lui avrebbe potuto riuscirci solo avendo un’idea di dove fossero, ma non c’era modo per lasciargli un messaggio. Non c’era niente che poteva usare come traccia o indizio.

Pettinandosi i capelli trovò un nodo e si strappò qualche filo scompigliato. Scosse la mano e li lasciò cadere lentamente a terra.

I capelli.

Aveva i capelli. E sarebbero stati testati in laboratorio, era una normale procedura della scientifica. Sangue, saliva e capelli. Erano tre cose che dimostravano la sua presenza, e che al momento in cui le aveva lasciate lì era ancora viva. Quando le autorità avessero trovato il pick-up di Thompson, avrebbero anche scoperto il cadavere della donna e avrebbero prelevato campioni. Avrebbero trovato i suoi capelli. Suo padre avrebbe capito che erano state lì.

“Muovetevi,” ordinò loro Rais. “Fuori.” Tenne la porta perché le due ragazze, tenendosi per mano, potesse uscire. Le seguì, guardandosi attorno un’ultima volta per accertarsi che non ci fosse nessuno. Poi estrasse la pesante Smith & Wesson del signor Thompson e la roteò tre le dita. Con un unico gesto fluido, sferrò un colpo con il calcio per spezzare la maniglia del bagno.

“La macchina blu.” Indicò il mezzo con il mento mettendo via la pistola. Le ragazze si diressero piano verso la berlina parcheggiata a poca distanza dal pick-up di Thompson. La mano di Sara tremò nella sua, ma forse era quella di Maya a scuoterle entrambe, non ne era certa.

Rais manovrò l’auto per uscire dalla piazzola e rimettersi in viaggio sulla strada, ma non più verso sud, la direzione che avevano seguito prima. Tornò indietro muovendosi verso nord. Maya capì che cosa stava facendo. Quando le autorità avessero trovato il pick-up di Thompson, avrebbero pensato che avesse continuato per la stessa strada. Avrebbero cercato l’assassino, e loro due con lui, nel posto sbagliato.

Si strappò qualche capello e lo lasciò cadere a terra nella macchina. Lo psicopatico che le aveva rapite aveva ragione su una cosa: il loro fato sarebbe stato determinato da un altro potere, rappresentato da Rais. Ed era qualcosa che lei non capiva appieno.

Avevano solo un modo per evitare qualsiasi cosa quell’uomo avesse in serbo per loro.

“Papà verrà a salvarci,” sussurrò all’orecchio della sorella. “Ci troverà.”

Cercò di sembrare più sicura di quanto non si sentisse.




CAPITOLO DUE


Reid Lawson salì in fretta le scale della sua casa ad Alexandria, in Virginia. Si sentiva rigido, con le gambe ancora insensibili per lo shock di qualche minuto prima, ma il suo volto era una maschera di cupa determinazione. Fece i gradini due alla volta fino al primo piano, anche se temeva quello che vi avrebbe trovato, o più precisamente, quello che non vi avrebbe trovato.

Al piano di sotto e nel cortile c’era una grande attività. Nella strada di fronte alla casa c’erano non meno di quattro auto della polizia, due ambulanze e un camion dei pompieri, come da protocollo nelle situazioni come quella. Agenti in uniforme stavano tendendo il nastro giallo a X davanti alla porta. La scientifica stava raccogliendo campioni del sangue di Thompson nell’ingresso e i follicoli dei capelli delle sue figlie dai cuscini.

Reid quasi non si ricordava di aver chiamato le autorità. A malapena era riuscito a rilasciare una dichiarazione alla polizia, una serie di frasi balbettate e confuse inframezzate da singhiozzi e respiri mozzati, con la mente affollata di orrende possibilità.

Era andato via per il weekend con un’amica. Il vicino avrebbe dovuto tenere d’occhio le sue figlie.

Il vicino ora era morto. Le ragazze erano sparite.

Non appena fu in cima alle scale e lontano da occhi indiscreti fece una telefonata.

“Avresti dovuto chiamare noi per primi,” disse Cartwright a mo’ di saluto. Il vice direttore Shawn Cartwright era il capo della Divisione Attività Speciali e, in via ufficiosa, il capo di Reid alla CIA.

L’hanno già saputo. “Come fai a saperlo?”

“Sei controllato,” rispose l’altro uomo. “Lo siamo tutti. Ogni volta che appaiono i nostri dati nel sistema, che sia il nome, l’indirizzo, il codice fiscale, qualsiasi cosa, la chiamata viene subito mandata all’NSA. Diavolo, se prendi una multa per eccesso di velocità l’agenzia lo sa prima ancora che l’agente ti lasci andare via.”

“Devo trovarle.” Ogni secondo che passava non faceva che pensare che non avrebbe mai più rivisto le sue figlie se non avesse iniziato a cercarle subito, in quell’istante. “Ho visto il corpo di Thompson. È morto da almeno ventiquattro ore, che gli dà un vantaggio enorme su di noi. Mi serve dell’equipaggiamento, e devo muovermi adesso.”

Due anni prima, quando sua moglie, Kate, era morta all’improvviso per un ictus ischemico, si era sentito completamente stordito. Un senso di intorpidimento era sceso su di lui. Niente gli era più sembrato reale, come se da un momento all’altro si sarebbe potuto svegliare da quell’incubo per scoprire che era successo solo nella sua testa.

Non le era stato vicino. Era andato a una conferenza di storia antica dell’Europa… no, non era vero. Quella era la sua storia di copertura. In realtà era stato impegnato in una missione della CIA in Bangladesh, per dare la caccia a una fazione terrorista.

Non era stato vicino a Kate allora e adesso non c’era stato per le sue figlie.

Ma era sicuro come l’inferno che le avrebbe ritrovate.

“Ti aiuteremo, Zero,” gli garantì Cartwright. “Sei uno di noi e ci prendiamo cura dei nostri. Stiamo mandando dei tecnici a casa tua per aiutare la polizia nelle indagini. Si fingeranno personale della Homeland Security. La nostra scientifica è più veloce; dovremmo avere una pista sul colpevole entro…”

“So già chi è stato,” lo interruppe Reid. “È stato lui.” Non aveva alcun dubbio su chi fosse stato, chi avesse rapito le sue figlie. “Rais.” Anche solo pronunciare quel nome ad alta voce rinnovò la sua rabbia, che gli si accese nel petto per irradiarsi in tutte le membra. Serrò i pugni per evitare che gli tremassero le mani. “L’assassino di Amun che è scappato dalla Svizzera. È stato lui.”

Cartwright sospirò. “Zero, fino a quando non avremo prove non possiamo esserne sicuri.”

“Io lo sono già. Lo so. Mi ha mandato una loro foto.” Aveva ricevuto l’immagine, spedita dal telefono di Sara verso quello di Maya. C’erano le sue due figlie, ancora in pigiama, strette insieme sui sedili posteriori del pick-up rubato di Thompson.

“Kent,” disse con attenzione il vice direttore, “ti sei fatto diversi nemici. Questo non conferma…”

“È stato lui. So che è stato lui. Quella foto è la prova che sono vive. Mi sta provocando. Chiunque altro avrebbe…” Non riuscì a costringersi a dirlo ad alta voce, ma tutti gli altri nemici che Kent Steele si era fatto nel corso della sua carriera avrebbero solo ammazzato le due ragazze per vendetta. Rais lo stava facendo perché era un fanatico convinto di essere destinato a ucciderlo. Significava che voleva farsi trovare, con un po’ di fortuna insieme alle sue figlie.

Solo che non so se saranno ancora vive quando succederà… Si premette le mani alla fronte, come per strappare quell’idea dalla sua testa. Rimani lucido. Non devi nemmeno pensarci.

“Zero?” lo chiamò Cartwright. “Ci sei ancora?”

Reid tirò un sospiro per calmarsi. “Sono qui. Ascolta, dobbiamo rintracciare il pick-up di Thompson. È un modello recente, e ha un’unità GPS. E poi il rapitore ha il cellulare di una delle mie figlie. Sono certo che l’agenzia deve avere il numero.” Avrebbero potuto trovare sia il telefono che l’auto; se fossero stati nella stessa posizione e Rais non li avesse ancora abbandonati, avrebbero avuto una direzione da seguire.

“Kent, ascolta…” cercò di dire Cartwright, ma Reid lo interruppe di nuovo.

“Sappiamo che ci sono membri di Amun negli Stati Uniti,” continuò implacabile. Altri due terroristi avevano già inseguito le sue figlie su un pontile nel New Jersey in passato. “Quindi è possibile che ci sia una loro casa sicura da qualche parte all’interno dei nostri confini. Dovremmo contattare l’H-6 per scoprire se possono cavare qualche informazione dai loro prigionieri.” L’H-6 era la prigione segreta della CIA in Marocco, dove venivano rinchiusi i membri della associazioni terroristiche.

“Zero…” Cartwright cercò di fermare quella conversazione a senso unico.

“Faccio la valigia e parto tra due minuti,” gli disse Reid affrettandosi verso la sua camera da letto. Ogni momento che passava era un istante in più che le sue figlie trascorrevano lontano da lui. “Allertate il dipartimento dei Trasporti, nel caso cerchi di portarle fuori dal paese. E bisogna fare lo stesso con i porti e le stazioni dei treni. E le telecamere dell’autostrada… dovremmo accedere anche a quelle. Non appena troverete una traccia, fatemelo sapere. Mi servirà un’auto, qualcosa di veloce. E un telefono dell’agenzia, un tracker GPS, delle armi…”

“Kent!” sbottò il vice direttore nel telefono. “Aspetta un secondo, va bene?”

“Aspettare? Qui si tratta delle mie figlie, Cartwright. Mi servono informazioni. Ho bisogno di aiuto…”

Il vice direttore fece un profondo sospiro, e Reid capì subito che c’era qualcosa che non andava. “Non puoi partecipare a questa operazione, agente,” gli disse. “Sei troppo coinvolto.”

Reid gonfiò il petto, pieno di rabbia. “Di che cosa stai parlando?” chiese piano. “Di che diavolo stai parlando? Devo cercare le mie ragazze…”

“Non puoi farlo.”

“Sono le mie bambine…”

“Ascoltati,” gli disse seccamente Cartwright. “Stai parlando a vanvera. Sei emotivo. È un conflitto di interesse. Non possiamo permetterlo.”

“Lo sai che sono la persona migliore per questa missione,” sbottò Reid. Nessun altro avrebbe potuto trovare le sue figlie. Stava a lui. Doveva farlo lui.

“Mi dispiace. Ma tendi ad attrarre il tipo sbagliato di attenzioni,” spiegò l’altro uomo, come se fosse una giustificazione. “I piani alti stanno cercando di evitare una replica di eventi passati, se vogliamo dire così.”

Reid esitò. Sapeva perfettamente di che cosa stava parlando Cartwright, anche se non se lo ricordava. Due anni prima sua moglie, Kate, era morta, e Kent Steele aveva sepolto il suo dolore nel lavoro. Si era buttato in una caccia lunga intere settimane, interrompendo i contatti con la sua squadra per inseguire i membri di Amun per tutta l’Europa. Si era rifiutato di rientrare quando la CIA lo aveva richiamato. Non aveva ascoltato nessuno, né Maria Johansson, né il suo miglior amico, Alan Reidigger. Da quello che gli avevano detto, si era lasciato dietro un lago di sangue nella sua furia. In effetti, era principalmente per quello che il nome “Agente Zero” era bisbigliato con terrore e sdegno tra i terroristi di tutto il mondo.

E quando la CIA ne aveva avuto abbastanza, avevano mandato qualcuno a farlo fuori. Avevano mandato Reidigger a ucciderlo. Ma Alan non lo aveva abbattuto; aveva trovato un altro modo, il soppressore sperimentale di memoria che gli aveva permesso di dimenticare la sua vita e il suo lavoro per la CIA.

“Lo capisco. Avete paura di quello che potrei fare.”

“Già,” concordò Cartwright. “È proprio così.”

“E avete ragione.”

“Zero,” lo avvisò il vice direttore, “non farlo. Lasciaci indagare a modo nostro, per poter sbrigare questa faccenda in fretta, in silenzio e senza far danni. Non te lo dirò di nuovo.”

Reid chiuse la chiamata. Avrebbe cercato le sue ragazze, con o senza l’aiuto della CIA.




CAPITOLO TRE


Dopo aver chiuso la chiamata con il vice direttore, Reid si fermò davanti alla porta della camera di Sara con una mano sulla maniglia. Non voleva entrare. Ma doveva farlo.

Invece si distrasse con i dettagli di quello che sapeva, ripassandoli nella propria mente: Rais era entrato in casa sua attraverso una porta che non stata chiusa a chiave. Non c’erano segni di ingresso forzato, non erano state rotte finestre o serrature. Thompson aveva cercato di allontanarlo; si vedevano i segni di una lotta. Alla fine l’uomo anziano era morto per le ferite da taglio al petto. Non erano stati esplosi colpi, ma la Glock che Reid teneva accanto alla porta d’ingresso era svanita. E lo stesso valeva per la Smith & Wesson che Thompson portava sempre alla cintura, che significava che Rais era armato.

Ma dove avrebbe portato le sue figlie? Nessuna delle prove sulla scena del crimine in cui si era trasformata casa sua portava a una destinazione.

Nella camera di Sara, la finestra era ancora aperta e la scaletta anti-incendio era srotolata sul davanzale. Pareva che le ragazze avessero tentato di scendere da lì, o che almeno ci avessero pensato. Ma non ci erano riuscite.

Reid chiuse gli occhi e respirò tra le mani, costringendosi ad allontanare il terrore e le lacrime. Quindi prese il caricatore del cellulare, che era attaccato alla presa accanto al comodino.

Aveva trovato il telefono sul pavimento del seminterrato, ma non lo aveva detto alla polizia. Né aveva mostrato loro la foto che era stata mandata perché lui la vedesse. Non poteva consegnarglielo, nonostante fosse una prova.

Poteva servirgli.

Una volta in camera sua mise in carica il telefono della figlia nella presa dietro il letto. Silenziò il dispositivo e poi fece in modo che le telefonate e i messaggi arrivassero direttamente al suo cellulare. Infine lo nascose tra il materasso e la rete. Non voleva che la polizia lo prendesse. Aveva bisogno che rimanesse attivo, nel caso gli avesse mandato altre provocazioni. Provocazioni che sarebbero potute diventare tracce.

Riempì in fretta una borsa con un paio di cambi d’abito. Non sapeva per quanto tempo sarebbe stato via, né dove sarebbe dovuto andare. Fino alla fine della terra, se necessario.

Scambiò le scarpe da ginnastica con un paio di stivali. Lasciò il portafoglio nel primo cassetto del comodino. Nel suo guardaroba, infilata dentro un paio di scarpe eleganti, c’era una mazzetta di denaro per le emergenze, quasi cinquecento dollari. Li prese tutti.

Sopra al comò c’era una foto incorniciata delle ragazze e gli si strinse il cuore a guardarla.

Maya aveva un braccio attorno alle spalle di Sara. Entrambe le sue figlie sorridevano, sedute nel ristorante di pesce in cui aveva scattato quella foto. Era stato durante un viaggio di famiglia in Florida l’estate prima. Se lo ricordava bene; le aveva riprese appena prima che arrivasse il cibo. Maya aveva un virgin daiquiri davanti a sé e Sara un milkshake alla vaniglia.

Erano state felici. Allegre. Soddisfatte. Al sicuro. Prima che quell’incubo si scatenasse su di loro a causa sua, erano state sane e salve. Quando gli aveva scattato quella foto, la sola idea di essere inseguite da terroristi che volevano fargli del male oppure di essere rapite da assassini, erano una mera fantasia.

È tutta colpa tua.

