Книга - Le Regole Del Paradiso

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Le Regole Del Paradiso
Joey Gianvincenzi








Joey Gianvincenzi

Le regole del paradiso


Casa editrice: Tektime


Il presente romanzo è opera di pura fantasia.



Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.



“Si costruisce la propria vita per una persona e quando finalmente si potrebbe annettervela, questa persona non viene, poi muore per noi, e si vive prigionieri in ciò che non era destinato che a lei”.


Dedicato a Cristina Mencarelli che,

il giorno stesso in cui è volata in cielo,

mi ha regalato l’ispirazione

per scrivere questo romanzo.



Grazie, piccola principessa.


Jane Madison entrò nella classe vuota e si sistemò all’ultimo banco, dietro a tutti.

Quello in cui si trovava era il peggior liceo di Seattle, famoso per i casi di violenza che contava, ma non aveva altra scelta.

Nonostante l’infinita e delicata femminilità che non l’abbandonava in nessun contesto, l’acuta intelligenza che la caratterizzava, la bontà che la qualificava, la ragazza era costretta a condividere tutte le sue mattine con giovani criminali che s’immischiavano in certi guai, teppisti che pur di ingannare la noia, di guadagnare un po’ di gloria tra i compagni o per il vano tentativo di esercitare sugli altri una pericolosa quanto insensata autorità, si impegnavano a scatenare violente risse che quasi sempre sfociavano in un finale sanguinoso. Condivideva la sua esperienza scolastica con decine di casi umani che non erano dotati della sua stessa premura, altra rara qualità umana che sostituiva, senza volerlo, alla pietà; i suoi compagni non sarebbero mai stati in grado di raggiungerla nella profondità di certi sentimenti. Nella sua spontaneità erano scritti i segreti della sua ingenuità, nella sua tenerezza erano nascosti i segreti dei suoi sentimenti.

La giovane studentessa tirò fuori dallo zaino il volume di filosofia ai capitoli che aveva imparato perfettamente il giorno precedente; non c’erano parti o date che non ricordasse nei dettagli, ma ormai gli occhi sembravano piacevolmente abituati a scorrere tra le righe, sulle immagini in bianco e nero, sulle note di fianco ai paragrafi. Nonostante il baccano provocato dagli studenti che iniziavano a entrare, Jane rimaneva con lo sguardo inchiodato sulle pagine del suo libro consumatissimo all’interno del quale comparivano riquadri d’appunti, divisioni per paragrafi e parole chiave annotate con pennarelli colorati.

Era l’unica della classe a non avere un compagno di banco.

“Ci avrei scommesso, la secchiona è già in aula” esordì Ashley Trevor, la più trasgressiva dell’istituto che si era guadagnata il titolo di reginetta della scuola. I capelli scuri, gli occhi chiari. Dietro il suo formoso corpo comparvero le sue due seguaci più fedeli: Emma Baker e Amanda Miller.

Nel chiacchiericcio generale, mentre si sistemavano i due alunni entrati per ultimi, Flores, il professore di filosofia, esordì: “Buongiorno a tutti, ragazzi”.

La classe però non rispose; quasi tutti gli alunni erano impegnati in qualcos’altro di più importante.

Flores si accomodò.

“Bene! Che ne dite di iniziare la lezione con qualche domanda per ripassare l’ultimo argomento?”

Forse l’unico difetto di Flores era trattare i suoi alunni come se stessero lì per imparare a leggere e a scrivere; era l’unico che li mitragliava di domande non appena arrivava in classe.

“Moore, dove nacque Aristotele?”

Il ragazzo cercò di fargli credere di avere il nome di quella maledetta città sulla punta della lingua. Il professore era esigente e fissato per i dettagli. Passarono altri interminabili secondi.

“Chi lo sa si faccia avanti” incitò lui. Una ragazza alzò la mano.

“Mi dica Lopez”. Betty Lopez, capelli rosso fuoco, piercing sulla lingua e sei tatuaggi complessivi sul corpo.

“Atene” rispose convinta.

“Sbagliato signorina Lopez. Perché alza la mano quando sa di non avere in testa le giuste risposte?”

Una caratteristica di Flores era di dare del lei ai suoi studenti. A molti non piaceva quella sua insolita abitudine di cercare di mantenere un minimo di educazione.

“Ringrazia che ancora sto qui dentro e non ti ho tirato una sedia, razza di pivello” attaccò Betty. Questo era il rispetto massimo che si aveva di un professore: avvertirlo almeno una volta senza passare immediatamente all’azione.

Il docente valutò come nulla la risposta della studentessa e decise di proseguire la lezione senza darle la soddisfazione di arrabbiarsi. Qualche anno prima, dopo aver rimproverato a lungo un ragazzo, si era trovato la macchina in fiamme non appena uscito dall’istituto. Da quell’episodio in poi, il signor Flores aveva rinunciato alla causa che aveva sposato all’inizio della sua carriera e cioè aiutare i ragazzi cercando di fargli capire che fuori il mondo era durissimo e che senza palle, educazione e intelligenza non si arrivava da nessuna parte. Ma continuavano a essere convinti che la violenza avrebbe risolto ogni problema.

“La sua compagna di banco?”

“L’argomento non mi interessa” fece la ragazza chiamata in causa.

“Anche lei credeva fosse Atene. Molto bene, mi fa piacere” sentenziò lui muovendo lentamente il capo.

“C’è qualcuno che lo sa?”

Silenzio per pochi secondi. Poi il nome.

“Jane Madison”.

Emma Moore scoppiò inutilmente a ridere.

“Mi dica un po’ di Aristotele. Cosa sa?”

“Aristotele nacque a Stagira, una cittadina della penisola Calcidica nel nord della Grecia nel 384 avanti Cristo. Data la prematura morte di suo padre, fu allevato da un parente più anziano, di nome Prosseno. All'età di 17 anni, andò ad Atene al fine di entrare a far parte dell'Accademia di Platone e ci rimase per ben…”

“Basta così”.

Flores, alzando una mano avanti a sé, interruppe la melodica voce della ragazza che nei toni e nell’andatura della sua parlata nascondeva qualcosa di delicato e ammaliante, proprio come quando, ascoltando una composizione classica rinascimentale, non sapremmo dire se quello che ci ha conquistati sia il motivo in generale, o qualche nota di natura sconosciuta, che sembra esser stata aggiunta di nascosto al posto giusto per suscitare nel cuore dell’ascoltatore un’emozione, precisa e spietata.

Flores tornò a guardare gli altri.

“È così che si studia” tuonò a voce bassa scandendo perfettamente ogni parola. L’intento del professore, quando la minima speranza di salvare qualcuno si faceva sentire più del solito, era di innalzare Jane su un prestigioso podio, così da mostrare a tutti quale fosse l’esempio da seguire per avere un ottimo andamento scolastico.

“Ora passiamo alle date di Socrate. Allen?”

Il ragazzo sembrò cadere dalle nuvole. Era intento a osservare la punta della sigaretta che aveva acceso e a soffiarci sopra.

“Le date di quando è nato e quando è morto?”

“No di quando ha smesso di portare il pannolino e di quando ha perso la verginità”.

Nessun professore osava scherzare in una classe del genere; Flores lo faceva nel modo giusto, era serio, ma riusciva a far sorridere qualcuno. Gli studenti più difficili da gestire, senza volerlo e senza ammetterlo, stimavano la sua sicurezza e il suo modo di essere severo e morbido allo stesso tempo.

“Secondo me non se lo è mai tolto il pannolino quel moccioso di Socrate”. Altre risate si levarono dalla bocca di alcuni dopo la perla di saggezza sparata da Allen.

“Esca dall’aula” ordinò severamente Flores.

“Prof stavo…”

“Ho detto esca immediatamente dall’aula!”

Mentre Allen si alzava svogliatamente per abbandonare l’aula, Jane prese un pezzo di carta e ci scrisse sopra la risposta. Era un’abitudine che aveva preso fin dalle scuole elementari: scrivere su un foglio tutte le risposte che gli altri non riuscivano a dare. Ashley, che le era seduta davanti, capì cosa aveva scritto e glielo strappò dalle mani. Sapeva della sua curiosa abitudine.

“Professore?” fece Ashley alzando la mano.

“Cosa c’è signorina Trevor?”

“Comunque Socrate è nato ad Atene nel 470 avanti Cristo circa ed è morto nella stessa città nel 399” disse con decisione.

“Ottimo Trevor. Complimenti”.

Lei gli sorrise e accartocciò il bigliettino. Le sue amiche le alzarono il pollice.

“Vedete? Anche la vostra compagna è preparata. Prendete esempio. Lei lo sapeva, signorina Madison?”

Ashley si girò e le lanciò uno sguardo di fuoco allargando le palpebre.

Dopo un attimo di esitazione rispose: “No, professore”.



* * *



Non appena uscì dal liceo, Jane fu sorpresa da una feroce spallata di Ashley. La ragazza si limitò a raccogliere il libro che le aveva fatto cadere senza badare più del dovuto al colpo. Il suo carattere purtroppo, estremamente docile e tollerante, non le aveva mai permesso di farsi rispettare a dovere da chi, fin dal primo giorno, aveva deciso di approfittarsi di tanta educazione e rispetto per far prevalere la propria falsa superiorità e la propria presunta bellezza. Neanche davanti alle torture più atroci avrebbe ammesso che Jane era di gran lunga migliore di lei, a partire dalla mente, sveglia e acuta, alla bellezza estetica, delicata, ma ferma, evidente senza mai cadere nel volgare.

In ogni caso, le considerazioni giornaliere sul rapporto burrascoso e antipatico che aveva instaurato con Ashley, si volatilizzarono non appena si trovò davanti al cancello grigio di casa sua. Se avesse dovuto descrivere cosa provava nel momento in cui doveva entrare, non ne sarebbe stata capace. Avrebbe voluto vivere in qualsiasi altro posto, ma non lì.

L’imponente e ricercata architettura esterna dava l’impressione di essere un fantastico sogno in cui vivere liberi e felici, ma la realtà era tutt’altro: in nessun posto si sentiva così tanto prigioniera.

Una volta spalancato il cancello, ad accogliere la ragazza - così come i rarissimi ospiti che avevano voglia di fare una visita alla famiglia Madison - c’era ogni giorno un adorabile pratino inglese che circondava l’intera casa come un vasto oceano con una minuscola isola deserta; il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso tagliava in due il prato ed era formato da pietre triangolari di terracotta di un colore simile al rosso porpora. Inoltre, lungo il vialetto c’erano, per ogni lato, tre vasi di ceramica alti circa un metro simili a maggiordomi che accompagnavano gli ospiti in casa. Tolta l’estetica raffinata e l’attraente architettura generale, da quando aveva messo piede lì dentro fino al suo ultimo compleanno, il ventunesimo, non aveva fatto altro che sperare in una svolta, in una libertà improvvisa, in una scarcerazione dalla prigionia della grande meravigliosa e allo stesso tempo invivibile villetta. Ma fino a quel giorno non era arrivato mai nulla di simile.

Entrò.

In cucina trovò la sua matrigna, Ginger Dixon, davanti al passeggino della sua piccola sorellastra Alisha Madison, di tre anni.

Ginger rappresentava, agli occhi della giovane, un canone di donna, di madre e di amica che non avrebbe mai voluto seguire; da quel genere di persone non sarebbe mai uscito qualcosa di imitabile, di prezioso, di amabile.

“Ciao Ginger, sono tornata” salutò entrando sorridente in cucina.

La cosa che le saltò subito agli occhi fu ciò che vide dietro la donna. Una montagna di piatti e bicchieri ancora da lavare. Guardò la matrigna che dava da mangiare alla piccola.

“Ciao Ginger, sono tornata un’ora prima perché non c’era il…”

“Jane ti ho vista è inutile che mi saluti per la centesima volta. Ciao! Sei contenta adesso? Non vedi che ho da fare?” le disse senza neanche guardarla.

Jane si scusò senza meravigliarsi di ricevere una risposta simile.

Tornò quindi ad assumere lo stesso sorriso falso e svogliato di prima, cercando di far mangiare la piccola Alisha ormai stranita e propensa a farla irritare ancora di più con qualche capriccio di troppo. La ragazza invece si rifugiò in camera sua, cercando di non badare più di quanto già non facesse al pessimo rapporto che si era creato con quella donna così gelida e poco incline a qualsiasi forma di sentimento che si avvicinasse alla tenerezza o, peggio ancora, alla dolcezza.

La ragazza, per distrarsi e scaricare alcuni residui del nervosismo che cominciava a corroderle lo stomaco, iniziò a studiare alcuni capitoli di filosofia applicando le tecniche mnemoniche più difficili che conosceva. Dopo averle utilizzate quasi tutte, però, si alzò dalla sua postazione e scese giù in cucina con un gran buco allo stomaco.

Per qualche ragione la colf che badava alla cura e all’igiene di casa Madison da una vita non era ancora arrivata, così decise di facilitarle il lavoro iniziando a preparare il pranzo.

Non impiegò più di un quarto d’ora e, non appena riempì tutti i piatti, fece irruzione in casa il capofamiglia: Gary Madison. Parlare di lui non era facile, così come non lo era parlare con lui. Se Ginger rappresentava la donna che non sarebbe mai voluta diventare, Gary rappresentava l’uomo che non avrebbe mai voluto al suo fianco. Si era meritato dalla ragazza il soprannome di bestia.

“Questi hamburger fanno veramente pena” sbottò Gary gettando la forchetta nel piatto.

Jane si sentì morire. Divenne rossa in faccia, ma non osò guardare suo padre.

“Jane, non dirmi che hai cucinato tu”.

Si sentiva lo sguardo della bestia addosso.

Provò a ribattere.

“Li ho fatti io. Ginger…”

“Ginger ha lavorato stanotte al contrario di te, stronza! Come osi tirarla in ballo?” disse alzando la voce e sbattendo con forza il pugno sulla tavola. “Non ti permetto di provare ad accusarla! Hai capito bene?”

Jane annuì rassegnata.

Il pranzo proseguì in un pesante silenzio. Avrebbe voluto scusarsi, ma sarebbe stato inutile. Per un attimo pensò addirittura di raccontare com’era andata la giornata a scuola per cercare di alleggerire quell’atmosfera tesa che in casa regnava perennemente, ma nessuno l’avrebbe degnata delle giuste attenzioni, quindi rinunciò. Non ci si poteva parlare di niente, ecco perché teneva aggiornato il diario dalla copertina rosa che portava sempre con sé al liceo (e che di notte nascondeva tra i libri di testo che teneva nell’armadio), su cui scriveva ogni suo pensiero, ogni avvenimento degno di nota come le riflessioni, i desideri e i sogni.

Quel diario, testimone da sempre delle sue emozioni più profonde, non avrebbe rivelato le sue parole ad anima viva nonostante le avesse tatuate sul voluminoso corpo di carta. Guardava Jane china su di lui con gli occhi azzurri socchiusi, intenti a controllare la punta a sfera della penna che si muoveva velocissima tra le sue righe perfette; aveva l’onore di essere l’unico a sapere i piaceri desiderati e le mancanze collezionate che modellavano la vita di Jane insieme ai rari sorrisi che riuscivano a baciare le sue labbra dopo aver scalato montagne di malinconia.

Quando aveva voglia di dare vita a quello che non avrebbe mai voluto dimenticare, inforcava la penna e iniziava a scrivere, rendendo concreto ogni pensiero che come un fantasma girava ansioso nella sua mente: in quel modo lo imprigionava tra le righe del suo diario segreto.

Analizzare quello che la preoccupava di più, una volta scritto, sembrava fargli perdere parte della sua forza negativa; scrivere su quel diario la aiutava a fronteggiare meglio le sfide quotidiane e scacciare via, per quanto possibile, il male di cui erano macchiati i suoi giorni.



* * *



Come sempre fu la prima a entrare in aula; l’atmosfera che aleggiava tra i banchi, resa languida dall’ora mattutina e impalpabile dall’assenza di tutti i compagni che presto l’avrebbero invasa, donava alla ragazza un prezioso momento di tranquillità in cui poter fare un bel respiro e prepararsi alla lunga giornata che l’aspettava. Quando, infatti, arrivarono gli altri, quell’adorabile atmosfera sparì di getto rendendola, ormai, nient’altro che un miraggio appena impresso nella memoria.

La lezione di arte era iniziata da poco quando la professoressa disse alla classe che si sarebbe assentata per un momento. E il suo momento, di solito, non era meno di quaranta minuti. Non appena abbandonò l’aula, ognuno prese a fare qualcosa. Jane tirò fuori il suo quaderno dalla copertina rosa e buttò giù qualche riga.



Caro diario,

la lezione di arte è appena saltata e questo non mi piace: sai solo tu che il mio grande sogno è fare la pittrice.

Ad ogni modo mi sento spaesata e fuori luogo. Di tutte queste persone non riesco a trovarne una con la quale condividere quello che mi accade, qualcuno che mi capisca, che esca con me o che almeno mi saluti affettuosamente senza che poi venga a chiedermi di passare gli appunti che prendo durante le spiegazioni... Voglio mia madre. Anzi, rivoglio mia madre. Chiederei a Dio in persona di farmela avere almeno per un’ora, non chiedo altro. Questa vita è un inferno, con lei sarebbe diverso.

Mi basterebbe solo un’ora.

Dio, una sola ora.



Jane M.



La mano tremò leggermente e le si appannarono appena gli occhi; li strizzò e con la manica della felpa cercò di asciugarseli. Sua madre, Grace, era morta in un bruttissimo incidente quando lei era ancora troppo piccola per realizzare il tutto. In casa non si parlò mai dell’accaduto, tranne la prima e l’ultima volta in cui il padre la informò di come stavano le cose. Tua madre è morta in un incidente stradale, fu la sola spiegazione che ricevette quando iniziò a domandare insistentemente di lei.

Uscì dall’aula sospirando, si diresse verso il bagno e, quando spalancò la porta, trovò due ragazze che si stavano baciando.

“Che cazzo ti guardi, puttanella?” disse una interrompendo il bacio. La ragazza che parlò aveva soltanto una cresta di capelli rossi simile a quella di una gallina, al centro della testa, alta almeno trenta centimetri. Il resto del cranio era accuratamente rasato. In faccia aveva tre piercing e le braccia piene di tatuaggi. La sua amichetta non era da meno.

Jane abbassò lo sguardo, si diresse verso il lavandino e si sciacquò le mani sotto il gelido flusso d’acqua. Le ragazze continuarono a baciarsi indisturbate. Jane si asciugò le mani sui jeans e uscì: non si era ancora abituata, ma scene come quelle non erano insolite. Attraversando poi il corridoio per rientrare in classe si accorse che la porta della grande aula di musica era socchiusa e la cosa la lasciò più sorpresa rispetto al bacio tra le studentesse a cui aveva appena assistito: da quando studiava in quel liceo non era mai riuscita a vedere cosa ci fosse all’interno della stanza, dato che la porta rimaneva sempre rigorosamente chiusa. Nessuno poteva metterci piede, tolti la professoressa nonché musicista di fama mondiale Sarah Kattabel e i pochi allievi che ci suonavano. Anche se Jane moriva dalla voglia di varcare quella soglia e curiosare all’interno della famigerata stanza, non si azzardò a entrare. Un tempo non era così: potevano accedere tutti per assistere alle lezioni oppure alle lunghe prove che facevano gli alunni alcuni mesi prima del consueto concorso che si svolgeva poco dopo il rientro dalle vacanze natalizie. Anche se non straripava di iscritti, la possibilità di segnarsi al corso pomeridiano e quindi di partecipare al concorso era sempre stata concessa a tutti. Dopo il gran casino le cose cambiarono: una notte un paio di ragazzi riuscirono a entrare nella sala e le diedero fuoco. Scelsero proprio l’aula di musica perché c’erano sedie di legno, montagne di spartiti, pianoforti, altri strumenti in legno come i violini, le chitarre, quindi le fiamme si sarebbero moltiplicate più facilmente e il liceo, secondo loro, sarebbe andato distrutto. Dopo l’accaduto i dirigenti scolastici decisero di spendere una fortuna per ricostruire l’intera sala e ristrutturare gran parte dell’istituto. Quelle furono le ultime mosse disperate per cercare di restituire credibilità al liceo, ma ormai la brutta fama gli era piombata addosso e sarebbe stato difficile cancellarla.

Oltre che ricostruirla di nuovo, i dirigenti pensarono bene di vietare la sala ai ‘non autorizzati’ così da renderla più sicura e restituire l’immagine di un posto dove si dovevano seguire delle regole per mantenere sempre alto l’ordine. Tutto questo funzionò esclusivamente per la sala di musica, mentre il resto continuava ad andare sempre peggio.



* * *



Era difficile capire quel liceo.

Alcuni giorni teppisti e prede sembravano farsi la guerra solo scambiandosi occhiatacce e si limitavano, se proprio non si tolleravano, a qualche sopportabile spallata. In altri giorni invece la situazione si presentava con un’altra terribile faccia. Le guerre con gli sguardi si trasformavano in guerre di pugni, calci, sangue e grida. C’erano volte in cui la litigata finiva solo con qualche dente rotto, altre in cui qualcuno ci rimetteva una spalla, altre ancora si rischiava direttamente di morire come era successo qualche anno prima al preside, accoltellato; i giornali locali non facevano altro che utilizzare ingenti quantità d’inchiostro per raccontare quello che era successo per l’ennesima volta nel Liceo Maledetto, così soprannominato dai cittadini che lo conoscevano, o nel Liceo del Degrado, per usare l’espressione consacrata dalla stampa giornalistica.

