Книга - Sotto La Luna Del Satiro

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Sotto La Luna Del Satiro
Rebekah Lewis


Dal giorno della sua maledizione, Ariston non desidera che una cosa — essere di nuovo umano. Ha cercato in tutto il mondo una ninfa che lo liberasse, ma più di tremila anni di fallimenti lo hanno spinto a una vita di solitudine. Quando sorprende Lily a spiarlo nella foresta, Ariston crede di aver finalmente trovato la salvezza tanto desiderata. Sfortunatamente, dovrà prima riuscire a conquistarla. Sotto la Luna del Satiro una maledizione è stata lanciata e sotto la stessa luna verrà cancellata… …se il destino lo consentirà.  Un lavoro come fotografa freelance va presto a rotoli, quando il fidanzato di Lily Anders la scarica e sparisce dall’area di campeggio, abbandonandola nel bel mezzo dei Monti Blue Ridge. Sentendosi persa, con il cuore infranto e impaurita, Lily segue una misteriosa melodia attraverso la natura incontaminata. Non avrebbe mai potuto immaginare che la fonte della musica le avrebbe rivelato che le creature leggendarie della mitologia greca esistono realmente e che lei stessa potrebbe essere una di loro.  Dal giorno della sua maledizione, Ariston non desidera che una cosa — essere di nuovo umano. Ha cercato in tutto il mondo una ninfa che lo liberasse, ma più di tremila anni di fallimenti lo hanno spinto a una vita di solitudine. Quando sorprende Lily a spiarlo nella foresta, Ariston crede di aver finalmente trovato la salvezza tanto desiderata. Sfortunatamente, dovrà prima riuscire a conquistarla.  Quella che sembrava opera del Fato, intento a unirli in tempo per la Luna del Satiro, si rivela essere un piano elaborato con macabri intenti. Dioniso ha inviato il fratello estraniato di Ariston, Adone, per assicurarsi che la maledizione non venga spezzata e niente getta acqua fredda sulla fiamma della seduzione come un gemello in cerca di vendetta.








Sotto la Luna del Satiro




Indice


Ringraziamenti (#ua16522c4-9ab0-54d0-97e4-676a8b78d17e)

Prologo (#u967a07b8-8c22-5610-a0af-3b14230b3b4f)

Capitolo uno (#u94ad7916-c5e4-5804-8e9d-f1a7759044c3)

Capitolo due (#u10d84928-6240-5fd0-b8ae-044ed6c9d1bf)

Capitolo tre (#u1d50f40c-8332-5cf3-a1fb-c6f9350643ee)

Capitolo quattro (#ueffe1333-2e92-5ea8-b816-4cdb6d67dc43)

Capitolo cinque (#u0fcb2181-bf42-53df-b521-109996e81124)

Capitolo sei (#u015ada17-5950-5fea-b582-1425574631d5)

Capitolo sette (#ub00944c0-dee5-5c69-a79d-6533f2fff70c)

Capitolo otto (#ua2e60ede-6946-5cb3-8902-37e265740684)

Capitolo nove (#u1f6954ec-dfd5-5fe0-b320-380aeacab944)

Capitolo dieci (#u89053bb6-2f51-5e69-ae37-60b193ae5f80)

Capitolo undici (#u89dbd5ce-3869-5bbf-98da-d5b17fe09bfc)

Capitolo dodici (#ue126a8c3-1a6a-5a2a-8ed9-7dc428404322)

Capitolo tredici (#u0be2f47f-de16-5709-89e1-3ddb7d6b10c3)

Capitolo quattordici (#uabd8d007-38b0-5a2f-9493-4bbe53121660)

Capitolo quindici (#uba2e0f32-1c10-51c3-84cc-5595cfd64e3c)

Capitolo sedici (#u73ebfd79-fbb4-5e07-b4ce-b4957c83ef96)

Capitolo diciassette (#u42508bc3-419b-5fbe-af08-f36457956b8a)

Capitolo diciotto (#u5d58b3eb-a39f-5c55-a92d-6a2e50b39b35)

Capitolo diciannove (#u238885bc-bb4e-5f1c-a9a6-9eda7b574f2b)

Capitolo venti (#u1dba355d-b6c3-565e-88c6-d9faf7b5ff00)

Epilogo (#u75e9cf83-09ba-5e86-ab7b-264497c0ccd9)

L’autrice (#ucc034651-68b7-5204-b239-7577879e6cf3)

I libri di Rebekah Lewis (#uf5b2ee7c-20a5-5c62-aec1-a18801cb7dde)


Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, attività commerciali, luoghi, eventi e incidenti sono prodotti dall’immaginazione dell’autore o utilizzati in maniera fittizia. Qualsiasi riferimento a persone reali, vive o morte, o a fatti reali è puramente casuale.

Copyright © 2015 di Rebekah Lewis

Titolo originale: Under the Satyr Moon

Edito da Leona Bushman

Cover Design di Victoria Miller

Fotografia di Jenn LeBlanc

Tradotto da Rory Mayfield

Tutti i diritti sono riservati. Questo libro non può essere riprodotto, integralmente o parzialmente, in qualsiasi forma senza l’espressa autorizzazione scritta dell’editore, ad eccezione dell’uso di brevi citazioni in una recensione del libro.

Prima stampa, 2014, Breathless Press

www.Rebekah-Lewis.com




Creato con Vellum (http://tryvellum.com/created)


Per Sybil Miller

Se potessi esprimere a parole quanto mi manchi,

questo romanzo non avrebbe né fine né inizio.

Semplici parole non potrebbero mai essere abbastanza e nessuno potrà mai prendere il tuo posto.

Ti voglio bene, Mema.




Ringraziamenti


Ai miei amici, alla mia famiglia e ai miei beta reader – voi sapete chi siete – grazie per aver creduto in me e avermi aiutata a trasformare questo libro nella versione che tenete fra le mani.

Alla fantastica Alianne Donnelly, che ha detto, e cito, “Magari, metti Pegaso in quella scena”. Beh, hai creato un mostro, perché non solo ho messo Pegaso in quella scena, ma ha preso il controllo di metà storia ed è diventato un personaggio secondario. Però, onestamente, ti ringrazio. È uno degli aspetti che preferisco del libro. P.S. finisci di scrivere Wolfen perché avevo bisogno di leggerlo, tipo, ieri. ;)

Alla mia editor, Leona. Grazie per aver sofferto la Maledizione di Ariston insieme a me. È stato un percorso accidentato, doloroso, stressante, pieno di lacrime e sanguinoso, ma ce l’abbiamo fatta. *abbracci*

Ad Ariston… A volte sei stato semplicemente perfido. E poi ti chiedi perché ho lasciato che ti accadessero cose brutte? Vendetta, mio caro. Tutta la sofferenza che mi hai causato, l’ho proiettata verso di te.

