Книга - Vivere La Vita

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Vivere La Vita
Lionel C







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Indice dei contenuti




Dove è cominciato il tutto (#ubd5fe599-b8ec-5692-b116-4f9940ee1108)

I primi ricordi (#u74503ab9-6920-58df-96d0-604219819305)

L'immenso mondo fuori casa (#uf6254481-2eed-53c7-b594-763b5e626391)

Crescere senza volerlo (#u4e84ab07-84de-5de7-9fab-9427c06b1650)

L'inizio degli esami (#litres_trial_promo)

Gli anni più belli della vita (#litres_trial_promo)

Profondi cambiamenti (#litres_trial_promo)

Il grande viaggio (#litres_trial_promo)





Dove è cominciato il tutto


La vita e la cosa più meravigliosa che ci sia mai capitata.

L'unica che non ha prezzo, perché impossibile quantificarla.

Un tesoro inestimabile.

Avendo ricevuto senza fare fatica oppure sacrifici, un tesoro così bello e delicato, cioè la vita, il minimo che possiamo fare è proteggerla, non disperderla, non sprecarla, non infangarla, non rovinarla.

Questo sarebbe il minimo, ma se la natura, sulla scala dell'evoluzione, avesse fatto il minimo, chissà se noi esseri umani saremo mai esistiti come specie.

Forse no.

Perciò, se la natura è stata cosi clemente nei nostri confronti facendoci nascere perché ha sempre dato il massimo di sé stessa, forse noi dovremo fare altrettanto nei confronti di noi stessi, per non sprecare il suo meraviglioso risultato raggiunto.

Dare sempre il massimo di sé stesso è impossibile per qualsiasi essere umano al mondo, ma essere attenti con le proprie vite, volersi bene, non sprecarsi, non abbandonarsi al nulla, non consegnarsi al miglior offerente per qualsiasi prezzo, non seguire ad occhi chiusi chi e cosa presenta bene, non andare subito sulla strada bella, tutta in discesa, non correre soltanto dietro alle comodità rifiutando tutto il resto, è un dovere fondamentale che abbiamo tutti noi, nei nostri confronti.

Dobbiamo essere giusti con noi stessi e grazie alla società dove abbiamo il privilegio di vivere, lo possiamo fare.

Fare molto bene.

Con uno sforzo, con un impegno neanche troppo grande, possiamo essere e possiamo avere tutto per le nostre vite.

Per fare tutto questo, ma soprattutto, per farlo nel modo giusto, bisogna mettere ogni cosa al suo posto, al posto che la spetta di diritto, in modo naturale.

Per poterlo fare e farlo bene, bisogna avere un’idea, un’immagine giusta e chiara di tutto ciò, così come ha sempre fatto e lo fa, la natura.

La natura che ha fatto tutto in modo perfetto, senza sbagliare mai nulla.

Così facendo e non fermandosi mai, ci ha lasciato in eredità, in modo naturale oltre i meravigliosi risultati che siamo e che abbiamo intorno a noi, anche "la mappa" del percorso che ha fatto nel suo grande viaggio di lavoro.

Ci ha lasciato la scala dell’evoluzione.

Nel grande viaggio che è la vita per ognuno di noi, sulla mappa da seguire, cioè la scala della propria evoluzione, sopra il primo gradino troviamo il verbo essere.

La scala continua e senza che noi ce ne accorgiamo, non fermandosi mai nella sua salita, oltre il verbo essere, compare dopo un po' di gradini, anche il verbo avere.

La salita sulla scala della propria evoluzione continua senza soste, ma da quel punto in poi, i due verbi fondamentali ed al centro di tutto nella vita "l’Essere" e "l’Avere", rimangono sempre a "braccetto", in un equilibrio perfetto.

Questi sono gli appunti presi dalla natura, mentre faceva con il suo massimo impegno il grande lavoro della nostra costruzione.

La costruzione dell’essere umano.

A lavoro finito, ci ha consegnato il risultato grandioso ed unico che ha raggiunto.

Noi!

Ci ha consegnato anche il percorso che ha fatto per arrivarci ad un risultato così importante, così complesso, così bello, cosi meravigliosamente perfetto.

Ci ha consegnato i suoi appunti, la mappa del suo viaggio, la scala della propria evoluzione ad ognuno di noi.

Tutto, in modo molto chiaro, semplice, ordinato e preciso, come soltanto la natura lo sa fare.

Una specie di libretto delle istruzioni.

Le istruzioni per "il buon uso dell’essere umano".

Su questa scala, in questo libretto delle istruzioni, prima di tutto siamo, e soltanto dopo che siamo, possiamo avere.

Posso avere, se sono.

Se il tutto capita al contrario, la buona funzione del 'essere umano è compromessa.

La vita stessa dell'essere umano è compromessa.

Oggi viviamo delle cose molto buffe che in alcune situazioni vanno a sfiorare il paradosso, tante volte finiscono nel dolore, e purtroppo, troppe volte nel dolore assoluto.

Presi dalla frenesia, dal andare sempre di corsa, dal vivere ormai sommersi in un mare di rumori di ogni tipo e dal non stare quasi mai in silenzio nei nostri confronti, in silenzio con noi stessi, purtroppo, riflettiamo sempre meno sul nostro essere, su di noi.

Non parliamo più con noi stessi.

Forse conosciamo sempre meno noi stessi.

Ci capita nel arco della vita di leggere tantissimi libretti delle istruzioni per le nostre proprietà materiali. Dal telefono cellulare, al' automobile, con in mezzo qualsiasi altra cosa tra elettro domestici e altri beni.

Ed è giusto che sia così.

Impegniamo tempo delle nostre vite per produrre tutte queste cose materiali, perciò è giusto che le rispettiamo, le curiamo, le trattiamo bene e facciamo in modo di ottenere per noi, sempre il massimo dal loro buon funzionamento.

Per vivere ed avere tutto ciò, rispettiamo le loro regole di funzionamento a noi dettate e spiegate da chi le ha prodotte, da chi le ha costruite e sa tutto sul loro conto.

Leggiamo il loro libretto delle istruzioni.

La cosa incomprensibile, il paradosso è che non trattiamo mai nello stesso modo e con la stessa cura noi stessi, non leggendo quasi mai il nostro "libretto delle istruzioni".

Quello per il nostro buon funzionamento che la natura ci ha consegnato e potrebbe generare il nostro vero stare bene ad ognuno il proprio benessere.

Sembra quasi che non ci interessa più, conoscere le regole del nostro buon funzionamento ed ancora meno metterle in pratica nel modo giusto, per poter ottenere sempre il massimo da noi stessi.

Per vivere bene.

Forse si arriva al dolore, quando senza aver letto il libretto delle istruzioni, senza conoscere e poter' mettere in pratica le regole giuste del nostro buon funzionamento, pretendiamo di funzionare bene lo stesso.

Si arriva al dolore assoluto, quando dopo qualche sconfitta nella vita, sconfitta che ci ferma dalla nostra corsa frenetica, ancora a terra dopo essere caduti, mettendoci a riflettere su come mai è stato possibile che fosse capitata proprio a noi quella cosa, in quei momenti, se abbiamo il coraggio di riflettere fino in fondo, la maturità e la lucidità di farlo e farlo nel modo giusto, con sangue freddo, forse ci rendiamo conto che vogliamo più bene alle nostre proprietà materiali, che a noi stessi.

Ci rendiamo conto che forse sappiamo molto di più sul conto dei nostri beni materiali, conoscendo forse ogni pezzo che li compone, la sua funzione e funzionalità finale ed ogni bisogno che hanno per farli rendere al massimo.

Purtroppo, la stessa cosa, forse non la possiamo dire sul nostro conto.

Su noi stessi.

Perché?

in momenti così, senza chiedersi niente altro, ma soltanto guardando i risultati di quello che abbiamo vissuto, viene fuori che forse in quasi tutte le situazioni il risultato è quello che è, forse perché nella nostra vita abbiamo dato la precedenza a quello che abbiamo e non a quello che siamo.

Al verbo avere.

Poi e soltanto poi...al verbo essere.

Esattamente il contrario di come la natura nel suo modo perfetto di lavorare, ci ha insegnato e continua ad insegnarci in ogni momento.

….....





Tutto è cominciato in un posto molto lontano.

Forse neanche troppo lontano in questione di spazi, di distanze, ma lontanissimo per i modi di vivere.

Il modello di vita di quel posto ed il modello di vita di questo posto, camminavano in due direzioni diverse. Due direzioni così diverse tra loro, che sarebbe stato impossibile incontrarsi e per chi non è mai entrato in contatto diretto con una realtà di quel tipo, è molto difficile riuscire ad immaginarla. Non perché la persona che provasse ad immaginare, non avesse le capacità giuste per farlo e farlo bene, ma perché i due modelli di vita, erano completamente diversi tra di loro.

Forse diametralmente opposti.

Quel modello di vita, si trovava al di là della "Cortina di Ferro" ed il posto dove è cominciato tutto, nei tempi della grande crisi economica del ventinove, era chiamato:

"La Valle del Pianto".

Una vallata abbastanza stretta nei Carpazi Meridionali.

Il posto dove per centinaia di anni e passato il confine tra la Transilvania e di conseguenza L'impero Austro Ungarico al nord e la Valahia, un principato rumeno, al sud.

Nella città dove sulle sue alture, lo scrittore francese Jules Verne aveva collocato ed ambientato il suo romanzo di avventura: "Castello di Carpazi".

Al interno della vallata non molto lunga, ce una catena di sette città di piccola media grandezza, quasi attaccate tra di loro ed alcuni piccoli paesini. Il motivo per quale erano sorte quelle città era anche "il motore" che faceva girare tutta la vita nella vallata.

Il carbone.

Già scoperto, estratto ed usato nel periodo del Impero Austro Ungarico.

Una bella vallata, circondata, o meglio incastonata al interno delle montagne.

Subito a prima vista, in quelle condizioni, potrebbe sembrare una cosa che toglie il fiato, opprime e che potrebbe addirittura togliere la vitalità e la voglia di vivere, soprattutto a chi è abituato ai grandi spazi.

In realtà, non è così.

Anche se aprendo le finestre di qualsiasi casa, la prima impressione è che le montagne sono così vicine da poterle quasi toccare, non opprimono, non schiacciano la gente dentro casa.

Anzi.

Sono montagne alte intorno ai duemila metri e sono quasi interamente coperte da una vegetazione molto ricca.

Aprendo le finestre, la prima impressione percepita è che un gigante tutto verde, vuole condividere la stessa casa con gli esseri umani. Poi, dandosi un po' di tempo per conoscersi e capirsi a vicenda, si scopre nei vari periodi dell'anno che ognuno rispetta l’altro, restando al proprio posto.

Vivendo insieme in grande sintonia.

Montagna e uomo.

Uomo e montagna.

Nelle giornate di autunno, ogni mattina si scopriva di avere d'avanti alle finestre un quadro diverso di natura viva, con tutti i colori possibili ed immaginabili, che forse il miglior pittore, non sarebbe mai riuscito a trovare e stendere così bene su una sua tela. Oltre il grande spettacolo di arte pura, c'era la possibilità, o forse il privilegio di vedere, vivere, essere partecipi ogni giorno alla vita della natura che dalla tinta unita di verde intenso, passava attraverso questa combinazione unica e molto ricca di colori, per arrivare al grigio povero delle piante spoglie, prima che la neve rivestisse il tutto, del suo manto bianco e compatto.

Quando questo accadeva sembrava che all'improvviso, niente e nessuno si muoveva più, ma che tutto il mondo si era fermato per non disturbare. Per dare la possibilità nel silenzio assoluto ai fiocchi di neve, all'inizio piccoli e poi sempre più grossi e fitti, di scendere lentissimi e leggeri fino a terra.

Per rivestire il tutto con tanta pazienza e delicatezza.

Il vestito, era quasi sempre molto spesso.

Cosi luccicante, morbido e delicato, che sembrava un vestito di velluto bianco della migliore qualità, creato dal migliore maestro sarto che rivestiva il tutto come se fosse una bella principessa siberiana venuta fuori da chissà quale favola.

Non si faceva in tempo a stupirsi di tanta bellezza, perché quasi sempre nel mattino successivo alla nevicata, andando subito alla finestra per guardare fuori lo splendido spettacolo, l'occhio restava impigliato in un'opera ancora più meravigliosa.

Sulla parte esterna dei doppi vetri delle finestre, il gelo aveva confezionato dei fiori di ghiaccio che la miglior artista dell'uncinetto, avrebbe fatto fatica ad immaginare.

Nel giorno in qui la raffinata bellezza dei fiori di ghiaccio cominciava a lasciare spazio a qualche goccia di acqua, si sapeva che da lì a poco, i primi pezzi di verde si facevano posto nel bianco assoluto.

Sulle finestre, le gocce di acqua diventavano sempre più numerose e quando scomparivano del tutto, guardando fuori, si vedeva che il colore predominante era il verde, con forse ancora qualche piccola macchia di bianco. Un verde umido e pesante, che però in poco tempo, diventava sempre molto intenso, fresco e leggero.

Insieme a lui arrivavano anche le vocine vivaci dei primi uccellini.

Quando i canti diventavano più forti, numerosi e diversi tra di loro, era il segnale di stare pronti ed attenti in vista di quello che sarebbe accaduto.

Un’esplosione di vita che avrebbe oscurato il verde fresco, con un numero illimitato di colori forti e vivi, donati dai fiori di ogni tipo.

Dal profondo dei prati, alle punte degli alberi.

Era la grande festa per il risveglio della vita.

Il lungo letargo era finito e si continuava a festeggiare senza sosta, finché il tutto diventava di un verde compatto, forte ed intenso. Così bello e vivo, che ogni mattina mentre si spalancavano le finestre per gustare la buona aria che inondava tutta la casa, veniva quasi sempre la voglia di invitare il gigante di granito finemente rivestito di seta verde, ad entrare, per far' parte integrante in ogni momento della propria vita.

Nella propria famiglia.

Era uno spettacolo unico, ed ogni giorno che si viveva da quando al mattino il sole grosso e luminoso iniziava a fare la sua comparsa sopra una montagna, e fino alla sera quando in silenzio e quasi di fretta scompariva dietro ad un'altra montagna, ci si rendeva conto del grande privilegio di poter assistere, vivere in prima fila ogni volta, in qualsiasi momento, lo spettacolo di tutte quelle splendori.

Uniche ed irripetibili.

Qualche volta, quando molto piccolo, iniziavo a farmi le prime domande, mi chiedevo perché tutti noi li, eravamo cosi fortunati.

Poter vivere tutte quelle meraviglie.

Avere tutte quelle ricchezze.

Crescendo ed avendo le prime risposte dalla vita, il perché mi e sembrato di capirlo.

Guardandosi attorno, osservando il tutto e vedendo la vita di tutti i giorni, così come si svolgeva, si arrivava quasi alla conclusione che la natura donava gratuitamente tutto ciò, per ammorbidire, per alleviare un po' la vita molto dura delle persone che popolavano quella vallata.

Quelle persone che se guardate, a prima vista e magari con un po' di superficialità, dicevano forse poco e niente.

Le stesse persone, osservate con un po' di attenzione ed in profondità, erano l'esempio migliore di come la natura, senza chiedere nulla all'essere umano, ma seguendo soltanto sé stessa e le sue regole perfette, andava, va avanti indisturbata nella creazione della sua opera.

La vita creata dal essere umano in base alle sue convinzioni ed alle sue regole, aveva avuto come risultato l'indurimento di quelle persone.

I maschi, gli uomini, quasi tutti lavoravano nella miniera.

Erano minatori.

Come lavoro, se non il più duro è di sicuro uno dei più duri che esistono.

Purtroppo per loro, il tutto diventava ancora più duro perché quelle miniere, erano le più pesanti e pericolose in quella parte del mondo. Ogni giorno quando andavano a lavorare, scendevano a circa settecento metri all'interno della terra, per poter portare a casa il pane per i loro cari.

Al lavoro finito, qualsiasi essere umano ha, avrebbe avuto bisogno di sfogare in qualche modo le tensioni accumulate, sciogliere un po' il tutto, ma non quei uomini.

Quei uomini no.

Non perché non avessero avuto bisogno, oppure non avessero voluto, ma perché la dittatura non lasciava loro questa possibilità.

Non avevano questo diritto.

Non potevano parlare mai apertamente delle loro fatiche.

Delle condizioni disumane in qui lavoravano.

Delle cose da migliorare.

Agire in qualche modo, ancora meno.

Non potevano fare nulla.

Anche se erano tutti come dei giganti.

Dei giganti buoni.

Uomini con dei fisici statuari, scolpiti dalla fatica e dal lavoro duro a tal punto ed in tal modo, che ognuno di loro era degno di fare il modello al più grande maestro per la sua opera migliore, scolpita nel marmo della più alta qualità.

Non era facile per gli uomini vivere questa condizione di vita e forse, lo era ancora meno per le donne che per la loro natura sono creature diverse.

Dolci e delicate.

Erano quasi tutte casalinghe.

La loro vita si svolgeva dentro casa per tutte le faccende domestiche. Poi, mercato, negozi e tutte le altre cose fuori casa.

Il progresso tecnico a disposizione, dal lavoro manovale effettivo e dalle fatiche domestiche, non toglieva tanto ed era per loro un gran daffare ogni giorno.

Come i loro mariti, anche le donne erano di costituzione fisica molto bella ed al primo sguardo, offrivano un piacevole vedere.

Guardando però con più attenzione, si vedeva che su delle creature dolci e delicate come le donne, quella vita aspra e dura, resa cosi dall’essere umano, lasciava molto di più il segno.

Colpiva in modo molto particolare e forte, vederle che anche se vivevano in quelle condizioni, quasi estreme, non avevano perso la loro natura di donne. Ancora di più colpiva il modo docile con qui compivano il proprio dovere e con qui riuscivano a trasmettere ai propri figli e figlie tutto.

La loro docilità.

La loro dolcezza.

I loro insegnamenti.

Erano donne e uomini di fatica.

Quasi di nient'altro.

La loro semplicità, naturalezza, genuinità, onesta, sensibilità, senso di solidarietà nei confronti del prossimo e soprattutto, il senso del dovere, faceva rimanere sempre fortemente stupiti a come quelle condizioni estreme create dall'essere umano, abbiano intaccato soltanto la parte esterna.

La carcassa.

La materia.

La natura nel suo cammino tranquillo ed indisturbato, seguendo soltanto le sue regole, ha protetto la parte interna di tutte quelle persone.

Uomini e donne.

Donne e uomini.

Il loro essere nel suo profondo, rendendolo tutti i momenti sempre più delicato, più sensibile e più forte.

L'apice di questa grande opera d'arte realizzata da "Madre Natura" nel suo più profondo, si vedeva quando verso sera, nei giorni luminosi e caldi di estate, nel loro tempo libero, uomini e donne sedevano insieme sulle panchine d'avanti agli ingressi di tutti i condomini e parlavano tra di loro.

Parlavano tanto, di nulla.

Ci si rendeva conto che è cosi, e che forse il motivo della loro presenza lì era un altro, perché si vedeva come ognuno di loro, chi di più e chi ancora di più, seguivano con molta attenzione, tutto l'insieme dello scenario che li circondava.

Soprattutto il sole.

Il sole nel suo cammino, mentre scendeva per nascondersi dietro alla montagna.

Il grande spettacolo che offriva.

Ci si aveva la certezza di tutto ciò, quando, appena scomparso il sole, il primo uomo, oppure la prima donna che si alzava per salire in casa, in pratica, senza dire nulla, dava il via a tutti quanti nel fare la stessa cosa.

In pochi attimi le panche erano totalmente vuote.

Scendeva il silenzio.

Lo stupendo spettacolo della natura era finito ed è stato un grande privilegio aver potuto partecipare.





Vederlo in prima fila.




I primi ricordi


Non saprei quando cominciano i primi ricordi del’ essere umano.

Non lo so quali sono i primi momenti di vita che ogni persona riesce a conservare e ricordare per sempre.

Forse tutto ciò è una cosa molto personale ed in questo senso, posso dire che i miei ricordi, cominciano molto, molto presto ed è ovvio che tutto succede all'interno della casa dove viveva la mia famiglia: padre, madre e due figli.

Ero il più piccolo tra i quattro.

Una casa non grande, ma neanche piccola.

Giusta per le necessità della nostra famiglia.

C'era un ingresso, la cucina, il ripostiglio, due camere ed un piccolo disimpegno prima dell'ingresso in bagno.

Le due camere, avevano la pavimentazione in legno e questo creava un senso di calore e di intimità.

Di accoglienza famigliare.

Appena ci si alzavano gli occhi dal caldo pavimento, era impossibile non notare la grandezza delle finestre, e soprattutto la tanta luce che riusciva ad entrare attraverso i loro vetri.

Erano tutte orientate verso l'est, e di fronte c'era il massiccio montuoso più imponente tra tutti quelli che si trovavano sui quattro lati della vallata.

Grande, forte, compatto e di un verde molto intenso per lungo periodo dell'anno.

In ogni momento, guardare fuori dalle finestre era una cosa bellissima, ma al mattino, quando il sole si innalzava da dietro la montagna, lo era ancora di più. Il sole, insieme alla montagna erano così vicine, che sembrava di poter toccare il tutto con la mano.

Il calore e soprattutto la luce che entrava in casa, dava una vitalità ed una forza che ogni mattina faceva venire la voglia di gridare:

< Vita dove sei? >

< Perché ho voglia di viverti in pieno quest'oggi! >

Allo stesso modo, quando di sera da dietro la stessa montagna compariva la luna, metteva una pace ed una serenità che aiutava moltissimo a capire se in quel giorno di vita si e riusciti a fare qualcosa di buono.

Non aver fatto passare inutilmente la giornata.

Poi si andava a dormire in tranquillità, serenità e pace, ringraziando per tutti i risultati avuti.

Il primo ricordo, come forse quello di ogni bambino, è un po’ birichino ed ogni volta che ci ripenso, sorrido partendo dal mio più profondo e finendo con i muscoli facciali.

Sempre.

Ricordo seduti: me e mia madre, attorno il tavolo nella cucina.

Dopo aver mangiato, quasi sempre da me, ma anche imboccato ogni tanto da mia mamma, mi portava al letto per farmi fare il pisolino pomeridiano.

Se avessi potuto, avrei prolungato all'infinito ogni volta quei momenti attorno al tavolo, perché andare a dormire di pomeriggio, per me era la cosa più spiacevole che mi poteva capitare in quel momento di vita.

Questo è il mio primo pensiero di vita vissuta.

Il primo che ricordo.

Purtroppo per me, andava a finire sempre allo stesso modo, cioè, io sdraiato sul letto che dovevo dormire.

Non piangevo e non ricordo di aver mai protestato, ma al mio modo agivo.

Una volta al letto, dopo un po' di momenti in qui stavo tranquillo, con gli occhi chiusi e senza la minima intenzione di dormire, quando credevo che il tempo era giusto, scendevo dal letto.

Ricordo che quasi sempre, andavo in silenzio dietro alla porta, per provare a capire dov'era mia madre.

Qualche volta la vedevo da dietro, lavando per terra nell’ingresso, o facendo altro. Qualche altra volta mi toccava uscire dalla camera, prima di riuscire a vederla.

In tutti i casi, mi ricordo la stessa fine.

Io, che sfregandomi gli occhi come uno che ha dormito per ore, le dicevo che ho già dormito, mentre lei, senza dirmi niente, prendendomi per mano, mi faceva fare dietro front e mi riaccompagnava al letto.

Al letto per la seconda volta, scattavano sempre le sue misure di sorveglianza.

Non saprei dire se era perché mi dovevo arrendere per forza, oppure ad altro, ma ritornato al letto, ricordo le mie prime domande, dubbi, perplessità.

La mia domanda più grossa che e rimasta lì fresca e presente nella mia mente per tanto tempo era:

< Ma se non era con me nella cameretta, come fa a sapere se sono stato nel letto, il tempo giusto o di meno? >.

Arrivavano poi di corsa le altre domande, sorelle della prima:

< Come può se ho dormito oppure no? >

< Come può sapere se devo ancora dormire? >

Queste sono le mie prime domande di vita vissuta.

Le prime che ricordo.

Tutto capitava quando ero appena un po' più alto di uno sgabello di quelli attorno alla tavola della cucina, e tutto in casa era molto grande.

Cosi come grande mi sembrava mio padre.

Molto grande e molto forte, quasi un gigante.

Un gigante buono.

Quando mi prendeva tra le sue braccia, oppure veniva a giocare con me.

Mi piaceva moltissimo, ma ogni tanto, mi chiudevo un po', perché le sue mani forti e ruvide, mi facevano male sulla pelle.

Questo non diminuiva il mio desiderio di stare con lui.

Anzi, il desiderio era sempre più forte ogni volta, perché mi sentivo sicuro, protetto, ma soprattutto, con la certezza di avere un aiuto forte vicino a me.

Sempre pronto.

Un aiuto sempre pronto, come quando non riuscivo a salire sullo sgabello per sedermi a tavola in cucina, e per me sembrava lo sforzo più grande del mondo, ma la sua mano sul mio sederino, quando meno me lo aspettavo, mi dava una spinta così dolcemente forte che mi sembrava di volare.

Volevo stare sempre con lui.

In qualsiasi momento.

Come quando si faceva la barba e li restavo vicino nel bagno.

In piedi, sul coperchio del wc e dalla prima pennellata di schiuma che si metteva sulla faccia, e fino all'ultimo passaggio della macchinetta in qui metteva la lametta, non mi muovevo e non toglievo mai lo sguardo dal suo viso.

Osservavo con la più grande attenzione ed in silenzio assoluto, ogni movimento della sua mano.

Quasi non respiravo.

Sarei rimasto sempre con mio padre.

Non capivo perché non era possibile, non capivo perché ogni giorno ci lasciava ed andava via. Capivo ancora meno quando questo succedeva di sera e appena lui usciva di casa, noi tre, mia mamma, mio fratello ed io, andavamo a dormire.

Da soli.

Non comprendevo perché non restava a dormire con noi ed ancora meno, comprendevo quello che succedeva ogni volta, prima che lui andava via.

Eravamo tutti lì, nel’ ingresso, d'avanti alla porta di casa mentre si preparava, e prima di uscire, baciava me, poi mio fratello ed alla fine, mia mamma. Era una cosa tutta strana che non capivo.

Come un rito.

Ogni volta mi dava quattro baci.

In fronte, sulla bocca, su una guancia e poi sull'altra guancia.

In quei momenti, mi sembrava che fosse meno gigante del solito e non sapevo, non capivo il perché.

Ho capito poi, crescendo, che ogni volta usciva per andare a lavorare ed ogni volta ci baciava a tutti con il segno della croce.

Come se fosse per l'ultima volta che ci vedeva.

Infatti capitava molto spesso, troppo spesso che mariti e padri uscivano di casa per andare a lavorare e non tornavano mai più.

Era il prezzo che la miniera si faceva pagare.