Girò la cornice e aprì il retro. Nel frattempo si fece una promessa. Quando le avesse trovate—e sarebbe successo presto—avrebbe chiuso. Basta missioni per la CIA. Basta operazioni segrete. Basta salvare il mondo.

Al diavolo il mondo, voglio solo che la mia famiglia stia bene.

Se ne sarebbero andati, si sarebbero trasferiti lontano, se necessario avrebbero cambiato i loro nomi. Per il resto della sua vita si sarebbe occupato solamente della loro sicurezza e della loro felicità. Della loro sopravvivenza.

Prese la foto dalla cornice, la piegò a metà e se l’infilò in una tasca interna della giacca.

Gli sarebbe servita una pistola. Era certo che ne avrebbe trovata una a casa di Thompson, proprio lì accanto, se fosse riuscito a entrare senza che la polizia e i paramedici lo vedessero…

Qualcuno si schiarì rumorosamente la gola nel corridoio, segnalando la propria presenza nel caso a lui fosse servito un momento per ricomporsi.

“Signor Lawson.” L’uomo avanzò verso la soglia della camera. Era basso e con la pancetta, ma il suo volto era segnato da linee dure. A Reid faceva venire in mente Thompson, anche se poteva essere solo il senso di colpa. “Sono il detective Noles, del Dipartimento di Polizia di Alexandria. Capisco che per lei questo è un momento molto difficile. So che ha già rilasciato una dichiarazione ai primi agenti accorsi sulla scena, ma ho qualche altra domanda che vorrei mettere a verbale, se vuole seguirmi fino in centrale.”

“No.” Reid prese la borsa. “Vado a cercare le mie figlie.” Uscì a grandi passi dalla stanza e superò il detective.

Noles lo seguì in fretta. “Signor Lawson, scoraggiamo fortemente i privati cittadini a intervenire in casi come questo. Ci lasci fare il nostro lavoro. La cosa migliore che può fare è rimanere al sicuro, insieme ad amici e famiglia, ma comunque senza allontanarsi dalla zona…”

L’agente si fermò in fondo alle scale. “Sono sospettato del rapimento delle mie stesse figlie, detective?” chiese, con voce bassa e ostile.

Noles lo fissò. Dilatò leggermente le narici. Lui sapeva che l’addestramento del detective prevedeva che affrontasse con delicatezza quella situazione, per non traumatizzare ulteriormente le famiglie delle vittime.

Ma Reid non era traumatizzato. Era furioso.

“Come ho detto, ho qualche altra domanda,” ripeté con gentilezza Noles. “Vorrei che venisse con me alla centrale.”

“Mi rifiuto di rispondere alle sue domande.” Reid lo fissò. “Ora vado alla mia auto. Se vuole portarmi con lei dovrà mettermi in manette.” Voleva che quel robusto poliziotto si levasse di torno. Per un breve momento considerò persino di menzionare le sue credenziali della CIA, ma non aveva niente che le confermasse.

Noles non disse nulla e lui si girò sui tacchi per uscire di casa, diretto verso il vialetto d’ingresso.

Il detective continuò a seguirlo, fuori dalla porta e nel cortile. “Signor Lawson, glielo chiederò solo un’altra volta. Pensi per un istante che impressione sta dando, preparando una borsa e scappando via mentre noi indaghiamo a casa sua.”

Reid fu attraversato da un lampo di furia feroce, che lo accese dalla base della spina dorsale fino alla testa. Fu sul punto di mollare la borsa per il desiderio di sferrare un colpo alla mascella di Noles, per aver insinuato che potesse essere coinvolto in quella storia.

Il detective era un veterano; doveva aver letto il suo linguaggio del corpo ma comunque non demorse. “Le sue figlie sono sparite e il suo vicino è morto. È successo tutto mentre non era a casa, e tuttavia lei non ha un alibi solido. Non può dirci con chi né dove era. E adesso sta scappando come se sapesse qualcosa che noi non abbiamo ancora capito. Ho delle domande, signor Lawson. E otterrò delle risposte.”

Il mio alibi. Il vero alibi di Reid, la verità, era che aveva passato le ultime quarantotto ore all’inseguimento di un folle leader religioso in possesso di un campione di vaiolo abbastanza grande da provocare un’apocalisse. Il suo alibi era che era appena tornato a casa dopo aver salvato milioni di vite, forse anche miliardi, solo per scoprire che le due persone a cui teneva di più in tutto il mondo erano svanite nel nulla.

Ma non poteva dirlo, per quanto volesse farlo. Invece soffocò la rabbia e trattenne la lingua e i pugni. Si fermò accanto all’auto e si girò verso l’altro uomo. Allo stesso tempo, il basso poliziotto abbassò una mano alla cintura, vicino alle manette.

Due agenti in uniforme che facevano la guardia davanti alla porta notarono il potenziale alterco e si avvicinarono con cautela, portando anche loro le mani alla cintura.

Da quando il soppressore della memoria gli era stato tolto dal cranio, Reid si sentiva come se avesse due menti. Una era il lato logico del professor Lawson, che gli stava dicendo: Arrenditi. Fai come chiede. O altrimenti ti ritroverai in galera e non raggiungerai mai le ragazze.

Ma l’altra parte, quella che era Kent Steele, l’agente segreto, il ribelle, l’uomo alla costante ricerca del brivido, era molto più rumorosa e gridava, sapendo quanto fosse importante ogni secondo.

La seconda parte vinse. Reid si tese, preparandosi alla lotta.




CAPITOLO QUATTRO


Per quello che sembrò un momento lunghissimo nessuno si mosse, né Reid né Noles, e nemmeno i due agenti dietro il detective. Reid stringeva forte la borsa. Se avesse cercato di salire in auto e scappare, era certo che i poliziotti lo avrebbero aggredito. E sapeva che lui avrebbe reagito di conseguenza.

All’improvviso risuonò lo stridio di freni e tutti gli occhi si rivolsero verso un SUV nero che si fermò bruscamente alla fine del vialetto, in perpendicolare rispetto al suo veicolo, bloccandolo. Emerse una figura che si avvicinò in fretta per calmare la situazione.

Watson? quasi sbottò Reid.

John Watson era un agente operativo come lui, un uomo afro-americano alto e dall’espressione sempre impassibile. Aveva il braccio destro sospeso da una fasciatura blu; solo il giorno prima era stato colpito da un proiettile durante l’operazione per impedire ai radicali islamici di rilasciare il virus.

“Detective.” Watson salutò Noles con cenno del capo. “Sono l’agente Hopkins, del dipartimento dell’Homeland Security.” Con la mano sana gli mostrò un distintivo convincente. “Quest’uomo deve venire con me.”

Il detective si accigliò. La tensione del momento era evaporata, ed era stata sostituita dalla confusione. “Come dice? Homeland Security?”

L’agente afro-americano annuì severamente. “Crediamo che il rapimento abbia a che fare con un’indagine in corso. Ho bisogno che il signor Lawson venga con me, subito.”

“Ora aspetti un momento.” Noles scosse la testa, ancora perplesso dall’improvvisa intrusione e dalla rapida spiegazione. “Non può intromettersi così e prendere…”

“Quest’uomo è una risorsa del dipartimento,” lo interruppe Watson. Tenne la voce bassa, come se stesse svelando un segreto, ma Reid sapeva che era una tattica della CIA. “È con il WITSEC.”

Il detective sgranò gli occhi tanto che sembrarono sul punto di cadergli fuori dalla testa. Il WITSEC era l’acronimo del programma di protezione testimoni del Dipartimento della Giustizia americano. Ma Reid non disse nulla; si limitò a incrociare le braccia sul petto e a lanciare uno sguardo duro al poliziotto.

“In ogni caso…” riprese con esitazione Noles, “mi servirà qualcos’altro qui oltre a un distintivo luccicante…” Il suo cellulare cominciò a squillare all’improvviso.

“Immagino che quella sia la conferma del mio dipartimento,” garantì Watson mentre l’altro uomo prendeva il telefono. “È meglio che risponda. Signor Lawson, la prego, da questa parte.”

L’agente si allontanò, lasciando il detective sbalordito a balbettare nel ricevitore. Reid prese la borsa e lo seguì, ma si fermò davanti al SUV.

“Aspetta,” disse prima che Watson salì dietro il volante. “Che sta succedendo? Dove stiamo andando?”

“Possiamo parlare durante il viaggio, o possiamo farlo ora e perdere tempo.”

L’unico motivo che gli veniva in mente per la presenza di Watson era che l’agenzia lo avesse mandato con lo scopo di prenderlo sotto custodia e tenerlo d’occhio.

Scosse la testa. “Non andrò a Langley.”

“Nemmeno io,” rispose l’altro uomo. “Sono qui per aiutarti. Sali in auto.” Si accomodò nel sedile del guidatore.

Reid esitò per un breve istante. Doveva mettersi in strada, ma non aveva nessuna destinazione. Gli serviva una traccia. E non aveva motivo di credere che Watson gli stesse mentendo. Era uno degli agenti più onesti e leali che avesse mai incontrato.

Salì nel sedile del passeggero accanto a lui. Con il braccio nella fasciatura, l’altro agente dovette piegare tutto il corpo per inserire la prima e girare il volante con una mano. Si misero subito in moto, superando il limite di velocità ma non abbastanza da attirare l’attenzione.

L’uomo lanciò uno sguardo alla borsa nera in grembo a Reid. “Dove avevi intenzione di andare?”

“Devo trovarle, John.” Gli si annebbiò la vista al pensiero delle sue due figlie là fuori, sole, nelle mani di un folle assassino.

“Senza supporto? Disarmato e con un cellulare civile?” L’agente Watson scosse la testa. “Sai che non è una buona idea.”

“Ho già parlato con Cartwright,” disse amareggiato Reid.

Watson sbuffò. “Pensi che il vice direttore fosse da solo mentre parlava con te? Credi che fosse su una linea sicura, in un ufficio a Langley?”

Lui si accigliò. “Non sono sicuro di capire. Mi stai suggerendo che Cartwright in realtà vuole che io faccia esattamente quello che mi ha detto di non fare?”

L’altro fece spallucce, senza togliere lo sguardo dalla strada. “Più che altro sa che lo faresti in ogni caso, che lui lo voglia oppure no. Ti conosce meglio di molti altri. Per come la vede Cartwright, è meglio evitare un altro problema accertandosi che tu abbia il supporto che ti serve.”

“E ha mandato te,” mormorò Reid. L’agente non lo confermò né lo negò, ma non era necessario. Il vice direttore sapeva che Zero avrebbe cercato le figlie; la loro conversazione era stata a uso e consumo delle altre orecchie a Langley. Tuttavia, sapendo quanto Watson fosse fissato con il protocollo, non capiva perché lo volesse aiutare. “E tu? Perché lo stai facendo?”

L’altro uomo scrollò le spalle. “Ci sono un paio di bambine là fuori. Spaventate, sole e in mani cattive. Non mi piace molto.”

Non era una vera risposta, e forse non era neanche tutta la verità, ma Reid sapeva che dallo stoico agente non avrebbe cavato altro.

Non poteva evitare di pensare che in parte Cartwright avesse deciso di aiutarlo perché si sentiva in colpa. Lui gli aveva già chiesto due volte di mettere le figlie in una casa sicura, e invece il vice direttore aveva addotto scuse sulla mancanza di agenti e di risorse… e ora erano svanite.

Avrebbe potuto evitarlo. Avrebbe potuto aiutarlo. Reid si sentì di nuovo accendere dalla rabbia e ancora una volta la soffocò. Non era il momento per quello. Adesso doveva trovare le sue figlie. Nient’altro aveva importanza.

Le troverò. Le riprenderò. E ucciderò Rais.

Reid fece un profondo respiro. Inalò dal naso ed espirò dalla bocca. “Quindi per ora che cosa sappiamo?”

Watson scosse la testa. “Non molto. L’abbiamo appena scoperto, grazie alla tua telefonata alla polizia. Ma l’agenzia è già al lavoro. Dovremmo avere una pista in poco tempo.”

“Chi ci sta lavorando? Qualcuno che conosco?”

“Il direttore Mullen ha affidato l’indagine alle Operazioni Speciali, quindi se ne sta occupando Riker…”

Reid si ritrovò a sbuffare di nuovo. Meno di quarantotto ore prima gli era tornato alla mente un ricordo, uno della sua vita passata come Kent Steele. Era ancora nebuloso e frammentario, ma c’entrava una cospirazione, un qualche segreto del governo. Una guerra in arrivo. Due anni prima aveva saputo di cosa si trattava—o almeno ne aveva saputo una parte—ed era stato alla ricerca di altri indizi. Nonostante la mancanza di chiarezza, era stato certo che fossero coinvolti diversi agenti della CIA.

In cima alla lista c’era l’appena nominata vice direttrice Ashleigh Riker, capo del gruppo Operazioni Speciali. E a prescindere dalla sua mancanza di fiducia nei confronti della donna, non credeva affatto che lei si sarebbe impegnata per ritrovare le sue figlie.

“Ha assegnato il caso a un ragazzo nuovo, giovane ma in gamba,” continuò Watson. “Si chiama Strickland. È un ex Ranger dell’esercito, un eccellente cacciatore. Se qualcuno può trovare il colpevole è lui. A parte te, ovviamente.”

“Io so già chi è stato, John.” Scosse amareggiato il capo. Pensò subito a Maria; la donna era un’agente come loro, un’amica, e forse qualcosa di più. Era anche una delle poche persone di cui Reid si fidava. L’ultima volta che aveva avuto sue notizie, Maria Johansson era stata in Russia a inseguire Rais. “Devo contattare Johansson. È giusto che sappia che cosa è successo.” Sapeva che la CIA non l’avrebbe richiamata fino a quando lui non avesse trovato le prove che dimostravano la colpevolezza dell’assassino di Amun.

“Non puoi farlo, non mentre è sul campo,” rispose Watson. “Ma posso cercare di entrare in contatto con lei in qualche altra maniera. Le dirò di chiamarti non appena riuscirà a trovare una linea sicura.”

Reid annuì. Non gli piaceva il pensiero che Maria fosse irraggiungibile, ma non poteva farci niente. Durante le operazioni non si potevano usare i cellulari personali, e la CIA monitorava le sue comunicazioni.

“Hai intenzione di dirmi dove stiamo andando?” domandò. Stava iniziando a innervosirsi.

“Da qualcuno che può aiutarci. Ecco.” Gli gettò un piccolo telefono a conchiglia argentato, uno usa e getta, che la CIA non avrebbe potuto tracciare a meno che non avesse saputo della sua esistenza e a che numero rispondeva. “Lì dentro ci sono alcuni contatti. Uno è per la mia linea sicura. Un altro è quello di Mitch.”

Reid batté le palpebre. Non conosceva nessun Mitch. “Chi diavolo sarebbe?”

Invece di rispondere, Watson guidò il SUV fuori strada e nel vialetto di un’officina chiamata Third Street Garage. Parcheggiò il veicolo dentro il garage aperto. Non appena spense il motore, il portellone del negozio si chiuse dietro di loro.

Entrambi uscirono dalla macchina e Reid cercò di abituare i propri occhi all’oscurità. Poi le luci si accesero, brillanti lampadine fluorescenti che gli riempirono la vista di puntini luminosi.

Accanto al SUV, in un secondo spazio nel garage, c’era un’auto nera, un modello Trans Am degli anni ’80. Non era una macchina nuova ma la vernice era lucida e sembrava data da poco.

Insieme a loro c’era anche un uomo. Indossava una tuta di un colore blu scuro che nascondeva a malapena le macchie di grasso. I suoi lineamenti erano oscurati da un’arruffata barba castana e da un cappellino rosso da baseball con i bordi scoloriti dal sudore, che portava basso sulla fronte. Il meccanico si ripulì lentamente le mani su uno straccio lurido e macchiato d’olio, fissando Reid.