E poi, certo, innanzitutto, ai miei lettori. Siete grandi!




Prologo


Lungo i confini di Tespie, Grecia, Beozia, 567 d.C.

Tutto cadeva in rovina. Il tempo e le avversità facevano deteriorare anche le rocce più solide. Rimodellate, erose dagli elementi, niente restava se non la polvere. Eppure, alcune cose ingannavano l’ordine naturale, perlomeno superficialmente – persino l’immortalità mancava di perfezione. I cuori potevano essere rotti. Le anime fatte a pezzi. Il grave peso delle emozioni poteva essere tanto distruttivo quanto qualsiasi forza fisica, ma i danni si verificavano all’interno. Invisibili ai più, eppure avvertiti per sempre da colui che ne portava le cicatrici.

Gocce ghiacciate colpirono il viso di Ariston quando tirò indietro il cappuccio, che non riusciva in alcun modo a proteggerlo dalla pioggia torrenziale. La terra che aveva conosciuto durante l’infanzia conservava solo un vago senso di familiarità. La sua casa era sparita, non era rimasto altro che un cumulo di macerie sulla cima abbandonata di una collina. Il bestiame non pascolava più sulle terre circostanti. Forse, se fosse tornato a casa prima… ma non lo aveva fatto. La vergogna lo aveva tenuto lontano, insieme alla paura di cosa la sua maledizione avrebbe potuto scatenare sulla sua famiglia. Tornare prima sarebbe stato egoista. Ciononostante, mentre se ne stava lì, in piedi, davanti alle ultime tracce rimaste della sua vita mortale, deteriorate e sul punto di sparire, fu sopraffatto dal rimorso.

Gli anni potevano diventare tanto irrilevanti quanto i minuti, quando smettevano di rappresentare il conto alla rovescia per una morte che non sarebbe mai arrivata. Non erano più importanti, non sul serio. La vita di Ariston ormai non era altro che un alternarsi di scopare e nascondersi. Di rifugiarsi la notte nell’oscurità dei boschi, dato che non poteva conservare la forma umana dopo il tramonto, per poi passare la giornata sforzandosi di non cedere ai propri desideri. Il che era ridicolo, considerato che, alla fine, i suoi desideri vincevano, sempre. C’erano giorni in cui si domandava che senso avesse combattere contro quei bisogni, perché non arrendersi e abbandonarsi completamente alla maledizione. La sua umanità diventata spesso un pesante fardello.

Ariston si inginocchiò nel punto in cui una volta c’era stato il focolare. Le rocce frantumate erano sparpagliate, ricoperte di sporcizia e, in alcuni punti, di vegetazione, che ne evidenziava il grado di disuso. La pioggia bagnava le pietre, purificandole dalla loro storia e ricordandogli allo stesso tempo che il suo passato, finché fosse rimasto in vita, non si sarebbe mai potuto cancellare. Come le rocce ai suoi piedi, la sua memoria accumulava sporcizia, mentre pezzi della sua anima si sgretolavano, lasciandolo deforme e non più integro. Dal momento che la morte non era un’alternativa, l’unico modo per adattarsi era andare avanti e non guardarsi mai alle spalle.

La maledizione gli aveva portato via tutto in un attimo. La sua vita, la sua felicità, il suo senso di appartenenza. Andati. Tutti. Non che avesse mai dato tanta importanza a quelle cose quando ancora le possedeva. Avrebbe potuto essere qualcuno. Un marito. Un padre…

Invece, Ariston era svanito negli abissi del tempo, affondando ogni giorno più in profondità. Uno spauracchio usato per tenere i giovani maschi lontani dai vizi e le femmine dall’avventurarsi da sole nella foresta dell’Arcadia, dove aveva vissuto, per timore di cadere preda di un mostro leggendario. Ariston era stato temuto, ridicolizzato e, in rare occasioni, desiderato.

E ora?

Era un mito nelle menti dei mortali – un mostro il cui nome era privo di infamia e nessuno ricordava; non come Pan, che era un dio. O Adone, suo fratello, celebrato da umano per la sua bellezza virile e stimato per questo come un raro “dio mortale”. Adone aveva raggiunto la notorietà attraverso le storie di Afrodite, la bella dea che aveva pianto la morte del suo amante mortale. Quelle stesse storie che si beffavano della verità, visto che Adone non era davvero morto, ma caduto vittima della stessa maledizione di Ariston. Nessuno avrebbe ascoltato dei racconti sul gemello di Adone, perché, alla fin fine, era insignificante.

Ariston e Adone erano stati abbastanza sfortunati da essere presenti, quando Pan e Dioniso avevano creato accidentalmente quelle creature conosciute come satiri. La maledizione aveva colpito ogni maschio umano che avesse assistito allo scontro tra le due divinità. Dai loro crani erano spuntate delle corna e i loro piedi si erano trasformati in zoccoli fessi, lasciandoli tutti inorriditi e alterandogli la struttura complessiva delle gambe dal ginocchio in giù. Secondo la leggenda, i satiri, conosciuti anche come fauni, erano per metà uomini e per metà capre. Ma erano stati pienamente umani un tempo, malgrado il loro aspetto mutato. La paura, tuttavia, non si soffermava sui dettagli. Certo, il fatto che Pan fosse diventato celebre per saltar fuori dai cespugli e inseguire degli sventurati mortali attraverso i boschi nei momenti di irrequietudine – un’inclinazione fortunatamente non condivisa dai satiri dell’Arcadia e da pochissimi della Beozia – non aiutava.

Per qualche ragione, ai satiri che si erano trovati alle spalle di Dioniso al momento della maledizione erano cresciute lunghe corna rivolte verso l’alto. Dioniso, però, non pareva aver subito cambiamenti fisici. A Pan e a quelli che si erano trovati dietro di lui, invece, erano spuntate corna da ariete, che si arricciavano ai lati delle loro teste, con le estremità appuntite rivolte in avanti. Questi avevano seguito Pan in Arcadia; gli altri erano rimasti con Dioniso sul monte Citerone, in Beozia.

Sebbene né gli arcadici né i beoti avessero recato danno agli altri, essi rimanevano divisi da mutua sfiducia e disprezzo. Ad accrescere la distanza fra loro, il Fato aveva lasciato che Adone divenisse un satiro della Beozia. Ariston, benché grato di essere un arcadico, si era spesso pentito di non aver combattuto per portare il fratello con sé, prima di andarsene insieme a Pan. Non lo aveva più visto dopo quella notte.