Mi sono sempre sentito fortunato, privilegiato, perché il mio papà e sempre ritornato a casa, fino al giorno in qui non e più andato via.

Era arrivato il giorno della pensione.

Soltanto da quel giorno in poi, ho vissuto finalmente in totale tranquillità.

Quella tranquillità che ho sempre respirato in casa, come quando con le mie macchinine giocavo sui tappeti che coprivano il pavimento e passando indisturbato da una camera all'altra, facevo dei grandissimi viaggi conosciuti soltanto a me. Ricordo più di una volta le persone grandi della mia famiglia oppure ospiti, che per spostarsi all'interno della casa passavano con tanta attenzione sopra me, che in quel momento, mi trovavo sul loro cammino.

Nessuno mi ha mai disturbato.

Nessuno mi ha mai detto che stavo disturbando.

A viaggio finito, portavo sempre tutte le macchinine nel loro garage, al proprio posto.

Non erano tante.

Semplici, ma belle.

Il giusto di qui avevo bisogno per stare bene, e che non mi è mai mancato.

Il necessario non è mai mancato, e la convivenza nella famiglia andava avanti in modo molto naturale. Non si parlava tantissimo e sempre, ma quando si faceva, era in modo semplice ed essenziale.

Molto naturale.

Ci si capiva molto bene ed i risultati erano subito visibili.

Invece, erano molto più presenti e forse anche più importanti i gesti, gli esempi.

Da molto piccoli e semplici, ai più grandi che toccavano dal più profondo del proprio essere fino alla parte esterna. Ogni volta, subito dopo aver vissuto qualcuno di questi gesti, di questi esempi, mi sentivo più grande, più ricco ed anche più responsabile nei confronti dei miei famigliari.

Quasi tutto si faceva con i fatti, con tanti fatti.

Ogni volta, il risultato si vedeva subito, ed ognuno riusciva a trovare sempre il proprio posto, fare le sue cose e soprattutto rispettare gli altri in tutto e per tutto. Dai propri spazi nella vita vissuta in casa, alle cose materiali, facendo nascere e crescere sempre di più una convivenza molto equilibrata e pacifica.

Quei gesti mi hanno aiutato molto a non sentirmi fuori luogo, estraneo ed impacciato, nel giorno in qui ricordo la mia prima uscita, quando tenendo la mano di mia mamma, sono sceso di casa.

Uscendo dal portoncino d'ingresso del condominio ed appena varcata la soglia, ricordo che fuori c'era tantissima luce e che sul viso mi ha colpito dolcemente forte, un piacevole calore. Nelle orecchie ho sentito un boato molto forte, ma bello.

Erano le grida dei tantissimi bambini che giocavano.

In casa mi sembrava tutto molto grande, ma lì fuori era tutto gigantesco.

Sui due lati del marciapiede, subito prima dell'ingresso c'erano, una di fronte all'altra, due panchine di legno. Abbastanza lunghe, molto ampie e comode, verniciate di un bel colore verde.

Erano quasi piene tutte due di persone.

Più donne che uomini, e subito ero rimasto impressionato che tutti si avvicinavano a me. Volevano toccarmi, e quasi ognuno di loro mi stava chiedendo qualcosa. Non ho capito quasi nulla, ma mi chiedevo come facevano a conoscermi tutti.

Dietro le panchine, sui due lati e per tutta la lunghezza del condominio, c'erano dei giardini molto belli. La terra, tutta zappata era di un bel colore marrone scuro, con attorno una fascia di erba bassa, di un verde molto intenso.

Tutto era chiuso con una recinzione in ferro non alta e fatta di tante forme diverse tra di loro, colorata con dei colori vivi e molto belli.

L'interno dei giardini, era pieno di fiori ben ordinati, da molto piccoli e bassi, a più grossi ed abbastanza alti. Tutti fioriti ed i colori erano tanti e molto belli. Mi sembrava che qualcuno di quelli più alti e grossi, avevano anche un buon profumo.

L’ho sentito molto bene, quando con per mano mia mamma, abbiamo cominciato a passeggiare sul marciapiede vicino ai giardini ed in quei momenti, non sapevo a cosa fare più attenzione.

Dare più importanza.

Ai giardini da una parte, oppure a quello che vedevo da l'altra parte, perché la c'era una cosa impressionante. Una costruzione con tantissime finestre, che prendeva tutta la mia attenzione.

Un condominio gemello al nostro.

Sembrava vicino, ma era abbastanza lontano da poter lasciare lo spazio in mezzo, ad un campo che a me sembrava molto grosso. Su quel campo, in quel momento, in mezzo alla polvere sollevata da loro stessi, ed accompagnati da tantissime grida, un bel gruppo di ragazzi molto più grandi di me, correvano dietro ad un pallone.

Era il campo in terra rossa, dove poi crescendo, insieme ai miei amici del condominio, avrei giocato e vinto tante finali di "coppa del nostro mondo di calcio", contro le squadre di condomini vicini, o lontani nella città.

Mentre guardavo tutte queste cose, camminando insieme a mia mamma, con la mia mano nella sua mano, siamo arrivati alla fine del giardino. Li c'era una cosa ancora più bella di tutto quello che avevo visto prima. Un pezzo di terra, con l'erba alta, verde, piacevole, morbida e molto profumata. Lo so, perché appena arrivati, abbiamo lasciato il marciapiede e siamo entrati anche noi. La cosa ancora più bella e che nell'erba alta, c'erano non pochi bambini.

Tutti, della mia misura, della mia altezza.

Appena dentro, mia mamma, mi ha mollato la mano quasi spingendomi dolcemente verso quei bambini. Erano tutti insieme, radunati in un bel gruppetto, e sembrava che si conoscessero tra di loro.

Per me era la prima volta, oppure la prima volta che ricordo.

Molto bello, perché appena arrivato, non mi hanno respinto ed all'inizio, senza dire nulla, ma con dei gesti, mi hanno permesso di avvicinarmi e di stare con loro. Appena vicino, hanno cominciato anche a parlarmi, ma purtroppo lo facevano tutti insieme e non capivo nulla. Quello che ho capito molto bene e che erano di due categorie, perché c'erano quelli che in mano avevano una macchinina, oppure altri giochi che anch'io conoscevo, e c'erano quelli che avevano una specie di bambino molto, molto piccolo e morbido.

Era per la prima volta che vedevo delle cose così.

Quelli con il bambino morbido avevano anche i capelli più lungi.

Erano le femminucce, con le loro bamboline.

La cosa molto bella e che quasi ognuno di loro, maschietti e femminucce, mi voleva dare quello che aveva in mano, e mi sono subito sentito così bene insieme a loro, da non ricordare neanche più della presenza di mia madre.

Infatti, le persone grandi erano non molto lontane.

Vicine da poterci vedere bene, ma abbastanza lontane, per non fare parte di tutto quello che succedeva tra noi piccoli.

Noi piccoli, perché quella bella erba verde e profumata, mi arrivava quasi al petto.

È stato tutto bellissimo, e quando sempre con mia mamma per mano, siamo andati via per salire in casa, ero molto contento. Non vedevo l'ora di tornare di nuovo con la mia macchinina preferita, per farla vedere e toccare ai miei, ormai amici ed amiche.

Quello che sentivo era molto, molto bello e dentro il mio petto c'era un qualcosa che mi sembrava si muovesse.

Saltellava e forse era per via di quelle cose nuove e belle che vivevo.

Questa bella sensazione, mi faceva stare ancora meglio.

Mi capitava sempre più spesso ed un giorno, è stata così forte da avere quasi paura che veniva fuori dal petto.

Era il giorno in qui i miei genitori hanno detto che andavamo a trovare i nonni.

Ero felice, curioso ed impaziente.

Subito sono andato a prepararmi ed ero pronto per partire.

Mi hanno fermato, quasi bloccato i miei genitori, molto sorridenti e con dei modi molto tranquilli, divertenti e non riuscivo a capire niente, non riuscivo a capire il perché.

Mi chiedevo perché avevano già cambiato idea, se pochi attimi prima erano decisi di andare dai nonni.

I giorni dopo, ho visto che succedevano delle cose mai viste prima.

Cose comprate, depositate sui tavoli ed altri posti in casa. Roba da vestire che di solito stava negli armadi, appoggiata sui divani e sulle poltrone. Poi, quando non c'era più spazio per appoggiare niente, da nessuna parte, mio papà ha cominciato a mettere tutto in dei grossi contenitori abbastanza rigidi. Una volta pieni li chiudeva a chiave, e grazie ad una maniglia, li spostava per non essere di intralcio. Quando i tavoli, le poltrone ed i divani sono tornati puliti e liberi come erano di solito, mi è stato detto di prepararmi.

Stavamo partendo.

Scesi di casa, c'era mio padre che portava quei due grossi contenitori e mia madre con per mano me ed il mio fratello.

Abbiamo fatto poca strada.

Il marciapiede che affiancava i giardini del condominio ed il nostro bel pezzo di terra con l'erba tutta verde. Subito dopo, abbiamo attraversato il corso e ci siamo fermati sul marciapiede, da l'altra parte. Mio padre ha posato i due contenitori, e stavamo li fermi, insieme ad altre persone. Come ad un segnale, tutte le persone hanno cominciato a fremere e dopo pochi istanti, d'avanti a noi si è fermata una macchina molto grossa.

Siamo saliti tutti.

La macchina era tutta piena di gente.

C'era chi stava seduto e c'era chi, come noi, stava in piedi in mezzo a delle persone molto, molto più grandi di me. Tutte quelle cose nuove: la grossa macchina, le persone, il rumore del motore, le vibrazioni che si sentivano, il fatto che ogni tanto quella macchina si fermasse, e c'era chi scendeva e chi saliva, il tutto mi faceva sentire più rigido. La serenità che ho sempre vissuto dentro di me, la gioia perché si andava dai nonni, all'improvviso erano come scomparse e quello che sentivo era una cosa nuova.

Una cosa che mi toglieva la tranquillità e che non mi piaceva.

Quando mio papà mi ha preso in braccio, ho scoperto che quella grossa macchina, aveva finestre dappertutto intorno. Riuscivo a vedere fuori le case, i prati, le macchine e tutte le altre cose che andavano via.

Stavo già meglio.

Il mio respiro, che prima era molto corto, veloce, è ritornato ad essere quello che conoscevo.

Così tranquillo da non ricordarmi neanche che respiravo.

Purtroppo, dopo abbastanza poco tempo, la grossa macchina si è fermata, tutta la gente è scesa ed insieme alla gente anche noi.

Come quando siamo scesi di casa, mio padre ha preso i due grossi contenitori, mia madre ha preso per mano mio fratello e me e tutti insieme abbiamo cominciato a camminare. Dopo pochi passi, ci siamo trovati su un marciapiede molto stretto e con recinzioni molto alte sui due lati. Questo marciapiede sembrava diviso a metta, da una linea che non vedevo. Da una parte c'erano persone che come noi, andavano, e da l'altra parte c'erano persone che ci venivano incontro.

Era una cosa che non si fermava mai.

Persone che andavano e persone che venivano.

Molto ordinate, ma il tutto mi faceva sentire di nuovo come prima, non tranquillo. Dopo pochi passi, ho visto che il marciapiede dove stavamo camminando era molto, molto alto. Sotto, c'erano delle macchine molto più grosse e molto più lunghe di quella di prima, e si muovevano su e giù. Facevano tanto rumore e facevano tremare quel marciapiede dove stavamo camminando, ogni volta che una di quelle macchine passava sotto.

Tutti quei movimenti e tutti quei rumori, mi hanno fatto venire di nuovo quel respiro molto corto, molto veloce ed in quei momenti, per la prima volta, sentivo un'altra cosa che non avevo mai sentito prima in quel modo.

Un qualcosa che colpiva nel mio petto di dentro con tanta forza.

Lo faceva in un modo, ancora più veloce del mio respiro.

Erano come delle botte una dietro l'altra e non finivano mai. Abbastanza forti per poterle sentire, ma non mi facevano assolutamente nessun male. Dopo pochi attimi, ho cominciato a sentire le stesse cose anche nella testa. Ad ogni colpo, mi sembrava di sentire un rumore forte che veniva di dentro.

Più diventavano tanti e forti quei colpi, più l'unica cosa che desideravo, era di trovare di nuovo la pace che ho sempre vissuto prima.

Stavamo camminando già da un po', quando il marciapiede si è trasformato in una scala. Siamo scesi e ci siamo fermati su uno dei tanti marciapiedi che avevo già visto dall'alto. Messi molto ordinati uno di fronte all'altro.

Non ho fatto in tempo a vedere nulla, perché d'avanti a noi, mentre tremava la terra sotto i piedi, e facendo un rumore da non poter più sentire niente, si e fermata una macchina immensa. Aveva delle ruote di ferro molto grosse ed anche questa sul lato che vedevo, nella parte sopra, era tutta vetri.

La scala che mi sono trovato d'avanti era così alta che mio padre ha dovuto prendermi in braccio per farmi salire. Dentro c'era uno spazio molto ampio. Con tanti divanetti che potevano tenere due persone. Erano messi uno di fronte all'altro e di fianco, tra loro una grossa finestra. Nello stesso modo, da l'altra parte, dove c'era l'altra finestra. Due lunghe fila di divanetti messi ordinati, in coppia ed in mezzo, uno spazio, dove la gente andava avanti ed indietro.

Dopo il grande movimento all'inizio, tutte le persone hanno trovato un posto per sedersi.

Noi, ci eravamo seduti su due di quei bei divanetti morbidi e molto comodi. Su uno dei due di fronte a me, stava vicino alla finestra mio fratello e di fianco a lui, mia mamma. Mi sentivo molto protetto sul' altro, con mio papà.

Anche se attorno riuscivo a vedere non poche persone, il modo come eravamo seduti, mi dava un po' di intimità della nostra famiglia.

Mi faceva sentire sempre più tranquillo.

Questo ha fatto che quel qualcosa che mi stava saltellando nel petto ed il respiro molto veloce, sono andate via piano, piano, finché sono scomparse.

Quando sono ritornato a sentirmi come di solito, mio papà, ha cominciato a parlarmi, dicendomi che quella grossa macchina si chiama treno. Viaggia su una strada di ferro e l'unica cosa che ricordo ancora, è il buio totale.

Un silenzio assoluto.

Quando è ricomparsa la luce, di fronte al mio viso c'era la faccia di mia mamma. Provava a darmi un qualcosa che aveva in mano, dicendomi che è arrivata l'ora di mangiare. Ho subito guardato fuori dalla grande finestra e ho scoperto con curiosità che le montagne erano scomparse.

Era tutto piatto, e guardando in lontananza, sembrava senza fine.

Vedevo soltanto il sole molto grande che stava quasi toccando la terra, ma non riuscivo capire perché era più lontano di come era a casa nostra, e perché era tutto così piatto.

Con tutti questi grandi pensieri, con tutte queste domande senza risposte, mentre stavo ancora masticando, è sceso di nuovo il buio, e sono ritornato nel posto tranquillo, silenzioso e di pace assoluta, dove ero appena stato prima.

Quando per la via di rumori e movimenti che sentivo attorno, è ritornata di nuovo la luce, ho visto i miei famigliari già in piedi.

Appena il treno si fermava, saremmo scesi ed ero molto felice di farlo.

Non sono stato male, ma non vedevo l'ora di scendere, perché non mi sentivo libero, poi, pensando che incontravo per la prima volta i nonni, non vedevo l'ora di farlo subito.

Ero curioso se il mio nonno assomigliava a quello di Heidi.

Non vedevo l'ora che si fermava il treno.

Appena questo è successo, nel mio petto, nel posto dove alla partenza mi saltellava tutto, in quel momento è stato come se una grossa mano stringeva con molta forza.

Il mio nonno non c'era.

Appena scesi, mio padre con le valige e mia madre con noi due fratelli per mano, abbiamo cominciato a camminare. Dopo un pezzo molto corto, siamo arrivati in un posto dove c'era ancora più movimento e disordine di quelle della partenza. C'erano tanti autobus messi in ordine uno di fianco all'altro. Tanta gente che camminava, oppure correva da tutte le parti, in un modo disordinato, ma il punto di arrivo per tutti erano gli autobus.

Dopo un po' di tempo, ci siamo avvicinati anche noi ad uno.

C'era tanta gente e non finivo di guardare tutte quelle persone, perché mi incuriosivano molto. Tutte quelle persone, uomini e donne, erano completamente diverse da quelle che vedevo di solito.

Gli uomini sembravano meno giganti ed erano vestiti in un modo che non avevo mai visto prima.

Tutti avevano il capo coperto con dei capelli molto belli.

Anche le donne, portavano dei vestiti totalmente diversi di quelli che avevo sempre visto e mi sembravano non belle. Avevano gonne fino quasi a terra, e sopra, vestiti con maniche lunghe. Il capo coperto con dei fazzoletti molto colorati, anche se faceva caldo.

Sembravano tutti molto anziani.

Il loro modo di parlare era completamente diverso del nostro. Si capiva benissimo cosa dicevano, ma lo facevano in un modo che non avevo mai sentito prima.

Mi scappava da ridere sentirli.

Appena seduti tutti, l'autobus e partito e dopo aver fatto un pezzo in mezzo ai palazzi ed alle macchine, ci siamo trovati quasi all'improvviso che non c'era più nulla.

Eravamo usciti dalla città.

Da una parte e dall'altra della strada, c'erano soltanto delle colline. Non erano molto alte ed avevano delle forme molto belle.

Cosi rotonde e morbide che sembravano costruite da chi sapeva fare molto bene quel lavoro. Erano di un verde molto bello, così forte e così intenso, che nei punti dove erano vicinissime alla strada, faceva quasi male agli occhi guardarle con attenzione.

Mentre l'autobus continuava ad andare, nelle colline ho cominciato a vedere, prima ogni tanto poi molte di più, delle costruzioni piccole, basse, ma molto belle che fino in quel momento non avevo mai visto così tante.

Tutte insieme.

Mi e stato detto che erano le abitazioni dei contadini, e quando quelle case sono diventate molte di più e sempre più attaccate una all'altra, l'autobus si è fermato.

Dopo che un po' di gente è scesa ed un altro po' è salita, è ripartito.

Quasi subito le case sono diventate di nuovo sempre più lontane una dall'altra finché sono scomparse del tutto e le colline che vedevo erano ancora più belle. Si vedevano dei pezzi neri che sotto il sole luccicavano ed intorno altri pezzi colorati di verde. Non più come prima in modo unico, ma con tanti tipi di verde.

Uno più bello dell'altro.

La cosa più bella in assoluto, da perdersi dentro mentre si guardava, erano dei immensi pezzi di giallo, fresco e molto luminoso. Coprivano alcune colline del tutto e scendevano fino alla strada. Piante fini e molto delicate. Un po’ più alte dell'erba dove andavamo a giocare con i miei amichetti. Sii muoveva tutto insieme avanti ed indietro, senza mai fermarsi ed ogni volta, il giallo cambiava. Sembrava che il sole era sceso sulla terra, e non era ancora deciso da quale parte andare. Se avanti, oppure indietro, se su, oppure giù e nella sua indecisione, permetteva a me di vedere una delle cose più belle mai viste fino in quel momento.

Uno spettacolo unico.

Mi sentivo in pace.

Riposato, tranquillo, sfamato e dissetato.

Una sensazione nuova per me.

Meravigliosamente bella.

Per quanto stavo bene, sarei rimasto così per sempre, ma purtroppo il giallo è finito ed al suo posto, sono comparse altre case. Come prima, quando le case sono diventate sempre di più e sempre più vicine, l'autobus si è fermato.

Questa volta siamo scesi anche noi.

Appena sceso, mi è sembrato di essere arrivato in un altro mondo.

Quando l'autobus con il suo rumore è andato via, anche se attorno era pieno di case ed eravamo sulla strada, ho sentito un silenzio così forte, come mai prima.

Si sentiva soltanto il silenzio e niente altro.

Forte ed intenso.

Mi colpiva con tanta piacevole forza nelle orecchie quel silenzio ed ero molto impegnato nel ascoltarlo, capire qualcosa in più, ma il tutto è stato interrotto da una voce maschile che diceva:

< Fattemi vedere il mio nipote più piccolo >.

Il suono della voce, anche se normale, sembrava quasi che rimbombava in quel splendido silenzio.

Era il mio nonno.

Mentre si abbassava per baciarmi ed abbracciarmi, ho visto subito che non assomigliava al nonno di Heidi.

Anche lui, era vestito come gli uomini visti prima.

Su quello che vedevo d'avanti ai miei occhi per la prima volta, quella faccia di fronte alla mia, non saprei dire quasi nulla, a parte i suoi occhi molto blu e molto profondi e luminosi. Però, dentro il mio petto, quella cosa che all'inizio del viaggio saltellava affannata, poi si era sentita stretta da quella grossa mano, poi aveva sentito la pace, quella cosa lì, in quel momento era molto tranquilla e si sentiva molto protetta.

Quasi accarezzata.

Sembrava che si stava appoggiando dopo tante fatiche su un morbido cuscino.

Finalmente, il mio cuore era tranquillo e stava riposando.

Sembrava quasi un sogno molto bello, tranquillo e nella luce, che però è stato quasi subito interrotto da una cosa molto ruvida che ho sentito sulla mia guancia. Era la mano del mio nonno, che con un movimento molto delicato, mi aveva preso vicino a lui. Con tanta tranquillità, a piccoli passi, i miei passi, abbiamo cominciato a camminare.

Lui trascinava un carretto, dove stavano in quel momento le due valige. Dietro al carretto c'erano mio papà, mia mamma e mio fratello.

Mentre andavamo avanti ho cominciato a sentire di nuovo quel silenzio molto forte, ma molto bello che era interrotto soltanto dal rumore dei nostri passi che rimbombavano come un eco. Ogni tanto quando si sentiva qualche parola, sembrava così forte che veniva quasi la voglia di chiedere subito scusa al silenzio per averlo disturbato.

Dopo non tanto tempo, abbiamo lasciato la strada su quale eravamo venuti con l'autobus ed abbiamo iniziato a camminare su un'altra che cominciava li.

Era diversa da tutte le altre strade che avevo visto fino in quel momento.

Aveva un colore marrone molto, molto chiaro, quasi giallo e cominciando a camminare sopra l’ho sentita sotto i piedi più morbida di come erano tutte le altre strade che conoscevo. Più morbida, ma abbastanza durra per non sprofondare. Vedendo la polvere alzata dall’immenso carretto con quattro ruote e trascinato da due grossi cavalli, appena passato, ho capito che era una strada fatta di terra. Guardando poi con attenzione mio fratello ed i miei genitori che camminavano uno dietro l'altro, su un lato, dove finiva la strada, ho visto sotto i loro piedi, una fila di grossi sassi molto piatti, messi così ordinati, da sembrare quasi un marciapiede.

Non ho fatto in tempo a capire di più, perché ho sentito la voce della mia mamma dicendo:

< Siamo arrivati.>

Eravamo d'avanti ad un cancello in legno.

Molto bello e molto grosso. Tutto colorato di un verde molto fresco. Bucherellato ogni tanto in un modo così bello che sembravano dei grandi fiori. Non riuscivo a vedere nulla di quello che era dietro al cancello, ma di sopra vedevo una casa come quelle già viste dall'autobus. Di un colore cosi chiaro e caldo che sembrava un pezzo del cielo di quel giorno sceso sulle sue pareti. Mentre provavo a guardare con più attenzione, da dietro ho sentito dei rumori.

Subito dopo, si è aperta una piccola parte di quel grosso cancello.

Una parte dove potevano passare al massimo due persone e da dietro, dopo aver aperto, ci è venuta incontro una donna.

Anche lei era vestita come quelle donne che avevo già visto prima. Con una gonna quasi fino a terra, con le braccia tutte coperte e sul capo, un fazzoletto che lasciava vedere soltanto la faccia.

Era la mia nonna.

Appena passati oltre il cancello, si apriva un mondo tutto nuovo e completamente diverso di quello che avevo mai visto prima.

Il cortile era molto bello, molto ordinato.

Una parte era coperta di erba molto bassa, morbida e di un verde molto forte. La parte che rimaneva era tutta terra di marrone abbastanza scuro, ma bello.

Su tutta la parte destra, dall'inizio e quasi fino in fondo al cortile, c'era la casa che avevo già visto prima dalla strada. Di fronte alla casa, sul' altro lato del cortile, un muro tutto verde che usciva dalla terra ed era alto quasi come le pareti della casa.

Vicino a quel muro verde, l'aria sembrava più fresca, faceva meno caldo e c'era un buon profumo.

Quel muro verde, era tutto pieno di grossi grappoli d'uva con i chicchi un po' verdi ed un po’ appena colorati.

Più verdi che colorati.

In fondo al cortile, messa di fronte al cancello di dove eravamo entrati, c'era un’altra casa.

Molto più piccola e meno bella di quella grande.

Dopo pochi attimi e come se fosse stato dato un segnale da mia nonna, le tre bambine che fino in quel momento stavano tranquille su una bella panchina di legno, vicina, quasi attaccata al muro verde, si sono alzate e dopo che si sono avvicinate, ognuna di loro ha detto il suo nome.

Appena sentiti, non ricordavo più il nome di nessuna.

Tutte più o meno della mia misura.

Erano le mie cugine.

Una di loro, senza dire nulla a nessuno, si è avvicinata, mi ha preso per mano e quasi trascinandomi, ha cominciato a portarmi lontano da tutti gli altri. Tornando verso il cancello e poi girando tra la casa grande ed una recinzione attraverso quale si poteva vedere la strada di dove eravamo venuti, mi ha portato dietro alla casa.

Appena girato l'angolo, d'avanti agli occhi avevo un’altra cosa nuova. Un piccolo cortile, fatto tutto di terra, tra la casa ed un altro muro verde. Questo, era fatto di tantissime piante, tutte una vicina all'altra in un modo molto ordinato.

Piante che vedevo per la prima volta.

Erano molto sottili ed al meno due o tre volte più alte di me. Quando si muoveva l'aria, si muovevano tutte nella stessa direzione, facendo un bel rumore tranquillo, delicato, ma molto strano. Sembrava quasi il rumore del grande fiume che ho visto vicino a casa nostra con il mio papà.

Sopra tutto quel piccolo cortile, come un soffitto c'era un altro muro tutto verde che non faceva passare la luce del sole e da qui scendevano dei grossi grappoli d'uva con i chicchi molto più grossi di quelli appena visti.

Sotto la vite, nel forte caldo della giornata, l'aria era di un fresco profumato così buono, da non sembrare vero. Per terra, c'era un movimento veloce, disordinato e continuo di: galline, galli, tacchini, papere, oche e qualche mamma di queste razze, che in quel continuo movimento cercava dei posti più tranquilli per i suoi pulcini.

Era una cosa bellissima che prima, avevo visto soltanto in televisione.

Sembrava che ognuno sapeva quale era il suo posto ed anche se non si fermavano mai, nessuno dava fastidio o disturbava nessuno.