“Lui è Mitch,” disse Watson. “È un amico.” Gettò un mazzo di chiavi al collega e indicò la Trans Am. “È un modello vecchio, quindi è senza GPS. È affidabile. Sono anni che Mitch la sistema, quindi vedi di non distruggerla.”

“Grazie.” Aveva sperato in qualcosa di meno appariscente, ma avrebbe accettato tutto l’aiuto che gli avrebbero fornito. “Che posto è questo?”

“Questo? È un garage, Kent. Qui aggiustano le auto.”

Reid roteò gli occhi. “Sai che cosa voglio dire.”

“L’agenzia sta già cercando di tenerti d’occhio,” spiegò Watson. “Proveranno a rintracciarti in ogni modo possibile. A volte nel nostro mestiere sono utili degli… amici esterni, per così dire.” Indicò il corpulento meccanico. “Mitch è una risorsa della CIA. L’ho reclutato quando ero alla National Resources Division. È esperto nel, ehm, ‘recupero veicoli’. Se devi andare da qualche parte, ti basta chiamare lui.”

L’agente annuì. Non sapeva che il collega si fosse occupato di reclutare risorse prima di iniziare a lavorare sul campo. In realtà doveva ammettere che non sapeva neanche se John Watson era il suo vero nome.

“Andiamo, ho delle cose per te.” L’uomo aprì il bagagliaio e gli mostrò il contenuto di una sacca nera.

Reid fece un passo indietro per lo stupore: all’interno c’era ogni genere di dispositivo utile, inclusi registratori, GPS, uno scanner di frequenze e due pistole, una Glock 22 e la sua arma di scorta preferita, una Ruger LC9.

Scosse sbalordito la testa. “Come hai trovato questa roba?”

Watson scrollò le spalle. “Un amico comune mi ha dato una mano.”

Non dovette chiedergli di chi stesse parlando. Bixby. L’eccentrico ingegnere della CIA che passava la maggior parte delle sue ore in un laboratorio di ricerca e sviluppo sotterraneo sotto Langley.

“Tu e lui vi conoscete da molto, anche se non te lo ricordi,” gli spiegò l’altro uomo. “Ma ha detto che avrei dovuto ricordarti di qualche test?”

Reid annuì. Bixby era uno degli inventori del soppressore sperimentale di memoria che gli avevano istallato nella testa, e l’ingegnere gli aveva chiesto di fare qualche test su di lui.

Può aprirmi il cranio se significa riavere indietro le mie figlie. Un’altra ondata travolgente di emozione lo assalì, al pensiero di tutte quelle persone disposte a violare leggi e a rischiare la vita, anche se lui non riusciva a ricordarsi affatto di loro. Batté le palpebre per scacciare le lacrime che gli erano salite agli occhi.

“Grazie, John. Davvero.”

“Non ringraziami ancora. Abbiamo appena iniziato.” Il telefono di Watson gli vibrò nella tasca. “Deve essere Cartwright. Dammi un minuto.” Si ritirò in un angolo per rispondere alla chiamata a bassa voce.

Reid richiuse la borsa e il bagagliaio. Allo stesso tempo il meccanico grugnì, emettendo un suono tra un borbottio e un colpo di tosse.

“Ha… ha detto qualcosa?”

“Ho detto che mi spiace. Per le sue figlie.” L’espressione di Mitch era ben nascosta dalla barba folta e dal cappello, ma il tono della sua voce sembrava sincero.

“Sa già… di loro?”

L’uomo annuì. “Sono già apparse al telegiornale. Le loro foto e una linea verde da chiamare in caso qualcuno le avvisti.”

Reid si morse il labbro. Non aveva pensato alla stampa e alla pubblicità… e all’invariabile collegamento a lui. Subito pensò a Linda, la zia delle ragazze che viveva a New York. Quel genere di notizie si spargevano in fretta, e se fosse arrivata fino a lei sarebbe morta di spavento. Avrebbe cominciato a tempestarlo di telefonate per ricevere notizie, ma inutilmente.

“Abbiamo qualcosa,” annunciò Watson all’improvviso. “Il pick-up di Thompson è stato ritrovato in un’area di sosta a un centinaio di chilometri da qui sulla I-95. C’era il cadavere di una donna sulla scena. Le hanno tagliato la gola e rubato l’auto e la carta d’identità.”

“Quindi non sappiamo chi fosse?”

“Non ancora ma ci stiamo lavorando. Ho un tecnico che sta ascoltando le onde radio della polizia e tenendo d’occhio i satelliti. Non appena qualcuno saprà qualcosa, ci informeranno.”

Reid grugnì. Senza un documento d’identità non sarebbero riusciti a trovare il suo mezzo. Non era una gran pista, ma almeno era qualcosa e lui non vedeva l’ora di mettersi in strada. Aprì la porta della Trans Am e chiese: “Quale uscita?”

Watson scosse la testa. “Non andare là, Kent. Sarà pieno di poliziotti e sono sicuro che anche l’agente Strickland sia diretto sulla scena.”

“Farò attenzione.” Non si fidava della polizia e di quell’agente novellino. Avrebbe trovato più indizi di loro. Oltretutto se Rais voleva giocarsela come credeva, avrebbe potuto esserci un’altra traccia sotto forma di provocazione, un insulto inteso solo per lui.

Ripensò alla foto delle sue figlie, quella che Rais gli aveva mandato dal telefono di Maya, e gli tornò in mente una cosa. “Ecco, tieni questo per me.” Gli affidò il suo cellulare privato. “Rais ha il numero di Sara, e io ho dirottato le sue chiamate sul mio. Se dovessi ricevere qualsiasi cosa, voglio esserne informato.”

“Certo. La scena del crimine è all’uscita sessantatré. Ti serve altro?”

“Non dimenticarti di dire a Maria di chiamarmi.” Si accomodò dietro il volante dell’auto sportiva e gli fece un cenno di saluto. “Grazie per tutto l’aiuto.”

“Non lo sto facendo per te,” gli ricordò l’altro impassibile. “Lo faccio per quelle ragazzine. E Zero? Se mi scoprono, se la mia copertura venisse compromessa, o se capiscono che cosa sto facendo con te, mi tiro fuori. Hai capito? Non mi posso permettere di finire sulla lista nera dell’agenzia.”

La reazione istintiva di Reid fu uno scatto d’ira—qui si tratta delle mie bambine e lui ha paura di finire sulla lista nera?—ma lo soffocò in fretta. Watson era un alleato inaspettato in quella situazione, e stava rischiando grosso per aiutarlo. O meglio, non per aiutare lui ma due bambine che aveva incontrato solo brevemente.

Annuì serio. “Lo capisco.” Rivolto al meccanico solenne e di poche parole aggiunse: “Grazie, Mitch. Apprezzo il suo aiuto.”

L’uomo barbuto grugnì in risposta e premette un pulsante per aprire il portello del garage mentre Reid metteva in moto la Trans Am. Gli interni dell’auto erano in pelle nera, puliti e dall’odore gradevole. Il motore faceva le fusa sotto il cofano. Un modello del 1987, lo informò il suo cervello. Un motore V8 da 5.0 litri. Almeno duecentocinquanta cavalli.

Uscì dal Third Street Garage e si diresse verso l’autostrada, con le mani strette attorno al volante. Una ferrea determinazione aveva preso il posto degli orrori che gli avevano riempito la mente fino a poco prima. La polizia aveva creato un numero verde e stava indagando. La CIA era al lavoro per identificare il rapitore. Adesso lui stesso si era messo in moto per ritrovare le ragazze.

Sto arrivando. Papà sta venendo a prendervi.

E a occuparsi di lui.




CAPITOLO CINQUE


“Dovreste mangiare.” L’assassino indicò il cartone di cibo cinese d’asporto sul comodino accanto al letto.

Maya scosse la testa. Ormai il cibo si era raffreddato, e comunque non aveva fame. Era seduta sul materasso con le ginocchia sollevate, la sorella appoggiata a lei con la testa sul suo grembo. Le due ragazzine erano ammanettate insieme, il polso sinistro di Maya a quello destro di Sara. Lei non aveva idea da dove l’assassino avesse preso le manette, ma le aveva avvertite diverse volte che se una di loro avesse tentato di scappare o di far rumore, l’altra ne avrebbe subito le conseguenze.

Rais era seduto su una poltrona accanto alla porta. Erano in una squallida stanza di motel dai tappeti arancioni e le mura gialle. C’era odore di muffa e il bagno puzzava di candeggina. Erano lì da ore; il vecchio orologio appoggiato vicino al letto diceva in numeri rossi a LED che erano le due e mezza del mattino. La televisione era accesa, sintonizzata su un notiziario con il volume basso.

Una station wagon bianca era parcheggiata direttamente davanti alla porta, a un metro di distanza; l’assassino l’aveva rubata nella notte da un rivenditore di macchine usate. Era stata la terza volta che cambiavano auto quel giorno. Prima il pick-up di Thompson poi la berlina blu e ora a quel SUV bianco. Ogni volta che lo facevano, Rais cambiava direzione, prima andando a sud, poi tornando a nord, e infine girando a nord-est verso la costa.

Maya aveva capito che cosa stava facendo: era il gioco del gatto con il topo. Lasciava i veicoli rubati in posti diversi in modo che le autorità non avessero idea di dove stessero andando. La loro stanza di motel era a meno di quindici chilometri da Bayonne, poco distante dal confine con New Jersey e New York. Il motel stesso era un edificio lungo e basso talmente malconcio e disgustoso che passandoci davanti si aveva l’impressione che fosse chiuso da anni.

Nessuna delle due ragazze aveva dormito molto. Sara aveva schiacciato qualche pisolino tra le braccia di Maya, perdendo i sensi per venti o trenta minuti alla volta prima di svegliarsi di colpo con un singhiozzo, sfuggendo ai propri sogni per ricordarsi dove fosse in realtà.

Maya aveva lottato contro la stanchezza, cercando di rimanere vigile il più a lungo possibile. Sapeva che a un certo punto anche Rais avrebbe dovuto dormire, e ciò gli avrebbe lasciato qualche minuto prezioso per provare a scappare. Ma il motel era nel bel mezzo di una zona industriale. Quando si erano fermati si era accorta che non c’erano case vicine e a quell’ora di notte nessun negozio era aperto. Non era neanche sicura di aver visto qualcuno nell’ufficio dell’albergo. Non sarebbero potute andare da nessuna parte. Si sarebbero perse nella notte, rallentate dalle manette.

Alla fine aveva ceduto alla fatica e a malincuore si era addormentata. Dopo meno di un’ora si era svegliata di soprassalto, e poi aveva sobbalzato di nuovo quando aveva visto Rais seduto in poltrona a mezzo metro da lei.

La stava fissando con concentrazione, i suoi occhi sgranati. La fissava e basta.

Le fece accapponare la pelle… fino a quando non passò un intero minuto, e poi un altro. Maya lo fissò a sua volta, lo spavento mescolato alla curiosità. Poi capì.

Dorme con gli occhi aperti.

Non sapeva se trovava più inquietante quello o svegliarsi sotto il suo sguardo attento.

Ma poi Rais batté le palpebre e lei dovette trattenere un ennesimo sussulto, con il cuore che le batteva forte nel petto.

“Nervi facciali danneggiati,” spiegò l’uomo a bassa voce, quasi in un bisbiglio. “Ho sentito che può essere piuttosto destabilizzante.” Indicò il cartone dell’asporto cinese che aveva ordinato in camera ore prima e ripeté. “Dovresti mangiare.”

Lei scosse la testa, stringendosi Sara in grembo.

Alla televisione a basso volume stavano ripetendo le principali notizie della giornata. Un’organizzazione terroristica era stata ritenuta responsabile del rilascio di un ceppo letale del virus del vaiolo in Spagna e altre parti d’Europa. Il loro leader, insieme al virus e vari membri dell’organizzazione, era stato preso e ora era in custodia. Quel pomeriggio gli Stati Uniti avevano rimosso ufficialmente il divieto di viaggio internazionale verso tutti i paesi, a eccezione del Portogallo, la Spagna e la Francia, dove si continuavano a trovare casi isolati del vaiolo mutato. Ma tutti sembravano certi che la World Health Organization avesse la situazione sotto controllo.

Maya aveva sospettato che il padre fosse stato mandato ad aiutare in quel caso. Si chiese se fosse stato lui a catturare il capo dell’organizzazione, e se fosse già tornato nel paese.

Si domandò anche se avesse già trovato il corpo del signor Thompson e se si fosse accorto che erano state rapite. O se chiunque si fosse accorto della loro sparizione.

Rais non si muoveva dalla sua poltrona gialla. Aveva un cellulare appoggiato su un bracciolo. Era un modello vecchio, praticamente preistorico per gli standard attuali, che serviva solo a chiamare e a mandare messaggi. Un cellulare usa e getta, così Maya li aveva sentiti chiamare nelle serie televisive. Non aveva un collegamento a internet né un GPS. Le sue serie le avevano insegnato che ciò significava che poteva essere rintracciato solo con il numero, che quindi bisognava avere.

A quanto pareva l’assassino stava aspettando qualcosa. Una chiamata o un messaggio. Maya voleva disperatamente sapere dove stavano andando, o anche solo se avevano una destinazione. Stava cominciando a pensare che Rais volesse che suo padre li trovasse, li rintracciasse, ma in ogni caso quell’uomo non pareva avere fretta di fare la sua mossa. Qual era il suo gioco? Avrebbe continuato a rubare auto e a cambiare direzione, eludendo le autorità nella speranza che suo padre li trovasse per primi? Avrebbero continuato a muoversi da un posto all’altro fino allo scontro finale?

All’improvviso uno squillo monotono si alzò dal cellulare usa e getta accanto a lui. Sara sobbalzò leggermente tra le sue braccia al suono acuto.

“Pronto.” Rais rispose con tono piatto. “Ano.” Si alzò dalla poltrona per la prima volta in tre ore, passando dall’inglese a una lingua sconosciuta. Maya conosceva solo l’inglese e il francese, e sapeva riconoscere qualche altra lingua sentendo parole e accenti, ma quella le mancava. Era gutturale, ma non del tutto sgradevole.

Russo? pensò. No. Polacco, forse. Non aveva senso tirare a indovinare. Non poteva esserne sicura, e saperlo non l’avrebbe aiutata a capire quello che stava dicendo.

Lo stesso origliò, notando l’uso frequente di suoni “z” e “-ski”, cercando di captare parole simili all’inglese, anche se non sembravano essercene.

Riuscì a identificare solo un nome, che le fece gelare il sangue nelle vene.

“Dubrovnik,” disse l’assassino, in tono d’assenso.

Dubrovnik? La geografia era una delle sue materie preferite; Dubrovnik era una città nel sud-ovest della Croazia, un porto famoso e una popolare destinazione turistica. Ma la cosa più importante era ciò che quella parola implicava.

Voleva dire che Rais aveva intenzione di portarle fuori dal paese.

“Ano,” ripeté (che sembrava una conferma; Maya intuì che fosse un “sì”). E poi: “Port Jersey.”

Durante tutta la conversazione udì solo quelle due parole inglesi, oltre a “pronto”, e le riconobbe facilmente. Il loro motel era già vicino a Bayonne, a un tiro di schioppo dal porto industriale chiamato Port Jersey. Lo aveva visto diverse volte, mentre attraversava il ponte per andare verso il Jersey da New York o viceversa. Era un vasto spazio pieno di container colorati per il trasporto merci, impilati uno sopra l’altro. Li aveva osservati svanire nella stiva buia delle grandi navi che li avrebbero trasportati dall’altra parte dell’oceano.

Il cuore le batté all’impazzata contro le costole. Le voleva portare fuori dagli Stati Uniti, caricandole a Port Jersey per un viaggio fino alla Croazia. E da lì… non aveva idea, e non l’avrebbe avuta nessun altro. Non avrebbero più potuto ritrovarle.