Quando Jane Madison decise di rientrare in aula, si accorse che lungo il corridoio era in corso una delle solite risse. Si avvicinò e cercò di capire cosa stesse succedendo dato che non si era mai imbattuta in una scena di quelle proporzioni, nonostante si trovasse da ormai tre anni nel peggiore dei licei. Si era formata una specie di platea composta da decine e decine di ragazzi che avevano circondato i due compagni in lite. Gettando un’occhiata a quello che era diventato il ring, riconobbe immediatamente Adrian, uno dei tanti bulli che quel giorno se la stavano prendendo con Tim Hallen, il vincitore della gara di violino dell’anno precedente.

La metà dei ragazzi aveva il telefonino in mano e, tra urla e risate, filmava l’accaduto.

“Femminuccia, è vero che scopi il tuo bel violino?” gridò a gran voce Adrian. Tim era in ginocchio, lo guardava con aria terrorizzata e aveva le mani protese in avanti come se sapesse che stava per ricevere un calcio in faccia.

“Che fai ti infili nel culo la stecca o direttamente tutto lo strumento?” lo canzonò ancora Adrian mentre si sbatteva ripetutamente un pugno sul di dietro; i suoi amici erano piegati in due dal gran ridere, mentre altri sputavano addosso al povero ragazzo ormai completamente paralizzato dalla paura.

“Adesso ti devo cacciare in quel cervello da imbecille che non puoi prendermi a spallate come hai appena fatto altrimenti te la passi male, mi sono spiegato?” disse ancora Adrian, puntandogli il dito.

“Io non ti ho visto, ti ho già chiesto scusa!” gridò disperato Hallen.

Adrian gli sferrò un calcio sulla spalla destra scaraventandolo a terra. Dopo decine di grida da parte degli spettatori ormai fomentati dalla scena che finalmente iniziava a scaldarsi, Adrian decise di dare spettacolo e iniziò a sferrare altri calci al ragazzo che giaceva a terra indifeso.

“Sono o no un cazzo di campione?” domandò ai suoi amici alzando le braccia come un pugile.

“Sei grande, Adrian!” rispose uno di loro cercando di battergli il cinque anche se il suo idolo non lo calcolò minimamente.

“Alzati, pezzo di merda!” gridò il bullo mentre pensava a cosa avrebbe potuto fare per rendere unico il suo spettacolo. Tim ancora era a terra.

“Non... non respiro... smettila ti prego!” supplicò affannosamente mentre cercava almeno di mettersi in ginocchio. Tossiva e schizzi di sangue coloravano il pavimento.

“Che cosa cazzo sentono le mie orecchie? Era un comando o sbaglio?” disse mentre gli sferrava un pugno dietro la schiena. La faccia di Tim era incollata al pavimento.

Jane rimase immobile e fissava senza parole Adrian; non riusciva a capire perché quel senso di inadeguatezza verso la vita riuscisse a trasformare un semplice ragazzo in una furia che si scatenava contro uno degli studenti più calmi e intelligenti. Rimasta impietrita con i pensieri congelati su quelle domande senza risposta, Jane pregò per Hallen: pregò vivamente che non morisse.

A un certo punto qualcuno si accorse che lui stava per intervenire: la persona che mai nessuno si sarebbe augurato di far arrabbiare, uno dei criminali più giovani del quartiere e, senza ombra di dubbio, il più violento: Steven Taylor. Arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, occasionale traffico di armi, era conosciuto per le atroci gesta grazie a cui si era guadagnato il primo posto tra tutti i teppisti e i bulli della zona. Occhi scavati, denti stretti, sguardo pesante, quasi due metri di altezza per 120 chili di peso, braccia massacrate da cicatrici e niente da perdere.

Non appena si avvicinò alla cerchia di persone, alcuni ragazzi si spostarono per farlo passare.



Quando Steven entrò nel ring improvvisato dai due ragazzi, Adrian lo guardò con stupore rendendosi conto che aveva conciato per le feste il secchione di turno convincendosi che non c’era nulla da temere e che il boss si sarebbe complimentato. Sarebbero diventati amici o magari, proprio se si voleva fantasticare, Steven avrebbe iniziato a temerlo sul serio, vista la violenza con cui aveva massacrato di botte Tim.

“Ciao, Steven!” disse il bullo facendogli un cenno con la mano.

“Adesso ci penso io” avvertì lui. Dopo quelle parole, si ruppe il silenzio che si era creato e non c’era una singola persona che non urlasse o che non fosse fuori di sé: finalmente lo avrebbero visto all’opera.

Jane si mise le mani nei capelli, esterrefatta e preoccupatissima per Tim. Era sicura che, con l’intervento di Steven, la sua fine sarebbe stata assicurata.

Le persone intente a godersi lo spettacolo sembravano moltiplicarsi senza sosta. Nessuno badava alla campanella, che suonò per la seconda volta avvertendo tutti che era arrivato il momento di tornare nelle aule perché stava succedendo qualcosa di irripetibile: neppure Jane, bloccata dalla paura e dalla preoccupazione, si accorse che il break mattutino era terminato e che le lezioni stavano per riprendere.

“Te lo lascio con piacere questo stronzetto!” gridò entusiasta.

Steven si avvicinò a Tim mentre alcuni ragazzi erano in delirio. A un certo punto si accovacciò, girò il ragazzo facendogli assumere una posizione supina e, con la mano sinistra, cercò di alzargli un po’ la testa mentre con la destra iniziò a schiaffeggiarlo delicatamente per svegliarlo dallo stato di semincoscienza.

“Che… Che succede…” disse finalmente Tim aprendo con fatica gli occhi.

Quando si ritrovò Steven davanti constatò che sarebbe stato meglio rimanere a terra a perdere sangue fino a morire del tutto.

“Io…” gli mancava la fatica anche per giustificarsi.

“Non parlare, hai preso botte ovunque e devi andare immediatamente in ospedale” sentenziò Steven. Alzò la testa e si rivolse a una ragazza con i capelli verdi.

“Razza di imbecille, chiama immediatamente un’ambulanza” ordinò. La ragazza interruppe il video che stava facendo e obbedì all’istante.

Steven si rivolse a un altro ragazzo e gli disse di togliersi la felpa e lanciargliela per metterla dietro la testa di Tim, come fosse un cuscino.

Nessuno urlava più. Nessuno stava capendo. Quello era davvero Steven Taylor?

L’energumeno si alzò lasciando Tim e si girò con uno sguardo assassino verso Adrian.

“Lo sai quando divento veramente cattivo?” tuonò lui avvicinandosi.

Adrian pregò di morire, ma il suo desiderio non venne esaudito.

“Io non…” ogni risposta sarebbe stata infinitamente inutile.

“La violenza, quella vera, si usa contro quelli che fanno violenza gratuita” sussurrò Steven, come se nessuno dovesse sentire.

Allargò le palpebre fino a rendere chiaramente visibile il colore bianco che faceva da sfondo ai suoi occhi scuri.

“Pagherai per essere stato violento contro chi non ti aveva fatto niente e a fartela pagare sarò io stesso” dichiarò Steven.

Il bullo cercò di fuggire, ma Steven gli corse dietro fino a raggiungerlo. Con un solo pugno sul cranio riuscì ad atterrarlo e, non appena lo vide sul pavimento, ci si buttò sopra con tutto il peso iniziando a strozzarlo; rese la sua stretta così forte da non far respirare più Adrian, il quale cercava di dimenarsi. Poi, come preso da un attacco di follia, Steven gli staccò una mano dal collo e iniziò a prenderlo ripetutamente a pugni ai lati del volto, all’altezza dei due orecchini. Le urla dei ragazzi si triplicarono e il sangue iniziò a schizzare sulla maglietta del teppista. L’incontro terminò con una tremenda gomitata che Steven sferrò sul volto del suo avversario. Alcune ragazze scapparono.

Adrian era immobile a terra.

Tim si era ripreso.

Steven aveva fatto giustizia.

Polizia e ambulanza irruppero poco dopo nel liceo.

Jane stava piangendo.



* * *



Alla fine Jane aveva sbirciato e visto la micidiale gomitata che Steven aveva sferrato al bullo di turno. Mentre tornava a casa pensò a quanto sarebbe stato più semplice se ognuno di loro avesse cercato di risolvere i problemi con serenità cercando di chiarire ogni cosa con il dialogo, invece sembrava che fosse la violenza a dover essere utilizzata per regolare i conti. Quando però arrivò davanti al suo cancello, guardò un attimo casa sua e si ricordò che certi problemi erano più grandi di mille soluzioni messe insieme e che a volte sperare era davvero una perdita di tempo. Tutto poteva cambiare, tranne la vita che era costretta a vivere ogni giorno; guardava i bulli e credeva fermamente che sarebbero potuti diventare persone degne di camminare a testa alta, con lo studio e l’impegno avrebbero raggiunto ottimi risultati. Aveva speranze persino per tipi come Adrian e Steven. Quando invece la figura del padre le si materializzava come un mostro nella mente, crollavano i grattacieli di ottimismo che si creava, ogni forma di illusione rivelava la propria faccia falsa e gridava la realtà: più giù di così non si poteva scendere.

Appena entrata, si fiondò in camera sua e sistemò lo zaino nell’armadio, si cambiò indossando una tuta grigia e si mise la sua felpa preferita. Passò davanti alla porta d’ingresso per andare in cucina quando comparve la colf che adorava e che considerava la sua unica vera amica: Jolie.

“Ciao, Jane!” disse lei chiudendosi la porta alle spalle.

“Buonasera, Jolie. Come stai?” domandò lei sorridendole. La colf guardando il salone in disordine ironizzò: “Per ora bene”.

Jane sorrise, ma sapeva che il lavoro in quella casa era veramente duro. Di solito a regnare era sempre il disordine; Ginger non si scomodava facilmente per sistemare la casa o per lo meno la sua stanza, i panni di Gary o addirittura quelli della figlia. Tanto c’è Jolie, diceva.

“Se vuoi ti aiuto volentieri” si offrì la ragazza. Jolie era piccolina di costituzione, il suo fisico non reggeva grandi sforzi e non poteva certo sottoporsi a fatiche prolungate; purtroppo il suo turno partiva dall’ora di pranzo fino all’ora di cena. Oltretutto per una misera paga. Jane sapeva molte cose su di lei perché ogni sabato, quando rimanevano sole in casa davanti a un buon film o sedute sul divano a chiacchierare, Jolie si lasciava andare a confidenze intime e si sfogava di tutti i problemi che l’assillavano.

“Ti ringrazio Jane, ma tu devi studiare, non perdere tempo qui con me!” esclamò lei.

“Ho già fatto, davvero”.

Jolie sorrise accettando il suo gentile aiuto; le ore del pomeriggio passarono più velocemente rispetto al consueto turno solitario perché mentre si occupavano delle faccende domestiche, le due amiche chiacchieravano del più e del meno, anche se Jane si limitava a rispondere alla grande quantità di cose che Jolie non si stancava di dire o di domandare.

“E così ho deciso di tagliarmi i capelli” raccontò la colf mentre ricordava il felice periodo degli anni ’80.

“Poi mi sono fidanzata con Guillaume e sotto la torre Eiffel mi promise che saremmo stati per sempre insieme, cosa che poi non si rivelò vera. Maledetti uomini. Fatta eccezione per Alexandre” quando pronunciò il nome del figlio smise un attimo di lavare i piatti e rimase a pensare a qualcosa che Jane intuì subito: se c’era ancora un motivo che la legava a quel lavoro, alla misera paga e a quegli sforzi immani era Alexandre. Aveva ormai otto anni e spesso Jolie non riusciva a comprargli i suoi giocattoli preferiti perché doveva usare quasi tutti i soldi che le dava Gary per pagare l’affitto. La guerra di ogni giorno consisteva nel dover andare avanti con le proprie forze, con pochissimi soldi e con nessun altro tipo di aiuto.

“Spesso quando lo porto al parco con gli altri bambini” proseguì, “ho paura che mi chieda un gelato, o peggio ancora le bustine di figurine che collezionano i suoi compagni” disse Jolie con le lacrime agli occhi. Si era lasciata andare tempo prima, ma mai fino a quel punto.

“Passerà questo brutto periodo, ne sono sicura. Abbi fede” rispose Jane cercando di farla sentire meglio, ma non funzionò.

“Ieri…” a Jolie morirono le parole in gola. Fece un bel respiro e guardò negli occhi Jane.

“Ieri mi ha chiesto perché solo lui in classe ha i libri fotocopiati” strinse i denti.

“I libri fotocopiati…” ripeté. La colf si asciugò gli occhi lucidi e sorrise.

“Ora basta con i pensieri tristi però, parliamo di cose belle!” disse alzando un po’ il tono della voce. “Cosa vogliamo mangiarci questa sera?”

Jane capì che era decisamente meglio cambiare discorso.

“Non lo so, ma qualsiasi cosa andrà bene!” rispose imitando il suo tono.

Finito il pomeriggio di pulizie, apparecchiarono e per cena decisero di mangiare carne di manzo ben cotta e patatine fritte.

“Questo non farà bene al nostro fegato” scherzò Jane guardando il suo piatto pieno di roba.

“Stasera non badiamo a nessuna dieta” informò Jolie non appena mangiò la prima patatina. Il discorso che venne affrontato fu senz’altro più leggero e più facile da gestire rispetto a quello preso di petto poco prima. Quando Jane si trovava con Jolie le sembrava tutto diverso; la bestia di sabato non c’era mai e questo significava che potevano godersi la serata, chiacchierare dopo aver cenato, guardarsi un film per poi andare a dormire anche se era più tardi del solito. Con Gary non era possibile rimanere in una stanza con la luce accesa una volta scoccate le ventitré: persino Cenerentola aveva a disposizione un’ora in più nella quale fare baldoria.

Il film era appena finito e quando Jane stava per alzarsi dal divano si accorse che Jolie aveva poggiato la testa sul bracciolo e stava dormendo mentre la luce del televisore, che in quel momento proiettava stupide pubblicità, le inondava il volto: finalmente poteva agire indisturbata. Sorridendo prese la piccola radiosveglia che stava su una delle mensole del salone e la impostò perché suonasse un quarto d’ora dopo. Andò in camera sua e, all’ultimo piano, iniziò a cercare tutti i suoi vecchi libri di scuola; ce n’era uno di geografia, un altro di aritmetica, un altro ancora di scienze. Si munì di una busta e ci mise dentro i volumi scolastici che portò giù in cucina. Sul foglietto bianco disegnò una freccia, lo girò dall’altra parte e scrisse: “Questi sono per Alexandre, un mio piccolo regalo”.

Tornò in salone e coprì Jolie senza svegliarla; infine prese la radiosveglia e la mise accanto al foglietto in maniera tale che Jolie avrebbe visto il messaggio. Sapeva che non avrebbe frainteso quel gesto e sapeva anche che il suo aiuto le avrebbe fatto piacere; sperava che in questo modo la loro amicizia sarebbe stata più forte e immaginava anche che Jolie sarebbe stata contentissima di poter portare i libri al figlio. Libri veri.

* * *



Jane uscì dal liceo pensando a come poteva essere andato il test di matematica. Cercò di ripercorrere tutti i passaggi che aveva fatto e i risultati che erano usciti alla fine degli esercizi e non le sembrò di aver commesso gravi errori. Si sforzò di focalizzare l’attenzione sul terzo esercizio, quello più difficile, ma non fece in tempo a terminare la sua analisi che Ashley le sbarrò la strada; le braccia conserte e l’aria infuriata fecero capire a Jane che ce l’aveva con lei: il sangue divenne lava.

Cercò di evitarla, ma si era già capito cosa stava per succedere. Ashley avanzò impaziente verso di lei.

“Allora brutta troia, cosa hai da dire a tua discolpa?” la voce era troppo calma, troppo sicura. I suoi occhi flagellavano quelli della povera ragazza. Dentro, quella lava, diventava sempre più densa e incandescente.

“Ashley, non è stata colpa mia” disse Jane con un filo di voce.

Durante il test, dopo vari tentativi della reginetta di chiedere a Jane i risultati degli esercizi, la professoressa Fitcher aveva spostato di banco Ashley allontanandola dall’unica persona che l’avrebbe potuta aiutare.

“Non mi hai aiutata quando te l’ho chiesto, la devi pagare!”

L’ultima parola della frase fu pronunciata talmente forte che riuscì a rapire l’attenzione di molti ragazzi. Si formò il solito cerchio. Stessa scena, stesse facce.

“Ma era senza voto, e poi io....” non ci fu il tempo materiale per finire la frase. Partì uno schiaffo talmente forte che la faccia di Jane si girò di scatto verso destra a una velocità incredibile. Gli studenti intorno esultarono gridando come forsennati. La ragazza più sexy in azione mentre ne dava di santa ragione alla più secchiona dell’istituto.

Jane, a testa bassa, mise la sua mano sulla guancia colpita come per ridurre il dolore.

“Questo è solo l’inizio” gridò Ashley con tutto il fiato che aveva in gola. Le sue amiche, appena capirono che con Jane avrebbero vinto di sicuro, decisero di aiutarla immobilizzando la sua avversaria. Ashley le si avvicinò e iniziò a schiaffeggiarla ripetutamente. Era esagerata la violenza che metteva in quei colpi. Le amiche che la tenevano non potevano non ridere. Dagli schiaffi e dai pugni, Ashley passò ai calci. Gliene diede uno in pancia talmente forte che Jane cadde a terra liberandosi dalla stretta delle ragazze. Nessuno interveniva. Jane era a terra intimorita. Sentiva dolore ovunque. Ashley si avvicinò e le assestò l’ultimo calcio su una gamba, poi le sputò addosso.

“Sei una perdente!”

Si sistemò i capelli scompigliati e si allontanò con le amiche.

Jane rimase qualche minuto sull’asfalto dolorante e sola.



* * *

Era passata una settimana da quel traumatico scontro fuori dalla scuola.

Per sette giorni Jane rimase a letto con dolori acuti e martellanti che partivano dalla pancia fino ad arrivarle in testa e nonostante le condizioni della figlia, il signor Gary non se ne preoccupò più di tanto: era sempre fuori casa e durante quei giorni non degnò Jane di un minimo di attenzione. Stranamente però, quella sera, il capofamiglia si accorse di qualcosa.

“Che cazzo hai fatto all’occhio destro?” lei abbassò lo sguardo verso la minestra fumante davanti a sé. Non aveva il coraggio di dirgli la verità.

“Sono caduta” rispose.

Il signor Gary, non appena sentì quella bugia, assestò un colpo fortissimo al tavolo facendo fuoriuscire qualche goccia di minestra dai piatti.

Ginger mangiava tranquillamente, come se fosse una normalissima chiacchierata tra padre e figlia.

“Ascoltami brutta troietta” disse lui con voce calma e fredda, “a me non devi raccontare le stronzate, quello è un pugno e se te lo hanno dato significa che te le sei meritato”.

Era inutile ribattere o cercare il modo di farlo ragionare. Era pazzo.

Jane se ne rimase lì, a testa bassa, con le sue ‘colpe’ e la sua ingiusta sgridata giornaliera. Lei non poteva mettersi contro il padrone di casa, il padrone della sua vita e della sua libertà; ogni sua decisione era legge, ogni suo ordine non poteva essere discusso in alcun modo. Quando Gary assumeva atteggiamenti fortemente aggressivi, Jane si ripeteva in continuazione che quell’agitazione, quella rabbia che sembrava non finire mai e quella cattiveria, erano i risultati della morte di sua madre; non avendo più una moglie amorevole, servizievole e meravigliosa come lo era sempre stata lei, la bestia, secondo Jane, avrebbe perso completamente il lume della ragione, cercando quindi di crearsi un personaggio cattivo e temibile solo per farsi scudo davanti al mondo che lo guardava con aria di sfida, come se tutti lo volessero mettere sotto esame, per valutare giorno dopo giorno la sua resistenza ad una quotidianità difficile da vivere. Forse riusciva anche a capirlo; doveva essere dura scivolare tra le lenzuola di un letto vuoto e addormentarsi senza tenere la mano di nessuno, senza abbracciare la propria donna. Jane, prima che arrivasse Ginger, notava che la solitudine di Gary era presente in ogni momento della sua giornata. Ogni volta che veniva sgridata, senza farsi notare, cercava di annullare le sue parole e abbassare al minimo il volume dei suoi insulti e delle parolacce che avrebbe voluto lanciargli contro per concentrarsi solo nella lettura dei suoi occhi e cercare di capirne tutti i segreti. In tutti i modi affondava per brevi attimi il suo sguardo nel suo, ma quello che riusciva a vedere non era altro che la costituzione dell’occhio umano che conosceva già alla perfezione: la superficie esterna dell’occhio formata per il 93% dalla sclera, l’iride, la membrana vascolare, la pupilla, la quale permetteva alla bestia, come a qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra esente da tutti i tipi di malattie all’apparato visivo, di vedere grazie all’entrata della luce che essa lasciava passare all’interno del bulbo oculare. Si sarebbe dilatata in assenza di luce e si sarebbe ristretta se la luce fosse stata troppa: sapeva benissimo che quel processo si chiamava miosi e sapeva altre cose, altri nomi tecnici, altre informazioni, sapeva tutto tranne che leggere con l’anima quegl’occhi così interessanti. Cercava in ogni modo di chiamare con un nome specifico quella strana luce che le veniva mentre la sgridava, ma proprio non ci riusciva: voleva aggettivare il processo di metamorfosi che subiva il suo volto quando iniziava a sbraitare, ma non era capace; non sapeva neppure se lui fosse in grado di assumere altre espressioni facciali, come la più semplice che la natura avesse mai potuto inventare, ma anche la più complessa e difficile da compiere per l’uomo: il sorriso.

Era per questo che cercava di giustificare i suoi atteggiamenti isterici, dai modi bruschi che aveva di trattarla, anche se poi, per come si comportava, di giustificazioni proprio non ce n’erano.