Non ho fatto in tempo a rispondere alla domanda della mia cugina se mi piaceva, oppure no perché, tenendomi sempre stretto per mano, mi ha riportato nel cortile dove eravamo arrivati. Passando vicino a tutti gli altri molto veloce e senza fermarci, siamo andati verso la piccola casa in fondo al cortile.

Camminando, mi ha fatto vedere alla fine del muro verde sulla sinistra, un grosso cane che vedendoci, o forse soltanto vedendo me che ero nuovo lì, ha cominciato a camminare deciso ed abbaiare molto forte.

Stavo per fuggire via dalla paura, quando ho sentito la mano della mia cugina che mi teneva ancora più forte e stretto.

Mentre lo faceva, mi diceva di non avere paura perché era legato ad una catena.

Il suo comportamento sicuro ha riportato subito la tranquillità anche a me, ma dentro il mio petto, quel qualcosa che ormai conoscevo, cioè, il mio cuore, aveva già cominciato a correre molto forte.

Siamo andati sempre avanti ed alla fine della casa grande, sulla destra del cortile, mia cugina mi ha fermato e siamo entrati dentro una piccola casetta, tutta di legno che prima non avevo neanche visto.

Dentro, l'aria era così forte che mi pungeva il naso e l'odore non era buono, ma la curiosità di vedere cosa c'era dentro, più forte di qualsiasi altra cosa.

Era la casetta dei maiali.

Tutti abbastanza grossi. Si muovevano tranquilli e ci venivano anche vicini facendosi accarezzare senza nessun timore. In quei momenti, anche se la cosa cominciava a piacermi, quello che aveva più paura tra tutti, credo che ero io.

Appena usciti dai maiali, siamo entrati nella piccola casa.

Per terra era tutto legno, ma coperto con un grosso strato di erba seccata. L'odore mi è subito piaciuto molto, anche se non lo conoscevo.

Si sentiva una grande pace.

In quel giorno in qui, quasi tutto ciò che ho visto e vissuto era per la prima volta, quello che avevo d'avanti in quel momento, oltre ad essere per la prima volta che vedevo, era anche la cosa più bella mai vista da vicino fino in quel momento.

Una mucca.

Tutta di un bel marrone, quasi rosso con delle macchie bianche sul petto, sulla pancia, sulle gambe e tutta la faccia. Legata alla sua mangiatoia, mentre masticava tranquilla, ci guardava nello stesso modo. Non mi sembrava vero ed ero fermo, senza parole, quasi perso nel guardare ed esaminare la mucca più che potevo, quando la mia cugina mi ha quasi svegliato per farmi vedere un'altra cosa che, preso dalla curiosità per la mucca, non avevo visto prima.

In quel momento, ho capito che avevo sbagliato.

Era quella la cosa più bella vista in quel giorno.

Il figlio della mucca.

Un piccolo vitellino.

Era seduto in un angolino tra il muro e la mangiatoia e dall'erba secca si vedeva soltanto un faccione bianco, bello e dolce. Un musetto rosa molto umido e due occhioni neri, grossi, puliti e luminosi. Ogni tanto muoveva le orecchie buffe che sembravano più grosse della testa.

Aveva una settimana da quando era arrivato.

Dopo essere usciti dalla stalla, si chiamava così la piccola casa ed era un'altra cosa nuova imparata in quel giorno, attraverso un piccolo cancelletto alla sua sinistra, siamo andati dietro. Appena arrivati, mi sono detto che se il Paradiso esiste, deve essere come quello che vedevo in quel momento.

Un pezzo abbastanza grosso con tutta erba e tanti alberi.

L'erba non era molto alta. Di un verde mai visto prima e toccandola era cosi soffice, cosi morbida, da sembrare una di quelle camicette eleganti che indossano le donne nei giorni di festa.

Il profumo era buonissimo.

Gli alberi non erano molto grossi e le loro foglie con il movimento dell'aria, facevano quasi lo stesso bel suono del muro verde, dietro alla casa.

Ho visto che oltre le foglie c'era dell'altro sulle piante.

Quando la mia cugina mi ha detto che se volevo mangiare della frutta, dovevo prendere quella caduta da sola per terra. perché era più buona di quella ancora sugli alberi, non mi sembrava vero.

Potevo mangiare della frutta subito.

Senza dover andare al negozio e senza doverla pagare con i soldi.

Da quel momento, il pezzo di terra dove eravamo, per me e diventato per davvero Il Paradiso, perché c'erano al meno sei o sette tipi diversi di frutta. Frutta che ogni bambino avrebbe voluto e che io potevo mangiare tranquillo.

Subito.

Purtroppo quel sogno bellissimo è stato interrotto da una voce di donna che da l'altra parte della stalla chiamava per nome me e mia cugina.

Dovevamo andare a mangiare.

Stavamo già andando ed ero molto contento, perché finalmente avevo capito come si chiamava la mia cugina.

Ritornando nel primo cortile, ho visto che c'era un continuo avanti ed indietro tra la prima porta della casa verso la stalla, ed un tavolo che e comparso vicino al muro verde, di fianco alla bella panchina in legno.

Ho visto in quel momento che la vite, diventava anche soffitto per un buon pezzo del cortile, come quello dietro la casa.

Mentre mia nonna e la mamma delle mie cugine preparavano il tavolo, insieme ai miei genitori ed al mio fratello sono entrato per la prima volta nella casa dei nonni.

Fuori faceva molto caldo ed entrando, per quello che ho sentito, sono rimasto per un attimo quasi bloccato sulla porta.

Un bellissimo fresco, molto gentile e ben profumato che mi avvolgeva dappertutto.

Mi sentivo dolcemente accarezzato.

Una cosa bellissima.

Non sapevo di cosa erano quei buoni profumi che mai avevo sentito in una casa prima di quel momento. Sapevo con certezza, che i profumi, insieme al fresco, al grande silenzio ed alla pace che si sentiva dentro, erano un forte invito per restarci.

In quel momento, dopo aver guardato bene in giro, era l'unica certezza che avevo, perché di domande ne avrei avuto da fare tantissime.

Tutte insieme.

Era una casa completamente diversa della nostra e di tutte le altre che avevo mai visto fino in quel momento.

Due camere molto grosse con delle finestre forse un po' piccole che non facevano entrare tanta luce. Per terra non c'erano tappetti come a casa nostra ed appena entrati, le scarpe non si toglievano. Il pavimento era molto scuro ed abbastanza duro e mio papà mi ha spiegato che era fatto di terra battuta. Le pareti erano colorate con dei colori molto belli e chiari. I soffitti, fatti di legno. Erano così belli per la loro forma, che sono rimasto con il naso in su a guardarli per un bel po'.

Anche i mobili erano tutti diversi dei nostri.

Avevano quasi tutti lo stesso colore dei soffitti. Un marrone abbastanza scuro, ma piacevole ed avevano tagliate, scolpite, delle forme una più bella dell'altra, che insieme ai disegni fatti con dei colori molto piacevoli, facevano restare a bocca aperta, d'avanti ad ogni cosa.

Piccola o grande.

Appesi ai soffitti, c'erano dei lampadari completamente diversi dei nostri.

Molto più piccoli, ma molto più interessanti.

Fatti di vetro, ferro molto fine e tela bianca con dei bei disegni molto colorati.

Non riuscivo a capire a cosa serviva il liquido che si trovava al loro interno e che riuscivo a vedere attraverso il vetro.

Tutti quei dubbi sono rimasti un po' in aria, allo stesso modo di come mi sono trovato, quando all'improvviso mio papà mi ha alzato, per poi lanciarmi nel gradissimo letto.

Bellissimo, ma, appena atterrato, sono venute fuori altre domande.

È stato un atterraggio molto morbido, ma non sono stato rimbalzato in aria come a casa quando saltavo sopra il letto con il mio fratello. Il materasso faceva un rumore tutto strano che non conoscevo. Il profumo che sentivo era molto buono, la curiosità, molto grande e senza neanche fare la domanda, mio papà mi ha dato subito la risposta.

Era un materasso fatto con il fieno.

Mia mamma era già pronta per vestirmi in tenuta da battaglia e lo ha fatto mentre ero ancora sopra il letto.

Pantaloncini corti, maglietta e sandali.

Appena pronto, siamo usciti ed eravamo gli ultimi che si dovevano ancora sedere intorno al grande tavolo.

C'era un po' di gente e non conoscevo quasi nessuno, ma non era importante, perché la mia attenzione è stata subito attirata da tutto quello che c'era sopra il tavolo.

Tutto molto bello.

La tovaglia che lo copriva era molto bella ed il suo colore bianco, mi sembrava ancora più bianco, quando guardavo tutti i suoi disegni, colorati con tutti i colori più belli e caldi, ma quello che era sopra il tavolo, toglieva il fiato.

Cose che ogni tanto vedevo e mangiavo anche a casa nostra mentre sentivo che erano mandate dai nonni, ma sul tavolo, c'erano anche tante altre che non avevo mai visto prima.

Non c'era del cibo cucinato.

Su un grosso piatto in centro, c'erano delle salcicce di un marrone intenso e piacevole interrotto ogni tanto da alcune piccole macchioline bianche. Erano tagliate a rondelle molto fini e delicate. Tutto intorno, delle fette di pancetta in quale le strisce bianche, quelle rosa, quelle rosse che poi diventavano quasi marrone, erano così ordinate da chiedersi come mai erano venute così bene se nessuna persona ci ha mai lavorato per metterle in ordine. Alla fine, all'esterno del grosso piatto e sempre tutto intorno, c'erano delle grosse fette di formaggio. Il colore non era né bianco e neanche giallo, ma molto bello.

Forse perché aveva visto la mia faccia, la mia cugina salvatrice, mi ha subito detto che il formaggio, l'ho aveva fatto la nostra nonna, con il latte della mucca appena vista.

Di fianco al grosso piatto, c'era un altro.

Sempre rotondo, ma ancora più grosso e molto profondo. Dentro, in piccoli pezzettini, c'erano tutti i colori che potrebbero essere immaginati.

Tutti molto belli, molto vivi e molto freschi.

Era l'insalata dentro quale secondo mia nonna, ci volevano ancora dei pomodori e mentre stava ancora parlando, si è alzata ed attraverso un piccolissimo cancello, è sparita dietro al grosso muro verde della vite. Non ho fatto in tempo a stupirmi della sua mossa che è subito ritornata. In mano, aveva un po' di pomodori e dopo averli subito lavati, li ha tagliati dentro l'insalata.

In un altro grosso contenitore quasi piatto, c'erano tanti tipi di frutta bel colorata, di quella che avevo già visto per terra e sugli alberi nel Paradiso.

Sempre lì vicino, c'era un pezzo di legno grosso e piatto che mi incuriosiva molto, ma la cosa che aveva sopra toglieva il fiato.

Era un pane immenso tagliato a metà.

Molto alto, con tanta mollica.

Dentro era di un bianco che guardato fisso e per tanto tempo toglieva la vista.

Era bellissimo vedere come verso l'esterno, in pochissimo spazio, il bianco diventava giallino, poi marrone molto chiaro e poi il marrone scuro della crosta, che chiedeva soltanto di essere mangiata.

Tutte quelle belle cose sopra il tavolo, liberavano dei profumi così forti e cosi buoni, da sentirmi quasi sazio, prima ancora di cominciare a mangiare e quando mio papà mi ha svegliato dai miei profondi sogni, ho capito che mi chiamava per andare insieme a lui a fare un qualcosa.

Portare l'acqua fresca in tavola.

Stavamo camminando e mi chiedevo perché lo voleva fare, visto che vicino al nonno c'erano due bottiglie di vetro trasparente già piene. Una, aveva dentro un liquido di un colore giallo molto chiaro e molto bello che non sapevo che cos'era, ma l'altra aveva un liquido senza colore.

Per me l'acqua.

Con mio papà che aveva in mano un secchio ed il mio fratello, siamo andati dietro alla casa, lì dove c'erano le galline. Appena arrivati, mio papà ha aperto una piccola porticina nella parte alta del piccolo e bellissimo gabbiotto in legno che avevamo di fronte. Nella parte alta della casetta, da una parte al' altra, ho visto un grosso pezzo di legno rotondo su quale era raccolta in modo ordinato una catena. Alla fine della catena, un secchio di metallo.

Quando mi ha preso in braccio ed alzandomi mi ha fatto guardare dentro, la prima cosa che ho sentito e stato un bellissimo fresco umido molto profumato, che mi ha colpito forte, ma dolcemente in faccia.

Ho visto un grosso buco, non molto profondo e fatto tutto intorno di sassi molto grandi.

Alla fine del buco, l'acqua.

Faceva tanto buio dentro, ma la cosa bella era che mentre parlavo, sentivo la mia voce molto più forte e sembrava che di sotto qualcun' altro che aveva la mia voce, mi rispondeva con le mie stesse parole.

L'eco rimbombava molto forte e molto chiaro.

Poi, mio papà, girando una grossa ruota al' esterno del piccolo gabbiotto in legno, ha fatto scendere il secchio di ferro legato con la catena e dopo un po’, lo ha riportato su.

Pieno di acqua.

Mentre dal secchio di ferro la stava versando nel secchio che lui ha portato, ho visto che era molto limpida.

Con una tazza di ferro che era dentro il gabbiotto, ci ha fatto bere.

Era così fresca che con il caldo di fuori, la sentivo mentre scendeva nella mia pancia. Aveva un gusto molto buono ed era completamente diversa dell'acqua che avevamo noi a casa.

Ritornati con l'acqua fresca a tavola, ho capito che era l'unica cosa che mancava prima di cominciare a mangiare, perché ci stavano tutti aspettando.

Dopo averla messa in un grosso contenitore marrone con una forma tutta strana, qualcuno dei grandi mi ha spiegato che era fatto di terracotta per poter tenere l'acqua fresca. L'altra acqua che ho visto in bottiglia, andava bene li perché si chiamava grappa ed insieme al liquido giallo nella seconda bottiglia, che si chiamava vino, erano fatti dal mio nonno e bevuti soltanto dai grandi.

Non avevo capito quasi niente di queste ultime cose, ma non ho fatto domande.

Non mi interessava, non mi riguardava, perché da grandi.

Poi mi è stato detto che tutto quello che c'era sul tavolo in quel momento, era da assaggiare perché fatto dai miei nonni e questa sì che era una cosa che mi interessava e non comprendevo. Soprattutto mi interessava capire, come erano riusciti i miei nonni a fare così bene e con così tanti colori, quelle belle fette di pancetta vicino alle rondelle di salsiccia.

Non ho avuto il tempo di fare partire nessuna di tutte le mie domande ed ancora meno di avere delle risposte, perché mentre tutti insieme, in allegria, con poche parole e forti risate che ogni tanto rompevano il grande silenzio, ci si andava avanti con il bel lavoro di svuotamento dei contenitori sul tavolo.

Quando il bel lavoro era quasi finito, all'improvviso ho sentito una voce che dentro mi ha fatto venire il freddo. Freddo, come la neve con qui giocavo d'inverno, anche se la mia pelle era tutta molto calda, quasi sudata. Non sapevo chi era stato, ma avevo capito benissimo quello che aveva detto.

Mandava noi piccoli a dormire.

Mentre i grandi stavano ancora togliendo le cose dal tavolo, insieme alle tre cuginette, ero già sul grosso lettone provato prima. Dormire di pomeriggio era l'unica cosa che fino in quel momento della mia vita non ho mai accettato volentieri, ma appena rimasti da soli, ho visto che era tutto molto diverso di come era a casa, quando dovevo dormire.

Appena chiusa la porta, dentro e ritornato il grande silenzio.

Con la bella aria fresca che c'era, il profumo del materasso sembrava ancora più forte ed ancora più buono di prima. La coperta, anche lei tutta nuova per me, era cosi morbida sulla pelle che invogliava a restare lì, ma non volevo dormire lo stesso. Volevo usare quel tempo per vedere e capire un po' di più tutto quello che avevo intorno, però la luce bassa non mi aiutava.

Purtroppo per me e senza sapere per quale motivo, quella luce diventava sempre più bassa.

Finché e scomparsa del tutto.

La luce e tornata, quando ho sentito delle belle voci molto vicine. Erano le mie cuginette, in piedi in giro per la camera ed il mio primo pensiero e stato:

< Meno male che ci sono anche loro ad alzarsi prima, perché così non devo più dormire >.

Non ho fatto in tempo a finire quel grande pensiero, perché nella porta che si è aperta, oltre la luce potente di fuori, è entrato anche il mio fratello. Scherzando ci diceva di scendere dal letto, perché erano quasi tre ore che stavamo lì e nelle vacanze non si deve dormire mai così tanto.

Non credevo nulla, ma non ho aspettato di sentire per la seconda volta quello che aveva detto.

Con i miei dubbi, tutti insieme, siamo usciti.

Fuori faceva ancora molto caldo e la luce era forte.

Per tutto quello che ho sentito uscendo di casa, mi sembrava quasi di essere al mattino quando mi svegliavo ed i miei dubbi sono diventati ancora più forti.

Come sempre, al meno una grande domanda girava libera per la mia testa.

Anche in quel momento ne avevo una:

< Ho dormito, oppure no? >.

Poi, quando mio fratello mi ha fatto vedere una grossa bacinella di metallo con dentro dell'acqua e ho visto le mie cuginette lavorando già sodo nel lavarsi la faccia, i dubbi sono scomparsi del tutto e sono venute fuori le mie grandi conclusioni. Era per la prima volta nella mia vita che quella cosa lì, quella che mi ha sempre fatto soffrire, cioè dormire di pomeriggio, era diventata bella, piacevole e facendo un po' più di attenzione a me stesso, ho capito che mi faceva stare anche molto, molto bene.

In quel momento, mi è sembrato che i miei pensieri hanno finito le parole e di domande non ne avevo più.

Il posto di tutto ciò è stato preso da un'immensa soddisfazione che dentro mi faceva sentire come mai prima.

Una tale leggerezza, da non sentire più il mio peso.

Erano passate soltanto poche ore da quando ero arrivato a casa dei miei nonni, ma tutte quelle tante cose nuove viste e vissute, mi facevano stare sempre meglio in ogni momento. Stavo benissimo e mi sono reso conto per la prima volta che non riuscivo a trovare parole abbastanza buone per raccontarmelo bene.

Mentre nel mio stare bene, mi stavo quasi sollevando da terra, ho sentito la mano decisa, ormai conosciuta, della mia cugina salvatrice, che mi trascinava a raggiungere tutti gli altri bambini già partiti per andare nel Paradiso, dietro alla stalla.

Quando siamo arrivati, ho visto che c'erano anche altri bambini che non avevo mai visto prima.

Erano di varie misure, quasi tutti più grandi di me e guardando bene i loro modi di fare, di vestire, sentirli come parlavano, mi sembravano diversi tra di loro. Poi, giocando in totale libertà nel Paradiso senza vedere e sentire nessun grande vicino, parlando tra di noi, ho capito che ci eravamo incontrati, perché tutti noi, da tante città, avevamo appena fatto la stessa cosa.

Eravamo venuti in campagna, per trovare i nonni.

Per un lungo tempo, dal correre dietro ad un pallone, tutti insieme in un grande disordine, al fare le capriole, salire, scendere ed ogni tanto anche cadere dagli alberi o rincorrerci sul bel prato, abbiamo fatto un po' di tutto. Più passava il tempo, più stavamo scoprendo che eravamo tutti affannati, sudati e con i vestiti molto dipinti dai forti colori della terra, dell'erba, degli alberi e di qualche frutto schiacciato per terra. Poi, in un certo momento, è stato interrotto tutto dalla voce di una donna che da l'altra parte della stalla, ci chiamava ad andare per mangiare qualcosa di buono. Mentre la voce della donna diceva ancora qualcosa, un'altra voce, vicinissima a me, gridava: < chi arriva l'ultimo è... >

Dopo, non ho più capito nulla perché, seguivo i più grandi che correvano già.

Il problema grosso è stato, quando dal piccolo cancelletto, di fianco alla stalla, non siamo riusciti a passare tutti insieme e forse, quello era anche il segnale che il nostro Paradiso finiva li.

Eravamo tornati nel cortile.

Siamo entrati tutti in casa dall'ultima porta verso la stalla, lì dove non ero ancora entrato.

Era una stanza molto grande e piena di gente in quel momento. Molti di loro non avevo mai visto prima. Non sono riuscito a capire quasi nulla di come era fatta quella camera, ma dai profumi che sentivo, ero sicuro di essere entrati nella cucina. Nell'attimo dopo, mi sono visto d'avanti una faccia molto, molto bella.

Non lo so se era una ragazza grande, o una donna molto giovane, ma so che il profumo delle creps sul grosso piatto nelle sue mani, in quel momento d'avanti al mio naso, non mi faceva più pensare a niente altro, e prima ancora di sentire la sua voce, stavo già masticando il primo boccone.

Appena assaggiata ho sentito che era ancora più buona di quello che pensavo.

Era molto soffice e dentro aveva una marmellata scura, con un gusto che conoscevo molto bene, perché ogni tanto a casa, mentre mi gustavo quella buonissima marmellata, sentivo che era la marmellata di prugne fatta e mandata dalla nonna.

Dopo la prima, è arrivata anche la seconda, la terza ed inutile dire che nella fretta di mandarle giù per poter prendere subito un'altra prima che finivano, un po' di quella buona marmellata, invece di finire n bocca finiva sui vestiti, provocando un grande dolore, perché andava sprecata.

Mentre noi piccoli stavamo svuotando il vassoio delle creps ed il contenitore dell'acqua fresca, i grandi che riuscivo a vedere sempre meglio nella bassa luce della cucina, donne e uomini, continuavano i loro racconti.

I posti dove ci si poteva sedere o stare comodi, erano tutti pieni ed era molto bello vederli, ma la cosa ancora più bella era che oltre il silenzio disturbato soltanto dalle loro voci, nei loro racconti, si sentiva una grande pace in quale ci siamo persi anche noi piccoli, ognuno appoggiato alla sua mamma come i cuccioli, ascoltando quelle storie dei grandi.

Era una di quelle cose che mi facevano sentire tranquillo e sazio.

Beato.

La tranquillità è aumentata sempre di più, vedendo che nessuno dei grandi protestava per i nostri vestiti molto sporchi. Come se nessuno vedeva niente.

Il motivo non lo sapevo, ma sentivo che era un giorno di grande festa per tutti.

Poi, quando dalla finestra ho visto che il sole cominciava a scendere per andare a dormire, la cucina è cominciata a svuotarsi finché siamo rimasti: noi quattro, con i miei nonni, le mie cuginette e la loro mamma.

Loro abitavano li, sulla stessa via, molto vicino ai nonni ed il loro papà non c'era, perché al lavoro.

Quasi subito dopo, mentre si alzava, il mio nonno ha chiesto a noi piccoli se volevamo darli una mano nel suo lavoro.

Stava ancora parlando quando è uscito di casa, ma con tutti noi già intorno a lui.

Seguendolo in tutto quello che faceva, ci siamo trovati dietro casa nel cortile delle galline, e mentre lui buttava per terra da un grosso contenitore dei bellissimi chicchi gialli, insegnandoci che erano di grano turco, guardavamo la calca che si era formata attorno a noi.

Vedendo sorridevo, perché sembravamo noi con il piatto delle creps.

Finito lì, il nonno ci ha dato il compito di tornare tra un po’, per chiudere tutte le gabbie dopo che ogni creatura sarà entrata al suo posto per la notte, poi siamo ritornati nel cortile. Insieme a lui, per la prima volta mi sono avvicinato al cane e mentre le dava da mangiare lo toccato.

Per me è stato come volare sulla luna.

Era la prova di coraggio più grossa mai fatta fino in quel momento della mia vita.

Quasi subito dopo, guardandolo bene, mi è sembrato di vedere che non aveva la faccia di un cane cattivo, anzi. Purtroppo, non ho fatto in tempo a concludere tutti i miei pensieri e preparare i miei progetti futuri su come fare amicizia con il cane, perché ci siamo trovati nella casetta dei maiali ed anche loro, come le galline prima, facevano un gran rumore. C'era una spinta ed un movimento continuo alla ricerca del posto migliore, mentre mangiavano molto veloce e con tanto appetito. Dopo un po' di risate ed un po' di carezze, siamo usciti per poi entrare nella stalla.

Siamo entrati da una porta diversa di prima ed appena dentro, dopo aver preso un attrezzo che sembrava una nostra forchetta da tavola, ma con quale poteva mangiare un gigante, mio nonno ha cominciato a tirare giù del fieno, dalla parte alta della stalla. Faceva un bel rumore mentre cadeva giù ed il profumo era ancora più buono di quello del materasso. Poi, ha aperto una piccola porta di legno dentro la parete ed è stato bellissimo vedere comparire da l'altra parte l'immensa testa di Viola, la mucca nella stalla. Era così grande che non ci stava tutta nella porta ed il suo faccione buono, non metteva paura. Anzi, ci ha dato il coraggio di accarezzarla uno alla volta, anche se le sue corna erano molto grosse e la lingua molto ruvida.

Quando il nonno ha cominciato a mettere il fieno nella sua mangiatoia attraverso la piccola porta, sembrava che si capivano benissimo, perché lei, con dei movimenti lunghi e molto lenti, dopo essere quasi uscita dalla piccola porta quando l'abbiamo accarezzata, ha tirato indietro la testa, lasciando lo spazio al nonno per metterle il cibo.

Al lavoro finito, siamo usciti dal cortile ed eravamo sulla via di terra.

Dopo aver fatto pochissima strada, ci siamo trovati d'avanti ad un piccolo fiumiciattolo che scorreva tranquillo e senza fare nessun tipo di rumore. Mentre il mio nonno stava riempiendo i due secchi che aveva portato, un po' più su, ho visto una piccola diga. Fatta di pezzi di legno, erba e terra. Le mie cugine mi hanno subito spiegato che quello è il posto dove i bambini vanno a giocare nelle giornate molto calde.

Appena ritornati nel cortile con i due secchi pieni di acqua, siamo andati subito alla stalla. Questa volta siamo entrati dentro, lì dove c'era Viola ed il suo piccolo. Mentre lei, sempre con dei movimenti molto lenti, ha cominciato a bere, finalmente

ho visto il piccolo in piedi che si era avvicinato al muso della madre. Un vitellino così bello, non avevo mai visto neanche nei più bei cartoni animati, e mentre le stava vicino, il nonno ha detto a tutti noi che lo potevamo toccare se non avevamo paura.

Aveva gli stessi colori della madre.

Era così caldo e morbido come nessun'altra cosa mai toccata prima.

È stata la cosa più meravigliosa di quella giornata.

La ciliegina sulla torta di quella giornata che era già stata la più bella della mia vita fino in quel momento.

Uscendo dalla stalla, mi stavo già godendo in pieno i conti di quante cose bellissime avevo visto e vissuto in quel giorno, ma senza riuscire a finire nulla, perché la mia cugina salvatrice, mi ha detto che stava per arrivare il momento più bello.