Non poteva permettere che accadesse. La sua determinazione a lottare si rafforzò; la decisione di ostacolare quella situazione tornò alla vita con un ruggito.

Il trauma causato dall’immagine di Rais che tagliava la gola alla donna nel bagno dell’area di sosta persisteva; lo rivedeva accadere ogni volta che chiudeva gli occhi. Lo sguardo morto e vuoto. La pozza di sangue che le arrivava quasi ai piedi. Ma poi toccò i capelli della sorella e capì che avrebbe accettato lo stesso destino se significava allontanare Sara da quell’uomo.

Rais continuò la sua conversazione nella lingua straniera, pronunciando frasi brevi e secche. Si voltò per scostare leggermente le pesanti tende, solo di un centimetro o due, per sbirciare fuori verso il parcheggio.

Le stava dando la schiena, forse per la prima volta da quando erano arrivati allo squallido motel.

Maya allungò una mano ed estrasse con molta attenzione il cassetto del comodino. Era l’unica cosa che riusciva a raggiungere, ammanettata alla sorella e senza alzarsi dal letto. Spostò nervosamente lo sguardo dalla schiena del suo rapitore al cassetto.

Dentro c’era una Bibbia, un volume vecchio con il dorso spaccato e quasi staccato. E vicino c’era una semplice biro blu.

La prese e chiuse subito il cassetto. Quasi nello stesso momento Rais si rigirò. Maya si paralizzò, stringendo la penna nel pugno chiuso.

Ma l’uomo non le stava prestando attenzione. Sembrava annoiato dalla telefonata, e ansioso di chiuderla. Qualcosa alla televisione attirò il suo sguardo per qualche secondo e la ragazza si nascose la biro nell’elastico in vita dei suoi pantaloni in flanella.

L’assassino grugnì un saluto poco entusiasta e spense il cellulare, buttandolo sul cuscino della poltrona. Si voltò verso di loro, studiandole una per una. Maya fissò dritta davanti a sé, con occhi più vacui possibile, fingendo di guardare il notiziario. Apparentemente soddisfatto, lui riprese posto in poltrona.

La ragazza accarezzò i capelli della sorella con la mano libera, mentre Sara fissava la televisione, o forse il vuoto, con gli occhi socchiusi. Dopo l’incidente nel bagno della stazione di servizio le erano servite ore per smettere di piangere, ma ormai giaceva immobile, con sguardo sperso e appannato. Sembrava svuotata.

Le mosse la mano su e giù per la schiena, tentando di consolarla. Non potevano comunicare. Rais aveva detto esplicitamente che non avevano il permesso di parlare, a meno che non avesse fatto loro una domanda. Non aveva modo per riferirle un messaggio e creare un piano.

Anche se… magari non dobbiamo per forza comunicare verbalmente, pensò.

Maya smise di toccarle la schiena per un istante. Quando ricominciò, usò il dito indice per tracciare la forma di una lettera tra le sue scapole, una grande S.

Sara alzò incuriosita la testa per un momento, ma non guardò verso la sorella né disse niente. Maya sperò disperatamente che avesse capito.

T, disegnò allora.

Poi una R.

Rais era seduto in poltrona nella visione periferica della ragazza. Non spostò mai lo sguardo su di lui per paura di attirare i suoi sospetto. Invece fissò dritta davanti a sé, come aveva fatto fino a quel momento, e disegnò le lettere.

I. N. G. I.

Mosse il dito con lentezza e deliberazione, fermandosi per un paio di secondi tra ogni lettera e cinque tra ogni parola, fino a tracciare tutto il suo messaggio.

Stringimi la mano se hai capito.

Maya non la vide nemmeno muoversi. Ma avevano le mani vicine, essendo ammanettate insieme, e sentì le sue dita fredde e bagnate chiudersi con forza sulle proprie per un istante.

Aveva capito. Aveva ricevuto il suo messaggio.

Ricominciò di nuovo, spostandosi il meno possibile. Non c’era fretta, e doveva essere certa che la sorella comprendesse ogni parola.

Se riesci, scrisse, scappa.

Non girarti.

Non aspettarmi.

Trova aiuto. Trova papà.

Sara rimase ferma, in silenzio e immobile, per tutto il messaggio. Mancava un quarto alle tre quando Maya finì. Poi percepì il tocco freddo di un dito sottile sul palmo della sua mano sinistra, nascosta in parte sotto la guancia della sorella. Il dito tracciò un disegno sulla sua pelle, la lettera N.

Non senza di te, disse Sara.

Maya chiuse gli occhi e sospirò.

Devi farlo, rispose a sua volta. O nessuna di noi avrà una chance.

Non lasciò alla sorella il modo di rispondere. Una volta finito il messaggio, si schiarì la gola e disse piano: “Devo andare in bagno.”

Rais sollevò le sopracciglia e indicò il bagno aperto all’estremità della stanza. “Prego.”

“Ma…” Maya alzò il polso ammanettato.

“Quindi?” domandò l’assassino. “Portala con te. Hai una mano libera.”

Lei si morse il labbro. Sapeva che cosa stava facendo; l’unica finestra del bagno era stretta, a malapena grande abbastanza perché riuscisse a passarci attraverso e del tutto impraticabile con la sorella ammanettata al braccio.

Si alzò lentamente dal letto, sospingendo Sara perché si muovesse con lei. La ragazzina più piccola si spostò in maniera meccanica, come se si fosse dimenticata l’uso degli arti.

“Avete un minuto. Non chiudete a chiave la porta,” le avvertì Rais. “Se lo fate la tirerò giù a calci.”

Maya si avviò e accostò la porta del minuscolo bagno, angusto per la presenza di entrambe. Accese la luce—abbastanza certa di aver visto uno scarafaggio correre a nascondersi sotto il lavandino—e attivò la ventola, che ronzò rumorosamente.

“Non lo farò,” bisbigliò quasi subito Sara. “Non andrò senza di…”

Maya si portò in fretta un dito alle labbra per segnalarle di fare silenzio. Per quel che ne sapevano, Rais era dall’altra parte della porta, con un orecchio appoggiato al legno. Quell’uomo non correva rischi.

Tirò fuori in fretta la biro dall’orlo dei pantaloni. Le serviva qualcosa su cui scrivere, e l’unico oggetto disponibile era la carta igienica. Ne strappò qualche riquadro e li sparse sul lavandino, ma ogni volta che ci premeva sopra la punta, la carta si strappava. Ci riprovò con diversi pezzetti, ma fu tutto inutile.

Così non funziona, pensò con amarezza. Le tende della doccia non sarebbero state d’aiuto; erano solo un telo di plastica appeso sopra la vasca. Non c’erano tendine sulla finestrella.

Ma c’era qualcos’altro che avrebbe potuto usare.

“Stai ferma,” bisbigliò all’orecchio della sorella. I pantaloni del pigiama di Sara erano bianchi e decorati con una stampa ad ananas, e avevano le tasche. Gliene rivoltò una all’esterno e con tutta la cura possibile la strappò, fino a quando non ebbe tra le mani un pezzo di stoffa triangolare, disegnato da un lato ma bianco dall’altro.

L’appiattì in fretta sul lavandino e scrisse sotto lo sguardo dell’altra ragazza. La penna continuava a incagliarsi sulla stoffa, ma Maya si morse la lingua per trattenere i grugniti di frustrazione e concluse il suo messaggio.

Port Jersey.

Dubrovnik.

Avrebbe voluto scrivere altro, ma aveva quasi finito il tempo. Infilò la penna sotto il lavandino e arrotolò il biglietto in uno stretto cilindro. Poi si guardò disperatamente attorno alla ricerca di un posto dove nasconderlo. Non poteva lasciarlo sotto il lavandino con la biro. Si sarebbe visto troppo e Rais era molto attento. La doccia era fuori questione. Se si fosse bagnato l’inchiostro sarebbe colato.

Un tocco secco sulla sottile porta del bagno fece sobbalzare entrambe le ragazze.

“È passato un minuto,” annunciò Rais dall’altra parte.

“Ho quasi finito,” disse in fretta lei. Trattenne il fiato sollevando il coperchio del serbatoio del water, sperando che il ronzio della ventola soffocasse ogni rumore. Infilò il bigliettino arrotolato nella catenella del meccanismo per tirare lo sciacquone, abbastanza in alto perché non pescasse in acqua.

“Avevo detto che avresti avuto un minuto. Apro la porta.”

“Lasciami solo qualche secondo, ti prego!” lo supplicò Maya mentre rimetteva a posto il coperchio. Infine si strappò qualche capello e li lasciò cadere sul serbatoio chiuso. Con un po’ di fortuna—con molta fortuna—chiunque le stesse cercando avrebbe riconosciuto l’indizio.

Poteva solo sperare.

La maniglia del bagno si girò. Maya tirò l’acqua e si abbassò come per suggerire che si stava alzando i pantaloni del pigiama.

Rais fece capolino nella stanzetta, con lo sguardo puntato a terra. Lentamente lo sollevò sulle due ragazze, ispezionandole a turno entrambe.

Maya trattenne il fiato. Sara prese la mano ammanettata della sorella e strinse insieme le loro dita.

“Finito?” chiese piano l’uomo.

Lei annuì.

L’assassino si guardò attorno nel bagno con espressione disgustata. “Lavati le mani. Questa stanza fa schifo.”

Maya obbedì, pulendosi con il ruvido sapone arancione mentre la mano dell’altra pendeva accanto alla sua. Si asciugò con l’asciugamano marrone e l’uomo annuì.

“Tornate a letto. Andate.”

Guidò Sara fuori dal bagno e sul materasso. Rais indugiò per un istante, studiando lo spazio angusto. Poi spense la ventola e la luce per tornare alla sua poltrona.

Maya prese la sorella tra le braccia e la strinse a sé.

Papà lo troverà, pensò disperatamente. Lo deve trovare. So che ci riuscirà.




CAPITOLO SEI


Reid si avviò sull’autostrada in direzione sud, cercando di arrivare all’area di sosta dove era stato abbandonato il pick-up di Thompson il prima possibile, ma senza farsi fermare per eccesso di velocità. Nonostante la sua ansia di trovare una pista o un indizio, stava iniziando a sentirsi più ottimista, essendosi finalmente messo in strada. Il dolore era sempre presente, gli affondava nelle viscere come se avesse inghiottito una palla da bowling, ma adesso era avvolto da un guscio di tenacia e determinazione.

Avvertiva già la sensazione familiare che provava ogni volta che la personalità di Kent Steele prendeva le redini, mentre sfrecciava in autostrada nella Trans Am nera con il bagagliaio pieno di armi e dispositivi a sua disposizione. C’era un momento e un luogo per essere Reid Lawson, ma non era quello. Anche Kent era il padre delle ragazze, che loro lo sapessero o meno. Kent era stato il marito di Kate. E Kent era un uomo d’azione. Non aspettava che la polizia cercasse indizi, o che qualche altro agente facesse il suo lavoro.

Lui le avrebbe trovate. Doveva solo scoprire dove erano diretti.

La strada diretta a sud attraverso la Virginia era principalmente diritta, a due corsie, circondata su entrambi i lati da grossi alberi e monotona. La sua frustrazione cresceva con ogni istante che sprecava lontano dalla scena del crimine.

Perché a sud? pensò. Dove le voleva portare Rais?

Che cosa farei se fossi al posto suo? Dove andrei?

“Ho capito,” esclamò ad alta voce, colpito dalla consapevolezza come da un proiettile alla testa. Rais voleva essere trovato, e non dalla polizia, dall’FBI o da un altro agente della CIA. Voleva essere trovato da Kent Steele, e solo da lui.

Non posso pensare in termini di quello che lui farebbe. Devo pensare a quello che farei io.

Che cosa farei?

Le autorità avrebbero creduto che, dato che il pick-up era stato ritrovato a sud di Alexandria, l’assassino avesse continuato a portare le ragazze verso sud. “Vuol dire che io andrei…”

Le sue riflessioni furono interrotte dallo squillo del cellulare usa e getta sopra al cruscotto.

“Vai a nord,” disse subito Watson.

“Che cosa hai saputo?”

“Non c’è niente da scoprire alla stazione di sosta. Alla prima uscita voltati indietro e poi parleremo.”

Reid non dovette farselo dire due volte. Lasciò cadere il telefono sul sedile, ingranò la terza e strattonò il volante a sinistra. Non c’erano molte auto in strada a quell’ora di domenica; la Trans Am attraversò la corsia e slittò sull’aiuola erbosa in mezzo. Le ruote non stridettero sul cemento né persero aderenza quando colpirono la terra morbida. Mitch doveva aver installato pneumatici radiali altamente performanti. La macchina oltrepassò lo spazio di separazione tra i due sensi di marcia, sobbalzando appena e alzando una pioggia di terra dietro di sé.

Raddrizzò l’auto non appena ebbe superato l’ostacolo. Ritrovò l’asfalto, cambiò la marcia e pigiò il piede sull’acceleratore. La Trans Am scattò in avanti come un fulmine nella sua nuova corsia.

Reid soffocò l’eccitazione che gli riempì il petto. Il suo cervello reagiva con intensità a ogni picco d’adrenalina. Adorava il brivido, la vaga possibilità di perdere il controllo e il piacere elettrizzante di riprenderselo.

“Sono diretto a nord,” annunciò riprendendo il telefono. “Che cosa hai scoperto?”

“Ho un tecnico che sta monitorando le onde radio della polizia. Non preoccuparti, mi fido di lui. Questa mattina hanno segnalato una berlina blu abbandonata in una rivendita di auto usate. Dentro ci hanno trovato una borsetta, con le carte e i documenti d’identità della donna uccisa alla stazione di servizio.”

Reid si accigliò. Rais aveva rubato quella macchina solo per abbandonarla di nuovo di lì a poco. “Dove?”

“È questo il punto. È a circa due ore più a nord rispetto a dove ti trovi adesso, nel Maryland.”

Lui sbuffò frustrato. “Due ore? Non posso permettermi di perdere tutto questo tempo. Ha già un vantaggio enorme su di noi.”

“Ci sto lavorando,” rispose criptico Watson. “C’è dell’altro. La rivendita dice che gli manca una macchina, un SUV bianco, di otto anni fa. Non abbiamo niente per rintracciarlo, possiamo solo aspettare che venga notato. Usare il satellite sarebbe come cercare di trovare un ago in un pagliaio.”

“No,” rispose Reid. “Non serve. Il SUV sarà quasi certamente un altro vicolo cieco. Sta giocando con noi. Cambia direzione, non vuole farci capire la sua vera direzione.”

“Come fai a saperlo?”

“Perché è quello che farei io.” Rifletté per un istante. Rais era già in vantaggio su di loro. Dovevano capire a che gioco stava giocando, o almeno raggiungerlo. “Chiedi al tuo tecnico di tenere d’occhio qualsiasi furto d’auto sia stata denunciato nelle ultime dodici ore, tra qui e New York.”

“È uno spazio piuttosto ampio da controllare,” notò Watson.

Aveva ragione; Reid sapeva che negli Stati Uniti veniva rubata una macchina ogni quarantacinque secondi, per un ammontare di migliaia ogni anno. “Va bene, escludi i dieci modelli più rubati,” disse. Per quanto non gli piacesse ammetterlo, Rais era furbo. Doveva conoscere le marche che era meglio evitare e quelle da prendere di mira. “Elimina dalla ricerca qualsiasi veicolo sia troppo costoso o vistoso, di colori brillanti, con caratteristiche distintive, ogni mezzo che la polizia troverebbe in fretta. E ovviamente anche tutti quelli abbastanza nuovi da avere un GPS. Concentrati sui luoghi poco frequentati, come i parcheggi abbandonati, le rivendite chiuse, le zone industriali, posti di quel genere.”