* * *



Jane indossò un pesante cappotto, il cappello e i guanti di lana. Mentre raggiungeva la scuola, pensava che avrebbe preferito un’imminente disgrazia piuttosto che un altro incontro con Ashley; quando arrivò davanti al liceo la sua mente le proiettò i terribili attimi che le aveva fatto passare la reginetta della scuola insieme alle sue amiche. Sperava con tutta se stessa di non incontrarla mai più, sperava che si fosse trasferita per sempre in un’altra città, ma sapeva benissimo che le sue speranze infondate non sarebbero mai potute diventare realtà, così sperò solo nella sua assenza. Le faceva male ancora la parte destra del torace e se quella mattina Ashley l’avesse picchiata di nuovo, sarebbero arrivati altri dolori atroci da sopportare.

Non appena la campanella suonò, Jane varcò la soglia dell’aula, intenzionata a mettersi subito seduta al suo posto per ripassare, sfuggendo così al possibile incontro con Ashley, ma con sua grande sorpresa, appena entrata nell’aula, trovò l’ultima persona che avrebbe voluto vedere seduta al suo banco, all’ultima fila. Fu presa da una morsa di paura e non riuscì a pensare a cosa fare, a cosa dirle.

Ashley rimase ancora alcuni attimi al posto di Jane.

“Hai cambiato il modo di truccarti?” disse guardandole l’occhio ancora un po’ violaceo. “O è la nuova moda delle puttane come te?” socchiuse gli occhi, come per osservare ogni reazione della sua vittima. Non voleva perdersi neanche un attimo del terrore che Jane stava provando.

La classe era ancora vuota e i fasci di luce che entravano dalla finestra erano gli unici spettatori di quella conversazione.

“Ascoltami bene, te lo dirò con molta calma perché non ho nessuna voglia di alterarmi…” iniziò lei alzando il dito in aria.

Jane si sentì fortunata: qualsiasi cosa stesse dicendo, non sarebbe ricorsa alla violenza.

“Sperando che tu abbia capito la mia superiorità rispetto a te che non vali assolutamente niente, mi sembra giusto che tu abbia degli obblighi nei miei confronti” continuò Ashley.

“Non credo di…”

“Non fiatare. Non devi parlare con me. Mi dovrai portare sempre dei soldi, questo deve essere chiaro e devi ficcarti nel cervello che non dovrai mai saltare un giorno. Se avessi voglia di non venire a scuola per chissà quale cazzo di motivo, tu sei obbligata a venire lo stesso a darmi i soldi che mi devi e andartene di nuovo da dove sei venuta. C’è qualcosa che devo ripetere o hai afferrato il concetto?” domandò retoricamente.

Jane rimase sconcertata di fronte a quelle parole e non riuscì a controbattere. Moriva dalla voglia di darle uno schiaffo in piena faccia, ma il suo corpo risultava immobile come una statua di bronzo.

“Quanto hai dietro?” domandò di punto in bianco la reginetta. Jane mise una mano in tasca e tirò fuori tremante il suo portafogli.

“Due dollari” rispose con voce incerta.

“Non ci credo! Hai una villa, tuo padre è pieno di soldi e giri con due miseri dollari?”

“Non ho altro…”

“Sei patetica” rispose Ashley strappandole dalle mani le due banconote da un dollaro ciascuna.

“Spero che domani non farai la stessa figuraccia”.

Dopo le minacce, Ashley le diede un colpo sulle costole: Jane si piegò in avanti e strinse i denti per il dolore riuscendo a non gridare; respirava affannosamente e pregò il cielo che tutto finisse con quell’unico colpo.

La reginetta si mise al suo posto e aspettò, come se niente fosse, l’arrivo di Flores.



* * *



Sapeva benissimo che Ashley non scherzava.

Jane si chiese quante persone nel mondo avessero problemi di quel genere; quanti ragazzi si immischiassero in affari loschi, in giri di soldi sporchi e quanti di loro, come lei, dovessero del denaro a qualcuno. Il problema però era che Jane non aveva fatto niente per meritare quella punizione: il suo era un insensato obbligo imposto da una ragazzina prepotente e strafottente che riusciva nel più brillante dei modi a far valere le sue regole alle persone giuste. Jane era un’ottima preda. Pur di non avere guai era disposta a subire e Ashley questo lo aveva capito fin dall’inizio.

Appena entrò in casa salì al piano di sopra e meditò sul da farsi: doveva procurarsi ogni giorno un po’ di soldi; aprì con foga il tappo bianco del suo salvadanaio e di colpo volarono in aria solo alcuni spicci. Caddero rumorosamente sulla scrivania bianca e altri a terra; li contò tutti, ma non arrivavano nemmeno a tre dollari. Per un giorno si sarebbe salvata, ma il resto delle volte? Un pensiero le suggerì di provare a parlarci, magari se le avesse detto che il padre non le dava un soldo forse avrebbe capito e annullato la richiesta, ma era naturale che quella sarebbe rimasta una fantasia lontana e irrealizzabile.

Scese in cucina e si accorse di un bigliettino sul tavolo della cucina.



Ti lascio un foglietto, devo scappare:

il turno di oggi l’ho fatto stamattina

perché devo sbrigare faccende urgenti.

Grazie infinite tu sai per cosa.

Ti auguro una buona giornata.

Jolie.



La sensazione di essere sola in casa, per tutto il pomeriggio, le provocò addosso una strana sensazione. Poteva fare quello che voleva senza essere vista.

Si preparò al volo un’insalata di pollo, mais, olive e carote, poi si lavò i denti. Si guardò allo specchio e si accorse di avere le palpebre più allargate del solito: si rese conto d’essere tesa, il suo corpo era irrigidito e la mente non faceva altro che pensare al problema da risolvere. Stavolta c’era davvero il rischio di passare guai seri con Ashley; sarebbe stata disposta a tutto pur di non essere una sua vittima. Girando a vuoto per il salone, ad un certo punto, fissò il mobile di ciliegio che prendeva una parete intera e più precisamente guardò l’ultimo sportello in basso a destra.

Aveva appena capito come procurarsi, senza problemi, i soldi che le servivano.



* * *



L'idea che le era venuta in mente non era delle migliori, ma l'urgenza della situazione la rendeva assolutamente necessaria.

Arrivata davanti alla credenza fece un grande respiro, chiuse un attimo gli occhi e si pentì da subito per quello che stava facendo. Stava sacrificando la sua filosofia, il suo modo di pensare e di essere, ma non poteva andare diversamente. Un gran peso sullo stomaco le rendeva difficilissimi i passi che la separavano dallo sportello marroncino della credenza. Guardò la piccola chiave che avrebbe dovuto girare, l'afferrò con due dita e non appena iniziò la rotazione verso destra, lo scatto della piccola serratura sembrò amplificarsi di un milione di volte. Il mondo intero, sentendo quello scatto così forte, si girò verso di lei con occhi feroci incolpandola da subito: Jane Madison aveva perso ogni grammo di dignità, solo girando quella chiave.

In casa regnava un sinistro silenzio che metteva paura. Tutto immobile, gli oggetti la guardavano e lei, a denti stretti, iniziò l'operazione: aprì lo sportello dell’armadio e infilò la mano cercando di schivare le due ventiquattrore del padre, alcuni raccoglitori di plastica nei quali teneva le bollette, un vaso, alcuni cd sparsi. Quando le sue dita toccarono la fredda superficie del salvadanaio di Gary cercò in tutti i modi di stringerlo e tirarlo a sé, ma era come intrappolato tra tutti gli altri oggetti che gli facevano da scudo. Forzò ancora di più, ma niente, sembrava cementificato. Si aiutò con l'altra mano e, serrando ancor di più la stretta, iniziò a fare forza fino a che riuscì finalmente a strappare via il salvadanaio del padre. Per la troppa foga, però, dal mobile scaraventò via anche tutti i documenti di Gary che si sparpagliarono disordinatamente a terra, il vaso si frantumò con un rumore sordo e anche il salvadanaio di coccio andò in mille pezzi liberando così centinaia di monete e decine di banconote.

Jane cadde all'indietro e vide il disastro. Fortunatamente, pensò, a casa non c'era nessuno e avrebbe potuto riordinare tutto con calma; più che per la rapina al padre, il vero danno era aver distrutto il prezioso vaso a cui la bestia era particolarmente legata. Vedendo i suoi residui a terra si ricordò di un giorno, anni prima, in cui Gary l’aveva sgridata pesantemente per aver urtato senza volere il tavolo e aver fatto vacillare il suo oggetto preferito.

“Prima che tu faccia altri danni, questo lo metto al sicuro” aveva detto lui nascondendo il vaso all'interno del mobile accanto al salvadanaio dove teneva i suoi risparmi. Non sapeva cosa inventarsi nel momento in cui Gary l'avrebbe scoperta.

Solo al pensiero le vennero i brividi.

Si sbrigò ad andare a prendere una busta dell’immondizia, ma passando davanti alla porta d’ingresso sentì girare una chiave dall'esterno e la porta, di scatto, si aprì.

Diversamente da ogni sabato, il padre rientrò a casa.

Con un incredibile anticipo.



* * *



“Papà!” esclamò sorpresa.

“Mi serve un numero!” sbraitò lui. Sembrava davvero indaffarato e frettoloso. Andò accanto al mobile su cui c’era il telefono di casa e, da un cassetto, tirò fuori un'agenda nera; la aprì e iniziò a cercare qualcosa di corsa, poi prese il cellulare e compose il numero che gli serviva.

“Cazzo, è inesistente! La stronza mi ha mentito!” gridò lui. Sbatté un pugno sul telefono e la cornetta cadde a terra per poi ciondolare a destra e a sinistra come un pendolo dai poteri ipnotici. Jane era immobile e pregava con tutta se stessa che andasse via in quel preciso istante. Mentre lui fissava la cornetta penzolante in cerca di una soluzione al suo urgente problema, Jane notò con terrore che un pezzo di vaso era a pochi centimetri dai suoi piedi. Staccò subito lo sguardo da lì e cercò d'intrattenere la bestia calpestando il piccolo frammento.

“Cos'è successo?” domandò con voce tremante cercando di distrarlo.

“Ti prego stai zitta! Ti prego, Jane non intrometterti, ci manchi solo tu!” disse lui alzando entrambe le mani in aria. Iniziò a gironzolare nell'atrio, si avvicinò alla porta d'ingresso e per un attimo Jane credette che se ne stesse andando, invece tornò indietro, fino alla sua agenda. Controllò altri numeri e ne chiamò un altro.

“Manca la cubista! Manca la cubista! Sto cercando il bigliettino con l'altro numero, ma non lo trovo” sbraitò a un suo collega.

“Non doveva solo ballare! Lo sai che avrebbe dovuto intrattenere Rütger Hoffmann!”

Gary cercava di stare calmo, ma proprio non ce la faceva. La cravatta sembrava strangolarlo tanto era rosso in faccia.

Quando Ginger si attaccò al clacson chiamandolo, Jane la ringraziò con tutto il cuore. Mai prima di allora le aveva voluto così bene.

“Dai, sbrigati! Siamo in ritardo!” gridò lei con voce stridula.

“Arrivo, non suonare quel maledetto coso!” Gary prese l'agenda e la tirò a terra bestemmiando: dalle pagine ingiallite uscirono tre bigliettini bianchi. Gary guardandoli si accigliò e ne raccolse due. Li lesse e cercò di fare mente locale. No. Non erano quelli che cercava.

Jane sapeva che la sua fine stava per arrivare.

Il terzo bigliettino era finito accanto a un altro pezzetto di vaso che era sfuggito all’attenzione della ragazza.

Gary si accucciò afferrando il biglietto e il residuo di coccio.

“Questo è il numero che cercavo”.

Jane chiuse gli occhi.

“Ma questo cos'è?” tuonò la bestia mostrando a Jane il quadratino di ceramica.

Gli occhi della bestia fulminarono quelli della ragazza ormai presa dal panico. In nessun angolo della sua anima era rimasto un solo briciolo di coraggio.

Gary abbassò ancor di più la voce e disse: “Spero per te che tu non abbia rotto il…”

Dall'espressione terrorizzata della figlia, la bestia capì. Con uno scatto si girò e con lunghe falcate raggiunse il salone; il pavimento ricoperto di cocci di ceramica e di soldi fu per lui una coltellata conficcata in petto. Con dolore e rabbia poté constatare che non solo era andato in frantumi il suo adorato vaso, ma anche il salvadanaio in cui metteva i suoi risparmi.

Rimase ancora qualche manciata di secondi in quello stato di shock, fissava il pavimento e non disse nulla nemmeno quando Ginger riprese a suonare insistentemente il clacson, tortura sonora a cui era intollerante.

Strappò il bigliettino che finalmente aveva trovato e si rivolse alla figlia con un misterioso sorriso mentre lasciava cadere i piccoli pezzetti di carta che, con giravolte disordinate, precipitavano a terra.

“Avevo un problema al pub” disse lui calmo, “ma tu puoi essere la soluzione”.

Jane non riusciva davvero a capire cosa intendesse.

“Papà posso spiegarti, non è come pensi…” cercò di essere convincente, ma la voce debole la tradì.

“Non devi giustificarti piccola mia, possono succedere queste cose, no?” Gary era troppo calmo, pensò Jane: cosa stava tramando?

“Facciamo così” concluse lui, “se stasera vieni al pub e mi aiuti a sbrigare delle semplici faccende, giuro che non ti strangolerò con la cinta dei pantaloni. Va bene, piccola bambina di papà?”

Quel sorriso stampato in faccia e quell'aria tremendamente misteriosa terrorizzarono la ragazza.

“Se potessi aiutarti, lo farei volentieri” disse lei.

“Perfetto, allora adesso vai a cambiarti così da raggiungerci in macchina” disse Gary congedandosi. Poi, voltandosi, la fulminò di nuovo.

“Mamma Ginger ci aspetta”.



* * *



Il sole stava calando e il cielo si era imbrunito.

Jane vedeva sfrecciare il paesaggio dal suo finestrino. Rifletteva guardando la gente, le case, le macchine parcheggiate.

Dopo una silenziosissima ora di viaggio finalmente si trovarono davanti al pub di cui aveva sentito tanto parlare senza essere mai stata invitata a visitarlo.

Jane fissò l’insegna rosa del locale ancora spenta: Gary’s Night Club. La scritta non faceva altro che confermare quello che sospettava da tempo: non era un semplice ‘pub’, come lo chiamava lui, ma si trattava di un vero night club situato in periferia, lontano da casa, dal centro e da occhi indiscreti.

Appena entrati si notavano subito i grandi cubi dove avrebbero dovuto ballare le tre ipotetiche ballerine con tanto di pali d’acciaio per la pole dance, tavolini che sarebbero serviti per champagne, aperitivi e stuzzichini da sgranocchiare mentre ci si godeva lo spettacolo erotico. Il resto del locale era occupato da sedie in pelle scura e divanetti riservati probabilmente ai clienti abituali che pagavano il privé.

Il locale, inoltre, era tappezzato di fotografie porno in alta definizione: donne nude su motociclette, abbracciate a uomini senza né indumenti né volti espressivi, teneri o rassicuranti. Altre rappresentazioni accattivanti e volgari erano situate su tutte le pareti.

Jane rimase colpita dall’eleganza e dal lusso sfrenato con il quale era stato arredato il night. Suo padre era un uomo rozzo e ignorante, scontroso e sempre di malumore e si domandò come avesse fatto a rendere quel locale così chic.

Si avvicinò a una delle tante fotografie appese alle pareti e notò che persino le cornici erano decorate alla massima potenza: addirittura, sulla testa di ogni chiodo utilizzato per reggere i quadri, era inciso un volto in miniatura di una donna con gli occhi chiusi che teneva in testa una corona di fiori.

Le sedie, così come i divanetti, sembravano comodissime, soprattutto quelle in prima fila, che somigliavano a vere e proprie poltrone. Posti riservati a pochi eletti.

Jane avrebbe voluto sapere molto di più su quel night, ma il padre le aveva detto che lo avrebbe dovuto aiutare solo in alcune semplici faccende e poi l’avrebbe riportata a casa, quindi non avrebbe potuto assistere al grande spettacolo che si teneva ogni sabato sera.

O almeno così credeva.



* * *



Tre ragazzi e due ragazze entrano nel night.

“Ecco i miei figliuoli!” esclamò Gary alzando al cielo la bottiglia che aveva appena stappato. Le ragazze si scambiarono un’occhiata e abbassarono entrambe il capo. I maschi strinsero i denti e lo guardarono con occhi gelidi. I loro visi erano immobili, come paralizzati sotto lo sguardo del grande capo. Dopo averlo salutato ed essersi cambiati in quello che sembrava uno spogliatoio comune, le ragazze, armate di scopa, si accinsero a togliere tutta la sporcizia che c’era sui pavimenti mentre gli altri, muniti di stracci e disinfettanti, cominciarono a pulire i tavolini.

“Bravi i miei ragazzi, questo locale andrebbe a puttane senza di voi!” Scoppiò a ridere per la sua formidabile battuta. Non poteva sceglierne una migliore. Jane se ne stava in piedi vicino al bancone del bar a osservare silenziosamente quei ragazzi che lavoravano. Gary passava tra di loro, li controllava, li incitava ad andare più veloci dato che l’ora di cena si avvicinava e la clientela sarebbe arrivata poco dopo mentre lui si limitava a bere e a gironzolare come un nullafacente. Prima scambiò qualche occhiata con la figlia, poi le impose di andarsene nel suo “studio”.

Si ritrovò in una stanzetta con un letto sfatto posizionato davanti a un megatelevisore al plasma e un comodino accanto al letto. Per il resto era vuota, non c’era nient’altro. Di fianco al televisore c’era uno specchio di quelli in cui ci si può guardare attraverso e vedere cosa succede dietro. Aprì il suo zaino e ripassò gli ultimi capitoli di filosofia.



Erano arrivate molte persone nel locale e la musica era ormai a tutto volume. Jane era chiusa nello studio di suo padre da almeno tre ore e, nonostante il caos, riusciva perfettamente a rimanere concentrata, imprimendo nella mente i concetti chiave di ogni singolo capitolo che ripassava. Erano ormai le due passate e decise di addormentarsi, dato che ancora le semplici faccende di cui parlava Gary non le aveva svolte. Non appena si alzò per spegnere la luce e cercare di riposare, suo padre irruppe nella stanza facendola sobbalzare.

“Papà!”

In viso il signor Gary era teso, respirava affannosamente e deglutiva in continuazione. Gli occhi sembravano impazziti e si muovevano a destra e a sinistra come se cercassero urgentemente qualcosa.

“Sta’ zitta e vieni con me!”

La prese per un braccio e la portò in una specie di magazzino. Dentro c’era un ragazzo di colore che sistemava bibite su alcuni scaffali d’acciaio. Il signor Gary la strattonò con forza per farla entrare dentro la stanza e si precipitò a prendere una borsa nell’armadio che era in fondo a quella topaia mal illuminata e puzzolente.

“Indossa immediatamente questo e fai in fretta perché è arrivato in anticipo!” Le tirò addosso un vestitino preso da quella borsa. Più che un vestitino era una minigonna di soli dieci centimetri e un top minuscolo. Jane davvero non capiva cosa stesse succedendo.

“Papà, ma questo…”

“Indossalo e basta! Non avevi detto che mi avresti aiutato con semplici faccende? Questa è la prima!” gridò Gary tirandole uno schiaffo in piena faccia. Il ragazzo di colore non ci fece caso. Sembrava fosse abituato a certe cose.

“Torno tra un minuto, se non ti sei cambiata giuro su tua madre morta che ti ammazzo!” e uscì come una furia scatenata. Come un animale. Come una bestia.

A Jane, guardando quei vestiti, scesero un paio di lacrime, ma non poteva e non doveva perdere tempo. Se lo avesse fatto, suo padre l’avrebbe ammazzata sul serio. Doveva cambiarsi per forza con quel ragazzo nella stanza? Non aveva scelta. Si tolse prima la felpa, poi con molta incertezza la maglietta. Il ragazzo era ancora intento a sistemare alcune bibite e le dava le spalle. Jane aveva le mani che tremavano e sperava con tutta se stessa che non si sarebbe girato. Con un rapido gesto si tolse anche la magliettina bianca. Il top era troppo piccolo, via anche il reggiseno. Si infilò subito il minuscolo indumento e il ragazzo si girò, proprio nel momento in cui Jane coprì il seno. Il volto le andò in fiamme. Doveva togliersi anche i pantaloni.

“Puoi girarti per favore?” Jane glielo chiese con il cuore in mano, si capì dal tono. Il ragazzo si girò senza dire una parola. Sfilati i pantaloni, indossò la minigonna, la prima della sua vita. Adesso, nonostante la delicatezza e la sua bellezza naturale, sembrava un’attrice di film hard, accattivante, eccitante e tremendamente sexy. Anche se le parti intime erano state coperte, chiunque poteva guardare ogni sua curva. Qualsiasi uomo avrebbe voluto passare una mano sul sedere tondo e sodo, toccare le gambe, o il seno, quel seno prorompente al punto giusto: le altre parti del corpo erano nude. Jane pregò di svegliarsi da quell’incubo. Il ragazzo aveva poggiato a terra la bottiglia che teneva in mano e guardandola si avvicinò slacciandosi improvvisamente i pantaloni.

Non fece in tempo a chiedergli pietà che scattò verso di lei.

“No, ti prego, non farlo. Mio Dio, ti prego, no!” le urla della ragazza furono messe a tacere. Con la mano destra il ragazzo le tappò la bocca e con l’altro braccio la bloccò con violenza. Jane cercava in tutti i modi di divincolarsi, di scalciare o di gridare, ma quel ragazzo era veramente fuori di sé; si muoveva con foga, aveva le palpebre allargate e i denti stretti.