Mentre il nonno entrava nella cucina, noi siamo ritornati nella stalla con la nonna.

Aveva nelle mani un piccolo sgabello, un grosso secchio di metallo smaltato bianco ed una grossa tazza, uguale al secchio.

Appena entrati, dopo aver messo lo sgabello vicino alle gambe dietro, di fianco alla Viola, con il secchio per terra tra le sue gambe, la nonna ha cominciato a mungere.

Era bellissimo.

Mungeva con tutte due le mani ed il latte usciva così forte che faceva un bel rumore mentre colpiva il metallo del secchio vuoto. Poi, piano piano, il rumore non era più di metallo, ma di un qualcosa che non conoscevo, perché mai sentito prima e mentre guardavo nel secchio, dopo che mi ero avvicinato alla nonna, ho capito che quel bel rumore profondo, sconosciuto, era il rumore della tanta schiuma molto bianca e molto morbida, che faceva il latte appena munto.

Guardavo senza fiatare la nonna come mungeva con una mano sola nella grossa tazza che teneva con l'altra mano. Quando era quasi piena me la data, dicendomi di bere insieme alle mie cugine.

Non avevo mai visto prima una cosa così.

Appena toccata la tazza, ho sentito che era molto più calda di come era l'aria fuori, ma molto meno calda di come sono gli oggetti appena tolti dalla cucina.

Un caldo molto piacevole, morbido e delicato.

Appena ho provato ad assaggiare, non ho sentito il latte, ma la schiuma molto soffice e di un leggero così fine, come non ho mai avuto prima sulle labbra. Appena in bocca, si scioglieva subito, più veloce del gelato e senza lasciare nessuna traccia.

La cosa più speciale mai assaggiata.

Poi e arrivato il latte.

Era quasi dolce di gusto, e se non avessi saputo che era latte, avrei pensato che è gelato sciolto per come lo sentivo mentre scendeva nella mia pancia. Meno liquido di quello del negozio e scendeva più lentamente. Quasi da non riuscire a capire bene, se è panna o latte. In bocca, si sentiva e lasciava una cosa buonissima, indescrivibile. Mi è sempre piaciuto condividere tutto con tutti, ma in quel momento, quella tazza più grossa di me, l'avrei bevuta da solo, senza neanche respirare.

Quando stavamo ritornando nella cucina, il buio si stava già mescolando con la luce.

Entrando in casa, ho capito cos'erano quei bei lampadari con il liquido dentro, perché quello della cucina era già acceso e la sua fiammella in continuo movimento, faceva una bella luce. Abbastanza forte da poter vedere bene tutto nella cucina. Molto piacevole da guardare senza sentire nessun fastidio.

Dopo aver finito il lavoro con il latte appena munto, mia nonna ha cominciato a preparare la cena.

Non ho fatto in tempo a capire bene cosa aveva fatto e cosa aveva messo nella pentola, perché un'altra sorpresa mi è venuta addosso rotolando.

È andata con la pentola nell'angolo più lontano, dove c'era un mobile in metallo e quando dalla parte di sopra ha tolto un po' di cerchi in ferro di misure diverse tra loro, di dentro è come saltato fuori il fuoco.

Nell'attimo dopo ero vicino a lei, per capire che cos'era.

Dentro, un grande fuoco ballava e si muoveva da tutte le parti, molto forte, deciso, senza mai fermarsi.

Ho capito che quel strano mobile chiamato stufa era la sua cucina.

Quando mi sono di nuovo seduto e mentre la pentola ed il suo coperchio, stavano già facendo dei rumori molto divertenti, mio nonno ha aperto una piccola porticina sotto la pentola, sul lato della stufa, dicendomi di guardare il fuoco.

Il buio fuori, aveva preso completamente il posto della luce ed in quel momento, tutto il mondo era in quella stanza.

Fuori non esisteva più nulla.

Dentro casa, il silenzio, la tranquillità, la pace assoluta.

La piccola lucina del lampadario ballava sulle pareti e sul soffitto in legno.

Il gatto sotto la stufa, stava quasi russando.

Il rumore sempre più forte e divertente della pentola.

Il fuoco che cambiava sempre il colore, dal giallo forte e luminoso all'arancione molto intenso, con dentro ogni tanto delle lingue rosse come il sangue, lingue che erano blu appena partite dal legno che bruciava.

Il rumore del fuoco ed ogni tanto i botti che sentivo dentro la stufa e quando capitava, nell'attimo dopo, si riempiva tutta con tantissime piccole scintille molto luminose che saltellavano in tutte le direzioni.

Le persone che si erano trovate ognuna il proprio posto e stando in silenzio si gustavano lo spettacolo.

Sembrava una bellissima favola che donava tantissima pace, tranquillità, serenità, sicurezza.

Tutto questo, mi faceva sentire sazio e beato.

Cosi sazio, da poter andare a dormire senza neanche mangiare del cibo.

Il cielo sereno e pieno di stelle, come non lo avevo mai visto, che mi ha fatto vedere mio padre prima di andare a dormire, è stata l'ultima meraviglia vista in quel giorno fatto di solo meraviglie.

Era stata la giornata più bella, intensa, interessante, fino in quel momento della mia vita.

Ricca di cose nuove, insegnamenti e tante amicizie.

Spensierata, movimentata e vissuta in pieno ad ogni respiro.

Con tutto ciò, la stanchezza non si era mai vista, anzi, sentivo soltanto la soddisfazione, la serenità, la gioia, la tranquillità e la pace assoluta che vivevo in quel preciso momento.

Sarei potuto ripartire subito per un nuovo giorno, senza neanche riposare.

Tutti i gironi che sono seguiti, sono stati uno meglio dell'altro.

Li passavo sempre insieme ai miei nuovi amici, nel nostro Paradiso, o nei Paradisi dei loro nonni.

Nella “nostra piscina” sul fiumiciattolo.

In mezzo ai campi, oppure sulle colline, mentre i grandi lavoravano il fieno.

Era tutto bellissimo e qualsiasi cosa si viveva, dentro me, mi faceva stare bene come mai prima.

Mi faceva sentire più libero che mai.

Beato.

Tutto è stato interrotto una mattina, quando mia mamma ha cominciato a fare cose strane, che non aveva mai fatto prima in quei giorni da sogno.

Mi ha svegliato e fatto scendere dal letto molto presto, anche se di solito dormivo quanto volevo. Fatto lavare e mangiare senza più lasciarmi tutto il tempo che volevo. Poi, mi ha vestito con dei bei vestiti da città ed era per la prima volta da quando eravamo arrivati, che mi diceva di fare attenzione a non sporcarmi.

Non ho chiesto nulla, ma cominciavo a preoccuparmi per mia mamma.

I comportamenti non erano più come quelli tranquilli e morbidi dei giorni prima e lei non era più serena e rilassata.

Speravo soltanto che se le era successo qualcosa, non era molto grave.

Con lei per mano, siamo usciti dal cortile ed abbiamo cominciato a camminare e più andavamo avanti, più vedevo che stavamo facendo al contrario, la strada che avevamo fatto insieme al nonno, appena arrivati con l'autobus.

Arrivati quasi al punto dove eravamo scesi, siamo entrati nel cortile di una casa molto grande, sull'altro lato della strada.

Sentivo già il cuore nel petto che cominciava di nuovo a correre, ma appena siamo arrivati nel bel parco verde dietro alla grande casa, il cuore è tornato a camminare, perché lì, c'erano quasi tutti i miei nuovi amici.

Ognuno, con la sua mamma.

Tutti vestiti da città, non più da battaglia.

Non mi piaceva tanto quello che stava succedendo, perché ognuno di noi, tenuto per mano dalla sua mamma, non era più libero di fare quello che voleva e le facce delle mie amiche e dei miei amici, sembravano più triste di quelle che conoscevo già abbastanza bene.

Non vedevo la mia, ma eravamo della stessa squadra.

Quasi subito è arrivata una signora che non avevo mai visto prima ed insieme a lei, siamo entrati tutti, nella grande casa e poi, dopo pochi passi, in una grossa camera piena di tavolini e sedie.

Tutte a nostra misura.

Appena entrati, ho sentito la mia seconda mano tornare libera.

Anche se dentro la grossa camera, c'era tutto il nostro gruppo di amici, mentre ognuno di noi si sedeva su una sedia, non si sentiva più quella cosa tranquilla e bella che ci faceva stare bene tutti insieme, ma una cosa diversa.

Sembrava che eravamo uniti, perché stavamo soffrendo tutti nello stesso modo e non più perché ci stavamo divertendo.

Forse aiutati dagli alberi e dal tanto verde che si vedevano nel parco attraverso le grandi finestre, ancora di più dal canto degli uccellini che si sentivano fuori e molto dal profumo della buona aria che entrava, un po' di serenità stava quasi tornando.

All'improvviso, come ad un segnale, tutte le mamme sono andate via.

Rimasti soltanto con la nuova signora, lei ha cominciato a tirare fuori dai grossi armadi, dei giochi di plastica ed altre cose che non avevo mai visto prima.

Con il suo aiuto, abbiamo imparato come si usavano e come si poteva giocare con tutte quelle cose nuove per me.

Era tutto bello, ma non così bello come era quando eravamo noi da soli.

Stavamo tutti giocando e stavamo bene, ma non eravamo allegri e gioiosi come sempre.

Si rideva molto meno e le facce dei miei amichetti sembravano più tristi.

Di sicuro, lo era anche la mia, perché dentro mi sentivo così.

Poi, siamo usciti fuori, nel grande parco ed anche se era molto bello, con tanti giochi, il nostro Paradiso era un'altra cosa.

Non lo so quanto tempo era passato, ma quando il sole era abbastanza alto, luminoso e forte, le mamme sono tornate tutte e dopo aver salutato la nuova signora, siamo andati via.

Arrivati a casa dei nonni, ho capito che era il momento giusto per il pranzo e mentre si mangiava, più di una volta ho sentito i grandi che dicevano guardando me: < è pronto! >.

Non ho dato tanta importanza, perché pensavo già al bel pomeriggio da passare con i miei amici nel Paradiso, o da qualche altra parte.

Da lì a poco, è arrivato il momento di ritornare a casa nostra.

Non mi dispiaceva, ma rimpiangevo e piangevo forte per tutto quello che lasciavo.

Sono riuscito a fermarmi dal pianto, soltanto quando il mio nonno, mi ha detto di pensare a quanto sarà bello il prossimo anno, quando sarò più grande e potrò fare cose ancora più belle di quelle appena fatte e vissute.

Tornati a casa, quasi subito siamo andati tutti insieme a comprare quello che serviva al mio fratello per la scuola e quello che serviva a me per andare al' asilo.





Perché ero pronto!




L'immenso mondo fuori casa


Entravamo ed uscivamo tutti insieme in dei negozi dove non ero mai andato prima.

C'era tanta gente, tanta confusione e la cosa non mi piaceva.

Riuscivo a rimanere un po' contento soltanto perché erano tanti bambini e bambine di tutte le misure. Poi c'era un po', ma soltanto un po' di curiosità per quei vestiti che mi dovevano comprare per andare all'asilo.

La curiosità è stata quasi subito esaurita, e dopo che mi hanno fatto provare quella specie di vestito da donna chiamato grembiulino, che non vedevo l'ora di togliere, e quella specie di borsetta come quella del postino ma a mia misura, anche quella poca curiosità era scomparsa.

Non vedevo l'ora di tornare a casa.

Appena arrivati a casa, sono andato subito dalle mie macchinine, perché il discorso dell'asilo per me era già chiuso.

L'unica cosa buona in quel momento era l'entusiasmo di mio fratello per l'elegante vestito che doveva indossare a scuola e la montagna di quaderni, matite colorate, birro, pene stilografiche e tante altre cose nuove ed interessanti che riempivano il tavolo in quel momento.

Soltanto dopo qualche giorno, quando ero da solo con mia mamma, mi ha detto che dovevo indossare di nuovo il grembiulino, per vedere se andava tutto bene.

Dopo averlo fatto, mia mamma mi aveva chiesto di tenere i miei due indici tesi ed intorno, è passata più volte con una fascia rossa di seta larga quanto le mie dita, che ha fatto diventare all'improvviso, una bella farfallina.

Vestito e con la farfallina intorno al colo, mi sono visto per la prima volta allo specchio.

Sembrava tutto meno brutto di come pensavo.

Con il grembiulino celeste chiarissimo come il cielo di fine estate, il colletto bianco con una forma buffa ma divertente e d'avanti quella grande farfalla rossa di setta quasi trasparente, con appesa a tracollo quella borsetta marrone molto chiaro, ero pronto per cominciare l'asilo.

Ho capito che protestare non serviva.

Il secondo giorno, con mia mamma per mano, dopo aver indossato di nuovo tutto e dopo che nella borsetta mi aveva messo del cibo ed un bicchiere di plastica per poter bere, siamo usciti di casa e siamo andati in una direzione dove non ero mai stato prima.

Dopo aver fatto non tanta strada, siamo passati attraverso un grosso cancello di ferro, oltre una recinzione in cemento che non lasciava vedere nulla da l'altra parte.

Appena entrati, mi sono sentito investito in pieno dalla testa ai piedi da un forte boato.

Era come se mi avesse investito un muro fatto da voci di bambini.

Erano così tanti che mi stavo chiedendo se si erano radunati, i bambini di tutto il mondo.

Di tutte le misure.

I maschietti, quasi tutti, erano vestiti come mio fratello.

Le femminucce, erano ancora più belle di loro.

Ho visto subito che ero della misura più piccola.

In un attimo, siamo andati oltre quel grande gruppo di bambini, nel' angolo più lontano di quel grosso cortile. Li c'era un gruppo molto, molto più piccolo di quello dei bambini più grandi, ma immenso nei confronti di quello dei miei amici, in campagna dai nonni.

Quando le mamme erano ancora con noi, ci hanno divisi in gruppi più piccoli e poi hanno fatto entrare ogni gruppo con la sua maestra, nella sua aula.

Le sedie ed i tavolini erano a nostra misura, come quelle in campagna nella grande casa. Poi, quando tutti insieme, prima le femminucce e poi i maschietti, siamo andati in bagno, ho visto che anche li, era tutto fatto a nostra misura.

Tutto molto bello.

Ho subito visto, fatto ed imparato cose nuove, ma erano tutte meno interessanti di quelle viste, fatte ed imparate a casa dei nonni.

Questo mi piaceva meno.

Tutte le mattine sarei rimasto a casa, perché dovevo andare e rimanere lì dentro per tanto tempo, troppo tempo. Fare tante volte gli stessi giochi che avevo imparato subito e che non mi divertivano più. Stare sempre nello stesso posto, con vicino a me sempre gli stessi due bambini, non potermi alzare ed andare da un amico, o un’amica per dire loro ciò che volevo, quando volevo, non mi piaceva.

Tutte quelle cose nuove, chiamate regole, mi facevano vivere in una sofferenza continua.

Come mai prima.

Stavo un po' meglio soltanto quando ci portavano nel cortile e ci lasciavano liberi, tutti insieme, con i nostri giochi, oppure quando dentro l'aula, ci dicevano che stavamo per fare del lavoro manovale ed ogni volta imparavo qualcosa di nuovo. Soprattutto, quando ci davano carta e matite per disegnare bastoncini, linee ed altre cose tutte in riga, una dietro l'altra sullo stesso foglio.

Stavo ancora meglio, quando mentre mangiavamo, scambiavo il mio cibo con quello del mio amico di fianco, oppure quando buttavo via qualcosa che non mi piaceva, senza che la maestra riusciva a vedere e capire nulla.

Era sempre una grande vittoria.

In tutto quel tempo, l'unico momento di vero sollievo è stato quando ho sentito che era arrivata la vacanza grande.

Quella estiva.

Mi sono sentito ancora più sollevato quando attorno a me, hanno cominciato a dire che dovevamo andare al negozio per comprarmi la roba per la scuola e poco tempo dopo, come l'anno prima, siamo entrati nello stesso cortile pieno di bambini.

Questa volta ci siamo fermati con quelli un pochino più grandi.

Era tutto bellissimo.

Il sole luminoso e caldo, le voci dei bambini, stare insieme a loro, i vestiti.

Tutto.

Poi, quando e venuta una bellissima maestra, con un bel vestito rosa a prendere il gruppo dove mi avevano messo, la prima cosa che ho sentito nel cuore è stata quella di mandare via mia mamma, perché stavo così bene, da sentirmi come a casa.

Entrati nella nostra classe ho visto che anche lì, i mobili erano della nostra misura, ma una misura più grande di quella dell'asilo.

Dopo averci fatto sedere in coppie nei banchi, la maestra ci ha spiegato che eravamo tutti lì per la prima volta.

Noi, perché al primo giorno di scuola nella vita.

Lei, al primo giorno di lavoro come maestra.

Avremmo imparato tutti insieme a camminare, ognuno per la sua strada, facendo tante cose nuove, belle ed interessanti nel viaggio lungo quattro anni, che avremo fatto insieme.

Dopo, ci ha spiegato che i due libri nuovi sul banco, d'avanti ad ognuno di noi, ci avrebbero aiutato in quel anno di scuola per imparare a leggere, scrivere e fare i primi conti. Poi, che la bellissima rosa bianca appoggiata con tanta cura sopra i due libri, era il benvenuto che la scuola, ormai nostra, dava ad ognuno di noi.

Pulcini del primo anno.

Dal primo attimo, mi sono innamorato di tutto, e qualsiasi cosa facevamo, mi piaceva come nessuna mai prima.

Ogni giorno quando andavo via da scuola, non vedevo l'ora di arrivare a casa per fare di nuovo scuola.

I compiti.

Appena finiti, sarei partito per ritornare a scuola e farli vedere alla mia maestra, con il desiderio di andare subito oltre ed imparare un'altra cosa nuova.

Giocavo anche fuori casa tutti i giorni con i miei amici di sempre, ma quelle cose nuove, mi piacevano molto di più.

Vedevo che anche i più grandi intorno a me, in casa erano molto sereni, contenti, e mi lasciavano fare da solo tutte quelle mie cose nuove.

Mi sentivo libero.

Per la prima volta sentivo che stavo facendo qualcosa di importante, e nello stesso momento, sentivo un piacere unico nel fare tutto quello che stavo facendo.

Un piacere mai provato prima.

Purtroppo, è passato tutto molto in fretta.

Mi è sembrato un attimo, dal primo giorno in qui ero entrato nel cortile della scuola, a quando la nostra maestra ci detto che eravamo arrivati all'ultimo giorno di scuola ed alle premiazioni.

Non sapevo cosa significava "le premiazioni", ma a casa, la sera prima, ho visto la mia mamma darsi un gran da fare a preparare la divisa del mio fratello e la mia in un modo più attento, con ancora più cura del solito.

La mattina dopo, siamo partiti tutti insieme e già quella, era una cosa nuova, perché non era mai accaduto di andare a scuola, insieme al mio fratello.

Noi piccoli andavamo a scuola al mattino e quelli più grandi di pomeriggio.

Più ci stavamo avvicinando alla scuola, più mi sembrava di vivere una giornata completamente diversa da tutte le altre.

Una giornata di grande festa.

Era un po' come nel primo giorno, soltanto che sembrava ancora più festa.

C'erano dei bambini, non tanti, che portavano dei mazzi di fiori, ed anch'io come loro, avevo in mano un bel mazzo di rose bianche.

In più, nessuno di noi, aveva la borsa che portava di solito con i libri, quaderni e tutte le altre cose che servivano tutti i giorni.

Arrivati nel grande cortile, si e aperto un altro mondo.

Per me tutto nuovo.

Tutti i bambini, dai più piccoli, ai più grandi erano radunati in un ordine molto bello da vedere.

Tutte le classi, una di fianco all'altra, quasi attaccate tra loro.

Quando sono arrivato, sono andato con la mia classe e più venivano i bambini, più prendeva forma una grande ed ampia lettera “U”, che facevamo tutti noi insieme ed alla fine, al centro del lato libero, c'era un palo di ferro altissimo.

All'interno di questa lettera, nello spazio libero, avremmo potuto benissimo giocare una partita di calcio.

Ogni classe, era messa su quattro fila e di fianco la propria maestra.

Sembrava un disegno perfetto.

D'avanti al grande palo, c'era un grosso tavolo addobbato a festa.

La grande lettera “U” era pronta, ed ero meravigliato di tutti noi bambini.

Non riuscivo quasi a credere quando dopo aver chiesto alla mia maestra in quanti eravamo, mi ha risposto: < Più di mille >.

Sul lato libero della lettera “U”, c'erano i genitori.

Molto meno bravi di noi.

Stavano tutti insieme in modo non ordinato.

All'improvviso, quel rumore di voci, immenso, ma non forte, si è fermato all'improvviso.

Se una mosca sarebbe volata vicino a me, l'avrei sentita benissimo.

In quel momento ho visto che soltanto noi, i pulcini del primo anno avevamo la divisa con quale andavamo a scuola tutti i giorni.

Gli altri, erano diversi.

I maschietti avevano i pantaloni blu scuro della divisa e le femminucce una gonna molto bella dello stesso colore. Nella parte alta, avevano tutti una camicia bianca. La cosa tutta nuova per me, era che intorno al colo, avevano una specie di fazzoletto rosso e su tutto il bordo del fazzoletto c'era il tricolore della bandiera nazionale. Tutti, avevano sul capo un basco bianco.

Non ho fatto in tempo ad aprire bocca per riempire di domande, come al solito, la mia maestra, perché il grande silenzio, è stato interrotto da un bel suono di trombe.

Quando è cominciato, i grandi vestiti di bianco, tutti insieme nello stesso momento, hanno alzato il braccio destro, mettendolo d'avanti alla fronte.

Sembrava un saluto come quello dei soldati nei film di guerra, ma era un po’ diverso.

Più il suono delle trombe si avvicinava, più si sentiva che l'emozione in tutti noi, stava crescendo.

Dopo pochi attimi, dal lato libero della lettera “U”, di fianco ai genitori, sono arrivati quattro ragazzi che suonavano le trombe.

Camminavano in due coppie, una dietro l'altra.

Subito dopo, c'erano altre due coppie.

Due ragazze d'avanti e due ragazzi dietro.

Tutti e quattro insieme, tenevano con una mano alta e bene in vista, la bandiera tricolore del paese.

Dietro a tutti loro, c'era il direttore della scuola ed altre due persone.

Appena arrivati vicini al grosso palo di ferro, le trombe si sono fermate e mentre i ragazzi con la bandiera, la legavano al filo steso su tutto il palo, i ragazzi più grandi, quelli vestiti di bianco, tutti insieme, hanno cominciato a cantare la stessa canzone.

Mentre loro cantavano, uno dei ragazzi con la bandiera, ha cominciato a girare una piccola manovella, facendo salire sul palo di ferro la bandiera.

Quando e arrivata in cima, si sono fermati tutti ed è ritornato il grande silenzio.

Era stata una cosa molto bella da vedere, molto emozionante.

Ho sentito un brivido freddo sulla schiena.

Noi non avevamo cantato e non sapevo bene cosa stava succedendo, ma sentivo che eravamo tutti uniti e che facevamo parte di quel grande gruppo.

Bello ed organizzato.

Eravamo tutti insieme.

Dopo pochi attimi di silenzio, il direttore ha proclamato aperta la festività di premiazione dei migliori allievi di quel anno scolastico.

Nell'attimo successivi, la nostra maestra, ancora più bella del solito, ci ha detto di restare lì cosi come eravamo. Non muoverci per nessun motivo e chi si sentiva chiamato per nome, doveva andare da lei.

Poi, è andata dietro al grosso tavolo addobbato.

Da quel momento, uno alla volta, partendo da noi piccoli, ogni maestro andava dietro, al centro del tavolo e chiamava alcuni allievi per nome. Vedevo che gli allievi chiamati si avvicinavano, davano alle maestre i bei mazzi di fiori, e le maestre, dopo averli baciati, davano loro qualcosa. Poi, ognuno tornava al posto suo, ma non prima di essere applaudito.

Tutto molto bello da vedere.

Quando però, al centro del tavolo è andata la nostra maestra e ho subito sentito il mio nome, è stato come se addosso mi era appena caduto il sasso più grande del mondo.

All'improvviso mi sembrava di non sentire più.

Mi sentivo molto piccolo.

Ero diventato così pesante che mentre camminavo, mi sembrava di farlo nello stesso posto.

Mentre mi avvicinavo al tavolo, le persone dietro, mi sembravano sempre più grandi ed il tavolo immenso. I bambini sempre più numerosi e mi sembrava di essere tutto sudato.

Il mio respiro, diventava sempre più affannato.

Appena sono arrivato, dopo un abbraccio ed una carezza sulla guancia, la mia bella maestra mi ha attaccato al suo fianco, alle sue gambe.

La pace è ritornata subito.

Ho visto in quel momento, quanto era bello il verde molto chiaro del suo vestito, quello chiaro, come il gelato.

Con me attaccato a lei, quando ha detto al microfono nell'altra mano, che in quel anno, ero stato il migliore nella nostra classe ed avevo preso il primo premio, mi è sembrato di sentire dentro un’esplosione di luce e di calore, da non poter descrivere con parole.

La pace si è subito trasformata in gioia.

La gioia, in una felicità senza limiti, forte da sentire che se non mi teneva lei, mi sarei alzato da terra.

Avrei cominciato a volare.

Dentro il mio petto, c'era una forza immensa.

Il sole era di un giallo più bello e la luce più luminosa.

Quando tutti i grandi dietro al tavolo, mi hanno dato la mano e mi facevano le loro congratulazioni, erano tornati normali.

Non li vedevo più giganti.

Subito dopo, la mia bella maestra, mentre mi spiegava cosa stava per fare, mi ha dato il diploma per il primo premio e sopra, c'era scritto il mio nome. Insieme, mi ha dato un libro molto bello, molto colorato con una favola che a me piaceva tanto.

La mia preferita.

"Il gatto con gli stivali".

Mentre con le mani piene, provavo a darle il mazzo di rose con i gambi quasi spezzati per quanto li avevo stretti forte, mi sono sentito girato da lei su me stesso, in un modo molto deciso, ma con dolcezza.

Era per la prima volta che vedevo bene tutti i bambini, piccoli e grandi.

Tutti di fronte a me.

Erano tantissimi.

Anche loro sembravano ancora più belli di prima e quando tutti insieme, hanno cominciato ad applaudire, lei, all'orecchio mi ha detto:

< Lo fanno per te, perché sei stato bravo >.

Il Paradiso dei nonni in quel momento, era un ricordo molto bello, ma lontano, perché quella cosa che vivevo, era molto di più.

Per la prima volta ero fuori casa, da solo, d'avanti al mondo.

D'avanti a tutto il mio mondo.

Stavo raccogliendo i miei primi frutti.

I frutti del mio lavoro.

Per me era già il sogno più bello che avevo mai vissuto ad occhi aperti.

Poi, a cerimonia finita, mentre i miei amici mi facevano le congratulazioni e la maestra diceva loro di prendermi come esempio, mi sembrava che all'improvviso, ero diventato un po' più grande di quanto ero stato quella mattina mentre uscivo di casa.