Ariston scosse la testa per scacciare ogni pensiero sugli dèi e su Adone. Le rocce fecero rumore, colpendosi l’un l’altra, mentre rovistava nel mucchio. Trovandone una ancora più o meno integra, la sollevò e la strizzò. Non si sgretolò, sapeva di non essere abbastanza forte da frantumarla, nonostante lo stato di semi distruzione in cui versava la sua vecchia casa. Cos’era successo? Erano passati milleseicento novant’anni da quando era stato lì l’ultima volta e non aveva idea di cosa fosse accaduto durante la sua assenza. L’odore pungente di terra umida e muschio gli solleticò le narici e Ariston sospirò.

Il profumo di casa. Il profumo della perdita. La distruzione che ho causato alla mia famiglia.

Qualunque cosa fosse successa, la colpa era sua. Avrebbe dovuto ereditare quella terra e tramandarla ai propri figli.

Non saresti mai stato in grado di provvedere a una famiglia, non sei riuscito nemmeno a proteggere tuo fratello dagli dèi.

Non si sarebbe dovuto incolpare. La guerra aveva devastato quella zona per anni. Ateniesi, tebani, spartani, persiani… non c’era stato un solo momento in cui una battaglia non avesse avuto luogo sul suolo beotico. Ariston si chiese se Adone fosse mai tornato, o se avesse lasciato la Grecia da tempo. E se era tornato, era rimasto in quello stesso punto, bramando quel tempo in cui erano stati umani e non coinvolti nelle vite degli dèi?

Ariston fece scivolare la pietra nella borsa di pelle che portava al fianco. L’avrebbe tenuta come ricordo per il suo viaggio, perché sospettava che non sarebbe più tornato in quel luogo. Cosa avrebbero pensato di lui i suoi genitori se si fosse presentato alla porta come un satiro? Lo avrebbero accettato, come facevano con le storie più colorite sugli dèi o lo avrebbero fatto vivere all’aperto con le capre? Forse avrebbero persino tentato di ucciderlo. Un mostro non aveva alcuna utilità in una fattoria; avrebbe spaventato le pecore. E poi, i mostri come lui davano la caccia agli esseri umani – Ariston lo sapeva bene – e presto tutte le figlie dei vicini sarebbero state sue da prendere.

Guardò a destra, nel punto in cui sua madre soleva sedere vicino al fuoco per riparare i vestiti. Ariston si alzò e le immagini del passato si dissolsero nel presente. Senza mura, poteva vedere la distesa dei terreni circostanti. I campi, dove un tempo avevano pascolato le pecore, erano incolti e incurvati dall’assalto della pioggia. Là, oltre il paesaggio abbandonato, con il monte Elicona che incombeva in lontananza, poggiavano gli alberi fra cui Ariston era solito incontrare le sue amanti, invece che svolgere le faccende domestiche quotidiane. Pan lo aveva colto sul fatto una volta…

Non voleva pensare a Pan. Il dio aveva lasciato gli arcadici da soli, senza alcun rimorso, non appena aveva iniziato ad annoiarsi. Era tempo che Ariston facesse lo stesso. Eppure, qualcosa lo aveva attirato in quel luogo. Forse, per poter andare avanti, doveva prima lasciar andare completamente il passato. Forse il suo senso di colpa aveva bisogno di vedere, bisogno di confermare, che era rimasto davvero solo al mondo. Ritornare, tuttavia, non lo aveva consolato affatto. Macerie e terra e pioggia lo avevano accolto dove una volta c’era stato amore e una famiglia e calore umano. Questa non è più casa mia. Diede una pacca alla borsa in cui aveva posto la pietra del focolare in rovina. No, non aveva più una casa, ma era sempre uno stupido sentimentale.

Dei lampi tagliarono il cielo e un tuono rombò alle sue spalle, come se Zeus stesso volesse suggerirgli di andarsene. Ariston lo fece volentieri. Scese dalla collina e raggiunse il suo cavallo, legato a un albero con rami in grado di proteggerlo dal grosso dalla pioggia. Sentendolo arrivare, l’animale alzò la testa, ma subito dopo tornò a mangiare la sua appetitosa erba, ignorandolo, come se non lo reputasse degno della sua attenzione. Te e tutti gli altri, cavallo. Una volta venduto, al molo, forse avrebbe trovato il suo nuovo padrone più affascinante.

Dopo essersi tolto la borsa e averla messa al sicuro, insieme ai suoi effetti personali, nel piccolo sacchetto appeso alla sella, Ariston controllò di nuovo che la siringa fosse avvolta con cura nei vestiti di ricambio. Il flauto, creato da Pan unendo le canne palustri che avevano fatto da tomba alla ninfa Siringa, si era dimostrato troppo potente per poter rimanere nello stesso luogo troppo a lungo. Pan temeva che lui stesso sarebbe stato tentato di abusare della magia in esso contenuta. Parole importanti, dette dall’unico dio dell’Olimpo praticamente privo di brama di potere.

Quando Xanto gli aveva affidato lo strumento, qualche giorno prima, Ariston si era offerto di lasciare la Grecia. Se ne sarebbe andato in ogni caso, ma la siringa gli forniva una scusa. Come Pan, Ariston non aveva alcun desiderio di usarla. Quando la magia diventava necessaria, utilizzava il flauto che il dio aveva creato in un secondo momento, sul modello della siringa. Prima o poi, avrebbe dovuto rintracciare un altro arcadico, per evitare che la posizione dello strumento venisse scoperta. Finché la siringa fosse passata da una mano all’altra, infatti, localizzarla avrebbe rappresentato una sfida per chiunque ci avesse provato. Con il tempo sarebbe stata dimenticata, trasformandosi in una leggenda, e nessuno l’avrebbe più cercata. Fino ad allora, però, Ariston si sarebbe potuto lasciare alle spalle gli altri satiri e scacciarli dalla sua mente.

Slegò il cavallo, il cui morbido pelo marrone era reso nero come l’inchiostro dalla pioggia, e iniziò a camminargli al fianco. Ariston poteva cavalcare come qualsiasi uomo. Tuttavia, riusciva sempre a percepire la presenza fantasma degli zoccoli, sebbene fossero invisibili. Quando muoveva le dita dei piedi, a muoversi era solo l’illusione. Il suo zoccolo non era altro che un pesante e tozzo, beh… zoccolo. In ogni caso, camminare gli faceva bene. Gli consentiva di rimanere concentrato sul presente, invece che pensare al passato.