“Ho capito,” confermò Watson. “Ti richiamo non appena so qualcosa.”

“Grazie.” Conservò di nuovo il telefono nel cruscotto. Non aveva due ore da perdere viaggiando su e giù per l’autostrada. Gli serviva una pista, o un indizio su dove potessero essere le sue ragazze. Si chiese se Rais avesse già cambiato direzione. Magari si era diretto verso nord solo per girarsi a ovest, verso l’interno del paese, o magari di nuovo a sud.

Lanciò uno sguardo alle corsie rivolte verso il meridione. Magari li sto superando in questo momento, e sono proprio di fianco a me. Non lo saprò mai.

I suoi pensieri furono interrotti da un suono acuto e familiare, l’urlo crescente e discendente della sirena della polizia. Imprecò sotto voce, guardando nello specchietto retrovisore e vedendo un’auto della polizia al suo inseguimento, con le luci blu e rosse lampeggianti.

Quella non ci voleva proprio. L’agente doveva averlo visto mentre superava l’aiuola in mezzo alla strada. Controllò di nuovo. L’auto era una Caprice. Motore da 5.7 litri. Velocità massima di duecento quaranta chilometri orari. Dubito che la Trans Am possa raggiungerli. Ma nonostante quello non aveva intenzione di fermarsi e perdere del tempo prezioso.

Invece pigiò di nuovo il pedale, saltando dai centotrenta che stava facendo ai centosessanta orari. L’altra macchina gli tenne dietro, aumentando senza difficoltà la velocità. Reid non spostò le mani dal volante, saldo e sicuro di sé, eccitato dall’inseguimento ad alta velocità.

Solo che quella volta era lui a essere inseguito.

Il telefono squillò di nuovo. “Avevi ragione,” disse Watson. “Ho un… aspetta, è una sirena quella che sento?”

“Certo che sì,” borbottò Reid. “Puoi farci qualcosa?”

“Io? Questa non è una missione ufficiale.”

“È più veloce di me…”

“Ma non è più bravo di te a guidare,” rispose l’altro agente. “Chiama Mitch.”

“Chiamare Mitch?” ripeté lui perplesso. “Per dirgli cosa di preciso? Ciao?”

Watson aveva già riappeso. Reid imprecò sotto voce e sorpassò un minivan, per spostarsi nella corsia di sinistra con una mano mentre con l’altra cercava il numero nel telefono. Watson gli aveva detto di avere inserito il numero del meccanico nella Rubrica.

Lo trovò segnato solo con la lettera “M” e lo chiamò, seguito dalla sirena strillante alle sue spalle.

Qualcuno rispose ma non parlò.

“Mitch?” domandò lui.

Il meccanico grugnì in risposta.

Dietro la sua auto, il poliziotto entrò nella corsia di destra e accelerò, cercando di affiancarlo. Reid strattonò il volante e la Trans Am scivolò elegantemente nella stessa corsia, bloccando la macchina dell’agente. Fuori dai finestrini alzati e sotto il ruggito del motore sentiva riecheggiare l’altoparlante, mentre il suo inseguitore gli ordinava di accostare.

“Mitch, sono, ehm…” Che cosa dovrei dire? “Sto facendo i centosettanta lungo la I-95 e un poliziotto mi sta inseguendo.” Lanciò uno sguardo allo specchietto retrovisore e mugugnò, vedendo una seconda volante immettersi in autostrada da dove era stata nascosta per controllare la velocità delle auto. “Diciamo che ora sono due.”

“Va bene,” replicò Mitch. “Dammi un minuto.” Sembrava stanco, come se l’idea di un inseguimento ad alta velocità con le auto della polizia fosse banale come un viaggio fino al supermercato.

“Un minuto per fare cosa?”

“Distrazione,” grugnì l’altro uomo.

“Non sono certo di averlo,” protestò lui. “Probabilmente stanno già controllando la targa.”

“Per quello non preoccuparti . È falsa. Non registrata.”

Questo non li convincerà a lasciarmi perdere, pensò cupo Reid. “Che razza di distrazione… pronto? Mitch?” Gettò irritato il telefono sul sedile del passeggero.

Con entrambe le mani sul volante, oltrepassò un pick-up, tornò nella corsia di sorpasso e pigiò sull’acceleratore. La Trans Am rispose con zelo, ruggendo e raggiungendo i duecento chilometri orari. Sfrecciò tra il traffico più lento, entrando e uscendo dalle corsie, usando persino il ciglio della strada, ma senza riuscire a scrollarsi di dosso la polizia.

Non posso superarli in velocità. Ma in bravura sì. Andiamo, Kent. Aiutami. Gli era successo diverse volte nel corso dell’ultimo mese, da quando gli era stato tolto il soppressore di memoria, che nel momento del bisogno gli tornasse alla mente una particolare abilità acquisita nel corso della sua vita come agente della CIA. Non aveva saputo di parlare arabo fino a quando non si era trovato di fronte a dei terroristi che lo stavano torturando per avere informazioni. Non aveva saputo di poter fermare tre assassini a mani nude fino a quando non aveva dovuto combattere per la propria vita.

Ho capito. Devo ritrovarmi in una situazione disperata.

Reid afferrò il freno a mano appena dietro il cambio e lo tirò in su. Subito dalla Trans Am si alzò uno stridio orrendo e l’odore di qualcosa che bruciava. Allo stesso tempo, strattonò il volante verso destra e la macchina fece di nuovo un testacoda, attraversando l’aiuola di mezzo come se stesse cercando di prendere la direzione opposta.

Le due auto della polizia lo seguirono, pigiando sul freno e cercando di curvare a gomito. Ma non appena frenarono, rivolte verso sud, lui continuò a girare su di sé, facendo trecentosessanta gradi. Riabbassò il freno a mano, cambiò la marcia e premette di nuovo sul gas. L’auto sportiva sfrecciò in avanti e fece mangiare la polvere ai due poliziotti confusi.

Emise un urlo della vittoria, con il cuore che gli pompava nel petto. Tuttavia la sua eccitazione fu di breve durata. Aveva il piede saldamente sull’acceleratore, cercando di mantenere la velocità, ma la Trans Am perdeva potenza. La lancetta del tachimetro si abbassò a centocinquanta, poi centoquaranta, calando sempre più in fretta. Era in quinta, ma la sua manovra con il freno doveva aver fatto saltare un cilindro, o danneggiato in qualche modo il motore.

Lo strillo assordante delle sirene peggiorò la situazione. Le due volanti della polizia erano alle sue spalle e lo stavano per raggiungere, insieme a una terza. Il traffico dell’autostrada si fece da parte per lasciare loro libero il passaggio, mentre lui era costretto a entrare e uscire dalle corsie, tentando disperatamente ma inutilmente di non perdere velocità.

Gemette. Sarebbe stato impossibile liberarsi dei poliziotti in quella maniera. Ormai c’erano solo cinquanta metri tra di loro, e diminuivano sempre di più. Le auto si misero in formazione a triangolo, una per corsia e la terza sulla linea di mezzo.

Vogliono provare la manovra del pozzo: mi vogliono prendere in mezzo e costringermi ad accostare.

Andiamo, Mitch. E la mia distrazione? Non aveva idea di che cosa avesse in mente il meccanico, ma era il momento giusto dato che ormai le altre auto erano a ridosso della sua macchina sportiva.

Ebbe la sua risposta un istante più tardi, quando qualcosa di enorme balzò nella sua visione periferica.

Dal lato sud dell’autostrada, un autoarticolato oltrepassò l’aiuola di mezzo facendo almeno i centodieci orari, rimbalzando sulle fosse scavate nell’erba. Non appena raggiunse di nuovo l’asfalto, girato in direzione opposta rispetto al traffico, si piegò pericolosamente e la cisterna che trasportava si ribaltò, pronta a cadergli addosso.




CAPITOLO SETTE


Per un secondo il tempo rallentò e Reid si ritrovò, insieme alla macchina, inghiottito dall’ombra del veicolo a diciotto ruote che volteggiava nell’aria.

In quel momento stranamente sospeso, lesse con chiarezza le grandi lettere blu stampate sulla fiancata della cisterna—“POTABILE”, dicevano—mentre il mezzo si abbassava, pronto a schiacciarlo, insieme alla Trans Am e alla sua speranza di ritrovare le figlie.

Il suo cervello superiore, il cerebrum, sembrava essersi spento all’ombra del grosso furgone, ma le sue membra si mossero come dotate di una mente propria. L’istinto prese il sopravvento. Con la mano destra afferrò il freno e lo tirò. Con la sinistra girò in senso orario il volante e pigiò il pedale del gas a terra. La Trans Am si voltò di lato e sfrecciò in avanti, in un movimento parallelo all’autoarticolato, per tornare al sole e allontanarsi dall’altro mezzo.

Reid percepì l’impatto del veicolo sulla strada, più che udirlo. La cisterna argentata colpì l’asfalto tra la sua macchina e quelle della polizia, fermandosi a meno di trenta metri da loro. I freni stridettero e le volanti dei poliziotti si fecero da parte, mentre la grande cisterna si apriva sui lati imbullonati e rilasciava il suo carico.

Emersero novemila galloni di acqua pulita per inondare i mezzi della polizia, spingendoli all’indietro come una marea particolarmente aggressiva.

Reid non si fermò a vedere le conseguenze dell’incidente. La Trans Am raggiungeva a malapena i centodieci pur con il pedale del gas spinto a tavoletta, quindi la raddrizzò e cercò di allontanarsi il più possibile lungo l’autostrada. Gli agenti infradiciati dovevano aver segnalato la sua macchina vistosa dalla targa non registrata; se non fosse svanito in fretta di lì avrebbe trovato altri guai.

Il cellulare usa e getta squillò e sullo schermo apparve la lettera M.

“Grazie, Mitch,” rispose subito.

Il meccanico grugnì, in un verso che sembrava il suo mezzo principale di comunicazione.

“Sapevi dove ero. Sai dove sono anche adesso.” Reid scosse la testa. “Stai seguendo quest’auto, non è così?”

“Un’idea di John,” disse semplicemente l’uomo. “Pensava che avresti potuto avere dei problemi. Aveva ragione.” Reid fece per protestare, ma Mitch l’interruppe. “Esci alla prossima. Gira a destra su River Drive. C’è un parco con un campo da baseball. Aspetta lì.”

“Aspetta lì che cosa?”

“Un trasporto.” Il meccanico di poche parole riappese. Reid sbuffò. Il punto era che la Trans Am sarebbe dovuta essere un’auto clandestina, libera dai controlli dell’agenzia. Non gli faceva piacere sapere che invece aveva solo scambiato gli occhi della CIA per quelli di qualcun altro.

Ma senza di lui ormai mi avrebbero fermato.

Soffocò la rabbia e fece come gli aveva ordinato, guidando la macchina per un altro chilometro oltre l’uscita dell’autostrada fino al parco. Sperava che qualsiasi cosa Mitch avesse avuto in serbo per lui, avvenisse in fretta; aveva molto terreno da recuperare.

Il parco era semivuoto per essere domenica. Nel campo da baseball un gruppo di ragazzini stavano facendo una partitella, quindi parcheggiò la Trans Am nel parcheggio sterrato dietro la rete metallica che proteggeva la prima base e aspettò. Non sapeva che cosa aspettarsi, ma sentiva l’urgenza di muoversi rapidamente, quindi aprì il bagagliaio, prese il borsone e aspettò accanto all’auto l’arrivo degli aiuti mandati da Mitch.

Cominciava a sospettare che il vecchio meccanico fosse più di una semplice ‘risorsa’ della CIA. Era un ‘esperto nel recupero veicoli’, o almeno così aveva dichiarato Watson. Reid si chiese se avesse un ruolo simile a quello di Bixby, l’eccentrico ingegnere della CIA specializzato in armi e strumentazione portatile. E se era quello il caso, perché lo stava aiutando? Ripensando al suo aspetto arcigno o al suo atteggiamento burbero non gli tornavano in mente ricordi di nessun tipo. Avevano un passato comune che lui aveva dimenticato?

Il telefono gli squillò nella tasca. Era Watson.

“Stai bene?” chiese l’agente.

“Decente, tutto considerato. Anche se il concetto di Mitch di ‘distrazione’ è un po’ eccessivo.”

“Fa il suo lavoro. Comunque sia la tua intuizione era giusta. Il mio tecnico ha trovato il rapporto di una Caddy di dodici anni rubata da una zona industriale nel New Jersey questa mattina. Ha scattato una foto satellite del posto, e indovina cosa ha visto?”

“Il SUV bianco sparito,” azzardò Reid.

“Esatto,” confermò Watson. “Abbandonata nel parcheggio di un postaccio chiamato Starlight Motel.”

Nel New Jersey? La sua speranza svanì. Rais aveva portato le ragazze ancora più a nord. Il suo viaggio di due ore era appena diventato di tre ore e mezza se voleva aver qualche speranza di raggiungerlo. Forse le vuole portare a New York. Una grande area metropolitana, dove è facile nascondersi. Reid doveva avvicinarglisi prima che ciò succedesse.

“L’agenzia non sa ancora queste informazioni,” continuò l’altro agente. “Non hanno motivo di collegare la Caddy rubata alle tue figlie. Cartwright mi ha appena detto che stanno seguendo gli indizi che hanno trovato e stanno mandando Strickland a nord del Maryland. Ma è solo una questione di tempo. Se arrivi prima tu avrai un vantaggio su di lui.”

Reid rifletté per un istante. Non si fidava di Riker, quello era ovvio. In effetti era ancora indeciso anche sul suo capo, il vice direttore Cartwright. Ma… “Watson, che cosa sai di questo agente Strickland?”

“L’ho incontrato solo una o due volte. È giovane, ansioso di compiacere, ma sembra un brav’uomo. Magari persino degno di fiducia. Perché, che cosa hai in mente?”

“Penso che…” Reid non riusciva a credere che cosa stava per suggerire, ma era per le sue figlie. La loro sicurezza era della massima importanza, a prescindere dal costo percepito. “Penso che non dovremmo essere gli unici a sapere queste informazioni. Ci serve tutto l’aiuto possibile, e anche se non mi fido che Riker faccia la cosa giusta, magari Strickland sarà dalla nostra parte. Potresti fargli avere questi dati in via anonima?”

“Credo di sì, certo. Dovrei farli filtrare attraverso uno dei miei collegamenti, ma è fattibile.”

“Bene. Deve sapere quello che sappiamo noi, ma solo dopo che io sarò stato lì a controllare la situazioni con i miei occhi. Non lo voglio in vantaggio rispetto a me. Deve solo essere aggiornato.” Più nello specifico, voleva che qualcuno oltre a Cartwright sapesse quello che avevano scoperto. Perché ho bisogno che qualcuno riesca, nel caso io dovessi fallire.

“Se lo dici tu, certo.” Watson rimase in silenzio per un momento. “Kent, c’è anche un’altra cosa. All’area di sosta, Strickland ha trovato qualcosa…”

“Cosa? Che cosa ha trovato?”

“Capelli,” rispose lui. “Capelli castani, con i follicoli ancora attaccati. Strappati alla radice.”

A Reid si seccò la gola. Non credeva che Rais volesse uccidere le sue figlie, non poteva permettersi di pensarlo. All’assassino servivano vive se voleva che Kent Steele lo trovasse.

Ma quella certezza gli offriva ben poca consolazione mentre la sua mente veniva invasa da immagini sgradite, scene del mostro che afferrava le sue bambine per i capelli, costringendole ad andare dove voleva. Facendo loro del male. Se le avesse ferite in qualche modo, Reid gliel’avrebbe fatta pagare.