“Bocconcino, voglio scoparti!” furono le sue uniche agghiaccianti parole. Con uno scatto il ragazzo la scaraventò ferocemente contro l’armadietto di ferro e la bloccò di nuovo; con un’abile mossa si tirò del tutto giù i pantaloni e le mutande. Qualcosa di duro e lungo stava toccando le gambe di Jane. La musica del locale era alta e nessuno avrebbe potuto sentire le sue grida, Gary non c’era, quel maledetto sgabuzzino sarebbe diventato la sua trappola, quel ragazzo era il suo peggior incubo. Aveva capito che era arrivata la fine.

Non sapeva affatto però che quello era solo l’inizio.



* * *



Con un movimento fulmineo, mentre la teneva ferma, il ragazzo le abbassò il top scoprendole il seno.

Successe tutto così rapidamente. Come un maniaco sessuale perverso e ormai fuori di senno affondò la testa nel seno candido di Jane quando la porta si spalancò.

“Ma che cazzo stai facendo?”

Il signor Gary però, invece di darne di santa ragione al ragazzo senza pantaloni, lo spostò come se fosse un fastidioso insetto e tirò su il top di Jane sistemandoglielo per bene, dimenticando all’istante quel che aveva appena visto.

“Il momento è arrivato” il suo tono ora sembrava calmo, ma si vedeva che cercava di non perdere il controllo. Era come se fosse euforico al massimo. Era teso perché sperava di uscire da quella situazione, di riuscire a portare a termine il programma stilato per quella serata. Tutto era stato premeditato accuratamente: sua figlia sarebbe stata in grado di non fargli saltare i piani?

“Dai che ti sta bene questa divisa, su, sei bella”. La prese per mano e lei, scalza, lo seguì come se fosse un robot, un pupazzo, un oggetto, una prostituta.

Ecco finalmente la vista del locale in piena attività. Decine e decine di persone eleganti parlavano tra di loro, bevevano, qualcuno era esageratamente ubriaco, ma quello che saltò subito agli occhi di Jane furono due ragazze che ballavano la pole dance sui cubi avvinghiate ai pali d’acciaio.

Gary si rivolse a sua figlia.

“Vedi quelle persone che sono sedute sotto ai cubi?” Jane buttò l’occhio sui divanetti disposti proprio sotto le ragazze che ballavano, occupati da certi signori in giacca e cravatta.

La prima fila.

“Sono persone di massima fiducia, tu devi stare al gioco. Ricordati una cosa: devi fargli fare quello che vogliono, non ribellarti, non rispondere in maniera offensiva e non prendere nessuna cazzo di iniziativa” spiegò la bestia con gli occhi iniettati di sangue.

Lei annuì, ancora traumatizzata dal ragazzo di colore. Gary, stringendole il braccio, portò Jane sotto uno dei cubi vuoti.

“Devi ballare su questo coso; è la prima faccenda che avevi promesso di fare” sorridendo e senza lasciarle il tempo di rispondere, la prese in braccio e la scaraventò sul cubo.

Adesso si era trasformato: sorrideva a tutti e salutava ogni persona che gli rivolgeva la parola o un semplice cenno, si muoveva con disinvoltura e dava l’impressione di essere un uomo gentile e di gran classe.

“Adesso balla e dai spettacolo” gridò Gary indicando, senza farsi notare, le persone a cui alludeva un attimo prima.

Al centro della prima fila spiccava un personaggio molto sospetto. Avrà avuto poco meno di settant’anni, portava spessi occhiali da vista e una giacca pesante. Pantaloni grigi e scarpe nere. Era calvo, circondato da altri scagnozzi e lui, quello strano signore, doveva essere senz’altro Rütger Hoffmann. Di che affari parlava suo padre?

Non le sembrava vero. Era su un cubo, vicino a un palo per la pole dance, davanti a un oceano di gente che le puntava gli occhi addosso. Da brava studentessa era diventata, contro la sua volontà, la nuova protagonista di un night club in cui tutti aspettavano di vederla nuda. Jane sentì girare forte la testa, ma riuscì a vedere nitidamente che la ragazza che ballava sull’altro cubo si stava scatenando e stava dando grande spettacolo. Un inquietante spettacolo: quella sarà stata una ragazzina di diciassette anni al massimo che indossava tacchi a spillo, calze nere a rete, minigonna e top. Rideva e sembrava contenta quando sentiva i fischi provenienti dal pubblico eccitato. Jane guardava quelle persone e lo schifo prevalse ferocemente su qualsiasi altro tipo di emozione; c’erano uomini vecchi che si toccavano per aumentare la loro eccitazione, ridevano mostrando denti marci, si lanciavano occhiate complici per poi tornare a guardare con lussuria le ballerine. Molti di loro erano sposati, ma c’erano uomini giovani, altri ancora giovanissimi, altri erano tristi scapoli in cerca di un po’ di movimento, di culi, di tette, di sesso; lo avrebbero trovato con le ragazze? Sì, Gary avrebbe fatto pagare una bella cifra e avrebbe spillato tanta grana a quei maiali riservando loro il suo studio. Se qualcuno avesse voluto divertirsi con Frenny, la “collega” di Jane, avrebbe accettato sicuramente e avrebbe organizzato in pochi minuti il focoso appuntamento. Tutti quei soldi facevano gola al padrone del locale; sapeva benissimo che ogni sera, tecnicamente, rischiava la galera, ma proprio chi lo poteva mettere dentro godeva più di qualsiasi altro. Gary aveva allargato incredibilmente il giro coinvolgendo persone da ogni parte degli Stati Uniti. Il suo segreto era presentare le donne più sexy alle persone che lui considerava più pericolose. Li chiamava i bastardi. Il sistema funzionava alla perfezione: fornire donne e droga a chi poteva essere tanto fastidioso da trasformarsi in un potenziale nemico.

“Cazzo, muovi quel culo!” Gary riprese sua figlia in visibile difficoltà. Non stava ballando; si limitava a rimanersene in piedi sul cubo, più ferma del palo d’acciaio sul quale si sarebbe dovuta avvinghiare. Gary aveva questo scenario in mente e se sua figlia non lo avesse messo in atto l’avrebbe fatta pentire d’essere nata. Doveva ballare, altrimenti i bastardi si sarebbero incazzati e solo il diavolo poteva sapere cosa avrebbero fatto.

“Papà!” gridò Jane in preda al panico, “papà aiutami!”

Un uomo di mezz’età si era alzato e si era avvicinato a lei, aveva allungato una mano e le aveva toccato la coscia. L’interno, per la precisione.

I signori che avevano assistito alla scena ridevano di gran gusto.

L’altra ragazza, Frenny, era scesa dal cubo e aveva cambiato il tipo di ballo: lap dance. Era alle prese con un gruppo di uomini che allungavano le mani sulle natiche, sul seno, sulle braccia. Lei sorrideva maliziosa, faceva occhiolini, tirava fuori la punta della lingua e se la passava sulle labbra, faceva smorfie erotiche con il volto fingendo continui orgasmi. Poi, finito lo spettacolo hard, saltò con gioia sul cubo e continuò a lavorare con il palo d’acciaio.

Jane sapeva che, se non avesse fatto lo stesso, si sarebbe messa nei guai.



* * *



La morsa allo stomaco era fortissima.

Mai, mai e poi mai si era sentita così sporca, così fuori luogo. Le luci tagliavano il locale in mille parti colorate e tutti si divertivano. Era salita solo da qualche minuto e gli uomini si avvicinarono improvvisamente ai cubi. La musica cambiò, segnale che annunciava l’ennesimo ballo: lo spogliarello. Jane cercò di muoversi, ma quello che uscì fu un ballo ridicolo. Sembrava che avesse le gambe legate. Suo padre ogni tanto le passava vicino e le lanciava sguardi minacciosi. Era chiaro il suo messaggio. Non doveva fargli fare brutta figura, ma il corpo non rispondeva più ai segnali inviati dal cervello. Il terrore ormai si era impadronito di lei.

Frenny si sfilò lentamente il top e lo lanciò alla folla che cercò di prenderlo al volo. Mancava solo lei. Solo lei doveva compiere un gesto così semplice, così breve. L’aveva fatto centinaia di volte prima di entrare nella doccia. Lo faceva ogni giorno, togliersi il reggiseno per lavarsi o per indossare il pigiama, ogni sera, eppure le mani sembravano essersi trasformate in due statue d’ottone. Era ferma in preda a sensazioni mai provate prima di allora; era sicura che non sarebbe mai più uscita da quel locale. Per un attimo credette che sarebbe rimasta per sempre sopra quel cubo in balia di tutti quei maiali, compresi i signori in giacca e cravatta che aspettavano, impazienti, il suo top.



* * *



Suo padre prima le diede uno schiaffo con una tale forza da farla cadere a terra, poi iniziò a prenderla a calci. Lei voleva gridare, ma dalla bocca non uscì alcun tipo di suono, solo agghiaccianti gemiti. Versi di dolore.

“Come ti sei permessa di scendere da quel cazzo di cubo!”

Gli occhi di Jane osservavano impotenti la gamba del padre che, finito un insulto, si caricava all’indietro fino a scagliarsi contro la pancia, sul petto, sulle braccia. Dopo ogni colpo che riceveva, c’era un flash bianco. Poi nient’altro. I calci erano terminati. Il dolore però era atroce e attraversava violentemente ogni singola parte del corpo.

Suo padre uscì lasciando aperta la porta e chiunque, passando lì davanti, avrebbe potuto vedere la splendida ragazza mezza nuda per terra, con il sangue che le colava a piccoli rivoli dalla bocca. Se solo avesse fatto volare via quel maledetto top tra le mani di quegli uomini si sarebbe risparmiata la sfuriata di Gary. Dopo alcuni minuti però tornò la bestia in compagnia: insieme a lui c’erano due ragazze e un signore. Forse uno dei bastardi.

“Ho visto che c’è stato qualche imprevisto” affermò infastidito l’uomo. Dall’accento tedesco la ragazza capì subito che si trattava di Rütger Hoffmann.

Gary lasciò intravedere un velo di sorpresa e di sgomento, ma riuscì a rimediare.

“Sì, non sta bene mia figlia, ha avuto un calo di pressione”.

L’uomo guardò Jane con una strana espressione.

“Nonostante il sangue che le esce dal naso e dalla bocca noto che è un succoso bocconcino” affermò facendo intravedere un enigmatico sorriso sulle labbra fini e sottili.

“Rütger” Gary lo guardò di sottecchi come se stesse per fargli qualche proposta. Poi glielo disse chiaramente.

“Se vuoi favorire, non c’è alcun problema” disse indicando con un gesto della mano la figlia.

Hoffmann continuò a tenere gli occhi inchiodati su Jane; notava anche lui quel bel corpo riverso a terra, quei biondi capelli disordinati, la carnagione chiara, l’esplosione della sua giovinezza. Intravide il volto e si accorse dell’estrema delicatezza di quei magnifici tratti naturali.

“Hai fatto un grande errore, non avresti dovuto ridurla così” tuonò il capo con ancora gli occhi sulla ragazza. Poi li buttò su di lui.

“Adesso come passerò la serata?”

Gary si trovò spiazzato e maledisse quella peste di sua figlia. Era convinto che non ci fosse un’occasione importante in cui non lo avrebbe messo nei guai.

“Aspetta qui un momento”. Gary si precipitò immediatamente in cucina. Doveva assolutamente accontentare, almeno temporaneamente, quell’uomo; se tutto quel posto ancora funzionava, se potevano essere comprate e vendute intere partite di droga all’interno del locale e se Gary poteva permettersi di picchiare, maltrattare o violentare le ragazze all’interno di quelle mura, era solo ed esclusivamente merito di Hoffmann. Attorno a sé aveva un incredibile potere che riusciva a gestire ed esercitare tramite i suoi uomini più fidati; pagava profumatamente chi avrebbe potuto interferire negativamente sui suoi preziosi affari. Il locale di Gary fruttava moltissimo non tanto per il sesso che poteva essere tranquillamente praticato nello studio e nelle altre stanze che avrebbero costruito di lì a pochi mesi, ma piuttosto per tutti i traffici di stupefacenti che scorrevano nel night. Era senza ombra di dubbio il quartier generale nel quale Hoffmann e la bestia concludevano i loschi affari.

Gary tornò da Rütger con una delle ragazze che lavoravano segregate in cucina come aiutanti cuoche da ormai due anni. Era sui venticinque anni mora, bassa, occhi scuri.

“Vuoi intrattenere questo mio caro amico? Purtroppo mia figlia non può farlo, date le sue pessime condizioni” spiegò lui.

“Signor Madison, io…”

L’indecisione della ragazza costrinse Gary a fare qualche passo per incollare la sua faccia infuriata a quella della giovane dipendente.

“Se non fai scopare subito questo stronzo come si deve giuro che stanotte ti taglio la gola” le sussurrò.

La ragazza sembrò ipnotizzata da Gary e dalle condizioni di Jane, che notò non appena uscì dalla cucina. L’uomo la guardò e sorrise.

“Non è certo bella come tua figlia” puntualizzò il tedesco.

Gary sentì vorticare la testa.

“Ti prego, Rütger. Lei è quella che si salva, se vuoi ti chiamo la ball…”

“Non voglio quella puttana!” gridò lui stringendo il pugno destro.

Guardò la ragazza dalla testa ai piedi.

“Per stasera ti salvi solo se questa gentile ragazza farà tutto quello che chiederò”.

Visibilmente agitata, la ragazza era sul punto di piangere, ma riuscì a trattenere le lacrime.

“Sicuro che lo farà” Gary si voltò verso l’aiuto cuoca.

“Non è forse così?”

Lei annuì.

“Avanti, non essere tesa” Hoffmann si fece avanti toccandola. Nonostante l’età avanzata dava l’idea di un uomo arzillo.

“Come se fossi a casa tua” gli disse Gary indicandogli il letto.

Rütger lo guardò un’ultima volta.

“Gary, lo faccio solo perché tua figlia è ridotta veramente male” Gli si avvicinò a qualche centimetro. “Dovrai rimediare all’errore commesso” ordinò. Poteva sbagliare in qualsiasi campo, sarebbe stato addirittura più clemente se fossero mancati dei soldi che Gary, ogni tre mesi, doveva dargli. Avrebbe fatto qualche storia, ma non poteva accadere una cosa del genere; quando Hoffmann s’invaghiva di qualche ragazza doveva essere accontentato. E Jane rimase una preda che, per quella sera e solo per quella sera, gli era sfuggita.

Il signor Hoffmann si sdraiò sopra al letto poggiando la testa sul cuscino e invitò la ragazza a fare altrettanto; Gary invece convocò Frenny, l’altra cubista, e la buttò a terra con una spinta. Si slacciò i pantaloni e lei iniziò subito a prenderglielo in bocca. Il tedesco aveva ormai quasi finito di spogliare la ragazza che, fortunatamente per la bestia, si lasciava domare senza difficoltà. Era un pezzo di ghiaccio, ma l’importante era soddisfare il bastardo.

Jane cercò di parlare, ma il dolore la strozzava. Poggiò la testa a terra e cercò di allontanare mentalmente quel fortissimo dolore alla pancia. Suo padre tirò fuori dal cassetto un po’ di cocaina, la sniffò e chiese all’uomo se voleva favorire, ma lui era troppo occupato a leccare ogni centimetro quadrato di quella povera ragazza che con incredibile sangue freddo riusciva a non gridare e a non dimenarsi.



Una settimana dopo la realtà che le si srotolava davanti non era più la stessa.

Dopo la terribile esperienza al night, Jane sentì che qualcosa al suo interno era cambiato e tutto quello che avrebbe fatto, visto o detto, non sarebbe mai stato più spontaneo o genuino, ma avrebbe patito i postumi di quel trauma così violento; ogni frase sarebbe stata macchiata dalla paura che le aleggiava in corpo come un demonio impazzito che cercava di tapparle la bocca; ogni discorso sostenuto sarebbe stato percepito solo come un argomento da trattare per non andare a finire a parlare di quello che aveva fatto al night, sul cubo, conciata in una maniera talmente disdicevole da considerarla blasfema. Gli occhi che le strusciavano addosso, le bocche di alcuni vecchi che sbavavano al solo pensiero erotico di passare qualche ora in compagnia della giovane dal viso angelico, gli occhi chiari e la pelle liscia profumata di una giovinezza che, per loro, non era altro che un irraggiungibile ricordo lontano a cui facevano riferimento quando volevano rivivere l’epoca in cui era il loro turno: il turno per conquistare obiettivi e donne, l’epoca in cui si era in diritto di aspettare qualsiasi treno perché, effettivamente, era la loro epoca. Stare seduti sulle comode poltrone del locale di Gary e fantasticare di baciare Jane, toccarla e sentirsela addosso sarebbe stato il loro viaggio nel tempo ormai andato, ormai scaduto: non sarebbe esistito più il dislivello mozzafiato di età che galoppava tra di loro, ma l’avrebbero interpretato solo come un’indimenticabile nottata al night, un sabato sera alternativo, privo di monotonia, da ricordare per quello che gli rimaneva da vivere come l’ultimo grande colpo da maestri del piacere sensuale, nonostante le rughe, nonostante le ossa e i muscoli fradici, l’artrite, la dentiera.

Non sembrava esistere nessun comportamento mentale, fisico o spirituale che avrebbe potuto alleviare quel marcio che la ragazza sentiva crescere da dentro, che colava dalle pareti della sua dignità e che tutti, solo guardandola negli occhi, avrebbero notato nitidamente. Abbassare la testa facendo correre lo sguardo all’oscuro del mondo non sarebbe servito se non ad accentuare un disagio che nascondeva, in sé, il terribile segreto. Ascoltando i professori spiegare alcuni concetti, o interagire con una commessa di un negozio, stando in silenzio, non riusciva ad abbassare il volume mentale di quella musica che, il sabato precedente, aveva fatto da colonna sonora al suo primo spogliarello pubblico. Non riuscì a concludere niente nemmeno l’amico psicologo di Jolie, al quale venne presentata dalla colf stessa: ebbero una conversazione di mezz’ora, ma la giovane non disse nemmeno una parola. Vedeva ancora un fiume di mani in aria che applaudivano, i fischi acuti, gli occhi spalancati quando Frenny aveva lanciato alla folla imbizzarrita il suo top, le mani dei vecchi che entravano nei pantaloni e si agitavano. Gli spiriti eccitati sembravano concreti, visibili: li indossavano come terrificanti maschere di carnevale.

Entrare in casa o a scuola rappresentava la grande sfida giornaliera dalla quale si aspettava il peggio: tra i banchi del liceo c’era Ashley che ogni mattina, puntuale come un ghepardo nell’ora in cui la famiglia di gazzelle si riunisce amorevolmente, si materializzava con la mano protesa e l’aria di chi dice: non stai forse dimenticando qualcosa?

A casa c’era la causa di ogni suo problema: la bestia. Pranzare, cenare, condividere la propria vita con la persona che le aveva causato quei danni psicologici non era una cosa da niente. Non poteva che ricordarlo mentre faceva irruzione nel magazzino dove l’operaio di colore stava consumando lo stupro: la sua indifferenza, gli ordini di sbrigarsi a svolgere le “semplici faccende” il cubo, la musica a tutto volume, le botte nello studio, il sangue, il vecchio tedesco con cui parlava di lei e del suo corpo mercificato.

“Presto sarai di Hoffmann e non ti opporrai” era solito dire durante una delle tante liti scoppiate per un nonnulla. Poi aggiungeva: “Ovviamente appena il tuo bel visino tornerà a essere splendido e lucente!”

Effettivamente in volto aveva ancora lividi evidenti, l’occhio pesto, lo zigomo arrossato e la guancia gonfia.

Quel pomeriggio si rannicchiò sul letto e tirò a sé le ginocchia, stringendole al petto. Si girò dalla parte sinistra e, una volta incrociato lo sguardo della madre, s’impietrì. La donna era stata fotografata molti anni prima di quel pomeriggio malinconico e, ogni volta che Jane incastrava gli occhi nei suoi, assaporava la struggente sensazione di essere in balia di angeli e demoni in eterna lotta tra loro, senza nessun arbitro che decretasse una vittoria, un pareggio, una sconfitta.



* * *



Quella mattina, quando Jane aprì gli occhi, già sapeva che sarebbe stata una pessima giornata; una data del genere doveva essere festeggiata felicemente in famiglia, con la voglia irrefrenabile di aprire i regali che tuttavia avrebbe dovuto essere controllata fino allo scoccare della mezzanotte, così da farlo tutti insieme, intorno a un grande tavolo pieno di dolci. Si sarebbe dovuta respirare un’aria speciale, la si doveva vivere con il sorriso. Quando si svegliò poté solo accorgersi che in casa non c’era nessuno. Non sapeva dove fossero andati fino a che lesse il biglietto scritto frettolosamente dal padre: ‘Torniamo il 26’.

Non c’era nessun motivo per cui rimanere stupiti. Era il minimo che potevano fare. Dentro sentì solo aumentare il gelo che copriva il suo cuore; ancora con il bigliettino in mano non poté far a meno di fissarlo e accertarsi di aver letto bene. Non c’era nessun dubbio, la calligrafia parlava chiaro: quel giorno sarebbe rimasta da sola.

Immersa completamente nella vasca da bagno piena d’acqua bollente, cercò di rilassarsi e pensare sempre meno a tutti quei problemi.

Jane trascorse tutta la giornata a ripassare capitoli che aveva imparato già alla perfezione. Non sapeva che altro fare visto che, di solito, la Vigilia di Natale, non si ripete assiduamente l’etica di Platone. Invece, quell’anno, andò così: invece di telefonare ai parenti per augurargli buone feste, spiegava a voce alta ogni passaggio e ogni concetto proprio con la scioltezza che avrebbero avuto due amiche nel parlare di shopping. Amiche. Quel giorno lo avrebbe dovuto passare a casa di qualcuno che le voleva bene, che la considerava più che la secchiona di turno. Si era arresa davanti a quel fatto: la sua bravura le si rivoltava contro ogni volta. Non l’avrebbe chiamata nessuno per farsi una passeggiata per le strade di una meravigliosa Seattle addobbata di luminarie natalizie. Dalla finestra della sua camera vedeva brillare la città come un gioiellino nella più lussuosa delle collane.