Dentro sentivo una cosa mai sentita prima.

Molto bella, molto interessante, ma non più così semplice, come quando giocavo insieme agli amici, studiavo, o facevo qualsiasi altra cosa. Non sapevo che cos'era, ma una piccola vocina dentro me, sembrava che mi parlava.

Mi diceva che da quel momento, se qualcuno dei miei colleghi di scuola avrebbe avuto dei problemi, delle difficoltà, o qualche bisogno, dovevo aiutarlo.

Dovevo starli più vicino.

I giorni delle vacanze estive passavano uno dietro l'altro abbastanza veloci, ma molto più lenti di quello che volevo.

Non vedevo l'ora di tornare a scuola, anche se non pochi sono stati i problemi che ha avuto mia madre con me, per farmi fare i compiti di vacanza.

La scuola era la cosa che più mi piaceva in quel momento, ma non comprendevo ed ancora meno accettavo, perché dovevo fare dei compiti, mentre mi godevo la vacanza guadagnata con tanto lavoro, impegno e fatica.

Era un mio diritto.

Avevo già impegnato del mio tempo, tempo della mia vacanza, per andare insieme ai miei genitori e tanta altra gente, in un posto, abbastanza vicino a casa, dove si costruiva il nuovo stadio della squadra di calcio della nostra città, appena salita in serie C.

Li, dove tutti i cittadini dovevano fare delle ore di “lavoro volontario”.

Dopo tante contrattazioni tra me ed i miei genitori, non pochi sforzi per tutti e fatti i compiti delle vacanze, finalmente è arrivato un grande sollievo quando siamo andati a comprare ciò che serviva per la scuola.

Era il segnale che a poco si cominciava.

Una gioia immensa ho sentito dentro me, quando una sera, ho visto la mia divisa preparata con tanta cura sulla sedia.

Il giorno dopo, sarei andato a scuola.

La gioia e la felicità di ritrovarci tutti nella nostra classe, erano immense.

Tutti noi, eravamo un po' più grandi.

La nostra aula, sembrava più bella con il nuovo colore sulle pareti appena dipinte.

Sul banco, d'avanti a noi, i libri nuovi che ci aspettavano, non erano più soltanto due.

Erano diventati quattro.

Poi, quando la porta si è aperta ed è entrata una donna molto giovane, la nostra maestra ci ha spiegato che nell'anno appena cominciato, sarebbero successe due cose molto importanti per noi.

La prima, che avremo cominciato a studiare la lingua tedesca e la donna appena entrata era la nostra professoressa di tedesco.

La seconda e più importante, che saremo diventati tutti "pionieri".

Dopo pochi giorni tranquilli all'inizio, giorni in quali ci siamo di nuovo abituati con la scuola, abbiamo cominciato ad imparare tante cose nuove tutti i giorni. Una più bella dell'altra, una più interessante dell'altra.

Tutto bellissimo, non mi annoiavo mai.

Poi, un giorno, la maestra ci ha detto che dovevamo cominciare i preparativi per diventare pionieri.

La prima cosa, ci ha dato su un foglio di carta, una poesia da imparare a memoria ed ogni giorno, dopo le ore in qui si studiava, restavamo tutti insieme a scuola, nella nostra aula, ancora per un’ora.

Dovevamo prepararci bene.

Abbiamo imparato anche la musica di quella poesia.

Era l’inno nazionale del paese.

Abbiamo imparato tanti altri movimenti da fare tutti all'interno della nostra aula. Uscire dai banchi ed andare d'avanti alla lavagna uno per volta, dove poi in gruppo, c'erano da fare altre cose tutti insieme ed alla fine, quel saluto che avevo già visto alla cerimonia di premiazione.

Tutto, per far vedere quanto eravamo bravi, alla compagna comandante istruttrice dei pionieri che veniva ospite nella nostra classe.

Dopo qualche settimana di preparativi, la nostra maestra ci ha detto che il giorno dopo, sarebbero stati fatti pionieri la metà di noi, scegliendo quelli con i risultati migliori nel anno scolastico passato. Ci ha spiegando che doveva fare cosi, perché alla cerimonia dovevano venire anche i genitori e non c'era posto per tutti insieme nella nostra aula.

Era per la prima volta che dentro sentivo nello stesso momento gioia, ma anche qualcos'altro.

Una cosa mai sentita prima.

Una cosa che toglieva un po' di quella gioia e mi faceva fare tante domande parlando me con me. Tra tutte queste domande, c'era una più forte che non si fermava mai, mi girava in continuazione nella testa.

Avevo anche due risposte, ma non sapevo quale era quella buona.

< Andava bene fare come ha detto la maestra, oppure sarebbe stato meglio senza i genitori, ma tutti noi colleghi insieme, nello stesso giorno? >

Senza sapere quale era la risposta giusta, è arrivato il giorno in qui, sono andato a scuola, vestito con i pantaloni della divisa ed intorno una cintura abbastanza larga fatta per quei momenti, la camicia bianca ed il basco bianco sul capo.

Appena arrivato, nella nostra classe, c'era aria di grande festa.

Tutti i genitori, uno per ogni bambino, si sono seduti in fondo al' aula e noi, i primi diciotto della classe, nei banchi d'avanti.

Ognuno aveva d'avanti a sé, un bel garofano rosso per la compagna comandante istruttrice.

Era tutto molto bello, ma non sentivo la stessa gioia, la stessa serenità, la stessa leggerezza, come alla cerimonia di premiazione dell'anno passato. Forse era perché avevamo dovuto preparare tutto molto bene, in tanti giorni di lavoro. Forse perché, non eravamo tutti noi colleghi insieme. Forse perché la mia bella maestra mi sembrava meno bella e più preoccupata. Forse perché anche i genitori sembravano meno sorridenti.

Forse tutto insieme.

All'improvviso, ho cominciato a chiedermi, se quella sarebbe stata la giornata delle tante domande senza risposta, perché mentre mi stavo dando un bel d'affare a trovarle, ho sentito dal corridoio il suono delle trombe, come quello della premiazione.

La cosa nuova, ma anche molto curiosa, era che tutti i grandi, sembravano diventati in quel momento, meno sereni.

Forse più rigidi.

Non avevo più tempo per fare domande.

La porta della classe si è aperta e sono entrati i due ragazzi che suonavano le trombe.

Dietro a loro, un ragazzo ed una ragazza che portavano: uno, la bandiera tricolore del paese e l'altra, la bandiera rossa dei pionieri. Dietro a loro, uno di fianco all'altra, due ragazze ed un ragazzo.

Tutti erano vestiti da pionieri, ma gli ultimi tre, avevano un filo blu, mai visto prima.

Partiva dalla spala sinistra e dopo che scendeva quasi fino alla cintura, faceva una curva molto ampia e molto bella, salendo fino al bottone del taschino sinistro, sul petto della camicia. Quello della ragazza in centro era più scuro e quelli della ragazza e del ragazzo ai suoi fianchi, erano più chiari.

Sembravano i grandi comandanti nei film di guerra.

Alla fine è entrata nella classe una donna quasi anziana e non bella.

L'avevo vista una sola volta, dietro al grande tavolo alla cerimonia di premiazione dell'anno passato. In mano aveva una cosa, come un grande vassoio, su quale erano messi con tanta cura, quei fazzoletti rossi con il bordo tricolore.

Le nostre cravatte da pionieri.

Quando la compagna comandante istruttrice ha posato sulla cattedra il suo vassoio, le trombe si sono fermate.

Lei ha salutato tutti e subito dopo, ha cominciato a parlare, dicendoci che i tre con il filo blu, erano: il comandante ed i due vice comandanti dei pionieri per la nostra unità, cioè, la nostra scuola. Spiegandoci poi, che in quel giorno, anche noi diventavamo pionieri.

Pionieri, che sono la forza e l'orgoglio per il futuro del paese.

Da quel giorno diventavamo più grandi e dovevamo essere ancora più bravi nello studio e più responsabili in tutto quello che facevamo. Dovevamo cominciare a servire il nostro paese come pionieri, in tutte le nostre attività.

Poi ha dichiarato aperta la cerimonia del nostro ingresso nelle fila dei pionieri.

Mentre uno dopo l'altro, in ordine alfabetico, siamo andati d'avanti alla lavagna e la compagna comandante istruttrice metteva ad ognuno la cravatta intorno al colo, anche se ero molto attento e presente in tutto quello che succedeva, il mio cassetto dei pensieri e domande, senza chiedermi il permesso si è aperto di nuovo.

Da una parte c'era molta emozione, perché, entravo nelle fila dei pionieri della nostra scuola ed ero molto contento.

Da l'altra parte, mi sembrava di vivere un qualcos'altro che non mi lasciava ad essere contento del tutto.

Non sapevo bene cosa, ma forse era quella comandante istruttrice che in tutto quello che faceva e diceva, era molto seria e molto decisa.

Forse anche troppo.

Fredda.

Rigida.

Quasi aggressiva.

Mentre ero in mezzo a tutto questo, ho sentito il mio nome.

Sono saltato in piedi ed i miei pensieri sono finiti non lo so dove.

Con decisione e sicurezza, così come ci aveva insegnato la nostra maestra, ho fatto i pochi passi e quando la maestra compagna comandante si è piegata per mettermi intorno al colo la mia cravatta, ho visto che oltre ad essere anziana, era anche non bella. Non mi piaceva.

Mi chiedevo perché il suo viso era cosi dipinto.

Le sopracciglia, le palpebre, le guance ed anche le labbra.

In quel momento ero fiero di diventare pioniere, ma non vedevo l'ora di andare subito vicino ai miei colleghi, allontanarmi da lai e di tutte le cose che mi ha detto, ho capito soltanto che dovevo essere "degno".

Mentre facevo attenzione per rispettare tutti i movimenti da fare d'avanti a lei: dal saluto da pioniere, a darle la mano e ringraziarla promettendo di essere sempre pronto per servire quando mi veniva chiesto, darle il garofano, fare dietro front ed andare al mio posto nella nuova formazione, mi sentivo come spinto da un qualcosa per fuggire via da lei.

Prima possibile.

Pochi momenti dopo aver messo intorno al collo, la cravatta all'ultimo bambino, aver consegnato alla nostra classe la bandiera tricolore del paese e quella rossa dei pionieri, con la scritta gialla < Sempre Avanti > che era il saluto dei pionieri, per la prima volta, tutti insieme, abbiamo cantato l'inno nazionale. Subito dopo, la maestra compagna comandante ha dichiarato chiusa la cerimonia, andando via nello stesso modo come era venuta.

Quando la porta della classe si e chiusa, è cominciata la festa.

La nostra maestra ha cominciato a baciarci uno ad uno.

La formazione ordinata non c'era più.

Tutto era più tranquillo ed anche i genitori che fino in quel momento sembrava che stavano lì senza muoversi e neanche respirare, li vedevo di nuovo come li ho sempre visti.

Come li conoscevo.

Si sono avvicinati a noi, per abbracciarci e baciarci ed in quel momento si sentiva forte la festa.

I dubbi che mi erano venuti prima, se mi piaceva ancora diventare pioniere, erano svaniti tutti, perché in quel momento ero felice di esserlo. Poi, quando tutti insieme, uno ad uno, con i genitori, da soli, con e senza la maestra, abbiamo fatto le foto, ho anche visto che eravamo tutti molto beli vestiti da pionieri.

Più luminosi.

La festa si sentiva ancora di più.

Andando verso casa, insieme ad altri colleghi che vivevano vicino ed i loro genitori, ci siamo fermati alla confetteria, per concludere la festa con dei bei dolci e succhi di frutta, fatti lì, nel loro laboratorio.

A poche settimane distanza, dopo che tutti i bambini della classe erano diventati pionieri, la maestra ci ha detto che un giorno dovevamo fermarci dopo scuola, al meno per un’ora.

Per fare le elezioni nella nostra classe.

In quel periodo, ci sono state così tante cose nuove, così tanti comportamenti nuovi belli e meno belli e così tante parole sentite per la prima volta e tutto in così poco tempo, che ho deciso di smettere a fare domande ai grandi su ogni cosa e scoprire tutto al modo mio.

Nel giorno in qui la maestra ci ha detto di andare a scuola vestiti da pionieri il giorno dopo, perché c'erano le elezioni, ho soltanto obbedito, aspettando con curiosità, ma senza entusiasmo di vedere cosa doveva succedere.

Dopo scuola, nella nostra aula, ci siamo preparati e stavamo aspettando gli ospiti.

Dovevano venire ragazzi delle medie insieme alla loro dirigente della classe. Mentre li stavamo aspettando, la maestra ha messo bene in vista, d'avanti alla lavagna, le due bandiere della nostra classe.

Quando la porta si è aperta, in modo molto ordinato, sono entrati i due porta bandiera con le due bandiere della loro classe, tre ragazze, due ragazzi e dietro a loro, la dirigente della loro classe.

Dopo che la loro dirigente ha posato sulla cattedra il grande vassoio che aveva in mano ed i ragazzi si sono sistemati d'avanti alla lavagna in una specie di formazione, tutti insieme abbiamo cantato l'inno nazionale, poi, la dirigente ha dato loro il commando di riposo. In quel momento ho visto che tutti, avevano un filo che scendeva dalla spala sinistra al taschino della camicia, uguale come forma ai tre visti, quando siamo stati fatti pionieri, ma di colori diversi.

Uno, era giallo e quattro erano rossi.

I ragazzi venuti, hanno cominciato a spiegarci che la nostra classe si doveva organizzare ancora di più per poter dare risultati sempre migliori nello studio e nel lavoro.

Per farlo bene, doveva essere organizzata in quattro gruppi.

Ogni gruppo avrebbe avuto il suo comandante e tutti i gruppi, sarebbero stati guidati dal comandante della classe, della nostra piccola unità.

I ragazzi appena venuti, erano i compagni comandanti dei gruppi ed il compagno comandante della loro classe.

La dirigente aveva portato sul vassoio, i figli colorati da consegnare ai futuri compagni comandanti della nostra classe.

Non riuscivo a comprendere perché dovevamo organizzarci ancora di più.

Noi stavamo bene insieme cosi e nessuno aveva mai litigato con nessuno.

Eravamo amici.

Giocavamo insieme e da poco tempo avevamo anche saputo che l'anno prima siamo stati la seconda migliore classe come risultati nello studio, tra le otto classe della prima elementare. Eravamo obbedienti alla nostra maestra che poche volte si è dovuta arrabbiare con noi. Per me andava tutto bene cosi e non mi piaceva quella cosa di formare quattro gruppi.

Non sapevo come si doveva fare, ma per me, quattro gruppi, voleva dire non più un gruppo solo.

Voleva dire divisione.

Come quasi sempre in momenti così, i miei pensieri si fermavano soltanto quando erano interrotti da qualcuno.

La dirigente ha ripreso a parlare, dichiarando aperta la cerimonia delle elezioni.

Ci ha spiegato che dovevamo già cominciare a scegliere il comandante del primo gruppo e che per farlo dovevamo seguire la "procedura" che usavano tutti.

Noi piccoli, dovevamo proporre tre nomi di nostri colleghi, poi, per ognuno si votava alzando la mano. Una sola volta, per il proprio preferito.

Abbiamo ripetuto la stessa cosa e quando i quattro compagni comandanti di gruppo erano scelti, sono andati d'avanti alla classe per ricevere quel filo rosso dalla dirigente.

Tra i quattro scelti, c'ero anch'io.

Ero il compagno comandante del primo gruppo.

Quando la dirigente, mi ha messo il filo rosso alla spallina della mia camicia e poi lo ha attaccato al bottone del taschino sinistro, dentro mi sentivo fiero e molto contento dei miei risultati, ma subito dopo, i miei pensieri si sono fermati, perché ho dovuto dare la mano e salutare, con il saluto dei pionieri, la compagna dirigente.

Quel saluto come da soldato, ma con la mano d'avanti alla fronte, senza toccarla.

Mentre lei faceva la stessa cosa con gli altri miei amici scelti, ho potuto guardare con attenzione quel filo rosso.

Il colore era molto bello, intenso e profondo.

Come il sangue.

Non era un filo, ma un cordone di seta.

Erano intrecciati tre fili più fini e l’ho capito perché al lavoro manovale, avevamo appena imparato a intrecciare con tre fili. Alla fine della parte bassa, dopo l'aggancio al bottone del taschino, due dei tre fili, scendevano per qualche centimetro e finivano con due palline molto dure che sembravano le ghiande che piacevano tanto ai maiali dei nonni. Anche loro rivestite di seta.

Appena finito con il compagno comandante del quarto gruppo, la nostra maestra, ha cominciato a chiamare per nome uno ad uno, tutti gli altri nostri colleghi ed ognuno si metteva dietro al comandante di gruppo scelto dalla nostra maestra. Quando tutti i banchi erano vuoti, la compagna dirigente ci ha detto di fare altre tre proposte, per scegliere il compagno comandante di classe. Dopo che tutti noi, in piedi ed in formazione d'avanti alla lavagna, abbiamo votato le proposte fatte, non riuscivo a credere quello che avevo appena sentito.

Avevano scelto me.

La compagna dirigente, mi ha tolto il cordone rosso appena messo, ed al posto suo, mi ha messo quello giallo.

Poi e stato scelto un nuovo comandante di gruppo al mio posto.

All'improvviso, è diventato tutto bellissimo.

Mi sembrava quasi una ripetizione della premiazione del primo anno di scuola.

Quella bellissima cerimonia, dove tutto il mio lavoro, veniva riconosciuto.

Veniva ripagato.

Avrei avuto voglia di volare per festeggiare bene.

Avrei voluto gridare al mondo, al mio mondo, quanto ero felice.

Avrei voluto ringraziare uno ad uno tutti i miei amici che mi hanno votato ed ancora di più a chi mi ha proposto, ma subito dopo, la compagna dirigente, ha cominciato a parlarmi dei miei doveri come comandante della nostra classe.

Tutto è diventato di nuovo molto serio.

Cosi serio, che non mi ricordavo più quale era la ragazzina che ha proposto il mio nome.

Dopo che la nostra maestra, ha nominato un ragazzino ed una ragazzina, come porta bandiera della nostra classe, abbiamo cantato tutti insieme l'inno dei pionieri che nel fra tempo avevamo imparato, poi, la compagnia dirigente ha dichiarato chiusa la cerimonia e con i suoi allievi, sono andati via.

Non vedevo l'ora, perché ero convinto che subito dopo, saremo andati via anche noi ed avrei potuto far' vedere a tutto il mondo, a tutto il mio mondo, quanto di bello mi era successo in quel giorno.

Far' vedere ai miei genitori il cordone giallo e bello come il sole nei giorni d'estate.

Purtroppo non è successo subito, perché la nostra maestra, dopo che ci ha mandati nei banchi, ha cominciato a parlarci dei nostri doveri, come comandanti, soprattutto quello della classe.

Delle nostre responsabilità nei confronti di tutti.

Prima di tutto, dei nostri colleghi meno bravi nello studio, nei confronti dei nostri colleghi che avevano più problemi e di tutto quello che avremo dovuto fare per la nostra classe, la nostra scuola, la nostra città ed il nostro paese.

Tutti ancora più uniti da quel giorno in poi.

Ci stava parlando del piano economico, lavoro volontario e tante altre cose nuove che in quel momento non sapevo che cos'erano. Non sapevo come avremo dovuto e potuto fare tutto, perché erano cose di qui sentivo parlare per la prima volta nella mia vita.

Non ero molto attento a quello che ci raccontava, perché mi incuriosiva molto di più un'altra cosa.

Quello che ci stava raccontando, di sicuro lo avrei scoperto, conosciuto e capito bene, quando arrivava l'ora di fare tutte quelle cose.

Mi incuriosiva lei ed ero molto attento a questo.

Era per la prima volta che la nostra bella maestra ci parlava di quelle cose ed in quel momento, non lo so perché, era diventata meno bella. La pace e la tranquillità che sentivo sempre con lei, non c'erano più ed ascoltarla, era meno interessante del solito.

Non capivo perché succedeva.

Appena ha finito e dopo averci salutato a noi comandanti, dandoci la mano, ho deciso che a tutto quello avrei pensato in un altro momento, perché volevo che niente e nessuno doveva disturbare quei miei momenti di immensa soddisfazione.

Gioia e felicità.

La strada fino a casa, con gli amici insieme a quali si camminava sempre, è sembrata più corta del solito.

D'avanti al ingresso del condominio, sulle grosse panchine, come spesso capitava nelle giornate belle, soleggiate e luminose come quella, c'era della gente. Sono rimasto molto contento, felice, quando i grandi si sono congratulati con me, per il mio cordone, dicendomi che: < Ero appena diventato motivo di orgoglio, per il nostro condominio. >

Era una cosa molto bella ed importante, che in così poco tempo, da un bambino rumoroso e vivace come tutti gli altri, ero diventato un rappresentante importante del condominio. Mi faceva molto piacere sentirli mentre me lo stavano dicendo, ma non vedevo l'ora di poter parlare anch'io.

Ringraziare tutti loro per quelle belle parole, ma soprattutto, per salutare ed andare via subito.

Volevo arrivare a casa dai miei genitori perché, volevo condividere prima di tutto con loro la mia grande gioia.

Il grande risultato.

Erano loro i primi a qui volevo dare quella grande soddisfazione.

Parlare prima con altre persone, mi sembrava quasi di fare un torto ai miei genitori.

Quando la porta di casa si è aperta e dietro è comparsa mia mamma, prima di dirle qualcosa ed ancora prima di salutare, mi è bastato vedere la sua faccia, per capire quello che succedeva dentro di lei.

Dopo avermi abbracciato, era arrivato il turno di mio padre.

Mentre mi abbracciava dolcemente forte, mi ha detto che mai nella nostra famiglia allargata, a nessuno aveva toccato questo onore.

Ero felicissimo.

Non lo so se erano i momenti più felici della mia vita, ma di sicuro, erano i più importanti.

Era per la prima volta, che i risultati del mio lavoro, dei miei sacrifici, oltre ad essere premiati dandomi soddisfazione personale, venivano riconosciuti da tutti.

Davano tanta gioia ai miei genitori.

Vedevo che erano molto fieri di me e capivo che per la prima volta, avevo portato anch'io, un qualcosa per la nostra famiglia.

Un qualcosa in più, che faceva stare meglio tutti.

Ero molto felice per i miei genitori.

Molto fiero e molto contento di me.

Vedevo che tutto, sembrava quasi più importante del primo premio che avevo preso l'anno prima e non riuscivo a capire perché. Quello che stava succedendo, quello che stavo vivendo, mi ha aiutato a dimenticare in fretta i momenti che non mi sono piaciuti, quelli che non mi hanno fatto stare non bene durante la cerimonia.

Dopo essere rimasto ancora un po' vestito con la divisa da pioniere per farmi vedere bene dal mio papà, come lui mi ha chiesto, mi sono svestito prima di sporcarmi. Invece di metterla nell'armadio come facevo di solito, l’ho messa con tanta cura su una sedia, per farla vedere bene anche al mio fratello appena tornava dalla scuola, poi, come sempre, non vedevo l'ora di cominciare a fare i miei compiti.

In quel giorno però, oltre a farli bene, volevo farli più in fretta, per poter scendere prima e raccontare ai miei amici del condominio, quanto di bello mi era successo a scuola.

Stavo quasi finendo i compiti, quando il campanello di casa ha suonato.

Era uno dei miei amici.

Mi chiamava perché, avevano già organizzato una partita di calcio con la squadra di un altro condominio.

Ho avuto il tempo che mi serviva per finire bene il mio lavoro e mi sarebbe bastato anche per raccontare prima della partita a tutti, le mie belle novità.

Appena sceso, non ho fatto in tempo a raccontare niente.

È stata una bellissima sorpresa vedere che i miei amici, tutti insieme avevano già deciso una cosa molto importante.

Da quel giorno in poi, sarei stato il capitano della nostra squadra.

Sapevano già tutto.

Era la giornata delle grandi soddisfazioni, ma anche dei grandi dubbi.

Non sapevo come facevano a sapere già tutto, ma la loro decisione era un bel segno di amicizia ed è stato ancora più bello che appena arrivata l'altra squadra, lo hanno fatto sapere a grande voce e con tanto entusiasmo anche a loro. Subito dopo, sul nostro “Maracana” in terra rossa, è partita la nostra “Finale Mondiale”.

"Una battaglia epica."

Correre è lavorare per la squadra mi piaceva tanto, ma in quel giorno mi sembrava di volare. Diventavo sempre più sudato ed in mezzo al polverone di terra rossa alzato da noi stessi, la mia pelle diventava sempre più appiccicosa e sporca, ma nessuno di noi aveva la più piccola intenzione di mollare niente, correre meno in quel' incontro, o risparmiarsi in quella forte battaglia.

Nessuno voleva fermarsi mai.

Neanche quando qualcuno di noi cadeva sbucciandosi le ginocchia, i gomiti, i palmi delle mani ed il rosso molto vivo del sangue, si mischiava con la polvere scura ed appiccicosa sulla pelle.

Oppure quando qualche donna con le borse della spesa, per fare meno strada tagliava in diagonale il nostro campo, invece di andare sul marciapiede intorno e veniva centrata in pieno con il pallone.

Vincere “la finale del nostro mondo", era l'unica cosa che contava.

Ogni volta.

Era molto più importante che lamentarsi per delle piccole ferite, o ascoltare le imprecazioni di un adulto che comunque aveva torto, perché era lui ad aver appena invaso il nostro territorio.

Alla fine, ero ed eravamo pieni di tante soddisfazioni.

Per la nostra vittoria.

Perché avevo fatto più gol di tutti.

Ma la più grande in assoluto era un'altra.

Quella di portare intero a casa, il nostro pallone, perché, non poche volte finiva sotto le ruote di qualche macchina, nel corso non molto lontano, dietro ad una delle due porte.

Il sole aveva cominciato a scendere e pensavo che per me, quello era stato il giorno più movimentato, bello e felice della mia vita.

Il giorno perfetto.

Non potevo sapere che la ciliegina sulla torta, doveva ancora venire.

Mentre tutti insieme, ci stavamo facendo i nostri conti di come e quanto era andata bene la nostra partita, è arrivato il gruppo dei ragazzi più grandi del nostro condominio. Stavano tornando dalla collina, dove erano andati a giocare tutti insieme.

Come sempre.

Era un posto di qui parlavano tanto e tutti.

La vedevo al di là del corso, dalle nostre finestre, ma non ero mai andato sulla collina.

Ero ancora troppo piccolo.

Alcuni di noi, parlando quasi tutti insieme, hanno cominciato a raccontare anche a loro, mentre erano ancora abbastanza lontani, di come era andata la partita, chi ha fatto i gol e chi è stato il migliore e tutte le altre cose per una cronaca completa.

In quel momento per me, è arrivata la soddisfazione più grande di tutta la giornata.

I grandi si congratulavano con me per tutto ciò che di bello ed importante mi era successo in quel giorno.