Mentre conduceva il cavallo verso la foresta, un ramo si spezzò da qualche parte in lontananza. Ariston esitò, cercando segnali di pericolo tra gli alberi e lungo il pendio della catena montuosa. Al suo fianco, il cavallo nitrì piano e agitò il muso, ma non sembrava preoccupato. Ariston sentiva la morsa pungente del vento sulla pelle bagnata, mentre l’aria si faceva sempre più fredda man mano che si avvicinava la notte. Doveva passare per i boschi, per evitare di essere visto sulle strade principali. Il fatto che i Greci credessero alle loro leggende non significava che avrebbero gradito l’incontro con le creature che popolavano le storie della buonanotte. Né desiderava essere preso in giro o aggredito per il suo aspetto nella terra che un tempo aveva chiamato casa. Il ricordo di quel posto non aveva bisogno di essere infangato ulteriormente.

Non volendo prolungare l’inevitabile, Ariston condusse il cavallo all’interno del bosco. Avrebbe acceso un fuoco per scaldare entrambi, se solo fosse riuscito a trovare un pezzo di legno abbastanza asciutto da bruciare. Con la coda dell’occhio, vide un movimento e sentì una voce femminile canticchiare, così sommessamente che fu quasi certo di averla immaginata.

Legando di nuovo il cavallo a un albero, Ariston ispezionò l’ambiente circostante, fingendo di cercare un riparo dalle intemperie per la notte. Ecco. Ancora quel canto, alla sua sinistra. Alzò la testa e strizzò gli occhi contro le gocce di pioggia, ma non vide nessuno. Poi capì.

Ninfe. Almeno una, in ogni caso. O era perfettamente consapevole di cose fosse o stava semplicemente giocando con quello che credeva essere un mortale, dal momento che il sole non era ancora tramontato abbastanza da far svanire il suo aspetto umano, facendolo apparire nuovamente come un satiro. Le ninfe erano note per cacciare gli umani, un po’ come i satiri, ed erano solite prendersi il loro piacere ovunque riuscissero a farlo. Secondo la leggenda, se un uomo fosse riuscito a catturare una ninfa, avrebbe potuto prenderla in sposa. Sarebbe stata solo sua fino alla Luna del Satiro successiva.

Ariston si derise silenziosamente. Sapeva per esperienza che quelle storie erano spesso una combinazione di verità e immaginazione. Le ninfe seducevano gli uomini che trovavano desiderabili, ma raramente instauravano una relazione con gli umani, eccetto in rare occasioni. Era quasi impossibile scovare una ninfa, perché erano loro a scegliere i partner sessuali e apparentemente erano in grado di scomparire nel nulla, diventando un tutt’uno con la terra o con l’acqua, se minacciate. Costringerne una a diventare una sposa – ridicolo. Ariston non era stato in grado di localizzarne nemmeno una dalla notte della maledizione. Certo, aveva un evidente svantaggio, non essendo in grado di vedere una ninfa a meno che non fosse lei a volerlo.

Eppure, aveva sentito la melodiosa voce di una donna dove non c’era nessuna donna da vedere. Che il Fato gli avesse davvero concesso una tale opportunità? La ninfa necessaria a spezzare la sua maledizione e a renderlo di nuovo umano? Avrebbe potuto essere di nuovo libero, ma prima doveva trovarla e convincerla che meritava di essere salvato.

«Dove sei?» Ariston si stava guardando intorno, girandosi di qua e di là, quando sentì uno sguardo su di sé.

«Sono quassù, satiro» lo stuzzicò la ninfa. Ariston seguì il suono della sua voce e la trovò appollaiata su un albero, sorridente. Portava una semplice tunica bianca, simile a quelle indossate dagli dèi dell’Olimpo. Quell’abito la faceva sembrare decisamente antica. Fantasmi del passato fluttuarono nella sua mente.

«Dafne.»

Era stata presente la notte della maledizione, finché Apollo non se ne era andato, portandola con sé e lasciandoli tutti lì a marcire per l’eternità come mezze bestie. I capelli scuri le si appiccicavano alla fronte e alle spalle a causa della pioggia, aggrovigliati invece che ondulati. Ciò non diminuiva in alcun modo il suo fascino, ma la rendeva più selvaggia, più spensierata e non faceva che tentare ulteriormente Ariston.

«Ti ricordi di me? Sono affascinata.»

«Non mi interessa cosa sei, ninfa. Vieni giù e guariscimi!»

«Per gli dèi, Ariston. Certamente sai come far sentire desiderata una donna. Come pensi di riuscire a liberarti di quelle corna, quando non riesci nemmeno a convincerne una a scendere da un albero? No, non posso curarti. In ogni caso, non sono qui per disfare la tua maledizione.»

Era un ringhio quello che aveva appena emesso? Ariston non riusciva a ricordare di aver mai prodotto un suono simile. Perché Dafne era lì per deriderlo? Avrebbe potuto essere la sua salvezza. La sua libertà! Eppure, lo scherniva da un’altezza sicura.

«Non mi lasci altra scelta, allora.» Si avvicinò all’albero, con l’intento di arrampicarsi e strapparla da lì. Cosa avrebbe fatto una volta che l’avesse avuta fra le mani era un’altra storia. Non poteva fare sesso con lei per spezzare la maledizione fino alla Luna del Satiro successiva e non sapeva quando sarebbe apparsa. C’erano persone in grado di tracciare i movimenti delle stelle e della luna, ma per domandarglielo avrebbe dovuto cercarli e allo stesso tempo evitare che Dafne scappasse.

«Smettila subito.» La voce della ninfa aveva abbandonato il tono giocoso. «Sono venuta per parlare. Devo trasmetterti un messaggio, prima che Apollo realizzi che me ne sono andata. Il che probabilmente avverrà a breve.» Guardò verso il sole all’orizzonte, nascosto dietro a delle nuvole scure e rabbrividì.

«Fammi capire», disse Ariston. «Non solo mi sbandieri davanti il rimedio che rifiuti di concedermi, ma scateni su di me anche l’ira di Apollo?»

La ninfa sospirò e le sue spalle si incurvarono. «Ariston. Bello e dolce Ariston. Se solo potessi privarti di questo fardello, ma ho donato il mio cuore a un altro. Lo disonorerei, facendolo.»

«Come lo disonori stando attaccata al fianco di Apollo?»

Un lampo balenò sopra di loro, riflettendosi nello sguardo furioso di Dafne. «Apollo non mi ha avuta in quel modo. Tu hai la tua maledizione e io ho la mia. Non sono qui per parlare dei miei guai. Essere bloccata sull’Olimpo ha i suoi vantaggi. Così come fare amicizia con le Moire. Beh, una Moira. Cloto ha l’abitudine di lasciare le cose in giro – in particolare una sfera di cristallo che le permette di vedere il destino di chiunque e in qualsiasi epoca. Non ho avuto molto tempo, ma sono riuscita a capire come farlo funzionare. Sfortunatamente, sono dovuta uscire dalla caverna prima che Apollo si accorgesse della mia assenza al tempio.»