L’ora di cena era passata da un pezzo, aveva mangiato solo un po’ d’insalata. Fuori iniziò a nevicare.

Il grande orologio in soggiorno la avvertiva che mancavano dieci minuti a mezzanotte. Corse in camera sua, prese dall’armadio un grande piumone, una coperta, un cuscino e la fotografia. Tornò di nuovo in soggiorno, stese il piumone ai piedi del grande albero di Natale che aveva fatto la colf qualche giorno prima, ci si distese sopra poggiando la testa sul cuscino e si infilò sotto la coperta. Tra le mani aveva la fotografia della madre.

Mancavano cinque minuti a mezzanotte.

Con la manica del pigiama lucidò accuratamente la foto per osservare meglio il soggetto; quel soggetto ormai che sognava la notte, desiderava di giorno e si immaginava di continuo. Quel soggetto che sapeva che non avrebbe mai conosciuto. Quel soggetto che diventò tutto a un tratto appannato a causa delle lacrime che prendevano il pieno controllo degli occhi di Jane. Lacrime che non perdonavano, ma scendevano, inesorabili, per urlare una realtà troppo dura ma vera come il suo senso d’infelicità, della voglia che aveva di scappare da tutto e vera quanto la voglia di avere sua madre vicino, in quel momento.

Mancava un minuto a mezzanotte.

Jane si addormentò sotto l’albero pieno di luci colorate con l’immagine nella mente di lei e sua madre abbracciate.

Era mezzanotte.

Il mondo finalmente scartava i regali tanto attesi.



* * *



Più che l’essere rimasta a casa da sola, in ore che avrebbero dovuto essere spensierate ed esenti da qualsiasi problema legato alla solitudine, a rattristare Jane erano le scene che si svolgevano sotto casa sua, nel parco che, oltre a essere il più grande della città, era considerato anche il più bello.

Passò parte del pomeriggio in piedi, con una tazza di cioccolato bollente tra le mani infreddolite e con gli occhi che scrutavano varie zone del parco come avrebbe fatto qualcuno troppo curioso con un binocolo dalla sua camera, con le due lenti nascoste tra le pieghe della tenda per non essere scoperto.

Nessun film, nessuna rimpatriata a casa di amici e parenti per passare insieme il pomeriggio o fare una qualsiasi cosa divertente.

In quel momento un bambino cadde violentemente a terra durante una partita a calcio e Jane ebbe un sussulto.

Spostò gli occhi poi su un altro gruppetto di bambini che giocava a quello che sembrava essere il classico guardie e ladri: ce n’era uno tra questi che teneva un cappello da sceriffo in testa e teneva in mano un ciocco di legno un po’ arcuato in avanti come fosse una pistola. Si aggirava per le viuzze del parco con fare vigile e diffidente, passi decisi e felpati, lanciava occhiate veloci e fuggevoli in ogni angolo pronto a scovare i suoi coetanei, improvvisamente trasformati in famosi ladri pericolosi per l’umanità. Il bambino si infiltrava tra gruppi di mamme, tra gli altri bambini che non erano stati inclusi nella missione, si arrampicava sulle giostre e li cercava all’interno degli scivoli a tubo, magari qualcuno si era nascosto lì dentro e non sarebbe uscito fino a rimanere l’ultimo ladro in circolazione, vincendo così il turno. Quando poi qualcuno usciva allo scoperto, il bambino poliziotto lo rincorreva a perdifiato puntandogli la fantomatica pistola e fingendo di sparare colpi a raffica, necessari per bloccare la corsa fuggiasca del nemico. L’altro bambino però, il piccolo ladruncolo, fu così rapido nel correre che fu il più veloce tra i due a raggiungere la base scelta o come zona d’arrivo per il poliziotto che aveva arrestato il ladro o come meta da raggiungere dai ladri per essere immuni alla giustizia.

Un altro gruppo di bambine giocava con alcune bambole e questo le ricordò che non aveva mai partecipato a un divertimento simile.

Andare avanti con quel vuoto incolmabile dentro che si portava ormai da anni rappresentava la sua guerra più dura. Non aveva conosciuto le emozioni più semplici, non aveva acquisito la mente di una ragazza cresciuta, maturata, ma aveva una specie di grande rimpianto che voleva in ogni modo, senza riuscirci, far sparire cancellando di conseguenza alcuni tratti, più tristi che dolorosi, della sua infanzia ormai perduta.

Spingersi oltre fino a sfiorare il pensiero di ricevere un gesto di affetto era una specie di visione irraggiungibile, una fantasia malata, un’immaginazione drogata. Da che aveva memoria, Jane non ricordava nessun gesto di affetto nei suoi confronti da parte della bestia. I rari discorsi che si consumavano a pranzo o a cena non andavano spaziando in certe tematiche interessanti che avrebbero potuto raccogliere le osservazioni di tutti, confrontandole, elogiandole, criticandole, così come non venivano mai trattate certe problematiche che potevano andare dalla giornata al liceo, fino a parlare di qualcosa di più intimo, addirittura.

Non aveva capacità di relazionarsi all’interno di qualsiasi gruppo e non aveva il cuore pieno di motivi per vivere, per andare avanti, per reagire e combattere: si batteva semplicemente per cause naturali.

Del cuore sapeva che nell’arco di ventiquattro ore ci passavano quattromila litri di sangue, che in settant’anni di vita, in media, un cuore si contraeva e si rilassava due miliardi e mezzo di volte pompando cinque litri di sangue attraverso circa novantasei mila chilometri di vasi sanguigni, ma non sapeva cosa fosse un tuffo al cuore; poteva spiegare nei minimi dettagli medici un infarto, dato che lo aveva approfondito a seguito di alcune ricerche, ma non aveva mai avvertito il batticuore davanti a una persona di cui era innamorata.

Non sapeva che quell’organo così complesso quanto indispensabile potesse contenere infinite emozioni e che, oltre a tenerci vivi, avesse anche il potere di essere la cassaforte più sicura del mondo, impossibile da violare: ci si potevano riporre ricordi indimenticabili, frasi e parole pronunciate da certe persone, gioie conquistate, l’immagine del primo bacio, la prima volta che ci siamo spogliati davanti a qualcuno che amavamo. Jane Madison non aveva mai usato quel muscolo involontario per amare, aveva imparato a usare solo la fredda ragione che, con le sue indiscutibili risposte, riusciva a risolvere brillantemente ogni tipo di problema. Il cervello riusciva a rassicurarla, a tenerla al sicuro grazie alle teorie, ai ragionamenti, a un’indistruttibile logica che spesso non aveva solide basi, ma serviva giusto per una serenità mentale forte abbastanza da farle accantonare la tristezza gridata dal cuore. Per ogni domanda che si poneva aveva trovato risposte che, fino a quel periodo, le erano sempre andate bene, ma crescendo le cose stavano cambiando repentinamente e non era più tanto semplice accontentare l’organo che, fino ad allora, era rimasto puramente anatomico.



* * *



Aprire gli occhi quella mattina sarebbe stato completamente diverso dalle altre volte.

Jane rimase qualche minuto sdraiata nel letto con un gran vortice di pensieri che le turbinò a gran velocità, senza sosta.

Ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina prima di iniziare la giornata, aveva l’abitudine, o meglio, l’estrema necessità di incrociare lo sguardo di sua madre che era stata immortalata in quella che pareva una delle sue migliori espressioni. Era la stessa fotografia che, il giorno della vigilia di Natale, tenne stretta al petto, come se avesse voluto abbracciarla davvero.

Quella mattina, come se lo sguardo della madre avesse avuto lo strabiliante potere di leggere qualsiasi segreto della figlia attraverso il consueto e abitudinario sguardo mattutino, la ragazza decise di fare un’eccezione, la sola della sua vita, e non fissare a lungo gli occhi che all’improvviso sembravano cambiati: parevano strillare di non realizzare nella maniera più assoluta l’unico e ultimo programma della giornata.

Per non sentire più l’incombente pesantezza di quell’impressione, Jane si alzò di scatto dal letto e si fiondò in bagno per farsi una doccia. Con lo scrosciare dell’acqua che puntò al centro della sua schiena, nel premere il flacone del bagnoschiuma, si accorse che la mano che ne avrebbe dovuto ricevere il contenuto per poi spalmarlo velocemente sul corpo stava tremando.

Una volta pronta si diresse verso il ripostiglio in cui Jolie era solita tenere tutti gli attrezzi che le servivano per la pulizia della casa.

Accese la luce, si accucciò fino a raggiungere, di fianco alla lunga scarpiera, la cassetta di acciaio nella quale Gary aveva riposto decine di cacciaviti, un trapano, centinaia di chiodi. La ragazza frugò tra i vari scompartimenti della cassetta e trovò quello che stava cercando.

Infilò l’oggetto in tasca e uscì di casa senza prendere le chiavi: non sarebbero servite.



* * *



Il parco era semideserto ma, se avesse aspettato anche solo un’altra ora, lo avrebbe visto popolato da decine di bambini che, correndo a destra e sinistra, le avrebbero fatto saltare il piano, o meglio, la soluzione finale.

Jane si addentrò nel cuore del parco cercando il luogo più isolato, per avere la certezza che nessuno l’avrebbe vista, così, nel giro di pochissimi minuti, raggiunse l’angolo più remoto.

Come sotto la doccia, anche in quel momento le mani presero a tremare, soprattutto la destra, quella che avrebbe dovuto operare con una lucidità e una freddezza impeccabili.

Era arrivato il momento.

Tutti quei giorni bui, in fila, come peccatori nella più vergognosa delle processioni, le si erano presentati alla mente e le stavano dando la forza necessaria per compiere l’ultimo atto, la grande uscita dalla scena miserevole e insopportabile che viveva da sempre. Diede un ultimo sguardo in giro, posò gli occhi sulla strada trafficata, su alcuni passanti che sfrecciavano sulle strisce pedonali, poi portò lo sguardo all’interno del parco e vide gli alberi, le foglie. Era quel blocco immenso nel petto che non le consentiva di apprezzare la bellezza di ciò che la circondava, così come gli occhi spenti, il cervello attanagliato da una routine durata anni, lo spirito atterrito, la vergogna e l’umiliazione che avevano preso il totale controllo della coscienza e del rispetto che aveva di se stessa.

Infilò la mano nella tasca del suo vecchio giacchetto e tirò fuori il taglierino che il padre non aveva mai utilizzato.

Quante volte si era addormentata piangendo, infelice della propria vita, desiderosa di una svolta che sembrava non arrivare mai; era pesante quell’attesa, più illusoria che pretenziosa, più stancante che speranzosa.

Gary e i suoi modi animaleschi, per non parlare degli ultimi tempi in cui il suo cervello, la sua umanità e la sua logica sembravano essere spariti nel nulla lasciando il posto a una persona senza scrupoli.

Con il pollice destro spinse in avanti il piccolo fermo per sbloccare l’arnese. Spinse ancora di più quel piccolo pezzettino di plastica nero che si trovava al centro del taglierino e fece uscire circa sette centimetri di lama. La mano prese a tremare più velocemente. Cercò di non farci caso: tenendo saldamente l’arnese, tolse la parte iniziale del guanto che copriva il polso sinistro. Ora quel delicato tratto di carne bianca era ben visibile. Avvicinando la lama alle vene poteva immaginarsi la scena, ma mai il dolore che avrebbe provato, la reazione del padre quando gli sarebbe giunta la notizia e in quanto tempo, dopo il fatale taglio, sarebbe morta.

Era questione di attimi. Di secondi. Bastava che il cervello inviasse il comando alla mano di fare pressione sul polso per poi strattonare all’indietro quel maledetto taglierino e tutto sarebbe finito. Lo strinse talmente forte da sentire dolore alle dita. Cominciò a sudare e nella mano avvertiva come un blocco che le impediva di eseguire il gesto. Forse non lo voleva davvero, forse era tutta una messa in scena e non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Forse avrebbe lasciato che il taglierino le cadesse dalla mano e sarebbe corsa a casa continuando a vivere la sua vita disastrata e magari aspettare passivamente un motivo per cui vivere.

Sarebbe bastato un attimo di più e forse avrebbe potuto ancora cambiare il destino, ma il peso di quegli anni era talmente insopportabile da farle crollare ogni speranza di sorreggere l’idea più straordinaria che le poteva giungere alla mente in quel momento: aspettare un domani migliore.

A denti stretti pronunciò le ultime parole.

“Mamma, arrivo”.

Con uno scatto, la lama fece attrito sulle sue vene a una velocità incredibile.

Dal polso iniziò a zampillare sangue.



* * *



Luce.

Fu questa la prima cosa che Jane, aprendo gli occhi, vide. Era la luce del paradiso, ormai era morta e finalmente il viaggio si era concluso. Adesso doveva farsi forza per alzarsi dalla superficie morbida sulla quale si trovava e andare a cercare sua madre. Avrebbe incontrato anche Dio? Stava forse scoprendo il grande segreto che nessun essere umano era mai stato in grado di svelare con certezza?

D’improvviso un insieme di voci si sovrapposero l’una con l’altra e Jane aprì definitivamente gli occhi avvertendo un forte dolore alla testa.

Guardò avanti a sé e si accorse di alcune persone che camminavano.

Non era il paradiso, ma un ospedale.

Inizialmente non capì perché fosse finita lì ma poi, vedendosi la fascia intorno al polso, i ricordi si fecero man mano più nitidi. Nonostante ciò, sia fisicamente che psicologicamente si sentiva abbastanza bene. Era solo un po’ stordita. In quell’istante entrò una dottoressa.

“Mi scusi” esordì debolmente Jane.

“Ti serve qualcosa?” domandò lei premurosa. Era una donna sulla cinquantina, con i capelli grigio chiaro.

“Mi chiamo Jane Madison e… volevo sapere…”

“Hai subito un grave taglio al polso mia cara, ti abbiamo trovata sul retro dell’ospedale, seduta sui gradini. Ricordi come ti sei fatta male?”

Jane fece mente locale ma, oltre quello che era successo al parco, non ricordò minimamente di essersi seduta sui gradini dell’ospedale che portavano all’entrata secondaria.

“No, mi dispiace”.

La dottoressa controllò la flebo.

“Quando potrò uscire? Dovrò rimanere tutta la notte?”

“Non avendo nessun documento non sapevamo se fossi maggiorenne o meno, ma un infermiere ti ha riconosciuta e ha chiamato tuo padre. Sai, sono amici di vecchia data” spiegò la dottoressa.

La ragazza chiuse istintivamente gli occhi e si maledisse.

“Dottoressa, il fatto è che mio padre non…”

“Era di rientro dalle feste natalizie. Sta arrivando” concluse. La donna sorrise e uscì dalla stanza dopo che un’infermiera la chiamò.

Nel giro di qualche minuto Gary arrivò.

Jane si alzò dal suo letto grazie anche all’aiuto della dottoressa che, mentre le porgeva il braccio come sostegno, si accertava continuamente del suo stato di salute. Facendo un passo per volta, Jane sentiva che il mal di testa era diminuito parecchio rispetto al suo risveglio.

La dottoressa prese in mano il giacchetto di Jane sporco di sangue.

“Mi dispiace che tu debba rimetterti questo” disse porgendoglielo delicatamente. La ragazza quando vide le chiazze rosse inorridì. Ancora doveva realizzare di essere viva.

“Sua figlia è stata veramente fortunata. Se non fosse venuta all’ospedale in tempo, non voglio neanche immaginare cosa le sarebbe potuto accadere” spiegò alla bestia che non la finiva di guardare male la figlia. Ancora una volta si era messa nei guai e lui era costretto a vestire i panni del bravo genitore.

“Purtroppo queste brutte cose succedono. L’importante ora è che sia tutto a posto”.

Con la mano lurida di falso affetto le scompigliò i capelli.

“Ovviamente. L’unica cosa che non riesco ancora a capire è come abbia fatto a raggiungere l’ospedale senza che nessuno l’aiutasse”.

Entrambi si girarono verso Jane per ricevere risposta.

“Mi sono fatta male qui vicino, ecco perché ce l’ho fatta. Solo all’ultimo, come ha detto lei dottoressa, mi sono seduta sui gradini dell’ospedale. Non è stato nient’altro che un forte giramento di testa” disse lei sorridendo.

Gary sorrise debolmente, ma era chiaro che si trovava spaesato e non sapeva come reagire.

“Aspetta un momento, adesso che ci penso tu avevi una specie di bandana stretta al polso” disse la dottoressa socchiudendo gli occhi per ricordare meglio.

“Come hai fatto ad applicarla così bene sulla ferita? Era stretta al punto giusto e ha bloccato l’emorragia: se non lo avessi fatto subito dopo l’incidente avresti perso troppo sangue e saresti svenuta perdendo i sensi. C’era il rischio che tu…”

“È stato il nostro Signore” disse Jane per tagliare corto.

Gary, dopo quell’affermazione, prese la figlia per un braccio e se ne andò senza neanche salutare la dottoressa che, perplessa, rimase al centro della sala d’aspetto a fissare i due che si allontanavano.



* * *



“Non saprei dirti se avessi potuto farti più stupida di così. Mi spieghi come cazzo hai fatto a finire in quell’ospedale di merda?”

Jane guardava fuori dal finestrino e sentiva pulsare leggermente il polso ferito.

“Mi sono fatta male”.

Gary la guardò per un attimo.

“Mi prendi per il culo? Si era capito che non ci fossi andata per farti una messa in piega, Jane!”

“Ero uscita a farmi una passeggiata, ho sbattuto il polso e mi sono fatta male”.

“Bella spiegazione, complimenti”.

Forse quella fu la conversazione più normale avuta con il padre in tutta la sua vita. Nonostante avesse torto le piaceva conversare con lui senza essere attaccata con parolacce e insulti tanto da farla piangere.

“Tu, comunque sia, per una settimana, te ne stai a casa così non combini altri guai”.

La settimana di detenzione casalinga passò molto lentamente, tanto da costringere Jane a ripassare tutti gli argomenti che le erano piaciuti di più, anche se era stanca di domandarsi come fosse stato possibile quel finale del tutto inatteso al suo piano.



* * *



Si stava facendo notte.

Presa da un senso di noia e considerato il fastidioso silenzio in cui era sommersa la casa, Jane approfittò della fine della punizione imposta dal padre per scendere e farsi una passeggiata. Decise di entrare nel parco e dirigersi verso il posto in cui aveva tentato di togliersi la vita. Quando giunse nello stesso fazzoletto di terra in cui aveva raccolto il coraggio necessario per far saettare la lama d’acciaio contro il suo polso, realizzò di sentirsi come un fantasma che visita luoghi a lui appartenuti, quand’era ancora in vita, quando ancora tutto era possibile. Chiuse un momento gli occhi come per richiamare alla mente, in ordine cronologico, tutte le immagini e le azioni eseguite quel giorno, un po’ come se avesse voluto analizzarne i punti salienti, i punti critici, i punti in cui qualcosa poteva andare diversamente e visse quella sensazione che, mentre teneva in mano l’arnese di suo padre, non l’aveva abbandonata un solo istante: la consapevolezza di poter incontrare, una volta suicidatasi, sua madre. Se quel piano avesse funzionato, non avrebbe avuto mai più l’opportunità di crescere, diventare una donna, abbracciare i suoi giorni migliori e quelli più difficili, avrebbe perso qualsiasi battaglia che la vita le avrebbe srotolato davanti, avrebbe rinunciato volontariamente a tutti i soli che sarebbero sorti per regalarle giornate felici; non avrebbe vissuto il tanto sognato e sperato amore che, come un’entità sfuggevole e timida, si nascondeva ai suoi occhi.

Esiste una giustificazione al suicidio? Anche non trovando una risposta adeguata, né tanto meno oggettivamente accettabile a quel dubbio, cercò di valutare la motivazione che l’aveva spinta a tagliarsi le vene.

Scosse la testa non riuscendo a cancellare domande e visioni: il sangue che zampillava fuori dal polso, la testa che cominciava a girare e… e poi? Sembrava che il resto fosse stato cancellato segretamente da qualcuno. Cos’era successo durante quel lasso di tempo? La dottoressa aveva detto che l’avevano trovata seduta sui gradini dell’ospedale.

“Cosa ci fai qui a quest’ora?” Jane si voltò all’improvviso spaventata.

“Non dovresti girare da sola di notte. Potrebbe essere pericoloso”.

Il cuore le cominciò a battere forte; si rese conto che per fuggire doveva passargli per forza davanti. Quello che fece però fu rimanere perfettamente muta e immobile davanti a lui.

Il misterioso ragazzo la guardò. Aveva gli occhi di un marrone scuro quasi da sembrare neri. Gelarono completamente i suoi.

Notando una strana espressione sul volto del giovane sconosciuto, la ragazza cercò di organizzare un piano di fuga valido ed efficiente, ma non c’erano molte possibilità di attuarlo. La sua paura più grande era di essere placcata non appena gli fosse sfrecciata accanto per andarsene.

Guardando a terra, cercò comunque di camminare verso l’uscita a passo lento, come se non esistesse.

“Te ne vai? Non voglio mica mangiarti”.

Il suo era un tono sicuro. Era ancora contro quell’albero. Con le mani in tasca.

Jane affrettò il passo e con la paura addosso riuscì a passare davanti al ragazzo senza essere placcata, né ostacolata in alcun modo. Con la coda dell’occhio vide però uno strano movimento di lui, come se con la schiena si fosse dato una spinta contro il tronco dell’albero per riacquistare la posizione naturale e camminare verso di lei.