Essere riconosciuto subito e rispettato per i miei meriti dal gruppo dei grandi, che erano molto uniti ed avevano la squadra di calcio più forte della zona, per me era la cosa più importante di sempre.

Sentirli dire che sono fieri di essere miei amici, mi stava quasi facendo volare fino al sesto piano dove abitavo.

Non ero più riconosciuto perché fratello del mio fratello più grande e loro amico, ma per quello che ero.

Mi ero fatto strada da solo.

Per i miei meriti.

Il mio lavoro ed i miei sacrifici venivano ripagati.

Era tutto splendido e quella era la mia vera soddisfazione, la più grande di quel giorno.

Forse di sempre.

Mi ha subito aiutato mia mamma a restare per terra, quando all'improvviso l’ho vista non molto lontana e mi diceva che anche quella sera, avrebbe dovuto mettermi nella lavatrice perché, ero sporco come un minatore.

Per me, forse sarebbe stato molto meglio, perché l'acqua calda non arrivava a tutte le ore del giorno.

Tante volte, anche quando le ore erano giuste, quelle decise dal programma di distribuzione, ai piani più alti, non arrivava ed in quei momenti, come in quella sera, mia mamma riscaldava l'acqua sulla cucina in un immenso pentolone che poi diluiva con acqua fredda nella vasca da bagno.

Non era tanta ed il mio corpo non riusciva a stare tutto sotto l'acqua.

Questo non mi piaceva e non mi faceva stare bene, ma di estate era molto meglio che nei giorni molto freddi d'inverno.

Poi, alla fine di quel giorno così importante della mia vita, andava bene tutto.

Le giornate passavano lente e tranquille.

Ero molto contento, perché a scuola, ogni giorno imparavo qualcosa di nuovo. Tutte cose molto interessanti che assorbivo senza neanche respirare. Mi piacevano moltissimo perché, erano conoscenze sempre più complesse ed aumentavano il mio sapere in ogni momento. Poi, a casa, da solo, facendo i compiti in totale pace, tranquillità, serenità e silenzio, riuscivo ad approfondire ancora meglio, al modo mio.

I voti erano sempre molto buoni.

A casa andava tutto molto bene.

Per i miei amici ero sempre più la loro guida, il loro leder.

Vivevo da beato.

Nel giorno in qui la maestra è entrata nella classe con in mano un piccolo bigliettino di carta che poi me lo ha dato, mi ha messo tanta confusione, perché, era per la prima volta che faceva un gesto cosi, nei confronti di un suo allievo.

Mi ha detto abbastanza decisa, di leggere bene tutto e di fare quello che era scritto.

Era un biglietto scritto, firmato e timbrato dalla compagna comandante dei pionieri per la scuola.

Informava i compagni comandanti delle classi appena entrati nelle fila dei pionieri, di essere invitati al primo incontro con tutti i compagni comandanti delle classi di tutta la scuola.

Sotto la sua guida.

Sembrava molto interessante e mi incuriosiva molto.

Era una cosa nuova, poi il fatto di stare insieme a tutti i più grandi della scuola, mi incuriosiva ancora di più. Di sicuro, avrei potuto imparare qualcosa di nuovo.

Non mi piaceva affatto tutto il resto perché l'incontro, si doveva svolgere fuori dagli orari di scuola.

Nel mio tempo libero.

Quando è arrivato il giorno, sono andato davanti ad una porta che fino in quel momento, da quando ero nella scuola, avevo sempre visto chiusa e più di una volta mi ero chiesto: "cosa c'era dietro".

Arrivavano sempre più compagni comandanti di classe ed a parte i miei altri sette coetanei, tutti erano più grandi. Più venivano, più mi sentivo piccolo, senza che nessuno dei grandi faceva qualcosa per farmi sentire in quel modo. Forse mi capitava, perché vedevo tutti con dei comportamenti quasi da grandi.

Molto seri, freddi, quasi rigidi.

Appena arrivata la compagnia comandante, ha aperto quella porta e finalmente siamo entrati.

Era una specie di aula, molto diversa da tutte le altre aule della scuola, ma molto più piccola.

Forse la meta ed era più lunga che larga.

Per terra, sui due lati lunghi, dall'ingresso e fino in fondo, quasi fino alle finestre, c'erano porta bandiere riempiti tutti da bandiere.

Messe in ordine: una tricolore del paese ed una rossa dei pionieri.

Erano moltissime e facevano quasi fermare il cuore appena entrati.

D'avanti alle bandiere, una di fronte al' altra, due fila di sedie su quali ci siamo seduti tutti noi. Mi sedevo per la prima volta nella mia scuola, su una sedia e non in un banco. In fondo alla camera, con le spalle verso la finestra, si era appena seduta dietro ad una scrivania abbastanza grossa, la maestra compagna comandante. Purtroppo, in quella giornata luminosa, con tutta la bella luce che entrava nella camera dalle grosse finestre, non riuscivo neanche a vederla e questo mi infastidiva non poco.

Capivo soltanto che li seduta, c'era una persona.

Non ho fatto in tempo a vedere altro, perché si è alzata in piedi ed ha "dichiarato aperti" i lavori di quella assemblea.

Dopo aver cantato l'inno nazionale del paese, la compagna comandante pioniera per la scuola, quella con il cordone blu, ha preso la parola.

Hanno accolto tutti noi piccoli, che eravamo lì per la prima volta, con un applauso da parte di tutti.

Poi ci ha spiegato che in tutte le foto grandi e piccole sui panelli rossi attaccati fino al soffitto sulle pareti, sopra le due fila di bandiere, in modo disordinato ma bello da vedere, erano tutti compagni pionieri piccoli e grandi, di qui la nostra scuola andava molto fiera. Erano vincitori delle “Olimpiadi dello Studio” al livello cittadino, regionale e nazionale. Vincitori di concorsi interscolastici. I migliori nel portare a buon fine il lavoro di raccoglimento del piano economico. I più intraprendenti nel lavoro volontario ed i migliori nelle gare sportive.

A parte le gare sportive e qualcosa sul lavoro volontario – perché avevo sentito i miei genitori quando siamo andati insieme a lavorare per il nuovo stadio -, tutte le altre, erano per me parole e cose nuove che non avevo mai sentito prima.

Di quello che sentivo, non capivo nulla.

Sapevo di essere tra i più piccoli, ma nella mia classe ero il più bravo nello studio. Quando parlavano le persone grandi, riuscivo a capire cosa si dicevano, ma in quei momenti, all'improvviso, per la prima volta nella mia vita, non capivo niente, neanche una parola, di quello che si stava parlando.

Sembrava che parlavano tutti in un'altra lingua.

Mi chiedevo se non capivo perché ero stato troppo superficiale nello studio e quelle cose mi erano sfuggite, se ero troppo poco preparato, oppure mi stavo scoprendo semplicemente scemo.

< Ma se lo ero per davvero, lo erano anche tutti i miei amici che mi hanno votato, la nostra maestra ed anche la dirigente che hanno permesso quello sbaglio? >

Le cose andavano sempre peggio, perché quando la compagna comandante con il cordone blu, ha finito di parlare e la maestra compagna comandante ha cominciato a fare domande ai compagni più grandi, che avevano il cordone giallo come il mio, loro rispondevano con sicurezza, tanta decisione e dando tante cifre.

Come delle persone molto più grandi della loro età e molto ben preparate.

Con la voce molto forte e decisa.

Molto sicuri di loro.

Finiva uno e cominciava un altro.

Più parlavano, più mi chiedevo: < Cosa avrei risposto se chiedeva a me? >

Doveva essere un giorno bello e molto importante. Lo avevo immaginato come quando i ragazzi grandi del condominio mi hanno riconosciuto loro amico per i miei meriti, ma in quei momenti, la grande curiosità dell'inizio, si è trasformata in domande, le domande in preoccupazioni, le preoccupazioni in insicurezza e l'insicurezza, stava diventando sempre più, paura.

Era per la prima volta nella mia scuola tanto amata, che non stavo più bene.

L'unica cosa che desideravo era di uscire da quella camera, dalla scuola e fuggire con tutte le mie forze subito a casa.

Nella mia cameretta.

Al mio tavolo dove facevo i compiti.

Li dove stavo sempre bene.

Quando gli unici rimasti senza essere interrogati eravamo noi piccoli, la maestra compagna comandante, si è fermata nel fare quelle domande strane ed a noi ci ha soltanto chiesto se avevamo visto: < Quanto erano stati bravi i nostri compagni più grandi nello svolgere il loro compito come compagni comandanti di classe >.

Nessuno di noi piccoli ha aperto bocca.

Non aver fatto anche a noi quelle domande strane, mi ha fatto sentire un po' meno la forza di quella paura ed anche se ho capito molto bene la domanda che ci aveva fatto, era per la prima volta da quando andavo a scuola che non volevo rispondere alla domanda di una maestra,

Di questo ero convinto.

Avevo già deciso che quello era il giorno più brutto della mia vita e la causa, era soltanto lei.

La maestra compagna comandante, perciò, non volevo avere nulla a che fare con lei.

Subito dopo, ci ha spiegato che avendo visto come si doveva svolgere un'assemblea, nello stesso modo, avremo dovuto organizzare le assemblee nelle nostre classe, per informare i nostri compagni pionieri su quanto si era detto li.

In quel momento, la paura è diventata terrore, perché non ricordavo più nulla di tutte quelle cose.

Come erano state fatte, di cosa si era parlato e mi chiedevo se sarei stato capace di organizzare l'assemblea della nostra classe.

Subito dopo, ci ha detto che voleva venire nel nostro aiuto e ci ha dato dei fogli scritti, con "l'ordine del giorno".

L’ho messo con tanta cura nella mia borsa dentro un libro, perché sapevo che mi sarebbe servito, ma all'aiuto di quella persona che vedevo per la seconda volta nella mia vita, non ci credevo più.

Quando ha dichiarato chiusa l'assemblea e tutti insieme abbiamo cantato l'inno dei pionieri, è stato l'unico momento che mi è piaciuto di tutto quello incontro.

Nell'attimo dopo, ero già fuori.

Mentre camminavo da solo, pensavo che i miei amici erano già a casa, da più di un'ora.

Ero stato lì, dal mio tempo libero e come risultato, non vedevo niente di buono.

Era per la prima volta che sentivo delle cose che non conoscevo e che insieme alla paura di prima, facevano muovere tutto dentro me, in modo strano.

Un disordine totale.

Nella testa avevo un sacco di domande che venivano tutte insieme. Mancavano però le risposte ed in più, la pace e la tranquillità che tanto amavo, in quei momenti, mi chiedevo se mai le avrei ritrovate.

Appena entrato in casa, prima ancora di togliermi le scarpe e la divisa da pioniere, i miei genitori, senza neanche guardarmi, mi facevano un sacco di domande in modo allegro, scherzoso, vivace ma tranquillo, su come era andata la mia prima assemblea da "grande capo", insieme agli altri grandi capi della scuola.

Sembrava quasi che mi prendevano in giro.

Silenzioso e senza rispondere, sono andato a svestirmi.

Quando vestito da casa sono ritornato in cucina per mangiare, ho visto che all'improvviso hanno smesso di farmi domande sull'assemblea e dopo un attimo di silenzio, mio papà mi ha chiesto se volevo andare con lui sulla collina dove andavano a giocare i ragazzi grandi del condominio.

Aveva voglia di camminare un po' e non li andava di farlo da solo.

Soltanto in quel momento ho cominciato a rivedere che fuori era una bellissima giornata serena ed ancora molto luminosa, anche se autunno. Dentro di me, al' improvviso, sembrava che quel grande disordine che si muoveva in continuazione, cominciava a fermarsi, lasciando il posto alla tranquillità. In quei attimi, ho capito che anche il mio corpo tornava piano, piano ad essere meno rigido, caldo e vivo.

Piano, piano e finalmente dopo un po', cominciavo a vedermi e sentirmi come mi conoscevo.

Sarebbe stato per la prima volta che andavo sulla collina.

Mi è bastato, per far ritornare in me la vita.

Quando ho provato a spiegare a mio papà che prima avrei avuto dei compiti da fare e lui mi ha risposto che aveva fiducia in me ed era sicuro che li avrei fatti tutti e fatti bene al nostro ritorno, l'ultimo pezzo di disordine ancora rimasto dentro me, è stato spazzato via da un'esplosione di entusiasmo, di gioia.

I piedi che prima sentivo pesanti come il piombo, erano diventati leggeri e pronti alla camminata e prima di dire, oppure sentire qualsiasi altra cosa ero nel' ingresso, d'avanti alla porta di casa, con le scarpe già ai piedi.

Pronto per partire.

Prima di uscire, mio papà ha soltanto preso nello sgabuzzino una cosa che sembrava un bastone, spiegandomi che era una piccozza da montagna.

Era per la prima volta che la vedevo.

Mi è subito piaciuta tanto.

Ha poi preso anche un piccolo borsellino da minatore, un po’ più grande di quello che avevo al' asilo, dicendo che era il periodo buono, per la maturazione delle noccioline selvatiche.

Siamo usciti.

All'improvviso, quello era appena diventato uno dei giorni più felici ed importanti della mia vita.

Quando d'avanti al condominio, qualcuno dei miei amici che era già sul nostro “Maracana”, mi ha chiamato a fare due tiri, con tanta fierezza ho risposto che non potevo, perché andavo con il mio papà sula collina dei ragazzi grandi.

Appena attraversato il corso, quasi subito, siamo scesi in una piccola vallata e dopo aver attraversato il letto abbastanza grosso del piccolo fiumiciattolo che passava di lì, abbiamo cominciato la salita. Una salita dolce, tranquilla e mentre la stavamo facendo, mio papà ha cominciato a farmi vedere e spiegare tante cose.

Dove si poteva camminare perché era la collina di tutti e dove non si poteva, perché apparteneva alle persone che abitavano nelle case all'ingresso della città.

Dove si poteva accendere un fuoco per fare alla brace delle buone patate oppure lardo di maiale affumicato, il cibo preferito dei montanari, e dove non si doveva mai accendere un fuoco.

Quale era il legno buono per fare gli archi, come quelli dei ragazzi grandi e quale era il legno buono per fare le frecce.

Dalle piccole fonti di acqua che ogni tanto vedevo uscire da sotto terra, da quale si poteva bere tranquilli e quali era meglio evitare.

Quale pianta, oppure foglie di alberi potevano andare bene per qualche cura naturale e per quale cura.

Era tutto bellissimo.

Stavo vivendo una lezione di "conoscenze della natura", in mezza alla natura e scoprivo in quei momenti quante cose nuove mi stava insegnando mio papà senza nessuna fatica.

Quante cose sapeva.

Ci siamo fermati in un grosso spiazzo.

La città si vedeva già dall'alto ed il rumore era rimasto lontano.

Eravamo su un bel prato ancora molto verde e molto morbido.

Intorno allo spiazzo, non molto lontani, c'erano tantissimi alberi dai più piccoli, a molto grandi. Riempivano tutta la collina e lo spettacolo che davano era splendido. Visto da vicino, era ancora più bello di quanto era quando lo vedevo dalla finestra della nostra cameretta.

Le loro chiome erano fatte di tantissimi colori.

Sembrava che tutti i tipi di verde ed alcuni di giallo erano scesi dal cielo e si sono posati sopra, per dipingerle. Verso l'alto della collina si vedevano tanti con delle chiome di un colore quasi rosso. Mentre il leggero vento passava, le loro foglie si muovevano tutte insieme nello stesso momento e nella stessa direzione in un modo tranquillo, molto delicato.

Era per la prima volta che sentivo il loro fruscio.

Il loro canto armonioso, portatore di pace.

Quando il leggero vento veniva verso di noi, anche se molto tranquillo, oltre aria più fresca, portava anche un bel po’ di foglie gialle piccoli e grandi che scendevano a terra leggere e tranquille come i fiocchi di neve.

Mentre respiravo a bocca chiusa ma a polmoni pieni, per poter assorbire tutti i profumi buoni che sentivo, per riempirmi più che potevo di quel' aria, mio papà mi spiegava che quella specie di sentiero molto, molto largo, quasi una strada, che partiva dal nostro spiazzo e salendo sulla collina, si perdeva in alto dentro la foresta, era il posto che d'inverno, con la neve, diventava la pista di slitta di tutta la nostra zona.

Cominciando a salire anche noi su quella che diventava d'inverno la pista delle slitte, sentivo l'erba corta sotto i piedi cosi morbida, che ogni tanto, mi sembrava quasi, di perdere l'equilibrio.

Era come camminare sopra un morbido e spesso tappetto persiano della migliore qualità.

Mi sembrava di essere entrati, nel regno della natura e che lei, ci aveva dato gratuitamente e con tanta generosità il permesso di farlo, per poterci gustare da vicino tutto.

I suoi colori, profumi, suoni.

Tutta la sua vita.

Di dentro, in un modo tranquillo e naturale, sentivo che l'unica cosa da offrire in cambio come ringraziamento a tutta quella ricchezza, a tutto quello che ci donava e ci permetteva di vivere, era il mio più profondo rispetto per lei.

Per la natura.

La mia testa non si fermava mai, perché a destra, a sinistra, su e giù, c'era sempre qualcosa di nuovo, di bello e di interessante da vedere. Anche se non lo guardavo sempre, sentivo molto bene la voce di mio papà che ogni tanto interrompeva il grande silenzio per insegnarmi come si doveva respirare, come si doveva camminare e cosa si doveva fare in alcune situazioni di difficoltà in montagna.

Mentre mi parlava, all'improvviso si è fermato e con la parte curvata della piccozza di montagna, dopo averla alzata, ha piegato con attenzione e senza spezzarla, una pianta non spessa, fino a portarmela quasi d'avanti al naso ed appena fatto, ho sentito la voce di mio papà, che mi diceva di guardare come erano belle le noccioline sui rami d'avanti a me.

Sembrava che soltanto in quel momento i miei occhi si sono aperti.

Ho visto attaccate alla pianta, tante coppie di noccioline di colore giallino, quasi bianco in dei gusci di un verde molto fresco.

Con l'aiuto di mio papà, che uno dietro l'altro piegava e poi rilasciava i rami delle piante, ho raccolto le noccioline finché abbiamo riempito la piccola borsetta che avevamo.

Dopo aver finito e senza aver fatto nessun danno alle piante, abbiamo ripreso il nostro cammino e quasi subito dopo, seguendo mio papà, abbiamo lasciato quella specie di largo sentiero, per andare in mezzo agli alberi. Entrati nella foresta, il canto delle piante era ancora più bello e forte.

Il profumo della foresta e di terra umida, me l'ho gustavo tutto e fino in fondo.

Ad ogni respiro.

Camminando, ho capito che si sentiva sempre più chiaro e sempre più vicino, come una voce fuori dal canto della foresta, un rumore non forte e molto delicato di acqua che scorreva.

In un piccolo spiazzo, da sotto una pianta, usciva dalla terra un bel filino di acqua.

Sembrava un filo di argento.

Dopo che toccava la terra e cominciava la sua discesa verso vale, ho visto che era cosi limpida e chiara da riuscire a vedere bene tutti i colori di tutte le cose sopra quali scorreva.

Mentre beveva, insegnandomi come dovevo fare, mio papà mi spiegava di bere piano, piano, perché era molto fresca, ma soprattutto per poter gustarla bene.

Appena toccata, mi è sembrato che le labbra, la lingua si erano subito congelate e stavano per rompersi.

Era così fredda che sentivo molto bene come scendeva dentro il mio corpo.

Cosi buona che l'avrei bevuta tutta.

Dopo aver bevuto, siamo usciti dalla foresta sullo stesso sentiero di dove eravamo entrati.

Appena fuori, mio papà, dopo aver alzato gli occhi verso il cielo, ha detto che era l'ora di prendere la via del ritorno, perché il sole, stava cominciando a prepararsi per "andare a dormire".

Arrivati d'avanti al condominio c'era tanta vita come sempre.

A tutti quelli che incontravo, piccoli e grandi, non vedevo l'ora di raccontare che ero già andato sulla collina dove giocavano i ragazzi grandi e con tanta fierezza, spiegavo anche le cose belle che ho visto, vissuto ed imparato.

Per dare subito la prova che era tutto vero.

I compiti, mi sono sembrati ancora più belli ed interessanti del solito.

Alla fine, ho anche avuto il tempo, ma soprattutto la voglia, di leggere i fogli su quali era scritto come dovevo organizzare l'assemblea di classe e quale era l'ordine del giorno di quella assemblea. Ho capito subito tutto, ma non volevo approfondire niente in quel momento. Non volevo disturbare quanto di bello ho avuto dalla vita in quel meraviglioso pomeriggio.

Volevo conservare tutto com'era.

Non potendo fermare il tempo, è arrivato anche il giorno in quale, dopo l'orario di scuola, ci siamo fermati nella nostra classe.

Era il giorno per l'assemblea dei pionieri.

Dopo aver dichiarata aperta l'assemblea, la mia maestra, mi ha chiamato d'avanti alla classe e mi ha dato la parola e farmi guidare tutto, come compagno comandante di classe.

Mentre stavo andando, lei ha preso la sua sedia che di solito stava dietro alla cattedra e si è messa nell'angolo più lontano.

Tra la lavagna e la finestra.

Sembrava quasi che non voleva intromettersi in quello che dovevamo fare.

Sembrava che non voleva far' parte.

Appena arrivato e girato verso i miei amici, in quei momenti, compagni pionieri, dentro ho cominciato a sentire cose mai sentite prima.

Ero già andato tante volte d'avanti alla classe, vicino alla lavagna.

Ogni volta per essere interrogato e non ho mai avuto paura, o problemi.

In quel momento era tutto diverso.

Era per la prima volta che guardavo in faccia, da quella posizione e nello stesso momento, tutti i miei colleghi.

Tutti i miei amici.

Erano tanti.

Vestiti tutti di bianco con la divisa dei pionieri, sembravano ancora di più.

I loro occhi e la loro attenzione che di solito erano sulla nostra maestra, in quei momenti, era su di me.

Le loro facce erano molto incuriosite, ma belle, tranquille e questo mi faceva stare anche a me più tranquillo.

Con la maestra non vicina, quasi assente e sapendo che mi ero preparato bene a casa da quei fogli che avevo letto più volte, abbastanza sicuro di me, ho cominciato a parlare.

Dopo le prime parole, ho visto che i miei compagni erano ancora più attenti a me e sembrava un gruppo ancora più unito, più compatto, soprattutto quando dicevo loro, “davo gli ordini”, su cosa e come dovevano fare, come la maestra compagna comandante aveva scritto.

Dal farli venire tutti d'avanti ai banchi vicino a me, prima i quattro comandanti di gruppo e poi uno alla volta, nell'ordine già deciso, tutti i compagni pionieri - ognuno dietro al suo comandante -, fino all'ingresso delle bandiere. Dal cantare l'inno nazionale del paese, all'ascoltare “il rapporto” di ogni comandante di gruppo al comandante della classe. Dal' ascoltare "in formazione", l’ordine del giorno della nostra assemblea, fino a “rompere le righe” e tornare in silenzio, ognuno al suo posto nel banco, per cominciare ad approfondire l'ordine del giorno.

Il primo punto di quel ordine del giorno, che stavamo già vivendo ed andava anche molto bene, era di imparare tutti insieme come si doveva svolgere un'assemblea.

Tutte le cose da fare.

Tutto il protocollo.

Il secondo era di spiegare che cos'era e come si doveva fare “I Piano Economico della classe”.

Quando a casa avevo letto questo punto, con tutte quelle parole nuove e che di solito non venivano usate dai bambini, subito non ho capito nulla. Dopo aver letto finché mi sono sentito sicuro di me, ho anche deciso senza dire o chiedere niente a nessuno, che nell'assemblea della classe, avrei spiegato tutte quelle cose ai miei amici, al modo mio.

Con parole che usavamo noi, per farmi capire bene da tutti.

Ero il loro comandante e mi sembrava giusto aiutarli a capire.

Mentre parlavo, lì dove sapevo di aver messo parole mie, ogni tanto guardavo la maestra per vedere se era d'accordo, oppure no, ma non riuscivo a capire niente.

Non diceva nulla e la sua faccia era sempre la stessa, come in quel giorno quando siamo diventati pionieri, ma questo non mi disturbava, anzi mi dava la sicurezza per andare avanti, perché non mi ha mai fermato.

Più andavo avanti, più mi sentivo sicuro e certo che spiegavo bene ai miei compagni.

In ognuno dei tre trimestri di scuola che si facevano in ogni anno scolastico, dovevamo raccogliere dei soldi, cioè, “il piano economico della nostra classe”, che poi venivano tutti versati nel “piano economico della nostra scuola”.

Tutti quei soldi, venivano usati per i lavori di qualsiasi tipo nella nostra scuola, che si facevano ogni anno nella vacanza grande, quella del' estate.

In un trimestre, ogni bambino doveva versare al proprio comandante di gruppo, nel momento in qui voleva, anche un po' alla volta, una cifra che a me sembrava molto piccola.

Con quei soldi si sarebbe potuto andare al cinema per neanche tre volte, oppure mangiare due dolci e mezzo nella confetteria, comperare la metà di uno dei palloni con qui giocavamo a calcio, oppure dieci dei gelati più piccoli che esistevano.

La cosa importante, era che quei soldi non potevano e non dovevano essere dati dai nostri genitori.

Ognuno di noi, per mettere insieme quella cifra, doveva dedicare del tempo.

Del suo tempo.

Ognuno doveva lavorare.

Un terzo della cifra, doveva essere ottenuto da residui di carta raccolti e portati in uno dei centri di raccolta nella città.

Andando nei vari centri, dovevamo avere dietro come segno di riconoscimento il nostro libretto di allievo, quello dove di solito si mettevano i voti per farli vedere e firmare dai genitori a casa.

Il responsabile del centro ci pagava la carta, ma la cosa che a me, sembrava molto più importante dei soldi, era la ricevuta che ci doveva dare, con il nostro nome e cognome, la quantità di carta portata, i soldi pagati, la data, la sua firma e soprattutto il timbro del centro di raccolta.

L'altro terzo della cifra si doveva ottenere, portando bottiglie, oppure barattoli di vetro vuoti e puliti. L'ultimo terzo, portando del ferro vecchio.

Ognuno di noi, appena aveva la cifra giusta, ma soprattutto le ricevute dei centri di raccolta, doveva dare tutto al proprio comandante di gruppo.

Il comandante, aveva il compito di creare la statistica del proprio gruppo. e poi, di consegnare tutto a me.

Dopo aver fatto la statistica della classe, controllando che la soma dei soldi, era la stessa con la somma scritta sulle ricevute, dovevo consegnare tutto alla compagna comandante dei pionieri per la scuola.

Più andavo avanti, più mi rendevo conto che stavo spiegando bene, perché vedevo le facce e gli occhi dei miei compagni molto attenti.

Nella nostra aula, c'era un silenzio profondo in qui si sentiva soltanto la mia voce.

Nessuno mi chiedeva nulla.