«Hai dato uno sguardo al tuo destino?»

Dafne lo guardò a bocca aperta. «No. Non mi è neanche passato per la testa.»

«Perché perdere tempo se non stavi cercando di ingannare il tuo destino?»

«Alcune cose, alcune persone, sono più importanti della tua stessa vita. Spero che tu lo scopra, un giorno.»

Non sarebbe mai successo. Gli immortali erano poco adatti alle relazioni durature. Qualunque amante umana sarebbe invecchiata e morta, mentre lui sarebbe rimasto lo stesso, e gli altri immortali potevano rivelarsi decisamente spaventosi. «Perché sei venuta da me? Chiaramente non sono io quello che ami; lo hai detto tu stessa quando ti sei rifiutata di curarmi.»

«Perché il tuo destino è intrecciato al suo. Qualunque cosa tu faccia, non importa cosa diranno gli altri, dovrai fidarti di Melancton. Per favore, Ariston.» Dafne era troppo distante per poterlo dire con certezza, ma Ariston notò un luccichio nei suoi occhi e pensò che stesse per piangere.

«Melancton è un beota.» A volte bisognava dire le cose come stavano.

La ninfa fece un verso di disgusto e iniziò a scendere dall’albero, scostando occasionalmente l’orlo del vestito, quando le si impigliava nei piedi. «Sì, tecnicamente lo è. Vorrei ricordarti, però, che tu stesso sei nato in Beozia. Non fa alcuna differenza. Beota. Arcadico. Sono solo parole, usate per definirvi e dividervi.»

Dafne saltò a terra e gli si avvicinò. «Tu hai formato un legame con Pan perché sei suo amico e gli altri perché sono stati colpiti dalla sua metà della maledizione. Lo stesso vale per coloro che stanno dalla parte di Dioniso. Come voi, non possono evitarlo, ma non esiste una parte buona e una cattiva a priori. Sono le azioni dei singoli individui a contare. Le corna non servono ad altro che a distinguere fisicamente chi si trovava da un lato e chi dall’altro, in quel momento e in quel luogo tanto infausti. Melancton avrebbe voluto seguire Pan. Aveva pianificato di raggiungerlo, ma Apollo non lo ha permesso.»

Dafne stette faccia a faccia con Ariston, guardandolo con aria di sfida. La sua mascella era serrata e il satiro riusciva a distinguere l’impercettibile pulsare di un nervo sulla sua guancia. Era davvero bella. Apollo doveva averle dato dell’ambrosia, si rese conto Ariston, rendendola immortale, perché non era invecchiata di un giorno. La vicinanza della ninfa scatenò la maledizione dei satiri, che iniziò ad assumere il controllo dei suoi pensieri, accendendo in lui un desiderio irrazionale. Strinse i pugni e fece un passo indietro. L’odore di lei, come di fiori di campo in una calda giornata d’estate, gli assalì i sensi. Ariston la desiderava. Perlomeno, il suo corpo. Lui voleva solo liberarsi della maledizione. Sebbene Dafne fosse bella, non provava niente per lei.

Come no. Pensa a come sarebbe averla sotto di te, mentre si dimena per il piacere che le procuri.

Disgustato da se stesso, Ariston si allontanò ulteriormente, quasi inciampando nei suoi piedi. Dafne stava giocando a un gioco pericoloso, avvicinandosi a lui quando il suo autocontrollo era tanto fragile.

«Non credo di capire come mai dovrebbe importare ad Apollo.» Intrecciò le mani dietro alla schiena, per evitare di allungarle verso di lei e attirarla a sé. Come avrebbe fatto a controllarsi vicino a una ninfa e aspettare la Luna del Satiro? Riusciva a stento a trattenersi dall’attaccare Dafne sul posto. Dentro, era furioso. Non poteva averla, non poteva porre fine alla maledizione. Non poteva tornare a essere normale. Eppure, Ariston non l’avrebbe costretta. Si rifiutava di diventare il mostro che il suo aspetto suggeriva. Doveva essere più forte. Pan gli aveva insegnato che l’unico modo per restare ancorato alla propria umanità era reprimere i propri istinti il più spesso possibile.

Ma, per gli dèi, il sesso, le sensazioni. Non si stancava mai. Avrebbe potuto continuare…

No. Non pensarci. Distolse di scatto lo sguardo dal suo seno, premuto contro la stoffa setosa dell’abito. Se anche Dafne avesse notato il suo sguardo lascivo, scelse di ignorarlo. Le sue labbra si stavano muovendo, ma Ariston riusciva a sentire solo il battito del proprio cuore in lontananza ed era estremamente consapevole di quanto fosse duro sotto la cintola. Sbatté rapidamente le palpebre e scosse la testa. Cosa stava dicendo?

«–ti ho detto più di quanto avrei dovuto. Non posso perderlo.»

Fingendo di aver compreso ogni parola, Ariston rispose: «Lo prenderò in considerazione, ma sappi che non avrei altra scelta che seguire il mio istinto, se dovesse darmi una ragione per non fidarmi».

«Capito.» Dafne alzò la testa, mentre la pioggia martellante lasciava il posto a una pioggerellina leggera. Le nuvole si allontanarono dal sole abbastanza a lungo perché potesse illuminare la foresta, mettendo in risalto il delicato pallore eburneo della sua pelle. «Si sta facendo tardi e Apollo verrà a cercarmi prima che cali la notte. Devo andare e condurlo lontano da te.» Si sporse verso di lui e sussurrò con fare cospiratorio: «Ho visto cosa nascondi in quella borsa. Apollo abuserebbe di una tale magia». Detto ciò, Dafne svanì, ma Ariston sentì un dolce tocco sulla guancia, come lo sfiorare lieve di un petalo contro la pelle. Una voce gentile gli sussurrò all’orecchio: «Non arrenderti mai, Ariston. Troverai la tua ninfa, un giorno. Non oggi, ma un giorno. L’ho vista ed è molto bella. Proteggila».

«Proteggerla da cosa? Da chi?»

Nessuna risposta. Se non altro, aveva smesso finalmente di piovere.




Capitolo uno


Presente

L’acquazzone aggredì la tenda, che in teoria avrebbe dovuto essere resistente all’acqua, e Lily maledisse per la milionesima volta l’esistenza stessa di Donovan. Non solo era riuscita a fare accidentalmente un buco nella tenda cercando di piantarla da sola, ma Donovan l’aveva abbandonata nel bel mezzo dei Monti Blue Ridge. Avrebbe usato scotch a volontà per chiudere lo strappo e risolvere il problema della perdita, ma ovviamente il nastro adesivo era nello zaino di lui. Così come la mappa. Aveva perso la bussola e il suo cellulare era caduto in una pozzanghera di fango e non si accendeva più.