Questo bastò per far correre Jane all’impazzata verso l’uscita. Metteva un piede davanti all’altro a una velocità che non avrebbe mai scommesso di avere; stava gridando aiuto, ma il parco era praticamente deserto.

Sentì alcuni rumori dietro di sé e cercò in ogni modo di accelerare ancora di più; una volta fuori virò a sinistra, attraversò la strada e sfrecciò verso casa a perdifiato.

Nel giro di pochissimi minuti si ritrovò segregata in cameretta, con il fiato corto e la schiena sudata. Si tolse il giacchetto, lo lasciò cadere a terra e andò alla finestra.

Sbirciò fuori, nei pressi del parco, ma non vide nessuno.



* * *



La mattina seguente decise di farsi una passeggiata.

Anche se c’erano molti ragazzini che correvano all’impazzata, sarebbe stato ugualmente un momento perfetto per abbandonarsi a qualche passo all’aria aperta, non pensando a niente di particolarmente impegnativo o preoccupante.

Per buona parte del tempo rimase seduta su una panchina al lato del parco e, quando si accorse che si era fatta ormai l’ora di pranzo, decise di andarsene, ma un attimo dopo si sentì chiamare.

“Ehi!”

Si girò. Era lo stesso ragazzo che il giorno prima cercava la sua attenzione. Gli diede le spalle e camminò a passo svelto.

“Ma perché scappi quando mi vedi? Non voglio mica mangiarti!”

Con la testa bassa e gli occhi che sembravano scannerizzare qualsiasi cosa ci fosse a terra, finse di non sentirlo. Si alzò di scatto.

“Devo dirti una cosa. Aspetta!”

Automaticamente, come se quelle parole fossero cariche di una magia a lei estranea, avvertì un misto di curiosità e prudenza a cui sapeva di non voler resistere; fece uno sforzo e irruppe ugualmente in casa. Appena entrata si affrettò ad andare alla finestra per spiarlo come l’ultima volta. Non c’era più.

Si trattava del solito ragazzo in cerca di divertimento?

Fin dal giorno prima si rimproverava per non riuscire a controllare e gestire alcune parti del suo carattere che, scagliate verso gli altri, soprattutto se sconosciuti, non le procuravano altro che figuracce distorcendo la sua immagine. Ritornando al momento in cui il ragazzo aveva dichiarato di avere qualcosa da dirle, si rese conto che la sua reazione, anche se prudente, aveva finito per essere esageratamente diffidente, sfiorando così quello che odiava: la maleducazione.

Affacciata alla finestra per un altro quarto d’ora, lo intravide passeggiare con la testa abbassata, gli occhi spenti, ignorava tutti i bambini che gi sfrecciavano accanto. Senza contare il fatto che ce n’erano alcuni davvero impertinenti. Correvano proprio nella sua direzione e, se non fosse stato per lui che si spostava velocemente ogni volta, lo scontro sarebbe stato inevitabile; non ci fece caso più di tanto perché era presa dalle emozioni che le giravano in corpo. Perché quella strana paura che aveva di lui si era trasformata in curiosità? Decise di fare, una volta tanto, come le pareva. Senza la maledetta bestia che le ordinava o le vietava qualcosa. Quel ragazzo le aveva messo così tanta curiosità da creare un conflitto tra Jane e la sua timidezza a tal punto da far combattere, per la prima volta in vita sua, la ragazza contro se stessa.

Diede un’ultima occhiata alla finestra e lo vide seduto su un’altalena. Scendendo sentiva di nuovo la paura iniziale. Era la prima volta che stava andando lei da un ragazzo. Non era mai successo ed era convinta che non sarebbe mai capitato. E invece quella volta era diverso. Si era stancata di essere prigioniera di se stessa e della vergogna e per una vita era stata ingiustamente la schiava di suo padre. Adesso basta. Con quella piccola follia, voleva andare contro ogni regola.

Raggiunto il parco cercò di non dar troppa importanza al tremore delle gambe e si cimentò a raggiungerlo. Un po’ sorpresa di vedere sopra le altalene due ragazzini abbastanza in carne che cercavano di dondolare in avanti e indietro aiutandosi con le gambe, si chiese dove si fosse cacciato. Non riusciva a individuarlo. Girò per il parco per più di mezz’ora guardando in tutti gli angoli, ma niente. Era sparito. Jane decise di dare un’occhiata anche nel famigerato posto in cui aveva deciso di farla finita, ma lui sembrò essersi volatilizzato e così, inaspettatamente delusa, se ne andò.



* * *



Le aspettative riguardo alla giornata successiva non erano tanto migliori delle solite: Gary e Ginger erano partiti di nuovo chissà per dove e, a casa da sola, si stava annoiando a morte. Aveva già completato e studiato la relazione di chimica, quindi la mattina venne consumata davanti alla televisione. Ogni tanto si andava ad affacciare alla finestra per accertarsi che il ragazzo misterioso non fosse in giro per il parco.

Appena finito di pranzare, Jane non sapeva come avrebbe potuto passare il resto della giornata. La noia era arrivata davvero al limite quindi, alla fine, decise di ripassare quello che aveva studiato.

A un certo punto, passando davanti alla camera della bestia per andare nella sua, Jane notò con grande sorpresa che la porta era semichiusa. Con un po’ d’esitazione decise di entrarci, cosa che le era stata severamente proibita, un po’ come la sala di musica che non poteva essere frequentata dai non addetti. Entrando non poté fare a meno di guardarsi alle spalle. Aveva il terrore di vederlo entrare, anche se sapeva benissimo che era impossibile: in quel momento solo Dio poteva sapere dove fosse.

L’emozione era simile a quella dei ragazzi che provano a fumare in soffitta cercando e sperando di non essere scoperti dai genitori. Prendono con mano tremante l’accendino, lo attivano e lo portano, incerti, vicino alla sigaretta. Jane si trovava nella stessa situazione. Credeva che se un poliziotto l’avesse vista lì dentro l’avrebbe arrestata. Suo padre le aveva fatto venire il terrore di quella camera. Cosa poteva esserci di tanto segreto? Non se lo sapeva spiegare, era uno dei tanti misteri di quell’uomo e la noia di quella giornata la spinse a scoprirne qualcuno. Aprì le ante dell’armadio per sbirciare dentro e si accorse che in basso a sinistra c’era una piccola cassettiera che non aveva mai visto. Si mise in ginocchio e aprì delicatamente il primo cassetto, trovando subito qualcosa di interessante. Alla vista di una ‘Revolver 44 magnum’ si sentì gelare e invadere da un senso di agitazione. Jane chiuse immediatamente il cassetto cercando di far finta di niente e passare a quello centrale. Lo aprì e vide solo un mucchio di lettere. Erano disposte in modo disordinato e ne prese una a caso. La lesse velocemente.



San Francisco 17/02/83



Caro Gary,

il periodo che sto passando con te è a dir poco favoloso. Mi fai dimenticare di tutti i problemi che ho con mio marito. Ho commesso un grave errore a sposarlo! Quando lo chiediamo questo maledetto divorzio? Io non ce la faccio più. Anche tu mi racconti sempre che non sopporti più tua moglie, quindi è destino che dobbiamo scappare via insieme. Non ci posso credere che sei venuto a casa mia il giorno del vostro anniversario. Hai lasciato da sola tua moglie con il piccolo insetto, come la chiami tu. Che ridere! Le sta bene. Se fai così significa che non è una moglie che merita il tuo amore.

Sei da amare follemente.

So che non le dai tutte le attenzioni che dai a me.

È come se avessi due personalità e con me usi solo quella buona. Come dici spesso, tua moglie si merita il peggio di te. Ed è giusto che tu glielo dia. Ora ti saluto. Ci vediamo mercoledì. Ti aspetto. Un bacio.



Con affetto, Katherine.



Gli occhi erano fissi sulla strana grafia della donna.

Lo sguardo di Jane percorreva ogni lineamento e analizzava ogni singola parola. Mentre rileggeva per la quinta volta la lettera le si formarono alcune immagini in testa, sfocate; suo padre che estrae la lettera dalla busta, i suoi avidi occhi divorano ogni pensiero perverso scritto dalla donna, sulla sua bocca nasce un malizioso sorriso; come se fossero quelli di un ventenne i suoi ormoni crescono, si moltiplicano. Nessuno sa che non vede l’ora di incontrare Katherine per prenotare di nuovo quella camera d’albergo, per bere champagne nudi, nella vasca da bagno ricoperta da petali di rosa, petali finti, di plastica. La donna dal seno prorompente che s’immerge con lui nell’acqua bollente, i seni in faccia, lei che lo lecca dappertutto, lui che tira la testa all’indietro e si lascia andare, la perversione nei primi giochi erotici, le lancette dell’orologio non esistono più, il tempo si è trasformato in un’inutile banalità e ogni cosa è al suo posto, proprio come quella stupida moglie che aspetta a casa e che dovrebbe passare il resto del suo tempo a pulire e stendere panni: per quello serve una moglie.

Il ruolo di brav’uomo, anni prima, gli era riuscito davvero bene; sua moglie, all’epoca, aveva ceduto veramente all’uomo che sembrava essere il suo, quello che si incontra una volta e mai più.

Poi rilesse la città: San Francisco. Gary più di una volta aveva spiegato a Jane, a male parole, che si erano trasferiti a Seattle dopo l’incidente fatale costato la vita alla povera donna di casa. Il dolore, stando alle sue parole, era così acuto che ogni cosa di quella città, ma soprattutto di quella casa, le ricordava lei e andare avanti così era impossibile. Ma se quello che aveva scritto Katherine era vero e cioè che se la spassava con lei, non era vero che la bestia amava sua moglie, anzi, la odiava! Quindi, era impossibile che avesse sofferto così tanto.

Qualcosa non quadrava circa la motivazione del trasferimento.

Qualcosa di molto grande.



* * *

Jane scoprì molto del passato del padre che prima le era totalmente sconosciuto.

Non immaginava neanche che avesse tutte quelle donne pronte a sposarlo, pronte a scappare con lui e a lasciare i propri mariti. Cosa aveva di affascinante suo padre? Non riusciva proprio a capirlo. Perché invece, da quanto capiva dalle lettere, con sua madre era un mostro? Se era vero che una parte buona ce l’aveva, perché non l’aveva usata con l’effettiva moglie? Questo restò un mistero fino a quando Jane non lesse altre decine e decine di lettere, scoprendo così lati di queste donne che, negli scritti precedenti, non erano emersi. Da quanto si poteva dedurre, erano donne dipendenti da droghe, da uomini, donne sole da anni, vedove o infelici con il proprio marito. Erano queste le caratteristiche principali di chi impazziva per Gary. Si spiegò solo con la lettura incredula di quelle lettere perché lasciasse sempre sole le donne di casa. Le uniche che avrebbe dovuto amare e proteggere. Invece, nei vaghi e pochi ricordi di Jane, erano ancora vive le botte che riservava alla moglie. Sua madre a terra, molto spesso sanguinante e lui che, dopo averla presa a calci come aveva fatto con lei al night, finiva per ubriacarsi in chissà quale bar coi soldi che avrebbe potuto impiegare per comprare un misero giocattolo alla figlia. Lei, per quanto impotente, cercava di aiutare la mamma. Poi il vuoto. Non c’era nessuna figura a popolare quel gap che Jane, anche dopo essersi sforzata molto, non riusciva a ricordare. Mancavano dei pezzi, degli anelli fondamentali che agganciassero i ricordi di quei giorni terribili, fino al famoso incidente di cui parlava il padre e che lei non ricordava. Forse il dolore le aveva cancellato quel terribile ricordo. Era questo che Jane, tolte le pochissime foto, conservava della madre. Tutto il resto non lo ricordava.

Jane sciolse i capelli togliendosi l’elastico rosso che li teneva raccolti in una sinuosa coda e si grattò la nuca; la confusione che aveva in testa era indescrivibile; sperava che in quelle lettere ci fosse qualcosa che l’aiutasse a sapere altre cose che suo padre le aveva sempre tenuto nascoste, ma niente. Si lesse decine e decine di lettere di donne ninfomani che scrivevano con un linguaggio volgare e spesso provocatorio, un linguaggio che non lasciava spazio né a un po’ di passione né a un po’ di romanticismo.



Non appena Jane chiuse la porta della camera, sapeva benissimo di non poter rivelare a nessuno le due ore spese a leggere segretamente la posta privata del padre.

Gli interrogativi sull’intera faccenda sembravano moltiplicarsi senza freni; domande apparentemente senza risposte plausibili e fondate iniziarono a farle oscillare la testa. Fino ad allora aveva sempre trovato scuse ai suoi comportamenti: la violenza che usava con lei poteva essere uno sfogo, una grande rabbia che non riusciva a controllare se solo pensava alla moglie e al dolore provato dopo la sua morte. Ma adesso che sapeva qualcosa di più riguardo al suo oscuro passato, dopo l’uragano scatenato dalle lettere le sue ipotesi, già in bilico appena formulate, crollavano definitivamente. Jane aveva addirittura teorizzato che si fosse fidanzato con una tipa ridicola come Ginger perché, avendo avuto solo una donna nella sua vita, dopo tanti anni cercava di scaricare le sue pulsioni d’amore sull’unica donna che gli donava qualche attenzione, ma anche questa conclusione ora era completamente priva di senso.

Quelle lettere avevano vanificato ogni conoscenza che Jane possedeva sul conto del padre; avevano messo a nudo un uomo colmo di peccati e cattiverie. Stava visualizzando le sue mani, leggermente rugose, ma forti, che avevano toccato decine di donne sole, di donne che lo usavano per sesso e soldi. S’immaginava sua madre sola seduta sul divano, davanti alla televisione accesa, mentre fuori la pioggia batteva forte contro San Francisco.

Lui non c’era.

Lei rimaneva a casa, anche durante il weekend. Intanto le lancette dell’orologio correvano veloci, il tempo di Grace si stava prosciugando e lei non si stava godendo niente della sua vita; quelle lancette, con precisione millimetrica, raggiunsero a gran velocità la sua ora, quella maledetta ora in cui si consumò l’incidente letale che la strappò via dalla faccia della terra.

Il tempo da quel momento in poi non aveva più senso.

Gary non aveva più senso.

E nemmeno Jane.

Grace era morta.

Tutto era finito.

Gioie e dolori.

Jane chiuse un attimo gli occhi, anche se percepiva il vuoto totale intorno e dentro di lei. Decise di scendere a fare l’ennesima passeggiata nei paraggi di casa per distrarsi.

Evitò di andare al parco, non aveva la minima intenzione di incontrare, se c’era, quel ragazzo che sembrava cercare disperatamente la sua attenzione.

Era una fantastica giornata e non faceva tanto freddo. Il cielo era vestito d’un azzurro chiaro e delicato, qualche nuvola bianchissima di passaggio lo accarezzava. Tutto dava l’impressione che fosse una bella e felice giornata, ma la ragazza dai capelli d’oro continuava a sentire dentro una sensazione di disagio assoluto. La verità che aveva appena scoperto, unita alla consapevolezza che quelli erano giorni in cui avrebbe dovuto essere morta, le provocava un notevole disorientamento. La cosa che le dava più angoscia e felicità allo stesso tempo era il pensiero che in quel momento, se fosse morta dopo quel pericoloso gesto, si sarebbe trovata con sua madre.

Il pessimismo, senza che se ne accorgesse, le si era già infiltrato ovunque come un orribile tumore che lancia le sue metastasi mortali; lo sgomento di Jane lasciava trasparire un senso d’ingiustizia inaudito e produceva pensieri terribili: come batteri, erano capaci d’infettare ogni suo sforzo di sollevarsi, svalorizzavano la voglia di andare avanti che pian piano cercava di costruirsi; quel vento freddo, incessante, soffiava ovunque lei andasse ed era talmente freddo da distruggerle, come castelli di sabbia, tutti i progressi, tutti i passi in avanti e le prospettive di non arrendersi.

La tragedia più grande risiedeva sulle sue labbra.

Tutti se ne sarebbero potuti accorgere.

Non sorrideva più.



* * *



Sovrappensiero, Jane era arrivata davanti al parco.

Dubitò se entrare o meno perché accarezzava sia il timore di incontrarlo, sia la curiosità insistente di saperne di più sul suo conto, come farebbe un investigatore pignolo quando, correlato al caso irrisolto di una vita, spunta quello che per lui è un nuovo e prezioso indizio. Si mise seduta su un’altalena e cercò di rilassare le gambe. Guardò il taglio sul polso e lo fissò per una manciata di secondi. Si era rimarginato del tutto e ancora le faceva strano pensare che da quei sei centimetri circa di ferita si sarebbero potuti dileguare 21 anni di vita.

Cercando di allontanare quei pensieri, si concentrò su qualcosa di meno spiacevole, ma quella battaglia mentale si consumò senza un vero e proprio risultato soddisfacente.

Si era già fatto buio, i bambini ormai erano spariti, trascinati via sicuramente dalle mamme annoiate che gli ricordavano che si era ormai fatta ora di cena e che il freddo era ormai davvero insopportabile. In effetti anche il vento iniziò a farsi sentire e Jane, alzandosi, decise definitivamente di chiudere lì l’uscita pomeridiana.

Improvvisamente sentì un rumore alle sue spalle. Si girò di scatto con il cuore in gola. Un gattino camminava tranquillo dietro di lei, ignaro di tutto. Lo guardò poi arrampicarsi agilmente su un albero. Tirò un sospiro di sollievo e sorrise.

Girandosi, però, si trovò davanti l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento.



* * *



Una pioggia di terrore le cadde addosso. Pietrificata dalla paura, si accorse che il ragazzo che tanto cercava di evitare le era comparso davanti come d’incanto, a pochi metri. D’istinto Jane affondò il suo sguardo negli occhi del misterioso ragazzo immobile, ma avvertì subito un senso d’angoscia che l’avvolse in una soffocante stretta. L’idea di affrontarlo e il coraggio di sconfiggere le sue paure sparirono.

Nonostante la curiosità iniziale, mai avrebbe voluto trattenersi un secondo di più, ma lui, rimanendo in piedi, sembrava volesse sbarrarle la strada; quello sguardo di ghiaccio, fisso e incollato al suo corpo, la inquietò.

“Ci si rivede” esordì lui con un tono basso.

La sua voce le entrò nel corpo e sembrò congelarla.

Cercò di abbozzargli un sorriso.

Sapeva che, se fosse stata in grado di sostenere quella conversazione, probabilmente se la sarebbe cavata con le parole, magari avrebbe potuto trovare una scusa e abbandonare quel maledetto parco, ma vederlo lì davanti, in piedi, a pochissimi metri, provocava una feroce sensazione che vietava l’uso della parola, a favore di un indecifrabile silenzio.

Avrebbe voluto scappare via il più velocemente possibile, ma le gambe, come colonne di cemento, non le avrebbero permesso una corsa fluida.

A illuminare il ragazzo malintenzionato c’era un solo lampione basso che, proiettando una luce ingiallita, sembrava messo in quella posizione appositamente da un famoso regista impegnato nella realizzazione del suo nuovo film horror.

“Hai perso la lingua?” stuzzicò lui inclinando leggermente la testa verso destra.

Jane scosse il capo.

“Allora perché non mi parli? Dì, ti ho fatto qualcosa?”

Jane contò fino a tre. Poi sarebbe scappata.

“Allora?” continuò lui. “Non rispondi?”

Uno.

Il ragazzo sorrise e nella sua espressione sembrò esserci un misto tra pena e rabbia.

Due.

“Se parliamo un po’ non ti mangio mica, ceno a casa non preoccuparti!” disse e, per ridere, il ragazzo buttò la testa all’indietro e si lasciò andare a una sonora risata.

Tre!

Jane scattò dal suo posto con gran velocità e iniziò a correre, anche se sentiva le gambe ormai atrofizzate dalla paura. Per un attimo si preoccupò addirittura dell’andatura goffa e impacciata.

Ce l’aveva quasi fatta. Stava prendendo sempre più velocità quando a un certo punto il ragazzo, ormai alle sue spalle, gridò qualcosa.

La paura che attanagliava Jane si trasformò in un sentimento di confusione, ma anche di profonda e immediata riflessione.

La sua corsa si ridusse a un passo veloce, fino ad arrestarsi del tutto.



* * *

Gli dava le spalle.

Continuava a tenere gli occhi fissi sul cancello, ancora qualche passo e si sarebbe ritrovata fuori da quella che sembrava essere diventata la sua trappola. Come per alcuni processi che pretendono tempi precisi, anche lei si concesse qualche secondo per metabolizzare ogni parola che aveva appena udito. Si girò prima lateralmente, come per controllare la situazione con la coda dell’occhio, per poi girarsi definitivamente.

Ancora non si dissero niente. La ragazza si avvicinò a passi lenti, spogliata di ogni paura, concentrata su quello che adesso sembrava essere un ragazzo meno misterioso, meno straniero, meno nemico.

Quando si trovarono appena a qualche metro di distanza, Jane aprì la bocca come per chiedergli di ripetere quello che aveva detto, ma lui l’anticipò.

“Non importa se scappi ogni volta che mi vedi” ripeté il ragazzo riuscendo a usare le stesse parole di un attimo prima, “la cosa che conta è che tu non venga per fare quello da cui ti ho tirata fuori l’ultima volta”.

Jane sentì inumidirsi gli occhi, guardò quel giovane da una prospettiva nuova, riscoperta, più complessa sicuramente, ma anche più nuda, a un passo dalla verità, come quando una persona ci meraviglia con qualcosa che avremmo scommesso non sarebbe potuto uscire dalla sua bocca, o con un’azione che, ai nostri occhi inquinati dal pregiudizio, non avrebbe mai potuto appartenere a chi abbiamo prepotentemente avuto l’ardire di giudicare.