La maestra non stava più dritta sulla sedia, ma era piegata un po' in avanti, come facevo nel banco quando lei ci spiegava un qualcosa che mi interessava di più e volevo capire bene.

Ero così tranquillo, sereno e soddisfatto, che mentre parlavo sono anche riuscito a chiedermi perché quella maestra compagna comandante è stata cosi rigida ed aggressiva quando ci ha spiegato tutto, visto che io piccolo bambino, ci riuscivo a farlo da amico con tutti e le cose andavano molto bene.

Quando ho finito e ho chiesto se hanno capito, oppure se c'erano delle domande, la mia soddisfazione è stata ancora più grande.

Non avevano domande, ma prima uno, poi un altro, poi un po' tutti insieme, i miei amici hanno cominciato a dire ognuno un qualcosa, su tutte quelle novità.

Quando il rumore e diventato un po' troppo forte, è intervenuta la nostra maestra e con tanta tranquillità ci ha ricordato che dovevamo ancora chiudere l'assemblea.

Mentre cantavamo l'inno dei pionieri ed i due porta bandiere, portavano le bandiere della classe al loro posto, mi sentivo molto fiero di me stesso per come erano andate le cose.

Mi piaceva di nuovo essere pioniere ed il comandante della mia classe, poi, la ciliegina sulla torta l'ha messa la mia maestra.

Prima di andare via, mentre stava quasi prendendo la mia guancia nella sua mano destra, con la sua dolcezza mi stava dicendo che ero stato molto bravo a guidare ed a tenere tutti uniti i miei amici, i miei compagni, nella mia prima assemblea.

Anche se fuori pioveva e la giornata era molto grigia, fredda, con le nuvole molto basse e con poca luce, come tutte le giornate in pieno autunno sotto la montagna, dentro di me, c'erano delle immense esplosioni solari.

Una luce, fortissima e molto luminosa.

Impegnato come ero, con i miei compiti, con il lavoro di comandante della classe, con le grandi cose da fare insieme ai miei amici del condominio, mi è sembrato troppo presto quando un giorno mio papà mi ha detto che era arrivata l'ora di cominciare a preparare l'albero.

Tra non molto, doveva venire Babbo Natale e li serviva l'albero per poterci lasciare i regali.

Per la prima volta sono andato anch'io insieme ai miei genitori a comprare l'albero.

Erano tantissimi.

Tutti grandi e molto grandi ed intorno si sentiva un profumo di pino molto buono, molto forte.

Sulla neve bianca che copriva già tutto con uno strato molto spesso, le loro chiome verdi, erano come una macchia di vita nel gelo dell'inverno. Dopo aver guardato un po’, come tutta la gente che era lì per lo stesso motivo, mio papà ha scelto uno che piaceva a tutti noi. Lo ha legato bene, ma delicatamente, per non spezzare i rami, e ci siamo incamminati per tornare a casa.

Il mercato non era molto lontano e tornando, mio papà ha avuto il tempo di spiegarmi che prima di cominciare a preparalo, dovevamo tagliarlo alla base, perché forse era troppo alto e non ci stava dentro casa.

Finiti tutti i preparativi, finalmente lo abbiamo messo al suo posto e dopo averlo fissato bene nel suo piedistallo, abbiamo messo soltanto le luci.

A tutto il resto: cioccolatini, addobbi, regali, ci avrebbe pensato Babbo Natale.

Come sempre.

Preparare per la prima volta l'albero insieme al mio papà, dentro mi faceva sentire un po' più grande.

Ero molto felice.

Ancora di più di quello che ero già, perché quell'anno, Babbo Freddo, mi portava i patini da ghiaccio.

Ne ero sicuro.

I miei risultati nello studio erano molto buoni. Ho lavorato nel mio tempo libero anche per gli altri. Come comandante della classe, avevo aiutato alcuni dei miei amici che avevano bisogno. Ho aiutato nel fare i compiti, altri amici della mia classe, che andavano meno bene a scuola. Ero stato bravo a casa. Sono andato a comprare il pane per i nostri vicini anziani, ogni volta quando me lo hanno chiesto.

Ho fatto sapere in tempo il mio desiderio al Babbo Freddo, cioè, i patini e lui non aveva nessun motivo per non portarmeli.

Lavorando, mi sono ricordato molto bene, quello che pochi giorni prima avevo visto fare agli uomini che erano venuti a dare una mano ai miei genitori, per ammazzare e poi preparare il grosso maiale comperato per Natale ed anch'io, ho provato a fare nello stesso modo. Cioè, mentre stavamo facendo le ultime cose, mentre stavamo lavorando, ho cominciato a parlare con il mio papà e li ho fatto subito una domanda che volevo farli da un po' di tempo.

Per me, quello era il momento giusto.

Non riuscivo a capire perché in televisione, facevano vedere sempre e soltanto un “Babbo” che portava i regali, se in realtà, erano due “Babbi”.

A scuola, ci insegnavano quasi tutti i giorni e più di una volta al giorno, che i regali li portava il "Babbo Freddo".

A casa, i miei genitori e le altre persone grandi che conoscevo, le sentivo dire che da loro, come da noi, viene il "Babbo Natale".

Ho sempre pensato che ognuno ha il suo “Babbo”.

Babbo Freddo, soltanto per i piccoli che andavano ancora a scuola.

Babbo Natale, a casa, per tutti.

Per me andava bene.

Ero molto tranquillo e contento, ma volevo sapere di più, volevo capire meglio.

Subito nel momento dopo, quando per la prima volta di sempre, ho visto che il mio papà non ha risposto ad una mia domanda, le cose sono cambiate.

Non perché non mi ha risposto, ma perché l’ho visto diverso.

Era diventato meno sereno, meno sorridente, meno gioioso di come era l'attimo prima e dandomi una carezza sulla testa, mi ha detto di non avere fretta. Di non voler sapere troppo, in troppo poco tempo. Ogni cosa al suo tempo. Avrei capito tutto da solo ed al modo mio, quando ero pronto.

Era meglio così.

Il buon profumo di pino che si sentiva già forte nella camera e che mio papà mi ha fatto notare, in quel momento è diventato più interessante della confusione sui due Babbi.

Poi, quando una mattina mi sono svegliato e con il mio fratello abbiamo cominciato ad aprire i regali sotto l'albero, ho trovato i miei patini da ghiaccio.

In quel momento, non era molto importante se me li aveva portati Babbo Freddo, oppure Babbo Natale.

Neanche il colore degli scarponi che erano bianchi invece di essere neri, come li avevo chiesto, non contava più.

Finalmente avevo i miei patini.

In quella vacanza, con l'aiuto della tanta neve che era scesa, avrei imparato ad usarli bene.

Faceva abbastanza freddo e nei posti con tanta ombra, c'era ancora della neve, quando mio papà mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto vedere una partita di calcio dal vivo. Non ha finito di farmi la domanda, che la risposta era arrivata subito e chiara, mentre lo aspettavo già con le scarpe ai piedi, pronto per uscire di casa.

In pochi minuti, siamo arrivati al nuovo stadio, dove eravamo andati insieme per il lavoro volontario.

Non l'avevo ancora visto finito, anche se una piccola parte riuscivo a vedere dalle nostre finestre di casa.

Era diventato molto bello.

Sembrava immenso.

Appena entrati, sono rimasto un po' deluso, perché ho visto sul campo giocare già le due squadre, ma e subito tornata la tranquillità, quando mio papà mi ha detto che erano le squadre juniores. Le prime squadre dovevano, come sempre, cominciare appena finita quella partita. Non eravamo in ritardo come ho pensato, ma in anticipo e questo mi ha aiutato a vedere bene ogni cosa prima dell'inizio della vera partita.

Era tutto molto bello, molto interessante e non c'era niente che non mi piaceva.

Mi chiedevo soltanto, mentre vedevo quei ragazzi grandi a giocare, se le prime squadre erano molto più veloci di loro e se sarei riuscito a vedere e capire bene tutto. Non era più come a casa in televisione, dove le cose più importanti le facevano vedere più di una volta.

Non lo so quanto e come vivevo tutto ciò, ma so che mio papà ogni tanto mi guardava, ogni tanto mi sorrideva senza dirmi nulla e quasi ogni due minuti mi diceva di sedermi di nuovo, perché sarei riuscito a vedere anche da seduto le stesse cose.

Quando la partita delle giovanili è finita, sul campo sono entrate le prime squadre.

Era tutto così bello che in quel momento non potevo assolutamente restare seduto.

Vederli uscire dagli spogliatoi da squadra, tutti in fila, il modo di correre, di toccare il pallone, vedere dal vivo il modo come erano vestiti, il riscaldamento fatto in gruppo, molto organizzati.

Tutto bellissimo.

Anche se erano di terza serie e quelle che vedevo in televisione erano partite di prima, mi sembrava tutto molto più interessante dal vivo. Vedendo tutto ciò, il mio pensiero è subito volato e mi chiedevo come poteva essere, vedere dal vivo una partita di prima serie, della squadra che era nella città più grande della nostra vallata.

Mi gustavo tutto in pieno.

Preso come ero, ho soltanto sentito mio padre quando sorridendo, mi chiedeva se ero diventato sordo.

Ero sempre in piedi ed ero ancora vicino a mio padre seduto, soltanto perché c'erano le gradinate.

Mentre le squadre, laggiù sul campo continuavano a riscaldarsi, mio papà ha cominciato a raccontarmi di sapere che in quella primavera, perché saliti in terza serie, dovevano far' nascere anche la squadra dei pulcini. Non l’ho lasciato neanche finire, perché li ho subito chiesto cosa avrei dovuto fare per andarci anch'io.

La prima risposta e stata che dovevo continuare ad essere bravo come prima, in tutto quello che facevo già.

E quando sentivo tutto, era tutto.

Da tutto quello che facevo a scuola, a tutto quello che facevo a casa, ma non ho dato importanza e non ero preoccupato per questa condizione.

Era la stessa da sempre e non mi pesava.

Tutto quello che facevo, lo facevo in quel modo perché mi piaceva e non perché qualcuno me lo chiedeva, oppure perché dovevo farlo. Senza neanche lasciarlo finire, li ho detto che per me, quel accordo andava benissimo.

Ha fatto in tempo a dirmi che se le cose stavano cosi, chiedeva quando facevano le selezioni e mi portava.

Poi e cominciata la partita.

Con quello che mi aveva appena detto, i calciatori della nostra squadra, li sentivo già i miei compagni più grandi.

Quella notizia così bella e così importante che mio papà mi aveva dato, mi ha messo le ali sotto i piedi e pensando all'accordo fatto con lui, tutto quello che facevo, lo facevo con ancora più interesse, più determinazione, scoprendo anche tutti i giorni cose nuove e molto interessanti.

Studiavo con ancora più fame e sete di sapere.

Mi impegnavo sempre di più, anche con dei miei amici che a scuola capivano di meno ed avevano bisogno di aiuto.

Aiutavo anche qualche ragazza della mia classe a trovare nelle industrie della città, il ferro vecchio necessario da portare al centro di raccolta, per il piano economico.

A casa, appena arrivato dalla scuola, mi toglievo subito la divisa e la mettevo sempre apposto nell'armadio.

Dopo che studiavo, mettevo sempre tutto in ordine e mi preparavo già la borsa da scuola per il giorno dopo, prima ancora di andare fuori casa a giocare con i miei amici. Andavo senza problemi, quando mia mamma mi mandava, a comperare il pane, a buttare l'immondizia, oppure quando dovevo fare altre cose per la casa che da bambino riuscivo a fare.

Andavo a fare le stesse cose, anche per qualche vicino più anziano e che chiedeva a mia mamma il permesso di poterlo aiutare.

In quel periodo, anche la maestra compagna comandante, che purtroppo dovevo vedere negli incontri periodici dei comandanti di classe, mi sembrava meno aggressiva, meno cattiva e forse anche meno brutta.

Ogni partita di calcio che facevamo sul nostro “Maracana” in terra rossa, d'avanti al condominio, per me era già un allenamento per le future prove e quando è arrivato il grande giorno, ero più che preparato.

Ero pronto.

Scendere sul prato verde dove giocava la prima squadra e che avevo visto soltanto dalla tribuna fino in quel momento, era già un grande traguardo.

Sentire il profumo del' erba ed il fruscio dei passi sul campo di gioco, una cosa unica.

Vedere che sul prato eravamo entrati soltanto noi bambini ed i genitori stavano tutti a bordo campo senza poter entrare, mi faceva già sentire un po' importante e mi aiutava a non pensare al numero immenso dei bambini che eravamo ed al numero limitato dei pulcini da selezionare.

Ancora meno al fatto che ero tra i più piccoli.

Poi, quando è arrivato il futuro allenatore con il magazziniere che aveva una grande sacca di rete con tanti palloni di cuoio dentro, subito qualcosa è cambiato.

Si sentiva che dovevamo cominciare a fare sul serio.

Non avevo mai visto da vicino un pallone di cuoio, non l'avevo mai toccato, non vedevo l'ora di farlo.

L'allenatore ci ha messi su due fila, dai più grandi ai più piccoli e ha cominciato a farci fare degli esercizi fisici per il riscaldamento.

Dopo un bel po' di esercizi, ci ha fatto fare dei passaggi tra di noi con il pallone.

Purtroppo, prima ancora di capire come andava quel pallone, ci ha fermati.

Cominciava la selezione.

Ha cominciato dai più grandi, ed uno a uno, chi veniva chiamato, andava nella zona di campo più lontana ai genitori.

Vedevo, l'allenatore che prima parlava con ognuno dei ragazzi, poi faceva fare loro delle cose con il pallone. A qualcuno di più ed a qualcun' altro di meno e poi scriveva qualcosa sul quaderno che aveva in mano.

Subito dopo, l'allenatore diceva qualcosa ad ognuno di loro.

Non eravamo abbastanza vicini per capire cosa succedeva, ma vedevo alcuni ragazzi alla fine, saltare di gioia, altri, andare via con la testa bassa, altri ancora, andare via piangendo.

Le gambe mi stavano quasi facendo male aspettando il mio turno.

Quando è arrivato, eravamo rimasti soltanto due ragazzini e due papà.

Eravamo i più piccoli.

Mentre mi avvicinavo all'allenatore, lui, il campo, il pallone, mi sembravano diventati molto grandi, quasi giganteschi e mi chiedevo se ero ancora capace e giocare a pallone.

Se potevo ancora farlo in quel momento, perché mi sembrava di respirare a fatica.

Era come nel giorno della prima premiazione a scuola, e mentre ero "quasi pronto" per essere schiacciato da tutte quelle cose, ho sentito da lontano, dietro le spalle, la voce del mio papà che mi diceva di non avere paura.

Di fare con tranquillità quello che dovevo fare.

Quello che sapevo fare.

Dopo i primi passaggi che ho fatto con l'allenatore, è diventato tutto normale.

Più andavamo avanti, più mi sentivo meglio.

Mi chiedevo soltanto, perché mi faceva fare tutte quelle prove, tirare con tutti e due i piedi, colpire di testa, provare a dribblarlo, fare i cross, girarmi di spalle e dopo che lui mi tirava il pallone, di trovarlo subito e passarlo di nuovo a lui.

Avevo visto che ai ragazzi prima di me, ha fatto fare molto meno.

Ero molto concentrato.

Quando mi ha detto che abbiamo finito ero molto tranquillo, molto contento.

L'ho visto che si è avvicinato a mio papà e non lo aveva fatto con nessuno prima. Li ha parlato e dopo avermi chiamato, mi sono avvicinato. Mi ha detto che era un po' preoccupato perché ero il più piccolo tra tutti. Di età e di fisico, ma perché, secondo lui, ero bravo, mi prendeva.

Sorridendo, mi ha chiesto se ero contento.

Lo avrei baciato, anche se non lo avevo mai visto prima e poteva essere quasi mio nonno.

Quando mi ha chiesto quale era la cosa che mi e piaciuta di più in quel pomeriggio, li ho subito detto che ero felice di aver potuto tirare finalmente forte come volevo e come potevo, senza avere paura che il pallone andava nel corso e qualche macchina lo faceva scoppiare.

Mi ha fatto una carezza, dicendomi che sarò il suo preferito, la sua mascotte, anche se di sicuro avremo avuto tanti problemi per riuscire a trovare scarpe da calcio, magliette e pantaloncini della mia misura.

Andando verso casa, ero sulle nuvole.

Camminavo senza toccare terra.

Motivi di gioia per i miei sacrifici, per il mio lavoro, per i miei risultati, avevo già avuti molti e molto belli, ma quello era il motivo di gioia.

Era unico.

il più importante per me in quel momento.

Non vedevo l'ora di dirlo alla mia mamma ed a tutti quelli che incontravo.

Amici o anche soltanto conoscenti.

In poco tempo, ho fatto così bene quel lavoro, che lo sapevano tutti e quando i ragazzi grandi del condominio, mi hanno detto che da quel giorno ero nella loro squadra se volevo, per me era tutto.

Un' altro sogno quasi impossibile, che diventava realtà.

Ero tranquillo, sereno e felice.

Vivevo da beato.

Tutto quello che facevo, volevo farlo molto bene, perché mi piaceva tanto e lo facevo volentieri.

Con tutte le belle cose da vivere, la maestra compagnia comandante che mi piaceva sempre meno, ed il fatto che non potevo più giocare con i miei amici a pallone sul nostro “Maracana”, perché il mio allenatore non voleva, le vedevo come sacrifici che dovevo fare.

Il prezzo che dovevo pagare, per le cose meravigliose che vivevo.

Poi, un giorno, mentre mi gustavo, in pieno come sempre, tutto quello che vivevo, è arrivata una doccia fredda, ghiacciata.

Come l'acqua dei rubinetti di casa nei giorni di inverno e dalla testa, sulla schiena e fino ai piedi, mi ha congelato in un attimo.

Era arrivata all'improvviso e sembrava che avrebbe messo fine a tutto.

La nostra maestra ci ha detto che eravamo cresciuti e che d'avanti a noi, avevamo ancora soltanto un trimestre da passare insieme, poi noi andavamo alle medie e lei prendeva altri pulcini di prima.

Saremo rimasti per sempre nel suo cuore, perché eravamo stati i suoi primi allievi.

Quello che sentivo dentro, non mi piaceva e se qualche mio amico era felice perché andare alle medie voleva dire essere più grandi, per me, andava tutto benissimo così com'era.

Era tutto bellissimo.

Non volevo cambiare niente.

Non mi interessava cambiare nulla.





Non volevo crescere.




Crescere senza volerlo


Quell'estate, è stata un'estate di grandi riflessioni, grandi interrogazioni e grandi pensieri per quello che sarebbe successo da lì a poco.

Facevo tutte le cose con la stessa passione e tranquillità di sempre, i motivi di soddisfazione erano molti e molto variegati, forse come mai fino in quel momento della mia vita, ma dentro me, succedeva un qualcosa di nuovo.

Un qualcosa che non riuscivo a capire, perciò neanche spiegarmi.

Era un qualcosa di così complesso e diverso del solito, che mi stavo quasi rifiutando di credere che era tutto dovuto soltanto al' inizio delle medie.

Soltanto perché ero cresciuto.

Guardavo i grandi intorno a me ed anche loro mi sembravano diversi.

Sembrava quasi, che sapevano, capivano molto bene cosa stava succedendo, ma non parlavano.

Con tutti i pensieri per la testa delle novità future di qui ho sentito parlare, ma che non mi convincevano ed ancora meno mi piacevano, ho deciso di non dare più spazio e tempo a cose che avrebbero creato dentro me soltanto preoccupazioni inutili, facendomi sprecare del tempo e togliendomi la mia tranquillità.

Ho provato con tutti gli aiuti che ho trovato intorno a me, a capire bene ed in anticipo tutto quello che potevo, ma purtroppo, mi sono trovato subito d'avanti un grande problema.

L'orario di scuola delle medie, era di pomeriggio, dall’una fino alle sei.

Oltre l'orario di studio, avevo tutti i miei impegni come comandante della classe e gli incontri con la compagna comandante della scuola. Quasi sempre, per quelli delle medie, questi impegni, erano tutti prima degli orari di studio.

Non avevo ancora cominciato la scuola e mi trovavo d'avanti il problema più grosso che avrei potuto avere fino in quel momento. Con quasi il doppio di materie da studiare, che voleva dire il doppio dei compiti, con una lingua straniera in più, con gli impegni come comandante della classe e soprattutto con gli allenamenti del calcio al meno tre volte alla settimana, avrei dovuto fare tutto, nella sola mattinata di ogni giornata.

Mi sembrava impossibile.

Già l'idea delle medie non mi entusiasmava, ero infelice per aver lasciato la nostra maestra, non mi piaceva non avere più a disposizione tutto il pomeriggio, non mi piaceva andare a scuola di pomeriggio ed a conti fatti, mi sarebbe mancato il tempo per preparare bene e come volevo i compiti per la scuola.

Prima ancora di cominciare, mi sembrava di intravedere un mezzo disastro.

Riuscivo a trovare un po' di serenità, quando parlando “me con me”, mi dicevo che conoscevo alle medie ragazze e ragazzi con dei buonissimi risultati nello studio, perciò, se ce l'hanno fatta loro, ce l'avrei fatta benissimo anch'io.

Magari scoprendo qualche segreto che in quel momento non conoscevo.

Purtroppo, il dolore di questo passaggio, era appena cominciato, e ho scoperto che era ancora più profondo, quando insieme ai miei genitori, siamo andati nel solito negozio, per comprare la mia nuova divisa.

Appena entrati nel negozio, abbiamo girato a destra e non più a sinistra come negli anni passati.

In quel momento, ho toccato per la prima volta con mano i problemi per quali, soffrivo già da un po', perché entrando, a sinistra, dove c'erano i vestiti per i bambini delle elementari, ho visto dei miei amici ed amiche più piccoli di me, conosciuti a scuola.

In quel momento, andando verso destra con i miei genitori, dentro mi sono sentito strappare via con una forza inimmaginabile e violenta, da quella che era la mia vita.

Dal mio mondo.

Il mondo dove avrei voluto restare ancora.

Ero presente soltanto fisicamente.

Con tutto il resto di me stesso, ero nell'altro reparto del negozio, dove ero sempre andato i quattro anni prima.

Avrei voluto fuggire via, per andare li.

Cominciavo a rendermi conto, che il periodo più bello della mia vita fino in quel momento, era passato.

Non lo avrei mai più ritrovato, mai più vissuto.

Più guardavo da l'altra parte del negozio, più ero assente dove stavo fisicamente.

Mi sentivo vuoto dentro e mi sembrava di diventare sempre più pesante.

Forse anche rigido.

Ero quasi terrorizzato al pensiero che non ero più un bambino piccolo, e mentre d'avanti agli occhi, in un attimo mi sono passati forse tutti i momenti più belli, tranquilli e spensierati di quei anni, mi veniva da piangere con tutto me stesso. Avrei voluto farlo in quel momento, senza nessun problema, senza pensare al posto dove ero ed a tutte le persone che erano intorno.

Purtroppo non ho potuto farlo, perché mi ha riportato nel duro presente mia mamma, che con la mia nuova divisa in mano, mi indicava la fila per la cabina di prova.

Appena vestito, ho visto che era un po' diversa di quella degli anni passati.

Aveva di diverso poche piccole cose, ma quelle cose l'ha rendevano un po' più elegante e forse più matura.

Guardandomi nello specchio, non ero più un piccolo bambino, ma un mezzo ometto.

Da quel momento non avrei più potuto piangere.

Non perché non avrei più voluto, ma perché dentro ero diventato come un pezzo unico di ghiaccio, come congelato ed il mio cuore, le mie lacrime, erano congelate insieme a me.

Quella, era la prima prova pratica, già toccata con mano, che un altro periodo nella mia vita, era appena cominciato.

Ero costretto a crescere più in fretta di quanto e di come lo volevo.

Appena arrivati a casa, è stato per la prima volta da quando avevo cominciato la scuola, che non ho provato di nuovo la mia nuova divisa. Per vederla bene in tutta tranquillità, per capire come mi stava, così come ho sempre fatto con tanto entusiasmo in tutti gli anni prima.

Mi sono cambiato e sono sceso di casa, dicendo che andavo fuori, d'avanti al condominio con i miei amici.

Scendendo le scale, speravo e pregavo di non incontrare nessuno.

Volevo sparire, non vedere più niente e nessuno.

Mentre facevo questi pensieri, capivo che un'altra cosa era veramente cambiata dentro me.

Avevo visto già da un po' di tempo, che mi piaceva molto pensare, girare le cose da tutte le parti per capirle bene, per comprendere tutto più che potevo, ma quello che succedeva in quei momenti, era una cosa ancora più nuova, mai vissuta prima.

Totalmente diversa.

Era per la prima volta nella mia vita che volevo stare completamente solo.

In silenzio.

Non sapevo cosa volevo fare, ma volevo stare da solo.

Mentre dal sesto piano, scendevo le scale a piedi come sempre, perché mi piaceva cosi, e provavo a darmi da fare per gestire nel migliore dei modi tutto quello che mi veniva di dentro come un fiume in piena, mi è venuta dentro me, una cosa che senza neanche valutarla mezzo secondo, l'ho considerata subito la cosa migliore da fare in quel momento.

Appena attraversato il portoncino d'ingresso, mi sono trovato in mezzo agli amici ed alle amiche del condominio.

Come sempre, ci si stavano raccontando le nuove impressioni per le divise appena comperate, per i quaderni, matite, pene stilografiche e tutto il materiale didattico, per il nuovo anno scolastico.

I sogni e le speranze.

Succedeva ogni anno, come un rito.

Si condivideva tutto con tutti.

Le nostre cose.

Dalle più in vista, alle più intime, nascoste nelle nostre menti e nei nostri cuori. Era il nostro mondo aperto a tutti noi, ma chiuso agli adulti, che non ci perdevano di vista, ma sempre da lontano.

Non venivano mai a disturbare il nostro mondo.

Erano i momenti in qui tutti ci sentivamo i fratelli di tutti.

Tutti insieme, eravamo uno soltanto.

Era per la prima volta che non volevo partecipare.

Mi dispiaceva moltissimo, perché erano le persone a me più care e vicine, ma in quel momento, il desiderio di stare da solo, era il più forte in assoluto. Senza quasi pensare, mi è venuta una scusa per non restare. Mi era venuta in modo naturale e convincente, che nessuno mi ha chiesto nulla, dopo averla sentita.

Ho attraversato il corso, sono sceso nella vallata, attraversato il letto del piccolo fiumiciattolo, per poi salire sulla collina dove mio padre mi aveva portato per la prima volta, dopo quel mio primo incontro con la maestra compagna comandante.

Nel fra tempo, la collina era diventata il posto dove noi tutti gli amici, andavamo lontano dai grandi quando volevamo essere tranquilli, per raccontarci le nostre cose.

Stare insieme indisturbati.

Dalla base della collina e fino al nostro posto, dove avevamo anche costruito una piccola capanna sopra un albero ed un'altra un pochino più grande sotto lo stesso albero, c'erano dieci minuti di salita tranquilla.