La ciliegina sulla torta in quel campeggio infernale? Lo stesso che le avrebbero dovuto rimborsare una volta consegnate le foto scattate nella natura? Un lavoro freelance apparentemente fantastico. Te lo puoi scordare. Non sarebbe mai riuscita a tornare per farsi pagare. Probabilmente, non sarebbe nemmeno riuscita ad andarsene da quelle montagne.

Era stata scaricata quella mattina stessa. Non poteva farlo prima dell’escursione o aspettare che fossero tornati a casa. No, Donovan aveva deciso di lasciarla nel bel mezzo della foresta, a piedi, con solo due giorni di provviste. Forse lo aveva fatto perché sapeva che Lily sarebbe stata scoperta subito se lo avesse ucciso, visto che molte persone sapevano dove fossero e quando sarebbero dovuti tornare. Al contrario, se fosse rientrato senza di lei, avrebbe potuto tenere nascosta la sua assenza per qualche giorno.

Ecco a voi Donovan, uno straordinario guastafeste. Quanto avrebbe voluto torcergli quel collo ossuto. Non sarebbe stato neanche necessario ucciderlo – Lily voleva solo vederlo soffrire. Non che fosse una donna violenta, ma argh!

Svitando il tappo della borraccia, domandò: «Che tipo di uomo abbandona una donna nel bel mezzo di una maledetta foresta?» Le risposero l’ululato del vento e la pioggia. Un gran tonfo proveniente dal tetto della tenda la fece sobbalzare e la borraccia le cadde sui piedi.

«Ahia!»

Il liquido tiepido le colò fra le dita, formando una pozza ai piedi del suo sacco a pelo. Sospirando con impazienza, riavvitò il tappo della borraccia e la lanciò sullo zaino. Non era rimasta molta acqua, avrebbe dovuto riempirla il mattino seguente con la pioggia accumulatasi nella tazza che aveva lasciato fuori e nella padella che aveva messo sotto il buco nella tenda.

Un’altra serie di tonfi colpì il nylon come una tempesta di sassi. Una pallina di ghiaccio delle dimensioni di una monetina attraversò lo strappo e cadde nella padella con uno schianto. Lily si spostò verso il centro della tenda, allontanandosi dai lati per evitare che un chicco di grandine particolarmente odioso la colpisse alla nuca. Ci mancava solo che subisse un trauma cranico a causa di una palla di cannone in miniatura fatta di ghiaccio.

Il meteorologo che aveva dato cielo limpido per tutto il fine settimana avrebbe di sicuro ricevuto lettere di protesta da parte di Lily, quando sarebbe riuscita a tornare a casa. Curiosamente, però, il tempo sembrava peggiorare di pari passo con il suo umore. È ridicolo. Hai avuto una giornataccia, è normale pensare che il clima peggiori per farti un dispetto. Dopo aver spento la lanterna per non consumare la batteria, Lily guardò le ombre degli alberi ondeggiare attraverso l’apertura di plastica trasparente al lato della tenda, che lasciava entrare abbastanza luce da spaventarla a morte. Si disse di non pensare a ogni horror che avesse a che fare con il campeggio. Non lo avrebbe fatto. No.

Invece ci pensò, eccome. A ogni singolo film: The Blair Witch Project, Wrong Turn, diamine, persino a Venerdì 13 e ai lupi mannari e a tutte le altre creature mai create. Immaginò addirittura le giganti formiche assassine in bianco e nero di Assalto alla terra trascinarla via nella notte fino al loro formicaio, sebbene non c’entrasse nulla con il campeggio, da quel che riusciva a ricordare. Che le formiche tentassero di farla fuori sembrava plausibile, dal momento che quel luogo ne era pieno. Una puntura sulla caviglia iniziò a pruderle al pensiero e si grattò. Finiva sempre per calpestare i formicai. Ogni singola volta.

Morirò qui. Da sola.

Se avesse sentito dei passi, si sarebbe dovuta arrischiare a urlare o avrebbe fatto meglio a rimanere in silenzio? Era un dannato dilemma. Era abbastanza vigliacca da lasciarsi sfuggire una possibilità di aiuto fino alla mattina seguente, per paura di ritrovarsi davanti un assassino psicopatico affetto da una furia omicida. Non che Lily non si fidasse delle persone, ma doveva prendere confidenza prima di abbassare la guardia. Avrebbe affidato la propria vita a Donovan e guarda come era andata a finire.

Clunk! Un altro chicco di grandine cadde nella padella vicino ai suoi piedi. Cosa non avrebbe dato per dei superpoteri, così da potersi teletrasportare lontano da quel luogo. Iniziò a fare una treccia con i suoi lunghi capelli neri e la grandine si placò, mentre il lamento incorporeo del vento faceva da sottofondo alla notte. I suoi pensieri tornarono agli avvenimenti della mattina, nella speranza che l’irritazione scacciasse il collage di film horror dalla sua mente.

Dopo aver fatto colazione, Donovan aveva iniziato a comportarsi in modo sospetto. Aveva l’abitudine di passarsi le dita fra i ricci capelli castani quando era nervoso. Quella mattina lo aveva fatto così tanto da scompigliarseli fino ad assomigliare ad Albert Einstein. Inoltre, aveva continuato a guardarsi intorno, quasi temesse che degli estranei sarebbero potuti apparire in qualsiasi momento, nonostante fossero completamente soli.

Puah. Voleva davvero ripensare a quello che le aveva detto?

Dei rumori assordanti nelle vicinanze le fecero prendere in considerazione l’idea di gettarsi sotto al sacco a pelo umido e restare lì fino al sorgere del sole. Lily cercò di rassicurarsi, dicendosi che era stata la caduta di un ramo a provocarli, non un dinosauro assassino fuggito da Jurassic Park per fare uno spuntino di mezzanotte con una donna abbandonata. Qualcuno si stava muovendo nelle vicinanze, ma non riusciva più a vedere nulla al di fuori della finestra della tenda. La plastica si era appannata per l’umidità e la pioggia nella calura della Georgia. Lanciò un’occhiataccia all’acqua che sgocciolava dallo strappo.

A cosa stava pensando? Ah, sì, il tradimento di Donovan. Gli aveva chiesto perché fosse tanto ansioso e allora lui aveva sganciato la bomba. Ovviamente, non gli aveva creduto. Non al leggermente impacciato, un po’ sfigato e “affidabile” Donovan, che nonostante tutti i difetti era un bravo ragazzo. Non faceva scenate, non si atteggiava da duro e da macho e non l’aveva mai visto guardare un’altra donna. Così, mentre il suo cuore stava per spaccarsi in due, Lily aveva pensato che Donovan stesse cercando di essere divertente. Non era poi così inverosimile, visto che non aveva mai avuto un gran senso dell’umorismo. Ma, cavolo, le sue parole l’avrebbero fatta soffrire per anni.