“Strickland non li ha ritenuti importanti,” continuò Watson, “ma la polizia ne ha trovati altri nel sedile posteriore dell’auto della donna morta. Come se qualcuno li avesse lasciati lì di proposito. Come un…”

“Come un indizio,” mormorò Reid. Era stata Maya. Lo sapeva. Era intelligente, tanto da aver lasciato appositamente indietro qualcosa di sé. Sua figlia sapeva che la scena sarebbe stata controllata con cura e che i suoi capelli sarebbero stati ritrovati. Era viva… o almeno lo era stata quando avevano attraversato l’area di sosta e quell’auto. Era orgoglioso della furbizia di Maya e allo stesso tempo addolorato che fosse stata costretta a inventarsi a un trucco del genere.

Oddio. Si rese subito conto di qualcos’altro: se Maya aveva lasciato di proposito i capelli nel bagno della stazione di servizio, allora era stata lì quando era avvenuto l’omicidio. Aveva guardato quel mostro che uccideva una donna innocente. E se la figlia maggiore era stata lì… doveva esserci stata anche Sara. Erano rimaste entrambe segnate, a livello mentale ed emotivo, dagli eventi di febbraio sul pontile; non voleva nemmeno immaginare al trauma che dovevano aver subito ora.

“Watson, devo arrivare in New Jersey in fretta.”

“Ci sto lavorando,” rispose l’agente. “Rimani lì tranquillo, arriverà tra un minuto.”

“Che cosa arriverà?”

Watson rispose, ma le sue parole furono soffocate dall’improvviso strillo di una sirena alle sue spalle. Si voltò, mentre un’auto della polizia si fermava nel parcheggio dietro di lui.

Non ho tempo per questo. Chiuse di scatto il telefono e se l’infilò in tasca. Il finestrino del lato passeggero era abbassato e dentro poteva vedere due agenti. Arrivarono a ridosso della sua macchina e poi aprirono le portiere.

“Signore, metta la borsa a terra e alzi le mani sopra la testa.” L’agente che parlò era giovane, con un taglio in stile militare e occhiali da aviatore calati sugli occhi. Reid notò che aveva messo una mano sulla fondina dell’arma di servizio, e aveva già aperto il bottone.

Anche l’autista era uscito. Era più anziano, intorno all’età di Reid, con il cranio rasato. Era rimasto vicino alla porta e anche lui aveva le mani basse sulla cintura.

Esitò, incerto di cosa fare. La polizia locale deve aver sentito l’allerta degli agenti in autostrada. Non doveva essere stato difficile trovare la Trans Am dalla targa finta parcheggiata in bella vista accanto al campo da baseball. Si riprese mentalmente per essere stato tanto imprudente.

“Signore, lasci la borsa a terra e alzi le mani sopra la testa!” gridò di nuovo e con più enfasi l’agente più giovane.

Lui non aveva niente con cui minacciarli; tutte le sue armi erano nella borsa, e anche se ne avesse avuta una in mano non voleva sparargli. Per quel che ne sapevano i due uomini, stavano facendo solo il loro lavoro, apprendendo un fuggitivo dopo un inseguimento ad alta velocità che aveva danneggiato tre auto, e con ogni probabilità aveva costretto a chiudere le corsie in direzione nord della I-95.

“Non è come credete.” Mentre lo diceva, abbassò lentamente la borsa a terra. “Sto solo cercando di trovare le mie figlie.” Alzò entrambe le braccia, portando le dita dietro le orecchie.

“Si volti,” gli ordinò il giovane agente. Reid obbedì. Udì il tintinnio familiare delle manette quando l’uomo ne estrasse un paio dalla cintura. Aspettò di sentire il tocco gelido del metallo sui polsi.

“Ha il diritto di rimanere in silenzio…”

Non appena percepì l’acciaio sulla pelle, Reid entrò in azione. Si voltò, afferrò il polso destro dell’agente e lo piegò violentemente. L’uomo gridò per il dolore e la sorpresa, nonostante lui fosse stato attento a non strattonarlo tanto da romperlo. Non voleva ferire i poliziotti se poteva evitarlo.

Continuando il gesto, afferrò la manetta aperta con la mano sinistra per richiuderla sull’agente. Intanto l’altro aveva già estratto la pistola e gli stava urlando furioso.

“Indietreggi! Si metta subito a terra, ora!”

Lui invece spintonò il giovane agente per farlo ricadere contro la portiera aperta. Quella si richiuse, o almeno tentò, intrappolando nella cerniera il secondo poliziotto. Reid fece una capriola e si ritrovò in ginocchio accanto all’uomo più anziano. Gli strappò di mano la Glock e se la gettò alle spalle.

L’agente giovane si raddrizzò e cercò di estrarre la propria arma. Reid afferrò la manetta vuota che gli pendeva dal polso e la tirò, facendogli di nuovo perdere l’equilibrio. Avvolse la catena al finestrino aperto, attirando il poliziotto contro la porta, e poi richiuse la seconda manetta attorno al braccio dell’agente più anziano.

Mentre i due lottavano per liberarsi e allontanarsi dalla porta dell’auto, lui gli rubò la pistola e la puntò su entrambi. Si immobilizzarono all’istante.

“Non vi sparerò,” disse ai due uomini mentre riprendeva la borsa. “Voglio solo che rimaniate in silenzio e non vi muoviate per un po’.” Prese di mira l’agente anziano. “Alzi la mano, per favore.”

L’uomo lasciò andare la radio che aveva montata sulla spalla.

“Lasci la pistola,” insistette l’agente giovane, facendo un gesto tranquillizzante con il braccio libero. “Stanno arrivando i rinforzi. Le spareranno a vista. È meglio che non succeda.”

Sta bluffando? No, si sentivano le sirene in lontananza. Saranno qui tra un minuto. Novanta secondi al massimo. Qualsiasi cosa avessero pianificato Mitch e Watson, doveva succedere subito.

I ragazzini nel campo da baseball avevano abbandonato la loro partita e si erano affollati dietro gli spalti di pietra per sbirciare meravigliati la scena che stava avvenendo a pochi metri da loro. Reid notò con la coda dell’occhio che uno aveva tirato fuori il cellulare, e probabilmente stava segnalando l’incidente.

Almeno non mi stanno riprendendo, pensò cupo, senza allontanare la canna della pistola dai due agenti. Andiamo, Mitch…

Poi… l’agente più giovane lanciò uno strano sguardo al suo partner. Si fissarono a vicenda per poi alzare gli occhi al cielo, quando un nuovo suono si unì alle sirene ancora lontane. Era un ronzio acuto, come una specie di motore.

Che cos’è? Di certo non è un’auto. Non è abbastanza rumoroso da essere un elicottero o un aereo…

Anche lui alzò gli occhi, ma non riusciva a capire da che direzione provenisse quel suono. Non rimase a lungo nel dubbio. Dalla sua sinistra stava arrivando un oggetto piuttosto piccolo, che attraversava l’aria come un’ape. Aveva una forma indistinguibile; sembrava bianco ma era difficile guardarlo direttamente.

La parte inferiore è verniciata con un rivestimento riflettente, lo informò la sua mente. Impedisce agli occhi di fissarlo a lungo.

L’oggetto calò dall’alto come se stesse cadendo dal cielo. Non appena ebbe oltrepassato il monte di lancio del campetto da baseball, qualcos’altro si staccò dalla sua forma: un cavo d’acciaio con una stretta barra attaccata in fondo, con un singolo gradino di una scala. Una corda da arrampicata.

“Ecco il mio passaggio,” mormorò. Mentre gli agenti fissavano stupiti l’UFO in volo sopra di loro, Reid lasciò cadere la pistola a terra. Tenne stretta la borsa e quando la barra oscillò verso di lui, si tese e l’afferrò.

Trattenne il fiato e fu subito trascinato in cielo, facendo sei metri in pochi secondi, poi nove e poi dodici. I ragazzi nel campo da baseball gridarono e indicarono l’oggetto volante sopra la sua testa che ritraeva in fretta la corda, guadagnando quota allo stesso tempo.

Abbassò lo sguardo e vide altre due auto della polizia entrare nel parcheggio con uno stridio di freni, i loro autisti uscire dai veicoli e guardare verso l’alto. Era a una trentina di metri da terra quando finalmente entrò nell’abitacolo e piombò a sedere nell’unico sedile che c’era.

Reid scosse la testa sbalordito. Il veicolo che lo aveva salvato era poco di più di una capsula a forma di uovo con quattro braccia parallele a forma di X, su ognuna delle quali c’era un rotore. Sapeva che cosa era: un quadricottero, un drone pilotato da una persona sola, completamente automatizzato e altamente sperimentale.

Un ricordo gli lampeggiò nella mente: Un tetto a Kandahar. Due cecchini ti bloccano nella tua posizione. Non hai idea di dove ti trovi. Se fai una mossa morirai. Poi un suono, un ronzio acuto, poco più di un brusio. Ti ricorda il decespugliatore che hai a casa. Una sagoma oscura il cielo. È difficile guardarla. Quasi non riesci a vederla, ma capisci che sono arrivati i rinforzi…

La CIA aveva fatto esperimenti con macchine di quel tipo per tirar fuori i suoi agenti dalle zone calde. Lui stesso aveva preso parte a uno di quegli esperimenti.

Davanti a sé non c’erano comandi, ma solo uno schermo LED su cui campeggiava la sua velocità di trecento quaranta chilometri orari e il tempo stimato d’arrivo di cinquantaquattro minuti. Accanto era appesa una cuffia. La prese e se l’infilò sulle orecchie.

“Zero.”

“Watson. Gesù. Come hai avuto questa roba?”

“Non è merito mio.”

“Quindi è stato Mitch,” disse Reid, confermando i propri sospetti. “Non è solo una ‘risorsa’, vero?”

“È tutto quello che vuoi che sia, purché ti fidi di lui e accetti il suo aiuto.”

La velocità del quadricottero aumentò sempre di più, raggiungendo quasi i cinquecento chilometri orari. Il tempo stimato d’arrivo calò di diversi minuti.

“E l’agenzia?” volle sapere. “Possono…?”

“Rintracciarlo? No. Troppo piccolo e vola ad altitudini troppo basse. Oltretutto è stato decommissionato. Hanno ritenuto che il motore fosse troppo rumoroso perché potesse essere utile come velivolo clandestino.”

Tirò un breve sospiro di sollievo. Ora aveva un obiettivo, quello Starlight Motel nel New Jersey, e almeno non l’aveva trovato grazie a una provocazione di Rais. Se fossero stati ancora lì, avrebbe potuto mettere fine a quella situazione… o almeno avrebbe potuto provarci. Sapeva che l’unico modo per chiuderla era un confronto con l’assassino, durante il quale avrebbe anche dovuto proteggere le sue ragazze dal fuoco incrociato.

“Voglio che aspetti quarantacinque minuti. Poi manda la soffiata del motel a Strickland e alla polizia locale,” disse a Watson. “Se lui è lì, voglio più rinforzi possibile.”

Quando la CIA e la polizia fossero arrivati, o le sue figlie sarebbero state al sicuro, o Reid Lawson sarebbe morto.




CAPITOLO OTTO


Maya stringeva forte a sé la sorella. La catena delle manette tintinnava tra i loro polsi; Sara aveva le mani alzate al petto e la stava abbracciando a sua volta. Le due ragazze erano sedute insieme sui sedili posteriori dell’auto.

L’assassino era alla guida della macchina e si era avviato lungo Port Jersey. Il porto era molto grande, Maya credeva che proseguisse per diverse centinaia di metri. Ai loro lati si alzavano pile di container. Formavano un percorso stretto. Tra le loro mura metalliche e i finestrini della macchina c’era solo qualche decina di centimetri.

Viaggiavano con i fari spenti ed era pericolosamente buio, ma la cosa non sembrava turbare Rais. Di tanto in tanto, attraverso una fessura tra i container, Maya riusciva a vedere delle luci in lontananza, vicine all’acqua. Sentiva persino il ronzio di macchinari. C’era gente al lavoro, tutt’intorno a loro. E tuttavia non ne era rassicurata. Fino a quel momento Rais aveva dimostrato una grande attitudine alla pianificazione, e dubitava che avrebbe lasciato vedere le sue prigioniere da sguardi indiscreti.

Stava a lei evitare che le mandasse fuori dal paese.

L’orologio al centro del cruscotto dell’auto segnava le quattro del mattino. Era passata meno di un’ora da quando aveva lasciato il biglietto nel serbatoio del gabinetto nel motel. Poco dopo Rais si era alzato all’improvviso e aveva annunciato che era il momento di mettersi in viaggio. Senza spiegare nulla le aveva guidate fuori dalla camera, ma non erano andati verso la station wagon bianca su cui erano arrivati. Invece le aveva condotte a un modello d’auto più vecchio, a qualche metro dalla loro stanza. Con estrema facilità aveva scassinato la porta e le aveva fatte salire sui sedili posteriori. Poi aveva strappato la piastrina sul blocchetto d’accensione e in pochi secondi aveva collegato i cavi per avviare la macchina.

Con il favore delle tenebre erano arrivati al porto, e ora si stavano avvicinando all’estremità settentrionale della terra ferma, dove finiva il cemento e iniziava la Newark Bay. Rais rallentò e parcheggiò la macchina.

Maya sbirciò al di là del parabrezza. Erano di fronte a una nave, un’imbarcazione piuttosto piccola per gli standard commerciali. Non doveva essere lunga più di venti metri da un’estremità all’altra, ed era carica di container metallici cubici grandi un metro e mezzo per un metro e mezzo. In quella zona del pontile, oltre alla luna e alle stelle, l’unica luce veniva da due fioche lampadine giallastre sulla nave, una a poppa e l’altra a prua.

Rais spense il motore e rimase seduto in silenzio per un lungo momento. Poi face lampeggiare i fari, una volta sola. Due uomini uscirono dalla cabina della nave. Lo scrutarono e scesero lungo la stretta rampa allungata tra l’imbarcazione e il pontile.

L’assassino si voltò sul sedile per fissare Maya negli occhi. Disse una sola parola, pronunciandola lentamente. “Ferma.” Poi uscì e richiuse la porta, fermandosi dopo pochi passi ad aspettare l’arrivo dei due uomini.

La ragazza serrò la mascella e cercò di rallentare i rapidi battiti del suo cuore. Se fossero salite su quella nave e avessero lasciato la terra ferma, sarebbe stato molto più difficile ritrovarle. Non riusciva a sentire cosa si dicevano gli uomini, udiva solo mormorii profondi mentre Rais parlava con loro.

“Sara,” sussurrò. “Ti ricordi cosa ho detto?”

“Non posso.” La voce della sorella si spezzò. “Non…”

“Devi.” Erano ancora ammanettate insieme, ma la rampa per salire sulla nave era stretta, ampia solo mezzo metro. Con ogni probabilità avrebbero dovuto liberarle. E una volta che l’avessero fatto… “Non appena mi muovo, scappa. Devi trovare altre persone. Nasconditi se necessario. Devi…”

Non riuscì a finire la frase. La porta posteriore si aprì di scatto e Rais le scrutò. “Uscite.”

Maya si sentiva le ginocchia deboli mentre scivolava giù dal sedile, seguita da Sara. Si costrinse a guardare i due uomini che erano scesi dalla barca. Avevano entrambi la pelle chiara e gli occhi e i capelli scuri. Uno dei due portava una barbetta sottile e i capelli corti, e sulle braccia incrociate sul petto aveva una giacca di pelle nera. L’altro indossava un cappotto marrone. I suoi capelli erano più lunghi, gli arrivavano alle orecchie. La grossa pancia gli sporgeva oltre la cintura e sulle sue labbra aleggiava un ghigno.

Il secondo uomo, quello più in carne, prese a muoversi attorno alle due ragazze, camminando lentamente. Disse qualcosa in una lingua straniera, la stessa che Rais aveva parlato a telefono nella stanza del motel.