Mentre salivo, sentivo soltanto il rumore dei miei passi ed il mio respiro.

Quando ho cominciato a sentire sempre meglio il mio respiro, ho capito che era affannato e rigido, anche se su quella piccola salita, non mi stancavo mai.

Mi sentivo diverso.

Non tranquillo e sereno come sempre.

Rigido.

Abbastanza rigido, da chiedermi se prima i miei amici non mi avevano fatto domande perché la mia scusa è stata convincente, oppure perché ero stato rigido nei loro confronti.

Sarebbe stato per la prima volta.

Non vedevo l'ora di arrivare al nostro posto, alle nostre capanne.

Per troppe volte in quel giorno ho dovuto dire: “è per la prima volta nella mia vita che mi succede”, questo o quell'altro e purtroppo per me, ogni volta erano cose che non mi piacevano affatto.

Appena, arrivato al nostro albero, ho cominciato a salire ed appena su, d'avanti alla nostra piccola capanna, mi sono fermato e seduto.

Senza entrare.

All'improvviso, il mio respiro è diventato meno affannato ed in poco tempo è ritornato ad essere come sempre. La grande tempesta che sentivo dentro, piano, piano è scomparsa, lasciando il posto alla pace, alla tranquillità ed alla serenità che tanto amavo.

Poco dopo, mi sono reso conto che stavo già sentendo ed ascoltavo con tanto piacere il profondo silenzio che mi avvolgeva.

Ogni tanto, un leggerissimo colpo di vento, muoveva le foglie degli alberi, aggiungendo al grande silenzio, quel qualcosa che lo faceva diventare la miglior sinfonia da ascoltare, forse la più grande, bella e delicata mai esistita. I buoni profumi che portava con sé, insieme ai canti degli uccelli che ogni tanto sentivo, hanno fatto il resto.

Mi hanno riportato alla tranquillità assoluta.

Il sereno, ha preso il posto di tutto il resto.

Seduto, godevo in pieno tutto.

Da beato.

Ho alzato gli occhi e cominciato a vedere quanto era bella la parte della città che riuscivo a vedere.

Osservare le finestre del nostro alloggio, senza che nessuno dei miei famigliari lo sapesse.

Andare con lo sguardo oltre e rendermi conto che la fabbrica alla fine dei condomini, quasi fuori città, sul lato opposto della vallata, non era poi così piccola come sembrava ed era anche molto bella da vedere. Soprattutto, faceva meno fumo delle altre fabbriche.

Le belle colline oltre il fiume, in quella giornata piena di luce, erano ancora più belle.

Finalmente, riuscivo a vedere quanto era luminosa quella giornata.

Ero finalmente ritornato ad essere me stesso, così come mi conoscevo.

La pace, la tranquillità e la serenità che mi gustavo, assaggiando con tanto piacere ogni cosa fino in fondo, non hanno però fatto scomparire quello che con insistenza, mi era girato nella mente per tutta la giornata. Anzi, era ancora più forte e molto presente, ma girava in un modo molto meno fastidioso. Sembrava che la sua forza distruttrice che avevo sentito in mattinata, si era trasformata in un qualcosa di positivo, di costruttivo.

Forte ed interessante.

Così interessante, da farmi prendere subito un impegno con me stesso per quei momenti e per tutta la mia vita da quei momenti in poi. L'impegno di non provare più a cacciare via da me quel qualcosa, così come avevo fatto per quasi tutto il giorno, ma conservarlo sempre con attenzione, averlo presente in ogni momento come compagno affidabile di un lungo viaggio.

Capire il motivo del suo arrivo, chiedere il suo aiuto quando arrivava e magari cercarlo, se non arriverà più da sé nel futuro.

Quel qualcosa non era stato la causa del mio “non stare bene” di quel giorno, come mi era sembrato, ma forse era quello che mi ha aiutato a trovare la soluzione a quel grosso problema.

Forse poteva aiutarmi sempre a trovare le risposte a tutte le domande.

Le soluzioni a tutti i problemi.

Ero già convinto di aver' scoperto che quel qualcosa era la domanda più semplice, ma importante della vita.

Sono riuscito a capire, ho visto e vissuto in quel giorno che ogni volta quando si faceva sentire, subito dopo, arrivava anche la risposta giusta.

Ho deciso che quella, doveva essere "la mia bussola" da non lasciare mai a casa, l'unica cosa da avere sempre con me, in qualsiasi momento, ovunque andrò.

Quella semplice domanda, era già diventata per me, la chiave che poteva aprire tutte le porte della vita, svelare tutti i segreti.

< Perché? >.

Mentre stavo scendendo dal nostro albero, per ritornare "nel mondo", mi ero reso conto di non aver trovato ancora le risposte a tutti i miei < Perché? > di quel giorno, ma che grazie proprio a quei “Perché”, non ho accettato il mio non essere sereno.

Ho agito per il mio bene d'avanti ai miei amici, andando via.

Stare subito da solo, per ritrovare me stesso e la mia pace.

Avevo appena scoperto forse la cosa più importante per la mia vita.

Felice e sereno, mi sentivo pronto per ritornare alla mia normalità.

Amavo ancora di più la nostra collina per il bellissimo dono che mi aveva appena fatto, per avermi aiutato a capire ad arrivare a quella grande scoperta.

Mentre stavo facendo la discesa per ritornare a casa, me la godevo in pieno ad ogni mio passo.

Convinto che niente e nessuno, sarebbe più riuscito a disturbare il mio “stare bene” da quel momento in poi, ho vissuto intensamente e mi sono goduto in pieno, ogni attimo ancora rimasto di quella vacanza.

Fino all'ultimo tramonto.

Il giorno dopo, si cominciava.

Mentre insieme alle mie compagne ed ai miei compagni stavamo aspettando nel cortile della scuola che veniva il nostro turno per conoscere il nuovo dirigente professore ed andare nella nostra aula, dovevamo mantenere l'ordine ed anche un certo silenzio.

Non potendoci raccontare in piena libertà le cose vissute in quella vacanza, ho deciso di conoscere meglio la mia nuova divisa, che non avevo mai più toccato dal giorno in quale l'ho provata nel negozio. Stavo scoprendo ed osservavo alcune piccole cose che la rendevano diversa dal modello che avevo indossato per i quattro anni delle elementari.

Mi sono ritirato nel mio mondo dove stavo molto tranquillo, sereno e dove ho provato a capire di più, grazie al mio partner di viaggio che avevo deciso di portare sempre con me.

< Il Perché? >.

Mi chiedevo perché tutti quei piccoli particolari che la rendevano molto diversa.

L'ho facevo, senza pretendere, o aspettare una risposta subito, ma promettendomi di stare attento per essere pronto ad accogliere e capire la risposta, quando questa arriverà.

Perché, di sicuro arriverà.

L'unico momento in quale la mia attenzione è stata catturata da quello che succedeva intorno a me, è stato quando la mia, ormai e purtroppo ex maestra, ha accolto ed accompagnato dentro la scuola i suoi nuovi alluni.

Più passava il tempo e le classi d'avanti a noi entravano nella scuola lasciando il posto vuoto sul grande piazzale, più ci stavamo avvicinando verso il portoncino d'ingresso dove avremmo fatto il nostro primo incontro con il nuovo dirigente.

Quando quel momento è arrivato, ho visto che eravamo stati fortunati anche in quel momento.

Una professoressa molto giovane e molto bella.

Vestita molto elegante, ma con dei colori molto più freddi di quelli che usava la nostra ex maestra.

Ci siamo subito messi in movimento, seguendola all'interno della scuola. Stavamo salendo le scale e ho capito che stavamo andando al secondo ed ultimo piano. Dal primo piano, dove abbiamo avuto la nostra aula per quattro anni e fino al secondo piano, sono salito con il sorriso in faccia e nel cuore, perché, mi rendevo conto soltanto in quel momento che non ero mai andato al secondo piano della nostra scuola.

La nostra vecchia aula, era vicinissima a quelle scale, al primo piano.

Mi sono quasi fermato, ma non potendolo fare del tutto e continuando a salire, sembrava che la mia mente da bambino si era aperta un altro po'. Mi sembrava di aver' appena fatto un'altra nuova scoperta nel mio camino.

La mia vita andava avanti senza poter essere fermata.

Saliva senza chiedermi se ero d'accordo, oppure no.

La migliore cosa che potevo fare, era quella di non oppormi, di accettare, seguirla docilmente e con tanta attenzione per non restare mai indietro, per essere sempre presente e pronto in ogni suo momento.

Prima ancora di entrare nella nostra nuova aula, mi sembrava di aver già imparato una grande lezione.

Fatto un altro passo avanti nella mia evoluzione.

Appena entrati, con tanta tranquillità, ma in un modo meno accogliente della nostra ex maestra, la dirigente ci ha detto di andare nei banchi, ognuno al posto che aveva nell'anno precedente, poi con pazienza ed in silenzio, ha aspettato finché tutti noi eravamo seduti.

Siamo riusciti a fare tutto abbastanza in fretta, perché l'aula ed i banchi, erano fatti nello stesso modo di quella che conoscevamo molto bene. C'erano tre fila di banchi, con due posti in ogni banco e noi eravamo coppie, tutte fatte con una femmina ed un maschio, coppie decise dalla nostra, purtroppo ex maestra.

Sui banchi, ognuno al suo posto, come sempre nel primo giorno di scuola, abbiamo trovato i nostri libri.

C'erano soltanto i libri e niente altro, questa volta.

Guardandoli senza toccarli, sono riuscito a capire che al meno due, dei sei che avevamo, non erano nuovi.

Non brutti, ma non nuovi come gli altri ed era per la prima volta che succedeva.

Erano molto più spessi di tutti quelli che avevamo avuto negli anni prima e già questo, mi faceva essere molto contento, molto soddisfatto. Per me, un libro più spesso voleva dire più cose nuove, interessanti da scoprire ed imparare.

Diventare più ricco.

Quando è scomparso il rumore dell'ultimo collega che si è seduto, la nostra dirigente, lasciando la cattedra si è avvicinata ai nostri banchi. Appoggiando in un modo molto deciso, abbastanza lontane una dall'altra, tutte due le mani sul mio banco, che era il primo nella fila centrale, ha cominciato a parlare.

Subito, ci ha detto che è una professoressa di lettere ed aveva appena finito la facoltà.

Noi eravamo i suoi primi allevi.

Aveva la stessa età della nostra ex maestra.

Mentre ci parlava di cose che più o meno conoscevo, essendo così vicina a me, ho approfittato e l’ho guardata molto bene e per tutto il tempo. Nello stesso momento, avevo già messo a duro lavoro il mio amico di vita.

< Il Perché? >.

Da vicino era molto più bella e forse anche più dolce della mia ex maestra e mi stavo già chiedendo:

< Perché mi sembrava più fredda? >

< Perché mi sembrava che assomigliava di più ad una di quelle persone che in TV parlavano del partito comunista e non alla mia ex maestra? >

Non avendo risposte in quel momento, la guardavo soltanto, con tanta attenzione.

Mi sembrava che capiva benissimo quello che stavo facendo, ma che mi lasciava fare tranquillamente e senza disturbarmi.

La conferma, l’ho avuta, quando dicendoci: < Adesso vi devo dire una novità, perciò fatte tutti attenzione >, mi ha guardato in un modo molto intenso mentre parlava ancora.

Un modo molto intenso, ma abbastanza amichevole.

La novità era che da quell'anno in poi, non avremmo più avuto una nostra aula fissa per studiare, come negli anni passati, ma che ci saremmo spostati per ogni ora di studio nelle aule ed i laboratori della scuola.

Li dove insegnavano i professori, ognuno nella sua aula.

Mi è subito sembrata una cosa molto meno comoda, ma molto più interessante, perché ci dava la possibilità di esplorare bene tutta la scuola, di conoscere altre aule, i laboratori.

Studiare meglio in ogni materia.

Appena finito di spiegarci bene la novità, ci ha detto che, con l'aiuto del capo della classe, vuole cominciare da subito a conoscerci, perciò, voleva conoscere ed ascoltare il capo della classe.

Quando mi sono alzato in piedi, ogni mio dubbio sul fatto che prima aveva capito di essere molto osservata, è stato disintegrato in mille pezzi, fatto volare via, perché facendo quasi un passo indietro, ma senza staccare le mani dal banco, con una voce ancora più amichevole di quella di prima ed allungando un po' l'ultima vocale, quasi sorridente, ha detto:

< Allora sei tu il capooo... ! >

Quel giorno, camminando insieme ai miei amici per tornare a casa dalla scuola, ero presente soltanto fisicamente.

Mi tornavano sempre e giravano in continuazione nella mia mente, le parole della compagna dirigente, quando ci ha detto che sarà la nostra compagna professoressa di lettere e che come dirigente, ci saremmo visti per due volte in ogni settimana.

Un’ora per organizzare bene le attività non legate allo studio della nostra classe ed un'altra ora, in un altro giorno, per “l'informazione politica”.

Non conoscevo il significato per nessuna delle due, però, mi stavo rendendo conto sempre di più che era l'ultima cosa detta che mi rimbombava nelle orecchie. Lo faceva con così tanta forza, da diventare fastidiosa, da togliermi quasi la tranquillità.

Poi, all'improvviso, ho avuto come una specie di grande esplosione solare dentro me perché, dal nulla è comparsa una grande luce, una grande gioia, soprattutto una grande soddisfazione.

La serenità.

Come se qualcuno avesse tolto il tappo dalla bottiglia di spumante che stava per scoppiare.

Era festa.

Il mio migliore amico di viaggio, “Il Perché?”, non mi ha dato tregua, finché non ha trovato la risposta a quelle mie domande.

La bellissima sensazione che vivevo dentro me, era l'effetto della risposta che mi era arrivata dal nulla.

Al meno così mi sembrava in quel momento, che quella risposta era arrivata dal nulla.

Mi aveva urtato moltissimo la parola “politica”.

Il problema, stava in quella parola. Una parola che conoscevo molto bene, l’avevo sentita tantissime altre volte. L'avevo sentita dal vivo pronunciata dai grandi, in televisione, in radio, ma non mi aveva mai toccato direttamente.

Grazie al mio amico “Il Perché?”, avevo capito che non era la parola che mi aveva urtato, ma il fatto che per la prima volta, il suo significato, toccava in modo diretto me.

Me e la mia vita.

Non ero tranquillo, perché non riuscivo a comprendere a cosa poteva servire un'ora di quel tipo a noi, che eravamo ancora dei bambini.

Non più molto piccoli, ma sempre bambini.

È stata per la prima volta nella mia vita in quale, ciò che mi dicevano i miei genitori e sentivo anche ad altri grandi vicino a me, non era la stessa cosa, con quello che sentivo a scuola.

Loro mi dicevano sempre:

< Sei un bambino ed i tuoi compiti sono: quello di studiare e farlo bene, quello di rispettare tutte le persone con quale entri in contatto e farlo bene, poi quello di giocare e farlo bene >.

Invece, a scuola, per la prima volta avremmo fatto cose da grandi.

Secondo me, troppo da grandi per noi bambini.

Non riuscivo a vedere nessuna utilità di quella cosa per la mia vita in quel momento. Mi sembrava una perdita di tempo, una cosa di sicuro non interessante, Non bella da vivere.

Non riuscivo a trovare nulla di bello e di interessante per il futuro, in quella che sarebbe stata l'ora di informazione politica.

Anzi.

Però ritornavo a casa tranquillo e soprattutto, ritornavo molto contento di aver capito ancora una volta, grazie al mio grande amico “Il Perché?”, quale era e dove stava il vero problema.

La sensazione era molto bella, tutta da vivere, con tutto me stesso.

Gustarmela in pieno, anche se in quel momento era soltanto una risposta ad una domanda ed una soluzione a quel problema non avevo ancora, ma ero sicuro che nel cammino della vita, la soluzione sarebbe arrivata.

Al momento giusto.

Appena entrato in casa, ho visto che il pranzo era già pronto ed i miei genitori stavano aspettando me, per mangiare.

Quello era l'ultimo giorno in quale avrei pranzato tornando dalla scuola.

Dal giorno dopo, avrei fatto pranzo prima di partire.

L'aria era di festa ed i miei genitori non smettevano di farmi domande sulle novità di quel giorno, però, continuavano ad essere come li avevo già visti anche nelle settimane prima.

Un po' diversi di come li conoscevo.

Non erano più rigidi, non lo so se più freddi, ma di sicuro, a me non mi trattavano più nello stesso modo in qui lo hanno sempre fatto. Erano diversi ed i loro modi nei miei confronti, mi facevano sentire più grande.

Stavamo tutti mangiando ed era tutto tranquillo. Mi sentivo molto sereno, libero, tranquillo come sempre e dopo un momento di silenzio, momento in quale volevo capire se avevano ancora domande da farmi, ho deciso di farne una io.

Senza aspettare più, ho subito chiesto:



L'effetto della domanda, è stato così forte che mi ha quasi bloccato.

Sono quasi saltati tutti e due sulla sedia nello stesso momento.

Hanno smesso di mangiare come se il boccone prima avesse fatto loro del male, ad ognuno di loro.

Si sono guardati in faccia quasi spaventati.

Dopo pochi attimi, senza neanche guardarmi, mia papà mi ha detto scherzando, ma con la voce quasi strozzata, di continuare a mangiare perché in quel momento, era la cosa migliore da fare.

Prima che il cibo diventava freddo.

Avevo appena avuto la conferma che i miei sospetti delle settimane prima, erano giusti.

Non erano diversi soltanto perché li vedevo io cosi, soltanto perché ero più grande, ma di sicuro c'era dell'altro. Non sapevo che cos'era, ma ero sicuro che c'era.

Avevo appena avuto la conferma.

Anche questa scoperta, l'ho fatta grazie al mio amico “Il Perché?” e dopo averlo ringraziato, ho deciso con ancora più convinzione, che sarebbe stato il mio migliore amico per tutta la vita. Appena chiedevo il suo aiuto, chiedendo < Perché questo? >, oppure < Perché quell'altro? >, non mi faceva mai aspettare tanto, prima di darmi una risposta, prima di farmi capire le cose.

Era molto bello e li volevo tanto bene.

Ero molto soddisfatto delle mie scoperte e stavo molto, molto bene.

Come sempre, quando facevo dei viaggi all'interno di me stesso, per vedermi, conoscermi, capirmi, lasciavo fuori il mondo, tutto il mondo esterno. L’ho fatto anche in quei momenti, ma quasi sempre, mia madre mi ha ricordato che il mondo esterno esiste, chiedendomi se quel pomeriggio mi sentivo di fare insieme a lei, una cosa che non avevo mai fatto prima.

Era una domanda, che non era proprio una domanda, perché sapeva benissimo che ogni volta quando si parlava di vivere e scoprire delle novità, andavo sempre e subito.

Non chiedevo mai nulla, perché ero convinto che ogni novità, fa vivere un qualcosa di nuovo.

Porta un qualcosa di buono ed importante per la vita.

L'ha arricchisce.

Nello stesso momento, però, avevo fatto un'altra scoperta, purtroppo non costruttiva fino in fondo.

Avevo appena scoperto che il tempo per rimanere con me stesso, con me dentro me, lasciando fuori il mondo esterno, diventava sempre meno mentre crescevo. Non perché non lo volevo più, ma perché le persone intorno a me, mi cercavano, mi chiamavano sempre di più, per un motivo oppure per un altro, costringendomi quasi, a guardare, considerare e ritornare al mondo esterno.

Dovevo imparare come e quando potevo ancora fare quella cosa che mii piaceva molto e mi faceva stare sempre molto bene.

Stare con me stesso.

Mi aiutava a capire e sapere di più.

Conoscermi sempre meglio.

Conoscere me stesso con i miei difetti da eliminare, con le mie mancanze da mettere apposto, con i miei limiti da superare e con i miei pregi da mettere a frutto.

Per migliorare sempre me stesso.

Con questo pensiero, dopo aver salutato mio papà, come sempre quando andava a lavorare, sono andato a mettere apposto i miei nuovi libri di scuola. Mettere ad ognuno di loro la copertina protettiva in plastica, così come avevo già fatto i gironi prima con tutti i quaderni. Sistemarli al loro posto, nel mio mobile per la scuola e quando tutto il lavoro era finito, mia madre mi ha chiesto se ero pronto per andare con lei.

Appena usciti dal condominio, siamo andati nella direzione opposta della nostra collina.

Dopo pochi attimi, abbiamo attraversato la via che passava all'altra estremità del nostro condominio. Molto più piccola del corso, ma molto trafficata, perché i mezzi industriali passavano tutti di li.

Subito dopo, siamo entrati nel complesso commerciale appena oltre la via.

Non era molto grande e serviva soltanto una parte del nostro quartiere, perché da l'altra parte, si trovava uno identico.

Vendeva un po' di tutto in più reparti.

Aveva il banco per i dolci, quello per la carne, i prodotti di carne e quelli del latte, panetteria e latte fresco. Uno spazio non piccolo, pieno di scaffali, dove ognuno prendeva da sé le conserve, scatolette di ogni tipo, pasta, sale zucchero ed altri prodotti confezionati. Nella stessa costruzione, ma molto più piccolo e passando da un altro ingresso, c'era il negozio di frutta e verdura.

Ero già entrato tantissime volte.

Quando mia madre mi mandava, oppure quando qualche vicino anziano mi chiedeva di andare a comprare il pane.

Ogni volta quando sono andato, era quasi sempre vuoto. Ho visto dentro, al massimo quattro o cinque persone nello stesso momento. Le lavoratrici, ogni volta stavano dietro ai loro banchi, ognuna al suo posto. Quasi sempre, facevano niente e tutto succedeva in una specie di tranquillità che mi è sempre sembrata non normale.

Esattamente il contrario del mercato, dove c' erano sempre tantissime persone che non si fermavano mai. Si vendeva e si comprava sempre. Nessuno usciva dal mercato, senza aver riempito al meno una borsa di quelle di tela, che tutti portavano da casa.

In quel momento era tutto diverso perché, il complesso era completamente pieno di gente.

Quasi tutte donne, ma anche degli uomini e non pochi bambini. Tutti riuniti nel grande spazio libero d'avanti ai banchi dei reparti.

Eravamo tanti, tutti insieme in un modo che sembrava molto disordinato. Così tanti, da pensare che se fosse entrata ancora una persona, le pareti e soprattutto le vetrate su tutta la parte d'avanti del complesso, sarebbero scoppiate.

Molto strano vedere pieno quel grande spazio, dove avrei potuto girare senza problemi con la mia bici gialla.

Era per la prima volta che mi succedeva.

Il rumore era molto alto, la confusione ancora di più e non lo so se era per quel motivo, oppure per tutte quelle cose nuove che vivevo all'improvviso e con tanto stupore, ma sentivo il mio cuore che diventava sempre più piccolo, sempre meno tranquillo, sempre più rigido. Ero come bloccato da quello che vedevo, da quello che vivevo ed in quei momenti, anche la mia grande voglia di sempre, nel fare domande, era scomparsa completamente.

Non ero molto alto e riuscivo ad arrivare soltanto fino sotto il petto delle persone adulte.

Mi sentivo schiacciato in tutti i sensi, in mezzo a loro.

Dal mio cuore, fino all'ultimo filo dei capelli.

Non sapevo e non capivo nulla di quello che stava succedendo.

Non chiedevo nulla a mia madre che mi teneva per mano e che forse senza neanche rendersi conto, mi stringeva sempre di più.

In un momento di meno rumore e meno movimenti, mia madre, quasi piegandosi sopra di me, mi ha detto che quello era il giorno in qui portavano le uova.

Dovevo restare con lei, perché ad ogni persona in fila, davano soltanto sei uova.

Insieme, saremo riusciti a portarne a casa dodici.

Subito dopo, ha continuato dicendomi in quali giorni della settimana portavano: la carne, il pollo, i salumi, i formaggi, del buon pesce ed altre cose che mangiavamo tutti i giorni a casa.

Non capivo nulla.

Era per la prima volta che sentivo quelle cose.

Non sapevo se era normale vivere tutto quello che vivevo in quei momenti per portare a casa sei uova che avrei comunque pagato, oppure era normale quello che succedeva ogni volta quando andavo per comprare il pane.





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Una narrazione molto dinamica, sempre attiva e mai noiosa di fatti, di eventi realmente accaduti.

Vita realmente vissuta.

Porta alla luce, svela al lettore, un mondo nuovo e quasi del tutto sconosciuto alla grande maggioranza.

Una grande novità.

Racconta con un linguaggio semplice, molto attivo e frizzante, cose di vita ed eventi che coinvolgono, fanno vivere intensamente ogni attimo, tengono non poche volte con il fiato sospeso.

Un racconto che non da mai il tempo per distrarsi, oppure annoiarsi, dando degli spunti di riflessione profondi, dei punti di riferimento forti, per il cammino futuro di vita.

Un racconto che non può lasciare indifferenti, che non finisce senza donare un qualcosa di importante al lettore.

Il racconto in modo essenziale e leggero di una straordinaria storia di vita realmente accaduta, realmente vissuta.

In un modo molto semplice e che prende: accattivante, elettrizzante, in alcuni tratti scoppiettante, mai noioso ed a portata di tutti – indipendentemente dall'età, estrazione sociale, istruzione, oppure nazionalità -, l'autore racconta la storia per quello che è stata per quello che è realmente la vita.

“Un meraviglioso ed affascinante cammino trasversale in tempo e spazio”.

Il cammino di una vita vera, vissuta a viso scoperto e raccontata con un linguaggio adatto per ogni suo periodo in ogni sua fase per ogni suo momento.

Cammino fatto di: piccole scoperte e grandi crescite, grosse fatiche e dolci momenti tranquilli, sconfitte e vittorie, dolori e gioie, forti terremoti ed interessanti viaggi, importanti rivoluzioni e profondi cambiamenti.

Con una narrazione semplice, viene svelata la vita vissuta con: convinzione, determinazione, coraggio e tanta voglia di vivere. La narrazione è integrata, completata, vivacizzata dal diario di viaggio molto colorito e variegato, dalla ricchezza del reportage, dalle inflessioni del giallo che tengono tante volte con il fiato sospeso, ma lasciano sempre trasparire con chiarezza, il grande amore ed il profondo rispetto per la vita stessa.

Un libro che non finisce lasciando indifferenti e senza donare un qualcosa di importante al lettore, non finisce senza arricchire al meno un po’.

In un continuo crescendo mai stancante, si lascia, si fa leggere in qualsiasi situazione in qualsiasi contesto e con qualsiasi disponibilità di tempo.

Da assorbire in un solo fiato oppure a piccoli sorsi.

Un libro che si trova al suo aggio dappertutto.

Sui mezzi di trasporto andando a scuola, al lavoro, oppure tornando a casa.

Nelle piccole o grandi pause della giornata, nella camera da letto prima di addormentarsi.

In baita d'avanti al camino o in spiaggia sotto l'ombrellone.

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