«Fammi capire. Non volevi farmi agitare, dunque hai deciso di accompagnarmi durante questa uscita fotografica nonostante stessi pianificando di lasciarmi? Cosa non mi stai raccontando? Ci deve essere una ragione se non puoi aspettare fino a domani, quando torneremo a casa.» Lily sbatté nuovamente le palpebre. Non avrebbe pianto, non gli avrebbe dato la soddisfazione di sapere quanto l’avesse ferita. «Perché non mi hai detto che non volevi venire? Avrei potuto chiedere a qualcun altro di accompagnarmi.»

«Vedi, sapevo che ti saresti arrabbiata, io—»

«Sul serio? Avrei dovuto esserne felice?»

«—ho cercato di arrivare alla fine del weekend, davvero.»

Come se la colpa fosse sua se lui non era in grado di tirare fuori le palle o sgattaiolare via dal camping. Donovan aveva sempre odiato stare all’aria aperta, ma prima di partire aveva seguito un tutorial su come usare una bussola e leggere una mappa, dicendo di avere paura che Lily li facesse perdere; sebbene non fosse un’esperta, Lily sapeva leggere sufficientemente bene una mappa e una bussola. Il suo improvviso interesse avrebbe dovuto essere un segnale evidente che qualcosa non andava. Non era mai stato un appassionato di campeggio ed era sempre andato con lei solo perché costretto.

Lily amava la natura. Amava stare all’aperto. Dopo un po’ di giorni rintanata in casa iniziava a diventare irrequieta. Specialmente quando era lontana dal suo appartamento vicino alla palude, a Charleston. Nonostante la vista fosse sulla piscina e non sulla palude, amava stare vicino all’acqua. L’odore di muffa delle aree paludose – la faceva sentire a suo agio.

Il fatto di dover sopportare una rottura nella parte più a sud dei Monti Blue Ridge, con Donovan intento a comportarsi come un completo idiota, le stava facendo riconsiderare tutta la storia del “a proprio agio nella natura”.

«Per favore, Lily, non sarebbe nemmeno dovuto accadere.»

Merda. La diga costruita per arginare le lacrime cedette, spezzata da un mix contrastante di rabbia, disperazione e umiliazione. Lily non sapeva come reagire a quel colpo devastante. Come aveva potuto fare una cosa del genere, dopo una relazione di cinque anni, una relazione che Lily considerava sana e felice – per non parlare del fatto che avevano fatto sesso ogni notte in campeggio. Perché quel tradimento? Cosa aveva fatto di sbagliato?

«La conosco?»

«No.»

«Oh. È più carina di me?»

«Maledizione, Lily. Mi rifiuto di degnare questa domanda di una risposta.»

Lily sbuffò. Significava che lo era.

Camminarono a lungo in silenzio. Ci vollero alcune ore prima che riuscisse a tollerare di nuovo la sua voce. Avrebbe fatto meglio a continuare a leccarsi le ferite in silenzio, invece che subire altre ferite all’orgoglio tornando sull’argomento, ma non riusciva a capire come avesse potuto desiderare un’altra, quando gli aveva dato tutto. Alcuni suoi amici erano gelosi di lui e della loro ottima vita sessuale. Sapeva che Donovan ne aveva parlato con loro, perché le avevano fatto della avance, guadagnandosi un sostanzioso schiaffo in faccia. Il fatto che amasse il sesso non significava che lo avrebbe fatto con chiunque.

«Rispondi a questa domanda e smetterò di assillarti.»

Donovan inalò bruscamente, quasi fosse lui quello fatto a pezzi dall’interno. «Che cosa?»

«Perché hai avuto bisogno di andare da un’altra? Cosa c’è di così sbagliato in me?» Non riuscì a guardarlo mentre lo chiedeva. Al contrario, puntò lo sguardo sui propri piedi in movimento, sperando che gli ultimi due giorni dell’escursione finissero in fretta per poter fuggire da lui. All’inizio, sembrò che Donovan non avesse intenzione di rispondere, ma dopo una lunga pausa lo fece.

«Onestamente, mi sento come se dovessi rinunciare alla mia virilità per ciò che sto per dire, ma sei troppo difficile da gestire a letto.»

La terra si sollevò e la afferrò per il piede, scagliandola nel fango. Almeno, così le sembrò durante la caduta. La sommità del suo zaino la colpì alla nuca e Lily rimase a fissare come una stupida la bussola, mentre dallo zaino cadeva oltre la sua testa e dentro un cespuglio lì vicino. Si voltò e guardò con aria minacciosa la radice, ancora avvolta intorno al suo piede.

«Stai bene?» Donovan la raccolse praticamente da terra.

Lily fece una smorfia e soffiò via la terra dal palmo sbucciato. Sia le sue ginocchia che il suo orgoglio erano rimasti feriti, ma la sua mano sanguinava. «Dammi il kit di pronto soccorso, per favore.»

Si sarebbe occupata della mano prima di commentare la rivelazione di Donovan. Si sfilò lo zaino e tutto il contenuto si riversò a terra, come una pignatta piena di odio. Di bene in meglio. Iniziò a ricacciare le sue cose nello zaino, imprecando, e gettò uno sguardo furioso verso Donovan. Chiuse la cerniera ancora funzionante. Donovan le passò il kit di pronto soccorso e rimase in piedi alla sua sinistra, con le mani in tasca, apparentemente perso nei propri pensieri – un fatto di per sé spaventoso.

Lily usò la borraccia per versare dell’acqua sulla ferita. Per disinfettarla, rovistò nel kit d’emergenza in cerca della bottiglietta di acqua ossigenata e la applicò, grugnendo per il bruciore. Il taglio era al centro del suo palmo, per cui Lily optò per uno dei grandi cerotti, invece che fasciarlo con una garza. Benché non necessitasse di punti o altro, un po’ di ghiaccio l’avrebbe certamente fatta sentire meglio.

Lily restituì il kit e attese che Donovan lo rimettesse nel suo zaino, ma non appena lo ebbe fatto, non riuscì più a trattenersi. «Per favore, spiegami come faccio a essere difficile da gestire a letto. E io che pensavo che i ragazzi considerassero una fortuna il fatto di fare sesso praticamente ogni giorno per cinque anni, eccetto un paio di giorni al mese.» Non aveva intenzione di suonare tanto amareggiata, ma come altro avrebbe potuto suonare? Le spalle di Donovan si irrigidirono, mentre si rimetteva lo zaino. Evidentemente, aveva sperato che si fosse dimenticata della questione.