Poi pronunciò una singola parola in inglese.

“Carine.” Scoppiò a ridere. Il suo compagno vestito di pelle sogghignò. Rais rimase impassibile.

Con quell’unica parola, una nuova consapevolezza della situazione si fece strada nella mente di Maya, paralizzandola come dita di ghiaccio attorno alla gola. Stava succedendo qualcosa di molto peggio di un semplice rapimento. Non voleva neanche pensarci, né tantomeno soffermarsi a riflettere sui dettagli. Non poteva essere vero. Non quello. Non a loro.

Spostò lo sguardo sul mento di Rais. Non sopportava di guardare nei suoi occhi verdi.

“Tu.” Parò con voce bassa e tremante, facendo fatica a pronunciare quelle parole. “Sei un mostro.”

L’uomo sospirò gentile. “Forse. È solo una questione di prospettiva. Io ho bisogno di un passaggio dall’altra parte dell’oceano e voi siete la mia merce di scambio. Il mio biglietto, se preferite.”

Maya aveva la bocca secca. Non pianse e non tremò. Sentì solo un gran freddo.

Rais le stava vendendo.

“Ah-ehm.” Qualcuno si schiarì la gola. Cinque paia d’occhi si voltarono di scatto mentre un nuovo personaggio si avvicinava alla luce fioca della nave.

La ragazza ci sperò. Era un uomo di mezza età, sulla cinquantina, con un paio di pantaloni cachi e una camicia bianca ben stirata. Sembrava un funzionario di qualche tipo. Sotto un braccio teneva un rigido casco di protezione bianco.

Rais estrasse la Glock e la puntò sullo sconosciuto in un batter d’occhio. Ma non sparò. Lo sentirebbero anche altre persone, capì Maya.

“Ehi!” L’uomo lasciò cadere il casco e alzò entrambe le mani in aria.

“Aspetta.” Lo straniero con la giacca di pelle nera si intromise, frapponendosi tra la pistola e il nuovo arrivato. “Ehi, va bene,” disse in un inglese pesantemente accentato. “Va bene.”

Maya rimase a bocca aperta per la confusione. Bene?

Mentre Rais abbassava con cautela l’arma, lo straniero si infilò una mano dentro la giacca di pelle e ne estrasse una busta sgualcita, piegata in tre parti e chiusa con il nastro adesivo. All’interno c’era qualcosa di grosso e rettangolare, come un mattone.

La tese all’uomo dall’aspetto ufficiale, che stava riprendendo il casco da terra.

Mio Dio. Sapeva cosa c’era nella busta. Quell’uomo stava accettando denaro per tenere lontani gli operai del porto e lasciare libera quella zona del molo.

Rabbia e impotenza l’avvolsero in egual misura. Avrebbe voluto urlargli contro—la prego, aspetti, ci aiuti—ma per un istante incontrò il suo sguardo, e capì che sarebbe stato inutile.

Non c’era rimorso in quegli occhi. Nessuna gentilezza. Nessuna empatia. Le parole le rimasero chiuse in gola.

Velocemente come era apparso, l’uomo svanì di nuovo tra le ombre. “È un piacere fare affari con voi,” mormorò mentre si allontanava.

Non sta succedendo davvero. Si sentiva intorpidita. In tutta la sua vita non aveva mai incontrato nessuno che sarebbe rimasto immobile a guardare mentre dei bambini erano in pericolo, né che avrebbe accettato soldi per non fare niente.

L’uomo in carne ordinò qualcosa nella sua lingua straniera e indicò vagamente le mani delle ragazze. Rais disse qualcosa in risposta. Sembrò un secco rifiuto, ma l’altro uomo insistette.

L’assassino apparve irritato mentre si infilava le dita nelle tasche per estrarre una piccola chiave argentata. Afferrò la catena delle loro manette, costringendo entrambe ad alzare i polsi per aria. “Ora ve le tolgo,” disse loro. “Poi salirete sulla nave. Se volete arrivare vive sulla terraferma, rimarrete in silenzio e farete quello che vi verrà detto.” Spinse la chiave nella cerchietto metallico al polso di Maya e l’aprì. “E non pensate nemmeno a saltare in acqua. Nessuno di noi verrà a riprendervi. Vi guarderemo morire di freddo o annegare. Ci vorranno solo un paio di minuti.” Aprì anche il lato di Sara, che istintivamente si strofinò il polso dolente e arrossato.

Ora. Fallo ora. Devi fare subito qualcosa. Il cervello di Maya gridava, ma la ragazza non riusciva a muoversi.

Lo straniero con la giacca nera avanzò per stringerle bruscamente un braccio. L’improvviso contatto fisico spezzò la sua paralisi, spingendola ad agire. Non dovette nemmeno pensarci.

Alzò il piede con tutte le forze che riuscì a radunare, e lo sbatté sull’inguine di Rais.

Non appena lo fece, un ricordo le lampeggiò nella mente. Durò solo un istante, anche se le sembrò molto più lungo, come se il mondo intero avesse rallentato solo per lei.

Un giorno, poco tempo dopo che i terroristi di Amun avevano cercato rapirla nel New Jersey, suo padre l’aveva presa da parte. Non aveva potuto dirle la verità e si era attenuto alla storia di copertura—erano state catturate da membri di una gang come parte di un rituale di iniziazione—ma le aveva ugualmente detto: Non sarò sempre nei paraggi. Non ci sarà sempre qualcuno vicino ad aiutarti.

Maya aveva giocato a calcio per anni. Aveva un calcio potente e preciso. Rais si piegò su se stesso con un sibilo, portando istintivamente le mani all’inguine.

Se qualcuno ti attacca, in particolare un uomo, è perché è più grosso. Più forte. È più pesante di te. E per questo crede di poter fare qualsiasi cosa voglia. Che non hai scampo.

Strattonò il braccio verso il basso, in un gesto rapido e violento, e si liberò dall’uomo dalla giacca di pelle. Poi si gettò in avanti, contro di lui, e gli fece perdere l’equilibrio.

Devi giocare sporco. Fai tutto quello che devi. Colpiscilo all’inguine. Al naso. Agli occhi. Mordilo, agitati, urla. Lui non lotta lealmente e non devi farlo neanche tu.

Maya roteò su se stessa, muovendo le braccia sottili in un arco. Rais era ancora chino, il suo volto all’altezza giusta. Il pugno della ragazza gli atterrò su un lato del naso.

Il dolore le attraversò subito la mano, partendo dalle nocche per irradiarsi su per tutto l’avambraccio, fino al gomito. Gridò e la strinse al corpo. Nonostante ciò, l’assassino aveva subito un duro colpo, ed era quasi caduto giù dal pontile.

Qualcuno l’afferrò intorno alla vita e la tirò all’indietro. Si ritrovò con i piedi per aria, a colpire il nulla, e mulinò entrambe le braccia. Non si era neanche resa conto che stava gridando, quando una grossa mano le si chiuse sul naso e la bocca, impedendole di urlare e respirare.

Ma poi la vide: una figurina che diventava sempre più piccola. Sara era scappata, tornava nella direzione da dove erano venuti, e stava svanendo tra le ombre sotto le pile di container.

Ce l’ho fatta. È andata. È riuscita a scappare. Ora a Maya non importava più di cosa le sarebbe successo. Non smettere di scappare, Sara. Corri. Trova altra gente, trova aiuto.

Un’altra figura scattò all’inseguimento come una freccia: Rais. Corse dietro Sara, svanendo come lei tra le ombre. Era veloce, molto più della sua sorellina, e si era ripreso in fretta dai colpi subiti.

Non la troverà. Non al buio.

Non riusciva a respirare con la mano stretta sulla faccia. La graffiò e la strattonò fino spostare leggermente le dita, di pochissimo, quanto bastava per risucchiare aria dal naso. L’uomo in carne le teneva stretta, sollevata da terra con un braccio attorno alla vita. Ma lei non lottava più. Rimase immobile e attese.

Per diversi lunghissimi momenti nel pontile regnò il silenzio. Il ronzio dei macchinari all’altro capo del porto riecheggiava nella notte, cancellando ogni possibilità che le grida di Maya potessero essere udite. Lei e i due uomini aspettarono il ritorno di Rais. La ragazza sperò disperatamente che tornasse a mani vuote.

Un breve strillo spaccò il silenzio, e Maya si accasciò su se stessa.

Rais emerse dall’oscurità. Aveva Sara sotto un braccio, come un altro uomo avrebbe trasportato una tavola da surf, e le teneva una mano sulla bocca per zittirla. Il volto della ragazzina era rosso acceso e stava singhiozzando, ma il suo pianto era soffocato.

No. Maya aveva fallito. Il suo attacco era stato inutile, non era riuscita a liberare Sara.

Rais si fermò davanti a lei, fissandola con occhi verdi pieni di furia.

Perdeva un rivolo di sangue da una narice, dove l’aveva colpito.

“Te l’avevo detto,” sibilò. “Ti avevo detto cosa sarebbe successo se avessi provato a combinare qualcosa. Ora dovrai guardare.”

Maya si agitò di nuovo, cercando di gridare, ma l’uomo straniero la tenne stretta.

Rais pronunciò un secco comando nella loro lingua straniera all’individuo con la giacca di pelle, che si avvicinò in fretta per tenera ferma e muta la sorella minore.

Poi l’assassino sfoderò il grosso coltello, lo stesso che aveva usato per uccidere il signor Thompson e la donna nel bagno della stazione di servizio. Afferrò il braccio della ragazzina e lo tese di fronte a sé.

No! Ti prego non farle del male. Non farlo. Non farlo… Maya cercò di formare le parole, di urlarle, ma l’unica cosa che le uscì di bocca fu un pianto isterico e soffocato.

Sara cercò di strattonarsi piangendo, ma la morsa di Rais era troppo forte. Le separò le dita e infilò la lama tra l’anulare e il mignolo.

“Dovrai guardare,” disse di nuovo, fissando concentrato Maya, “mentre taglierò un dito a tua sorella.” Le premette il coltello sulla pelle.

No. No. Ti prego, Dio, non farlo…

L’uomo che la stava tenendo stretta, quello più in carne, borbottò qualcosa.

Rais si interruppe e lo guardò irritato.

I due ebbero un rapido scambio, di cui la ragazza non capì una sola parola. Tanto non avrebbe avuto importanza; non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sorella minore, che strizzava gli occhi piangendo. Le lacrime le colavano lungo le guance e sulla mano che le teneva la bocca chiusa.

L’assassino ringhiò per la frustrazione. Alla fine lasciò la presa sulla mano di Sara. L’uomo in carne fece lo stesso con Maya. Allo stesso tempo lo straniero in giacca di pelle spintonò in avanti la ragazzina più giovane. Maya prese la sorella tra le braccia e la strinse a sé.

Poi Rais avanzò, parlando a bassa voce. “Questa volta siete state fortunate. I gentiluomini qui presenti mi hanno suggerito di non danneggiare la merce prima di rivenderla.”

Maya tremò da capo a piedi, ma non osò muoversi.

“Oltretutto,” aggiunse lui, “il posto dove vi porteremo sarà mille volte peggio di qualsiasi cosa potrei farvi io. Ora saliremo tutti su quella nave. Ricordati che gli sei utile solo da viva.”

L’uomo in carne fece loro strada sulla rampa, trascinandosi dietro Sara e poi Maya. Le due ragazze salirono incerte sulla nave. Ormai non aveva più senso lottare. La mano della sorella maggiore pulsava di dolore per il colpo che aveva sferrato a Rais. C’erano tre uomini e solo due di loro, e l’assassino era molto veloce. Aveva persino trovato Sara la buio. Non sarebbero mai riuscite a scappargli da sole.

Maya guardò l’acqua nera oltre il lato della nave. Per un istante pensò di buttarsi; morire congelata sarebbe stato preferibile al destino che l’attendeva. Ma non poteva farlo. Non poteva lasciare Sara. Non poteva perdere l’ultima briciola di speranza che le rimaneva.

Si diressero a prua della nave, dove l’uomo in giacca di pelle prese un mazzo di chiavi e aprì la serratura di una cassa metallica di un arancione rugginoso.

Aprì la porta e Maya sussultò per l’orrore.

Dentro il container, con gli occhi socchiusi per la fioca luce gialla, c’erano numerose ragazze, almeno quattro o cinque da quello che vedeva.

Poi la spintonarono da dietro per costringerla a entrare. Fecero lo stesso con Sara, che cadde in ginocchio per terra nella cassa. Non appena la porta si richiuse alle loro spalle, Maya si affrettò a chinarsi e a prenderla tra le braccia.

Sentirono scattare la serratura e sprofondano nell’oscurità.




CAPITOLO NOVE


Il sole tramontò in fretta nel cielo nuvoloso mentre il quadricottero sfrecciava verso nord per consegnare il suo carico—un determinato agente della CIA e padre—allo Starlight Motel nel New Jersey.

Sarebbe arrivato in cinque minuti. Un messaggio sullo schermo lo avvisò: Prepararsi al lancio. Lanciò uno sguardo fuori dall’abitacolo e vide, molto più in basso, che stava volando sopra un’ampia area industriale piena di magazzini squadrati e di stabilimenti di produzione, vuoti e bui, illuminata solo da lampioni arancioni.

Aprì il borsone nero che si era appoggiato in grembo. Dentro trovò due fondine con due pistole. Si sfilò la giacca dentro il minuscolo abitacolo per mettersi l’imbracatura da spalla che reggeva la Glock 22 di dotazione standard. Niente di simile alla Glock 19 altamente tecnologica dal grilletto biometrico di Bixby. Si rimise la giacca e si sollevò la gamba dei jeans per legarsi la fondina da caviglia che conteneva la sua arma di riserva preferita, la Ruger LC9. Era una pistola compatta dalla canna corta, una calibro nove millimetri, con un caricatore da nove colpi che spuntava di appena tre centimetri sotto il calcio.

Afferrò la barra attaccata alla corda da arrampicata, pronto a sbarcare dal drone non appena avesse raggiunto l’altezza e la velocità di sicurezza. Stava per sfilarsi le cuffie dalle orecchie quando sentì la voce di Watson.

“Zero.”

“Ci sono quasi. Mancano solo due minuti…”

“Abbiamo appena ricevuto un’altra foto, Kent,” lo interruppe l’altro agente. “L’ha mandata al cellulare di tua figlia.”

Il panico gli torse lo stomaco. “Una foto delle ragazze?”

“Sono sedute su un letto,” confermò lui. “Sembra sia di un motel.”

“Puoi rintracciare il numero che l’ha inviata?” chiese speranzoso Reid.

“Mi dispiace, l’ha già abbandonato.”

La sua speranza svanì. Rais era intelligente; fino a quel momento aveva mandato solo foto di posti dove era stato, non dove era ancora. Se l’agente Zero aveva qualche speranza di raggiungerlo, l’assassino voleva che fosse solo ai suoi termini. Per tutto il viaggio in quadricottero, Reid era stato nervosamente ottimista sulla pista del motel, ansioso al pensiero che avesse battuto Rais al suo stesso gioco.

Ma se aveva mandato una foto… c’erano buone possibilità che se ne fossero già andati di lì.

No. Non puoi pensarla così. Vuole che lo trovi. Ha scelto un motel nel bel mezzo del nulla proprio per questo motivo. Ti sta provocando. Sono lì. Devono esserlo.

“Stavano bene? Sembravano… sono ferite?”

“Sembravano a posto,” gli garantì Watson. “Turbate. Spaventate. Ma a posto.”

Il messaggio sullo schermo cambiò, lampeggiando in rosso: Sbarcare. Sbarcare.

A prescindere dalla foto o dai suoi dubbi, era arrivato. Doveva vedere con i suoi occhi. “Devo andare.”