“Quindi tu…”

Il ragazzo si allontanò con qualche passo stanco dirigendosi verso lo scivolo più grande del parco giochi. Si sdraiò.

“Ho soltanto fatto quello che mi sembrava più giusto fare”.

Adesso che aveva realizzato a pieno il merito che quel ragazzo gestiva con evidente modestia, Jane gli attribuì una specie di significato invisibile a occhi esterni; vedeva solo lei la gratitudine spontanea con la quale lo aveva rivestito. Nei pochi giorni di convalescenza aveva avuto l’occasione, a mente fredda, di analizzare in modo minuzioso quello che aveva fatto e quello che aveva rischiato fino a rendersi conto d’aver commesso un grave errore. Inaspettatamente, però, aveva scoperto chi le aveva permesso di rimediare all’errore e, in quel momento, non poté far altro che osservarlo sdraiato sullo scivolo, con lo sguardo sparato tra le stelle.

Avvicinandosi, poté notare alcuni dettagli che, durante i minuti precedenti, attaccata da un senso di confusione e agitazione, erano abilmente sfuggiti alla sua attenzione: gli occhi profondi, il naso leggermente a punta, la bocca definita e carnosa, le orecchie minute e le marcate sopracciglia. Tutto questo disegnava un volto pulito e proporzionato al resto del corpo. Di colpo e senza motivo le vennero in mente dei compagni di classe: alcuni avevano teste enormi rispetto ai corpi gracili, alcuni lo strabismo di Venere, altri ancora avevano caratteristiche orribili, pessime espressioni, caratteri impossibili, voci rauche, occhi spenti. Guardare quel ragazzo fu come ricredersi sulla bellezza maschile, fu come lasciarsi andare e affermare tutto il suo fascino; non aveva di per sé particolari caratteristiche fisiche, ma era soprattutto il suo sguardo a disorientarla.

“Ti devo tutto” disse lei, come se quella fosse la conclusione del ragionamento mentale a cui lui non aveva assistito.

“Non l'ho fatto per ricevere qualcosa in cambio” rispose lui rimanendo sdraiato, con le mani intrecciate dietro la nuca.

“Mi hai salvato la vita”.

“Se non lo avessi fatto io, lo avrebbe fatto qualcun altro, non credi?”

“Non fare il modesto, il punto in cui....” la voce si spezzò. Riprese subito dopo pochi secondi. “Mi trovavo in un posto isolato. So per certo che non c'era nessuno perché avevo controllato in precedenza quindi se non…”

“Non fa più niente” disse lui rizzandosi a sedere. “L'importante è che sia andato tutto per il meglio, no?” Sorrise e, dopo un momento, si alzò in piedi.

“Il sangue…” riprese Jane con tono interrogatorio. Voleva vederci più chiaro. Parlare con gli sconosciuti, specie se uomini, le metteva un senso di ansia non indifferente, ma lui sembrava l’unica eccezione possibile. L’unica e la sola valida.

“Il sangue?”

“Non ti ha impressionato tutto il mio sangue? Non ti sei sporcato?” domandò velocemente.

“Non ce n'era tantissimo” si difese lui.

“Ma se ho perso i sensi!” sbottò Jane.

“Ti sembra necessario ora discutere sul come e perché? Non sei contenta di essere viva?”

Quella domanda retorica placò la sua angoscia e ammise di aver esagerato. Che motivo c'era di farsi tante domande?

Non si fidava di lui?

Decise di non farne più, anche se sfiorò il pensiero di fargliene un'altra, l'ultima: perché l’aveva lasciata sul retro dell’ospedale?



* * *



“Il cielo è pieno di stelle” se ne uscì lui tenendo la testa buttata all'indietro.

Jane imitò la sua posizione e si accorse che effettivamente il cielo aveva milioni di punti luce addosso, come un meraviglioso tappeto incastonato di preziosi diamanti.

“Bello, non trovi?”

“Molto” rispose lei. Lo guardava, ma ogni tanto chinava gli occhi in basso. Non avrebbe voluto sparargli tutte quelle domande insieme e a gran voce, come invece aveva fatto

“Ogni volta che alzo gli occhi al cielo mi viene in mente la storia che mi raccontò mia madre, molti anni fa” disse lui continuando a tenere gli occhi fissi sulle stelle.

“Se ne hai voglia puoi raccontarmela” lo incoraggiò Jane. Si sedette sull'altalena.

“Quando mia zia morì in seguito a una brutta malattia, non riuscii a dormire più come prima. Era tutto per me e appena la persi mi dissi che la sua mancanza mi avrebbe tormentato per sempre; avrò avuto circa otto anni e mia madre, quando per l'ennesima volta venne svegliata dai miei lamenti notturni, mi preparò una tisana e mi chiese se avevo voglia di vedere mia zia”. Il ragazzo sorrise.

“Che faccia avrò fatto non lo so, mi ricordo solo che gridai un forte 'sì'. Lei mi prese la mano, si diresse verso la grande finestra dalla sala e indicò il cielo. Mi disse: 'La vedi quella stella laggiù? Non puoi sbagliarti, è la più luminosa'. Io la fissai incantato e annuii. 'Quella è zia. Adesso si è trasformata in una stella. Ogni volta che vorrai la potrai guardare e salutare con il pensiero. Zia non se ne andrà mai da lì'”.

Il ragazzo distolse lo sguardo da Jane per alzarlo di nuovo al cielo.

“Non dimenticherò mai l'ingenua felicità che provai. Sapevo che in qualsiasi posto fossi andato, sarebbe bastato alzare la testa un attimo per guardarla quanto volevo. Questa dolce bugia riuscì a farmi calmare e a farmi accettare meglio la sua morte”.

Il sorriso che aveva tenuto per l'intera storia scomparve.

“È stata davvero molto delicata con i tuoi sentimenti” osservò la ragazza.

“Sì. Col passare degli anni ovviamente la bugia di mia madre non teneva più e di questo ho pianto. Avevo perso la fiducia in quella stella. Ho sempre apprezzato il suo gesto, ma alla fine l’ho pagato molto caro. Un po' come quando scopri che l'amato Babbo Natale non esiste” disse lui tornando a sorridere.

Anche Jane si addolcì. Lei in realtà non ci aveva mai creduto, ma questo non poteva dirglielo. Non poteva raccontargli, come aveva fatto lui, nemmeno un frammento della sua storia familiare. Gary, quando si avvicinava il fatidico giorno in cui si sarebbero dovuti scartare i regali, le ripeteva che doveva ringraziare il cielo di avere un tetto sopra la testa e il cibo tutti i giorni quando invece nel mondo c'erano tanti bambini che morivano di fame. La banale scusa serviva soltanto a farla sentire in colpa e a non farle desiderare nessun regalo; in questo modo non avrebbe speso un centesimo e tutti sarebbero stati più contenti, secondo il suo logico e perfetto ragionamento. Dopo svariati anni, Jane aveva perso del tutto la fiducia sia nella festa in sé, sia in un tentativo da parte del padre di cambiare atteggiamento e non per comprarle chissà cosa: bastava anche essere poco più gentili. Ma questo regalo, desiderato e gratuito, Gary non glielo aveva mai fatto.

“Quando guardo le stelle, però, una parte di me, la più nascosta, ancora è convinta che zia sia realmente quella stella. La più luminosa di tutte”. Il ragazzo lanciò un ultimo sguardo in alto, poi lo incrociò con quello della ragazza.

“A volte abbiamo bisogno di credere in qualcosa che non esiste, non trovi?”

“Sono perfettamente d'accordo” anche se avrebbe voluto aggiungere altre mille parole, Jane si limitò a un pensiero solo.

“Come ti chiami?” domandò d'un tratto lei.

“Io mi chiamo Noel” rispose dopo un attimo d’esitazione. “Scusami se non mi sono presentato prima”.

Jane si alzò dall’altalena dandogli la mano e lui l'afferrò avvolgendola nella sua.

La ragazza si accorse che, nel momento in cui le loro mani si toccarono, il suo sguardo si fece molto più intenso e nella luce che intravedeva nei suoi occhi intuì qualcosa che non andava, qualcosa di malvagio.

Lui serrò i denti e diventò serio.

All'improvviso Jane ebbe la terribile sensazione di essersi sbagliata sul conto di quel ragazzo.

Realizzò che Noel aveva iniziato a stringerle la mano con - forse - l'intenzione di non lasciarla più.



* * *



L’attimo in cui credette d’aver visto il male negli occhi di Noel sembrò infinito.

Quella forza in più che le era parso d’avvertire nel momento in cui le aveva stretto la mano, aveva avuto un effetto disastroso sul suo stato d’animo, ma sembrava ormai essersi acquietato.

“C’è qualcosa che non va?” le chiese Noel lasciandole finalmente la mano.

“No” rispose Jane con voce secca. Il cuore ancora batteva velocemente, però decise di non andarsene subito; sfidò se stessa e cercò di rimanere ancora davanti a lui per liberarsi della paura che, in qualche modo, le faceva vivere.

In quegli occhi scuri c’era tanto mistero; Jane sentiva un’attrazione verso di lui che non riusciva a spiegarsi razionalmente, come se d’improvviso avesse voluto sapere tutto di lui, ogni singola cosa, avrebbe voluto sapere di più sul suo passato, sulla famiglia.

Il conflitto d’emozioni che percepiva cercò di nasconderlo dietro atteggiamenti disinvolti. “Forse è ora di tornare a casa, che ne dici?” propose non sopportando più l’angoscia che le aveva preso lo stomaco.

“Io rimango ancora un po’ qui” rispose Noel.

Intrecciò le mani dietro la testa e tornò a fissare il cielo stellato.

“Non devi andare a cena?”

“Sì, ma a casa mia si mangia sempre molto tardi: è una brutta abitudine che ha imposto mio padre con i suoi scomodissimi orari di lavoro”.

“Io vado, allora” chiuse lei. Sapeva che sarebbe stato poco educato non andargli accanto per salutarlo, ma non ne se curò. L’idea di andargli vicino, talmente vicino e addirittura baciarlo sulla guancia, le sembrò assurda. Non ce l’avrebbe fatta ad affrontare quello sguardo freddo e penetrante e sicuramente non ce l’avrebbe fatta a sfiorare la sua pelle. Quando lo salutò con un cenno della mano e lui ricambiò, Jane fece per andarsene. Di passo in passo s’accorse che forse aveva sbagliato a essere così maleducata solo per aver dato ascolto alle sue paure egoiste, avrebbe dovuto farsi coraggio per salutarlo bene, anche se dentro sentiva un po’ di timore. Si fermò un istante dopo aver percorso una decina di metri, il battito restò veloce, non si era mai alterato. Si sarebbe scusata e con gentilezza gli avrebbe spiegato che non lo aveva salutato perché…

Jane si girò e lo scivolo era vuoto.

Noel non c’era più.



Si alzò dalla sedia quando entrò il professore di chimica.

Gli studenti che ormai si erano accomodati non ebbero la minima intenzione di imitare il gesto di Jane, nemmeno per sogno.

Il professore lanciò un'occhiata alla ragazza e le fece un sorriso.

"Grazie, puoi sederti” disse lui raggiungendo il posto in cattedra.

"La solita leccaculo” osservò Kris, posto centrale, prima fila. Il professore fece finta di non aver sentito.

"Ragazzi oggi dobbiamo assolutamente iniziare a spiegare la polarità della molecola” annunciò aprendo il suo manuale.

"Io vado a casa” sentenziò una ragazza mora. Si alzò dalla sedia e si diresse verso la porta.

"Paula, ti consiglio di ritornare al tuo posto dato che ti serve ascoltare questa lezione".

"Io invece ti consiglio di ritornare a casa dato che tua moglie starà scopando con il tuo migliore amico” ruggì lei sbattendo la porta. Qualcuno scoppiò a ridere.

"Pagina 348” annunciò lui un attimo dopo il prezioso consiglio della studentessa. Ovviamente nessuno aprì il libro, ma il professore iniziò a spiegare senza guardarli negli occhi. Rimaneva costantemente rivolto verso la lavagna, disegnava la sua graziosa cellula, scriveva le formule, gesticolava e restava, per tutta la durata della lezione, di spalle ai ragazzi.

Non appena Ashley si alzò dal proprio posto a Jane mancò l'aria per la paura.

"Piccola chimica delle mie palle, fuori i soldi” sbottò, sicura che il professore non si sarebbe girato.

Jane la guardò chiedendole pietà con lo sguardo.

"Avanti porca puttana, non posso mica starti dietro tutto il santo giorno” aggiunse agitando la mano protesa verso di lei.

La ragazza estrasse tre dollari dall'astuccio e, senza nemmeno porgerglieli, se li vide strappare via dalla sua nemica più agguerrita.

"Dammi anche la relazione” aggiunse Ashley.

"Quale relazione?"

La reginetta della scuola le diede un tremendo pizzico sul braccio.

"Non prendermi per il culo!” gridò lei.

Il professore aveva quasi finito la sua lezione.

"Va bene, va bene” si arrese. Dal quaderno estrasse la relazione che il professore aveva assegnato la settimana prima delle vacanze e che chiese subito dopo aver spiegato la polarità della molecola.

Ashley si alzò e con passo deciso lo raggiunse.

"Professore, questo è il mio compito” lo informò ponendogli sotto agli occhi il foglio ben scritto; Jane aveva approfondito gli argomenti, disegnato a mano le illustrazioni, inserito anche le parole esatte dei grandi chimici che parlavano dell'argomento in questione.

"Perfetto Ashley”.

Le guardò per un attimo la gentile scollatura che mostrava il seno poderoso e provocatorio.

"Come sempre sei l'unica che rispetta le mie consegne; se continui così ti porterò alla fine dell'anno con il massimo dei voti”.

"Grazie professore” concluse lei e, soddisfatta, tornò a sedersi.

"C'è per caso qualcun altro che ha avuto il buonsenso di portare la relazione che avevo chiesto di fare?”

Nessuno rispose e quindi il professore uscì dalla classe con la relazione di Jane tra le pagine della sua agenda.



Ashley si avvicinò con aria minacciosa chiedendo sempre la stessa cosa. Jane cercava inutilmente di opporre resistenza, ma riusciva a fare solo una debolissima obiezione che non avrebbe intimorito nemmeno una bambina. La reginetta le sferrò un calcio sulla tibia.

"Ashley, mi hai fatto male!” sbottò Jane toccandosi la parte colpita.

"Jane, non vorrai mica farti malmenare ogni mattina, lo sai tanto ormai come funziona: possibile che io debba sempre ricordartelo?"

"Ti prego dalle questi soldi” s’infastidì un ragazzo seduto qualche posto più avanti. "Sono due volte che te li chiede e due volte che fate storie. Paga e non stancare”.

Jane le diede cinque dollari che aveva trovato il giorno prima per puro caso tra alcune cianfrusaglie.

Ashley prese silenziosamente i soldi, si avvicinò al ragazzo che aveva osato mettersi in mezzo alle sue faccende e gli assestò una violenta ginocchiata sui genitali. Il ragazzo si piegò su se stesso e si accasciò a terra senza fiato.

"Da domani portameli anche tu un po' di soldi” aggiunse sistemandosi una ciocca di capelli fuori posto.

"Io non....” cercò di dire qualcosa, ma quando Ashley gli affondò pesantemente un piede in mezzo alle gambe, il ragazzo si affrettò a dire che avrebbe portato la grana già dal giorno successivo.

Quando la reginetta si mise a sedere le sue amiche la guardarono un attimo allibite, forse impaurite, poi parlarono l'una sopra all'altra pur di complimentarsi con lei.



* * *



La lettera dell'uomo che temeva di più in assoluto gli venne recapitata a mano da un giovane che, furtivo, si guardava intorno per essere sicuro che nessuno lo vedesse.

"Questa gliela manda il capo” informò consegnandogli una busta bianca; Gary la prese e se la infilò subito in tasca. "Nessun errore. La serata, non appena lui sarà qui, dev'essere perfetta. Se ti devi rifare questa sarà l’occasione giusta per rimediare agli errori commessi”. Il ragazzo se ne andò senza salutare, si limitò a sistemare il berretto che gli era calato da una parte. Gary digrignò i denti e tornò subito a casa nonostante fosse diretto a sbrigare un paio di faccende in centro. Si rifugiò in camera sua chiudendo a chiave la porta.

"Jolie non venire in camera, oggi non la pulire per niente, va bene?” disse estraendo la lettera.

"Sei sicuro Gary? Potrei anche…”

"No, oggi non devi pulire la mia camera!” gridò con foga. Sempre senza esagerare, non poteva superare i limiti con Jolie.

"La camera non la pulisco, ma quel tono non lo usare con me, mi sono spiegata?” rispose lei che stava dietro la porta della camera da letto per essere sicura di farsi sentire bene.

"D'accordo, d’accordo” aggiunse lui per chiudere in fretta la discussione. Quando sentì i suoi passi allontanarsi, finalmente poté dedicarsi alla lettera. L'aprì con l'emozione che si prova quando si legge o si tiene tra le mani qualcosa di incredibilmente proibito. Si accinse subito a leggerne il contenuto.



Tra una settimana esatta sarò di nuovo a Seattle. Devi rimediare agli errori fatti altrimenti, stavolta, non ti risparmio. Sai come farmi divertire. Giocati bene questa possibilità.

È l’ultima.

R.H



Sentì la faccia andare a fuoco. Ogni cosa dipendeva dalle mosse che avrebbe fatto, lui stesso era racchiuso nelle sue mani; una mossa sbagliata, solo una e sarebbe stato fatto fuori. Rütger era un uomo perfido, ma lo sarebbe diventato ancora di più se di mezzo ci fosse stato il profumo di una donna interessante. Era la sua peggior malattia, andava fuori di testa non appena ne vedeva una giovane e bella e se qualcuno, come Gary, per un motivo o per un altro gliel’avesse tolta da davanti gli occhi, si sarebbe infuriato. Si sedette sul bordo del letto sperando che il forte mal di testa si sarebbe placato nel giro di qualche minuto. Rimase senza fiato mentre il suo cervello intensificava i pensieri, creando solo centinaia di problemi, di domande senza focalizzarsi su ipotetiche soluzioni: come fare per accontentarlo? Qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe bastata? Avrebbe dovuto far ricorso a ogni sua capacità organizzativa, avrebbe pregato la fortuna e l'avrebbe implorata di non tradirlo; avrebbe ucciso tutti i suoi conoscenti pur di non fallire in quel delicato compito senza precedenti. Fece forza sulle ginocchia e si alzò nonostante la rabbia che aveva dentro pesasse una tonnellata. Raggiunse il suo armadio e fece per far scattare la serratura con la piccola chiave di bronzo, ma si accorse che qualcuno aveva aperto le due ante senza richiudere il mobile a chiave. Era stato chiaro da sempre con Jane, Jolie e Ginger: nessuno, per nessun motivo, in nessun'occasione, mai e poi mai avrebbe dovuto aprire quell'armadio. Tutte e tre avevano risposto che avrebbero mantenuto la parola. Gary socchiuse gli occhi e serrò i denti. Iniziò a respirare a fatica. Aprì di scatto l'anta e si accorse di qualcosa di agghiacciante relativo alla sua cassettiera. Il suo cuore batté all'impazzata e la gola gli si seccò in una sola manciata di interminabili secondi: un minuscolo triangolino di carta bianca usciva fuori dal terzo cassetto: qualcuno aveva frugato tra le lettere e adesso sapeva tutto sul suo passato.

Chiuse gli occhi e si disse che quella volta avrebbe ucciso qualcuno.

* * *



Per i corridoi sembrava di vivere un intervallo ininterrotto: i ragazzi giravano tranquillamente e, tra grida e schiamazzi, sprecavano le ore che avrebbero dovuto impiegare per imparare qualcosa. Come ogni giorno il suo sguardo finì inevitabilmente sulla porta della stanza proibita, quella in cui nessuno aveva il diritto di entrare. Quel velo di mistero affascinava Jane che, curiosa, andò a leggere un foglio affisso al centro della porta. Il messaggio era composto da un'unica frase che informava gli studenti della possibilità di partecipare al concorso musicale di fine anno che, da quando era stato effettuato il restauro, si teneva con cadenza regolare; gli invitati, fino all'anno precedente, erano stati sempre numerosi e molto soddisfatti dello spettacolo offerto, anche grazie a una delle più straordinarie musiciste del mondo: Sarah Kattabel. Una donna di quarant'anni che aveva rapito tutta la stima e l'ammirazione di Jane. La adorava; ogni volta che la incontrava di sfuggita nei corridoi del liceo, la salutava; solo un paio di volte aveva avuto il piacere nonché l'onore di parlarci di persona. Era successo due anni prima, quando, tra i professori, era corsa la voce di Jane e dell’esame scritto che aveva sostenuto su Mozart. Il suo professore di lettere era rimasto talmente tanto impressionato dallo stile di scrittura, dal contenuto e dal messaggio retorico nascosto dietro quello che doveva essere solo un tema su un musicista a piacere, che lo aveva fatto leggere ai suoi colleghi, fino a farlo avere alla famigerata Sarah Kattabel. Entusiasta, aveva detto che dopo anni di studio sui libri più disparati, non aveva mai letto nulla di equiparabile a quello che una giovane studentessa era riuscita magnificamente a scrivere su uno dei compositori musicali più geniali. Aveva infatti voluto incontrarla per complimentarsi personalmente con lei.

Jane non avrebbe mai più dimenticato l'incredibile emozione che la sconvolse quando si ritrovò a chiacchierare con una grande donna che considerava a tutti gli effetti un idolo. Legati al nome di Sarah, inoltre, c’erano i sette segreti della magnifica melodia da lei stessa creata: tutti avrebbero voluto saperli, ma a quanto sembrava la musicista non li aveva rivelati a nessuno.