“Fai in fretta,” gli disse l’altro agente. “Uno dei miei sta chiamando la CIA con una falsa pista e una descrizione che combacia con quella di Rais e delle tue figlie.”

“Grazie, John.” Si sfilò le cuffie, si accertò di avere una presa salda sulla barra della corda e si lanciò fuori dal quadricottero.

La discesa controllata di quindici metri fino a terra fu più veloce di quanto avesse previsto e gli tolse il fiato. Il brivido familiare, la scarica di adrenalina, gli attraversò le vene mentre il vento gli fischiava nelle orecchie. Piegò leggermente le ginocchia al momento dell’atterraggio e arrivò sull’asfalto piegato su di sé.

Non appena ebbe lasciato la barra, la corda ritornò dentro il quadricottero e il drone sparì nella notte con un ronzio, tornando da qualunque posto fosse venuto.

Reid si guardò attorno. Era nel parcheggio di un magazzino di fronte a uno squallido motel, illuminato fiocamente da qualche lampadina gialla. Un cartello dipinto a mano rivolto verso la strada diceva che era nel posto giusto.

Controllò a destra e a sinistra e poi attraversò di corsa la strada vuota. Era silenzioso lì, in maniera inquietante. C’erano tre auto nel parcheggio, sparpagliate davanti alle stanze rivolte verso di lui. Una era chiaramente il SUV bianco che era stato rubato nella rivendita di macchine usate nel Maryland.

Era di fronte alla stanza con il numero nove in bronzo appeso alla porta.

Le luci all’interno erano spente; non sembrava abitata in quel momento. Nonostante ciò, lasciò cadere la sua borsa appena fuori dalla porta e rimase attentamente in ascolto per tre secondi.

Non udì nulla, quindi estrasse la Glock dalla fondina alla spalla e sfondò la porta con un calcio.

Lo stipite esplose con facilità al contatto con il suo piede e Reid entrò, puntando la pistola nell’oscurità. Non si muoveva niente tra le ombre. Non si sentiva un suono, nessuno gridò per la sorpresa né si gettò a prendere un’arma.

Tastò il muro con la mano sinistra alla ricerca di un interruttore, e poi lo accese. Nella Stanza 9 c’era un tappeto arancione e una carta da parati gialla arricciata agli angoli. Era stata pulita di recente, per quanto qualcosa all’interno dello Starlight Motel potesse definirsi ‘pulito’. Il letto era stato rifatto in fretta e furia e l’aria puzzava di economico disinfettante spray.

Ma era vuota. Gli sprofondò il cuore sotto i piedi. Lì non c’era nessuno. Non c’era Sara, né Maya, né l’assassino che le aveva rapite.

Reid avanzò con attenzione, controllando la stanza. Vicino alla porta c’era una poltrona verde. La stoffa sulla seduta e sullo schienale era leggermente scolorita, formando l’impronta di una persona che doveva esservi stata seduta di recente. Vi si inginocchiò accanto, seguendo l’impronta con le punte guantate delle dita.

Qualcuno è rimasto seduto qui per ore. Un uomo alto un metro e ottanta per ottanta chili di peso.

Era lui. Era seduto qui, vicino all’unico ingresso, accanto alla finestra.

Reid rinfilò la pistola nella fondina e tirò indietro le coperte. Le lenzuola erano macchiate, non erano state cambiate. Le studiò con attenzione, sollevando ogni cuscino, facendo in modo da non smuovere potenziali prove.

Trovò due capelli biondi, lunghi fili senza le radici. Erano caduti naturalmente. Trovò anche un singolo filo moro. Erano qui insieme, su questo letto, mentre lui stava lì seduto e le guardava. Ma perché? Perché Rais le aveva portate lì? Perché si erano fermati? Era solo un’altra manovra nel suo gioco del gatto con il topo, o stava aspettando qualcosa?

Forse stava aspettando me. Ci ho messo troppo a seguire gli indizi. Se ne sono già andati.

Se Watson aveva già mandato la falsa segnalazione, la polizia sarebbe arrivata al motel tra pochi minuti, e Strickland doveva già essere su un elicottero. Ma Reid si rifiutava di andarsene senza una pista con cui avanzare, o sarebbe stato tutto inutile, solo l’ennesimo vicolo cieco.

Corse nell’ufficio del motel.

Lì il tappeto era verde e ruvido sotto i suoi stivali, e gli ricordava l’erba artificiale. Il posto puzzava di fumo di sigaretta. Dietro il bancone c’era una soglia buia, da cui Reid sentiva provenire un suono a volume basso, forse una radio o una televisione.

Suonò la campanella sul bancone, e uno squillo stonato risuonò nell’ufficio silenzioso.

“Mmh.” Un basso grugnito emerse dalla stanza nel retro, ma non ne uscì nessuno.

Reid suonò di nuovo la campanella, tre volte in rapida successione.

“Va bene, amico! Gesù.” Una voce maschile. “Arrivo.” Un giovane uomo uscì dal retro. Sembrava tra la ventina e la trentina. Per l’agente era difficile dirlo con precisione, vista la sua pelle rovinata e gli occhi arrossati, come se li fosse strofinati dopo una dormita. Portava una piccola anella argentato alla narice sinistra e i suoi capelli biondo sporco erano annodati in dreadlock spelacchiati.

Fissò Reid per un lungo momento, irritato dal semplice concetto che qualcuno fosse entrato nel suo ufficio. “Sì? Che c’è?”

“Sto cercando informazioni,” rispose lui con tono piatto. “Un uomo è stato qui di recente, caucasico, sulla trentina, insieme a due ragazze adolescenti. Una mora e una più giovane, bionda. È arrivato su un SUV bianco. Hanno soggiornato nella stanza nove…”

“Sei un poliziotto?” lo interruppe il commesso.

Reid si stava arrabbiando in fretta. “No, non lo sono.” Avrebbe voluto aggiungere che era il padre delle due ragazze, ma si fermò; non voleva che il commesso fosse in grado di identificarlo più di quanto non avrebbe già potuto fare.

“Ascolta, amico, io non so niente di ragazzine,” insistette quello. “Quello che la gente fa qui sono affari…”

“Voglio solo sapere quando è stato qui, e se ha visto le due ragazze. Voglio il nome che l’uomo le ha dato e devo sapere se ha pagato in contati o con carta di credito. Se ha usato una carta, mi servono le ultime quattro cifre del numero. E ho bisogno di sapere se le ha detto qualcosa o se ha sentito qualche dettaglio che mi aiuti a capire dove possono essere andati.”

Il commesso lo fissò per un lungo momento, e poi emise una risatina roca. “Amico mio, guardati attorno. Questo non è il tipo di posto che chiede nomi, carte di credito o cose del genere. Qui la gente affitta una camera per un’ora, se capisci quello che voglio dire.”

Reid dilatò le narici. Ne aveva avuto abbastanza di quell’idiota. “Deve esserci qualcosa, qualsiasi cosa, che può dirmi. Quando ha fatto il check in? Quando se n’è andato? Che cosa le ha detto?”

Il ragazzo gli lanciò un’occhiata astuta. “Quanto vale per te? Per cinquanta bigliettoni ti dirò tutto quello che vuoi.”

La furia dell’agente si accese in una vampata rovente. Si tese oltre il bancone, afferrò il giovane commesso per il bavero della maglietta e lo tirò a sé, sollevandolo quasi da terra. “Non sai da cosa mi stai trattenendo,” ringhiò in faccia al ragazzino, “né quello che farei per ottenerlo. Mi dirai quello che voglio sapere o mangerai con una cannuccia per il tuo prossimo futuro.”

Il ragazzo alzò le mani, sgranando gli occhi di fronte alla rabbia di Reid. “Va bene, amico! Va bene! C’è un, ehm, un registro sotto il bancone… fammelo prendere e controllo. Ti dirò quando sono stati qui, okay?”

Reid emise un sibilo e lo lasciò andare. Il giovane barcollò all’indietro, si raddrizzò la maglietta e poi tastò sotto il bancone alla ricerca di qualcosa.

“Nei posti come questo,” disse piano, “con il tipo di clientela che ci ritroviamo… a loro piace la loro privacy, se capisci cosa intendo. Non sono felici quando qualcuno ficca il naso nei loro affari.” Fece due lenti passi all’indietro, estraendo il braccio destro da sotto il bancone… e stringendo tra le dita il calcio marrone di fucile a canne mozze.

L’agente sospirò mesto e scosse la testa. “Stai per desiderare di non averlo mai fatto.” Il commesso gli stava facendo perdere tempo per proteggere la feccia come Rais—non che il ragazzo sapesse in cosa l’assassino fosse coinvolto nello specifico—e ogni genere di tipo sordido, come papponi e trafficanti.

“Torna al tuo quartiere, amico.” Gli puntò la canna del fucile al torace, ma tremava. Reid ebbe la sensazione che fosse abituato a usare l’arma per minacciare, ma che non avesse mai sparato prima.

Sapeva senza ombra di dubbio di essere più rapido del commesso; non avrebbe nemmeno esitato a sparargli, alla spalla o alla gamba, se significava ottenere quello che voleva. Ma non voleva fare fuoco. I rumore si sarebbe sentito nel raggio di un chilometro nella zona industriale vuota. Avrebbe spaventato gli ospiti del motel, e magari avrebbe anche spinto qualcuno a chiamare la polizia, e a lui non serviva quell’attenzione.

Invece adottò un approccio diverso. “Sei sicuro che quella cosa sia carica?”

Il commesso abbassò lo sguardo sul fucile per un impercettibile secondo. In quel preciso istante, mentre guardava da un altra parte, Reid piantò una mano sul bancone e lo superò con un balzo. Gli sferrò un calcio e gli fece volare via l’arma dalle mani. Non appena ebbe di nuovo i piedi a terra, si chinò in avanti e gli diede una gomitata sul naso. Il ragazzo emise un roco gemito quando gli esplose il sangue da entrambe le narici.

Poi per buona misura Reid lo prese per i dreadlocks luridi e gli sbatté la faccia sul bancone.

Il ragazzo collassò sul ruvido tappeto verde, mugugnando e perdendo sangue dal naso e dalle labbra spaccate. Piagnucolando cercò di sollevarsi sulle mani e sulle ginocchia. “Tu… oddio… mi hai spaccato il naso, cazzo!”

Reid afferrò il fucile a canne mozze. “Questo è l’ultimo dei tuoi problemi.” Gli premette le canne contro i dreadlock biondastri.

Il commesso si lasciò cadere subito sullo stomaco singhiozzando. “Non… non uccidermi… ti prego no… ti prego… non uccidermi…”

“Dammi il tuo telefono.”

“Io non… non ne ho uno…”

Reid si chinò e lo perquisì in fretta. Era stato sincero, non aveva un cellulare, ma aveva un portafoglio. Lo aprì e controllò la sua patente.

“George.” Sbuffò. Quel ragazzo non sembrava un George. “Hai un’auto qui, George?”

“Ho… ho una moto da cross, pa-parcheggiata qui dietro…”

“Mi basta. Ecco quello che succederà, George. Io mi prenderò la tua moto. Tu te ne andrai di qui. O correrai via, se preferisci. Andrai in ospedale per farti controllare il naso. Gli dirai che ti hanno colpito a tradimento in un bar. Non farai parola di questo posto, né di me.” Si sporse in avanti e abbassò la voce. “Perché ho uno scanner della polizia, George. E se sento un solo accenno, persino un accenno a un uomo che corrisponde alla mia descrizione, verrò a…” rilesse di nuovo la carta d’identità. “All’appartamento 121B su Cedar Road, e porterò con me il tuo fucile. Hai capito bene?”

“Ho capito, ho capito.” Il commesso piangeva, perdendo sangue e saliva dalle labbra. “Ho capito, prometto che ho capito.”

“Ora, l’uomo con le ragazze. Quando sono stati qui?”

“C’era un… c’era un uomo, come hai detto, ma non ho visto ragazze…”

“Ma hai visto un uomo come quello che ti ho descritto?”

“Sì. Sì. Era molto serio. Praticamente non ha parlato. È arrivato ieri sera, con il buio, e ha pagato in contanti per la notte…”

“Quando se n’è andato”

“Non lo so! A un certo punto, durante la notte. Ha lasciato la porta aperta, altrimenti non me ne sarei neanche accorto…”

Durante le notte? Reid si gelò. Ci aveva sperato, ma non si era aspettato veramente di trovare le ragazze al motel… però credeva di aver guadagnato terreno. Se avevano un vantaggio di un’intera giornata su di lui… potevano essere ovunque.

Gettò il portafoglio e fece un passo indietro, allontanando le canne del fucile dalla testa del ragazzo. “Vai.”

Quello prese il proprio borsello e scappò nell’oscurità, incespicando e cadendo sulle mani prima di svanire nella notte.

L’agente tolse le cartucce dall’arma, tutte e quattro, e se l’infilò in una tasca della giacca. Non voleva prendersi davvero il fucile. Le armi con le canne e il calcio tagliati erano illegali, e probabilmente non era stato registrato nemmeno prima delle modifiche. Lo ripulì dalle proprie impronte e poi lo rinascose sotto il bancone.

Non gli servivano altri problemi. Ne aveva già abbastanza così com’era.

La polizia sarebbe arrivata da un momento all’altro, ma non poteva andarsene senza trovare almeno un indizio. Corse di nuovo alla porta rotta della stanza nove e la perquisì nuovamente, quella volta senza preoccuparsi di lasciare tutto in ordine o di toccare gli oggetti con cura. Strappò i cuscini e le lenzuola dal letto. Controllò sotto il materasso e la poltrona. Guardò nei cassetti degli scadenti comodini e del comò, ma non trovò altro che una vecchia Bibbia con il dorso rovinato. Aprì le pagine e le scosse, giusto per sicurezza.





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“Non dormirete fino a quando non avrete finito AGENTE ZERO. Un lavoro superbo nella creazione di personaggi totalmente sviluppati e molto godibili. La descrizione delle scene d’azione ci trasporta in un’altra realtà, quasi come si fosse seduti al cinema con suono surround e 3D (ne verrebbe un film hollywoodiano incredibile). Non vedo l’ora di leggere il sequel.”–Roberto Mattos, Books and Movie ReviewsIn LA CACCIA DI ZERO (Libro #3), quando l’agente della CIA agente Zero scopre che le sue giovani figlie sono state rapite e spedite a un giro di traffico umano nell’Europa dell’Est, si getta in un inseguimento al cardiopalma per tutta l’Europa, lasciandosi alle spalle una scia di devastazione, in cui rompe gin regola, rischia la sua stessa vita, e fa di tutto per riprendersi le figlie.Kent, nonostante gli ordini della CIA, rifiuta di farsi da parte. Senza il sostegno dell’agenzia, circondato da talpe e assassini, con un’amante di cui può a malapena fidarsi, e lui stesso nel mirino di un killer, l’agente Zero deve combattere contro un numero immenso di nemici per riprendersi le sue figlie.Costretto ad affrontare la tratta di umani più pericolosa d’Europa, con connessioni politiche molto in alto, la sua sarà una battaglia ardua—un uomo contro un esercito—e una che solo l’agente Zero potrà superare.Allo stesso tempo impara che la sua stessa identità potrebbe essere il segreto più pericoloso di tutti. LA CACCIA DI ZERO (Libro #3) è un thriller di spionaggio che non riuscirete a posare fino alla fine.“Il thriller al suo meglio.”–Midwest Book Review (re A ogni costo)“Uno dei migliori thriller di quest'anno.”–Books and Movie Reviews (re A ogni costo)Inoltre è disponibile la serie thriller besteller di Jack Mars LUKE STONE (7 libri), che inizia con A ogni costo (Libro #1), un download gratuito con più di 800 recensioni a cinque stelle!

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