Appena letto il foglio appeso sulla porta, uscì un ragazzo con uno spartito in mano e in quel momento Jane cercò di buttare un'occhiata all'interno della stanza tanto segreta: quello che riuscì a vedere fu semplicemente la sagoma veloce di una ragazza che passava.

Teneva la chitarra in mano e un plettro tra le labbra.



* * *



Sarah Kattabel veniva dal Massachusetts, esattamente da Haverhill. Fin da bambina si mostrava sveglia e acuta, anche se la precoce genialità musicale che le scorreva nelle vene non venne né scovata né tanto meno lontanamente intuita dai genitori. A tavola si parlava del direttore della fabbrica di ceramica in cui lavorava il padre, poi si passava al vice direttore della fabbrica, alle troppe ore della fabbrica, ai pochi o ai troppi ordini arrivati in fabbrica: sempre e solo la fabbrica. Quando Sarah, ormai una signorina di quindici anni, cercava di argomentare qualcosa di diverso a tavola, per esempio citando qualche politico americano o qualche autore letterario, il padre, puntualmente, rispondeva: "Loro basta che indossino giacche e cravatte, che ne sanno che si passa in fabbrica!"

Quando poi si tirava in ballo un artista: "E che gliene frega a Michelangelo che io domani devo alzarmi alle cinque, è bello che morto, beato lui!"

Sarah, nonostante la volontà, nonostante un velo di tristezza che le ricordava che tanto ogni speranza, con lui, era persa, non poteva fare a meno di sorridere alle battute spontanee anche se a volte volgari e scurrili, dell'uomo che per anni le aveva permesso di studiare a scuola, di studiare la musica, di vestirsi e di cibarsi.

Non le chiedeva mai come fosse andata la giornata, o se si trovasse bene a frequentare il corso di musica, però non si era mai tirato indietro nel farle fare quello che desiderava nonostante ritenesse sbagliato studiare anziché cominciare subito a lavorare. Sarah aveva sempre avuto una strana sicurezza su ciò che passava per la testa del padre quando le dava i soldi per pagare la rata del corso di musica; era certa che pensasse fossero solo soldi buttati, che non sarebbero mai tornati indietro in nessuna maniera; lo pensava perché non glieli aveva mai dati con il sorriso, mai una volta che le avesse chiesto se si divertiva o se imparava qualcosa di nuovo, se il professore era bravo. Niente di niente.

Il giorno in cui litigarono non lo avrebbero mai dimenticato, soprattutto Sarah che, dopo aver mandato giù un’infinità di bocconi amari, esplose gridandogli quello che pensava ogni volta che lo guardava negli occhi.

“Ti sembra normale che parli e che pensi solo alla fabbrica? Qualcuno te lo ha mai detto che io non sono una figlia fatta di ceramica? Ho forse dei sentimenti che tu non hai mai capito e adesso che mi serve il tuo appoggio, sei sempre contro di me!”

Quella discussione avvenne subito dopo la grande notizia che entrò in casa Kattabel come un uragano.

Qualcuno che avrebbe distrutto la loro famiglia con la notizia che stava portando con gioia, quel pomeriggio, alle quindici in punto, bussò alla porta battendo due colpi forti e decisi.

Tamara, la madre, aprì pensando fosse la sua vicina alla quale aveva chiesto poco prima, per telefono, un paio di limoni, e invece sulla soglia si materializzò uno dei più grandi critici musicali del mondo: Benjamin Woolf.

Quel giorno passò alla storia. Quando il critico annunciò alla famiglia di voler prendere sotto la sua ala Sarah, sia la madre che il padre fecero presente che il futuro della giovane sarebbe stato quello di terminare gli studi per poi iniziare a lavorare. Non importava se in fabbrica come segretaria o chissà dove, la cosa che premeva di più a loro era vederla occupare un posto fisso, a tempo indeterminato, che le avrebbe permesso di mangiare. “La musica non la sfamerà mai” diceva Tamara.

In quell’occasione la risposta fu negativa. Il critico musicale andò via da casa Kattabel stupito e confuso, non si sarebbe mai aspettato un rifiuto a una sua proposta. Tutti sapevano che avrebbe lanciato in alto qualsiasi artista in cui vedeva talento.

La svolta per la musicista arrivò un anno dopo, quando si esibì in un teatro cittadino e lui, Benjamin, era seduto tra il pubblico. Dietro le quinte le fece un’altra proposta, l’ultima. “Prendere o lasciare” le disse.

Sarah scappò da casa con i soldi della sorella, che le aveva detto di essere dalla sua parte, e si trasferì nella città di Benjamin (fu lui a dirle che la sua era una musica magnifica): da lì iniziò il duro ma fortunato cammino che la portò a essere la più grande musicista contemporanea.



* * *



Dopo il ragazzo con lo spartito in mano, a uscire fu proprio Sarah Kattabel. Quando vide Jane la salutò con un cenno della mano prima di avvicinarcisi.

“Buongiorno, signorina Madison” disse sfoderando un gran sorriso.

Anche Jane stirò le labbra in maniera naturale e spontanea. I denti bianchissimi e perfettamente allineati erano rivolti verso la sua eroina.

“Buongiorno a lei, professoressa Kattabel” rispose la ragazza che, soltanto per guardarla negli occhi, faceva una gran fatica a non balbettare e a tenersi in piedi sulle gambe che le tremavano dall’emozione.

“Te lo dico ogni anno da quando ho letto il tuo meraviglioso tema su Mozart, ma tu puntualmente respingi la mia proposta: vuoi partecipare al concorso musicale di quest’anno?” chiese lei dando alla domanda un tono retorico, come se sapesse l’esito della risposta.

“Io, professoressa, non so se…” Jane bofonchiò qualcosa fino a che lei non la interruppe porgendole lo stesso foglio che era stato appeso sulla porta della sala.

“Sono sicura che per scrivere certe cose sulla musica non puoi che essere una gran musicista” disse lei sorridendo.

Jane diede una rapida occhiata al foglio, ma era convinta che nemmeno quell’anno avrebbe partecipato.

“A me piacerebbe, ma non so suonare bene il pianoforte a tal punto da sostenere un concorso” spiegò nella speranza di chiudere immediatamente quell’argomento; non lo voleva ammettere nemmeno a se stessa, ma l’idea di suonare il suo strumento preferito davanti al pubblico come quello che c’era ogni anno le faceva paura. C’erano pochi soggetti validi in quel liceo, ma erano sempre capaci di riempire la sala presentando le famiglie al completo, amici e talvolta anche qualche sconosciuto.

“Non ho nemmeno mai visto la nuova sala della musica” azzardò lei.

Sarah sorrise per farle capire che aveva afferrato il vero senso di quell’affermazione.

“Adesso devo sbrigare alcune faccende. Ci vediamo alla fine delle lezioni davanti alla sala. E ti dirò un paio di cose sia sul pianoforte sia sulle brutte cose che hai detto”. Girandosi le lanciò un’occhiata complice.

“Quali cose?” domandò preoccupata.

“Non sono capace, ho paura, forse… bla bla bla” rispose la musicista mentre si allontanava.



* * *



Probabilmente Sarah non sarebbe mai venuta.

Jane si trovava davanti alla porta della sala ormai da venti minuti; aveva visto uscire tutti i ragazzi e le ragazze dalle rispettive aule, ma della professoressa nemmeno l’ombra. Dopo quasi quaranta minuti, prese lo zaino da terra e se lo mise sulle spalle, si allacciò il giacchetto tirando fin su la zip e fece per allontanarsi rassegnata, quando una voce calda e femminile la chiamò da dietro.

“Professoressa!” esclamò felice.

“Jane cara, scusami per il ritardo, ma sono stata in presidenza fino a ora. Odio la burocrazia scolastica!” disse sbuffando.

“Non si preoccupi, io credevo si fosse dimenticata” confessò pentendosi subito di tutta quell’insolenza. Le uscì di getto.

“Figurati! Io ci tengo a far avvicinare gli studenti alla musica” affermò lei estraendo dalla sua borsa avana un mazzo di chiavi.

Jane non stava più nella pelle; ogni volta che passava davanti a quella stanza moriva dalla voglia d’entrarci, ma un’inevitabile timidezza le impediva di chiedere informazioni o addirittura di iscriversi ai corsi di Sarah Kattabel.

Finalmente la musicista scelse la chiave giusta, la infilò nella toppa color bronzo e la girò in senso antiorario per tre volte. Per un istante guardò la giovane studentessa come per prepararla psicologicamente a qualcosa che avrebbe visto solamente all’interno di quelle quattro mura; Jane sospirò istintivamente per rilassare il corpo, mentre mani e gambe erano pervase da un leggero e costante tremolio.

“Mi dispiace averle chiesto di farmi vedere la sala, ma sono talmente curiosa di…” Jane non fece in tempo a far capire alla professoressa il suo disagio nell’averla disturbata, che lei la interruppe immediatamente.

“Sono felicissima che tu mi abbia fatto capire che avevi voglia di vederla o, magari, di provare a iniziare a suonare, ne sarei onorata. Allora, vogliamo entrare?”

Senza aspettare la sua risposta, la professoressa spalancò la porta e le due si tuffarono all’interno della sala.



* * *



Meraviglioso.

A Jane non venivano in mente altri aggettivi per descrivere con chiarezza e precisione il complesso di oggetti, arredamenti, strumenti e meticolosi particolari che rendevano unica quella stanza.

Le quattrocento sedie rosse, comode come quelle del cinema che distava pochi metri dall’istituto, erano state divise in quattro gruppi da cento; ognuno di essi formava un quadrato dieci per dieci. Il palco invece si trovava in fondo alla sala e toccava entrambe le pareti laterali così da avere il massimo della visibilità; un grande sipario rosso però nascondeva tutto quello che c’era dietro.

Quando Jane alzò la testa notò gli spettacolari lampadari che come gocce di pioggia su un vetro scendevano lunghi e ornati, formati da decine di lampadine con la testa affusolata che si avvolgeva per qualche giro su se stessa fino a terminare in una punta spigolosa.

Ai lati della sala si succedevano diverse bacheche di vetro con le foto dei vari vincitori dei concorsi precedenti. In alto invece erano appesi quadri che ritraevano esclusivamente Sarah Kattabel: lei al pianoforte, lei in un teatro di Parigi, lei circondata dai ragazzi della Royal College of Music di Londra, lei al Teatro Real di Madrid.

“Non ho parole!” esclamò la studentessa continuando a guardarsi intorno. Passò una mano su una sedia e ne sentì la stoffa morbida.

“È tutto bellissimo, questa sala è così diversa dal resto dell’istituto”.

“Ci abbiamo lavorato duramente” rispose Sarah guardandola come fosse la prima volta. I suoi occhi si riempirono di luce al solo ricordo di quanta fatica era stato necessario sopportare nel corso degli anni prima di vedere costruita una bellezza simile.

“Ogni volta che si tiene il concorso si fa il tutto esaurito, vero?” domandò Jane, anche se conosceva perfettamente la risposta.

“Sempre, ogni anno. Non è mai avanzato un posto” rispose la musicista con fierezza.

Jane si avvicinò ai quadri e sembrò studiarli uno per uno con scrupolosa attenzione come farebbe un falsario mentre guarda l’opera da copiare.

“Professoressa, posso farle una domanda?”

“Ti ho già detto che puoi chiamarmi Sarah o sbaglio?” disse lei fingendo di rimproverarla.

“Posso davvero?” domandò Jane. Era un sogno, si disse, sicuramente quello era un sogno.

“Fine di ogni formalità”.

“Grazie, Sarah”.

“Allora, volevi chiedermi qualcosa?” disse per riprendere il filo del discorso.

“Sì: perché suoni in questo liceo nonostante il tuo immenso successo?”

Posò la borsa su una delle sedie e con la testa le fece un cenno.

“Vieni con me”.

La professoressa la precedette, le fece salire i sei scalini laterali e la posizionò al centro del palco, davanti al pesante tendone rosso che divideva gli artisti dal pubblico.

“Quando aprirò questo sipario sono sicura che risponderò, senza parlare, a ogni tua domanda. Sei pronta?” domandò lei puntando l’indice destro su un tasto bianco al centro del quadro elettrico generale.

“Sono pronta” mentì lei.

Con un movimento fluido e continuo il sipario si spalancò, Jane allargò gli occhi e, effettivamente, ogni sua domanda sparì del tutto.



* * *



Trovarsi davanti a tutte quelle sedie vuote dava un’emozione di gran lunga superiore a quella che ognuno avrebbe potuto immaginare.

Jane Madison rimase immobile al suo posto: in quelle sedie vuote vide, come in un flash interminabile, persone di varia estrazione sociale, uomini e donne, signori anziani, qualche bambino, qualche suo coetaneo, parenti venuti da lontano; riuscì persino a sentire quel rumore di sottofondo, anche se minimo, che fa una folla che cerca di rimanere in silenzio, mentre ascolta le ultime delicatissime note del pianoforte. Un attimo di pausa in cui è congelato tutto il terrore dell’artista che teme d’aver fallito, poi lo scoppio di un grandioso applauso, mani che si agitano e si scontrano tra di loro per manifestare al meglio il gioioso fiume d’emozioni che l’artista ha fatto scaturire nei cuori dei presenti.

Jane si girò verso Sarah.

“Ti sei immaginata la folla, vero?” le domandò, come se le avesse appena letto segretamente il pensiero.

“Sì” rispose la ragazza incredula. “Come hai fatto?”

“Ogni artista in fasce lo fa: come l’artista emergente che durante la proiezione di un film non riesce a vedere altro che il suo di film o come lo scrittore che tra gli scaffali delle librerie di tutto il mondo vede solo il suo romanzo”. Sarah gettò gli occhi in pasto alle centinaia di poltrone.

“Come me quando ho visto per la prima volta una platea del genere” raccontò lei. “L’effetto è quello di immaginarsi, anche per un solo frammento di secondo, di essere il più grande, l’inimitabile, colei o colui che mai era nato prima nella storia; allora vedi le persone che si alzano per applaudire il tuo genio. Chi ti stringe la mano, chi ti chiede l’autografo, chi la foto, chi vorrebbe essere come te. Il vero artista raggiunge tutto ciò, ma non è questo a renderlo felice”.

Jane si accigliò.

“Il vero artista non crede che sia stato il pubblico a raggiungere il suo talento, ma che sia stato il talento a raggiungere le persone, sono punti di vista: io la vedo così”.

“Per quanto riguarda il motivo per cui insegno qui, beh, sono convinta che la musica possa salvare i giovani in difficoltà; nel corso degli anni, ho visto alcuni ragazzi abbandonare certi mondi terrificanti come violenza, droga, depressione; quando hanno incontrato il loro strumento che non sapevano di amare, tutto è cambiato fino a migliorargli la vita; si sfogavano, creavano, emozionavano e molti hanno capito che quella era la loro strada quando hanno provato l’emozione che hai provato tu stando davanti alla sala vuota: lì, come un’illuminazione improvvisa, hanno capito quale doveva essere il prosieguo della loro storia iniziata malissimo. In alcuni casi la musica ha fatto e sono sicura che farà ancora altri miracoli. Io mi sento d’essere venuta in questa scuola con una missione: salvare più persone possibili con quest’arte. Ci sono però anche altri casi in cui i ragazzi hanno una visione distorta della musica e credono serva solo a diventare famosi fino a che, nelle loro teste, quello diviene il solo e unico obiettivo”.

“Effettivamente è vero, ma dimmi: perché si sogna di essere famosi?” domandò Jane spostandosi dal centro del palco. Anche se la bellissima sala era vuota, si sentiva in soggezione a rimanere lì.

“Diventare famosi è solo la conferma che quello che si fa è fatto bene, ma in certi casi questo non è vero” rispose enigmaticamente la musicista che, sfiorando i tasti bianchi e neri di un pianoforte a lato del palco, parve rattristarsi al ricordo di un qualcosa di lontano e cupo.

“Vuoi dire che l’eterno artista emergente rimarrà infelice per sempre per non aver raggiunto la fama?”

“Per molti è così e probabilmente non stiamo parlando di veri artisti” disse lei. Poi la guardò negli occhi.

“Sei famosa quando suoni un pezzo e chi ti ascolta, anche solo una persona, piange. Famosa per quella persona. Esiste una fama più gratificante?”

Jane sembrò riflettere a fondo.

“Non confondere mai la bravura di una persona con il suo successo, Jane: conosco pianisti mille volte più bravi di me che però lavorano undici ore al giorno, sei giorni a settimana in un ufficio e fanno fatica ad arrivare a fine mese. Apri il cuore e valuta la bravura di una persona, un po’ come ho fatto io quando stavo per prendere il treno alla stazione di Manchester. L’artista che mi ha emozionato di più nella mia vita chiedeva l’elemosina, scalzo, a dicembre, davanti a una vecchia chiesa abbandonata”.



* * *



“Sono tornata da lui il giorno dopo, ma non l’ho ritrovato mai più”. Sarah si era seduta sullo sgabello disposto davanti al pianoforte.

“Probabilmente…”

“Lo avevano ucciso” tagliò corto lei.

Jane alzò le sopracciglia incredula.

“Me lo spiegò il proprietario di un bar lì vicino: alcuni amici sui trent’anni erano stati a bere da lui per tutta la serata, poi, infastiditi dalla musica, erano usciti e, a forza di botte, avevano finito per ucciderlo”. La professoressa sospirò.

“Da non crederci” rispose Jane avvicinandosi di qualche passo; le piaceva cogliere sul volto di Sarah le impercettibili smorfie che faceva mentre, concentrata nei ricordi lontani, raccontava i vari episodi inerenti alla particolare chiacchierata intrapresa.

“Tutto questo per dirti che l’arte è un mondo a parte; è vero che ci sono persone famose che sono acclamate, ma è anche vero che troverai spesso geni poveri e poveri geni” concluse lei. “Sei d’accordo?”

“Decisamente”. Soffocò l’idea di chiederle in quale categoria si collocasse.

Sarah si alzò dallo sgabello e fece un cenno a Jane. Voleva che si mettesse seduta.

“Dovrei suonare?” chiese la ragazza incerta. Non sapeva fare praticamente nulla davanti ai tasti bianchi e neri.

“Siediti” incitò la musicista.

Jane obbedì e si accorse dell’estrema morbidezza dello sgabello. Posò le dita sui tasti e li carezzò dolcemente, senza premerli.

“Non esplode se ne spingi uno” scherzò Sarah.

Premette un tasto a caso.

“Vorrei davvero imparare a suonarlo; tu saresti disposta a insegnarmi le basi?” domandò Jane. Nella sua voce riconobbe un tono di sicurezza finalmente, come se quel contatto le avesse scatenato dentro un indefinibile incantesimo senza nome.

“Certo che sarei disposta. Ne sarei anche felice” aggiunse lei.

“Allora considerami una tua allieva”.



* * *



Una seconda possibilità.

Le era stata concessa da un giovane sconosciuto entrato nella sua vita all’improvviso, senza presentazioni, senza nessuna formalità, come la testa di un minuscolo fiore che spunta fuori dalle viscere di una parete rocciosa. Le aveva salvato la vita senza vantarsene o pretendere alcunché in cambio e adesso, dopo che Sarah Kattabel aveva accettato di impartirle lezioni di pianoforte, quella seconda possibilità iniziava a colorarsi di un senso tutto nuovo ed era pronta a vivere la seconda vita che le era stata concessa; aveva promesso a se stessa che non avrebbe ripetuto mai più un errore simile. Forse era questo ciò di cui a volte parlava la luce che aveva negli occhi quel ragazzo e che Jane, come un’abile ed esperta esploratrice, aveva scoperto. Ogni volta che la guardava, le dava un senso indefinito, ma forte, di quello che Noel riusciva a trasmettere. Solo avvolta in quello sguardo, si poteva leggere la voglia di vivere e di godersi ogni attimo che quel ragazzo aveva nell’unica vita che gli avevano dato; avrebbe dovuto registrare nella pellicola della sua memoria l’espressione che assumeva quando parlava o quando le diceva una cosa e subito dopo sorrideva godendo di una felicità palpabile, di quelle che contagiano.





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Jane Madison è una giovane studentessa che studia nel peggior college di Seattle. La sua vita è l'esatto opposto di quello che ha sempre sognato e, a renderla ancor peggiore, è suo padre Gary, tiranno e spietato. Una mattina Jane esce di casa per non farvi più ritorno: si porta con sé un taglierino che utilizzerà in un parco per tagliarsi le vene; crede che con questo gesto tutte le sue pene e i suoi inferni sarebbero finiti e, per di più, avrebbe incontrato sua madre in paradiso, unico desiderio che ha nel momento in cui la lama scorre veloce sulla sua pelle, ma non sa che ad aspettarla c'è una meravigliosa strada da percorrere e che, di lì a breve, vivrà un'esperienza che le cambierà per sempre la vita.

Jane Madison, studentessa del peggior liceo di Seattle, figlia di un padre tiranno e violento, è stanca di vivere.

Ha provato in tutti i modi ad uscire fuori da quel malessere, senza però riuscirci. Ha deciso. Si ucciderà. Ruba a suo padre un taglierino, si reca in un angolo ben nascosto del parco sotto casa e si taglia le vene. Il suo ultimo desiderio è quello di raggiungere al più presto sua madre, in paradiso.

Jane però non sa che ad aspettarla di lì a breve non è la morte, ma un percorso tanto emozionante quanto incredibile, ricco di sorprese che, fino a pochi giorni prima, avrebbe reputato impossibili.

Con precisione e ritmo, con dolcezza e continui colpi di scena, Joey Gianvincenzi racconta la storia che tanto ha emozionato i suoi lettori e che segna il suo secondo traguardo letterario.

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