«Amo il tuo amore per il sesso. Veramente. Il problema è che la maggior parte delle volte ti ci vuole troppo tempo per raggiungere l’orgasmo. Mi sento un completo stronzo a venire prima di te. Se non ti procurassi piacere, non avresti più bisogno di me. Già consumi troppe batterie al mese. So che usi il tuo vibratore quasi ogni giorno. Come pensi che mi faccia sentire, sapere di non essere in grado di soddisfare i tuoi bisogni?»

Lily arrossì. «Ehm… Non lo uso tutti i giorni. Forse una o due volte alla settimana, quando sei al lavoro e sono troppo irrequieta per riuscire a concentrarmi.» Forse un giorno sì e uno no. Di certo non giornalmente. E l’idea che ci mettesse troppo tempo era ridicola. Con Donovan era già buona che durasse dai sette ai dieci minuti. Okay, a volte per lei quel tempo non era sufficiente. Ma era proprio necessaria tutta quella fretta? Dov’era la passione in un approccio da “una botta e via”? Non aveva alcuna voglia di diventare una di quelle coppie che pianificavano i rapporti segnandoli sul calendario, al pari di un appuntamento dal dentista, per poi non vedere l’ora di togliersi il pensiero e tornare alla normalità. Oltretutto, quale ragazzo usava l’espressione “raggiungere l’orgasmo” in una frase? Idiota.

«Sei perennemente eccitata!» Donovan si fermò, chiuse gli occhi e alzò la testa al cielo. Come se Dio in persona dovesse inviare degli angeli del Paradiso per premiarlo per essersi ribellato contro la fidanzata dissoluta e immorale. Ex-fidanzata. «Scusa, non volevo farla suonare come una cosa brutta. Non lo è. È fantastico e il sogno di ogni uomo. È solo che, a volte, mi sembra tu mi stia prosciugando per soddisfare i tuoi bisogni, come una succuba.»

Wow.

«Se non mi avessi battuta sul tempo, ponendo fine alla nostra relazione, dopo questo commento di certo lo avrei fatto io stessa.» Che genere di uomo tradiva la fidanzata per il troppo sesso? Non aveva alcun senso. Scambiare troppo sesso con altro sesso. Che ipocrita! Forse concedersi tutte le notti la rendeva troppo facile. Oh, no, è vero. Donovan non aveva voglia di fare fatica. Voleva spargere il suo seme e andare a dormire. Per fortuna, sparava a salve.

«Non ti arrabbiare, Lily. Sei stata tu a chiedermelo.»

«Oh, non sono arrabbiata. Sono troppo occupata a fare pensieri vogliosi e da troia sul prossimo uomo sul quale userò i miei trucchi da succuba. Non fare caso a me. Forse il ranger in servizio ha voglia di una sveltina.»

Non avevano parlato molto, da quel momento in poi. Avevano camminato fino a quando la mancanza di luce li aveva costretti ad accamparsi. A quel punto, Donovan si era offerto di raccogliere della legna da ardere, mentre Lily era andata tra i cespugli per fare i suoi bisogni. Dopo aver finito di montare la tenda da sola, si era accorta che ancora non era tornato e una lieve preoccupazione l’aveva assalita. Un po’ di tempo dopo, si era resa conto che si era portato via lo zaino. Con la mappa. Aveva scoperto anche di non aver recuperato la bussola, dopo che era caduta tra i cespugli. E Donovan aveva l’altra con sé. L’aveva abbandonata lì ed era stato un atto premeditato.

Lily sapeva di non doversi muovere, ma se Donovan si fosse perso? Eppure, si era portato dietro tutte le sue cose senza dire nulla. L’aveva davvero lasciata da sola nei boschi, tornandosene a casa? Oppure voleva solo spaventarla? Lily aveva sempre avuto un discreto senso dell’orientamento. Se avesse usato la posizione del sole come guida, tutto sarebbe andato bene. Avrebbe camminato nella direzione giusta fino a incontrare una torre della guardia forestale o una strada e lì avrebbe chiesto aiuto. Se il suo cellulare non avesse smesso di funzionare, avrebbe potuto chiamare qualcuno o avrebbe potuto usare il GPS o una bussola digitale. Ma la Legge di Murphy era una brutta bestia e al momento Lily ne era in balia.




Capitolo due


«Sei un idiota.» Adone sfregò il pollice sul freddo anello d’acciaio che teneva all’anulare destro. Era severamente tentato di trasformare il suo tirso in un pugnale per porre immediatamente fine alla miserabile esistenza di Donovan. Voleva che Lily Anders fosse impaurita e smarrita nella foresta, ma focalizzata sulla propria sopravvivenza, non piena di dubbi sulle proprie doti come amante. «Ti ho detto di svignartela e di lasciarla da sola fra le montagne. Quando mai ti ho chiesto di mollarla e di farla piangere?»

Aveva davvero, davvero voglia di pugnalare quell’umano. Per sua fortuna, Adone non era un assassino. Donovan O’Donnell, possessore di nome ridondante e allitterato, dal suono talmente irlandese da rendere sorprendente il fatto che non avesse capelli rossi e lentiggini, si infilò la mappa e la bussola nelle tasche dei pantaloncini color kaki e aprì la bocca, come sul punto di replicare con fare saccente.

Tuttavia, come il suo sguardo cadde su qualcosa di inaspettato, Donovan richiuse la bocca e sbatté le palpebre. I suoi occhi si spalancarono, mentre fissava le corna di Adone, illuminandole con la luce della torcia che teneva tra le mani tremanti. Desolato, umano. Non è un’illusione ottica. Visto il tempo che ci aveva messo per raggiungere il punto d’incontro, la pioggia doveva aver rallentato l’umano, che non era tipo da escursioni all’aria aperta. Se non altro, sapeva leggere una mappa e una bussola e, alla fine, ce l’aveva fatta.

«Potresti smetterla di puntarmi quella cosa addosso?» chiese Adone, strizzando gli occhi. La luce si abbassò, ma non si spense. Come previsto, quando il raggio illuminò gli altri attributi da satiro, l’umano sussultò per la sorpresa. Sì, degli zoccoli.Ooh, ahh. Spaventoso. Deve essere Lucifero. Deve essere malvagio. Diventa ogni volta meno divertente. Adone portava il nome che era diventato sinonimo di bellezza maschile, eppure quelli che lo vedevano senza l’incanto della magia tremavano dalla paura e dal disgusto. Non me lo meritavo. Non mi sarei nemmeno dovuto trovare sulla montagna quella notte. Ariston gli aveva raccontato del sacrificio di Dioniso e Adone lo aveva convinto ad accompagnarlo. Se Ariston non glielo avesse detto, se non gli avesse offerto un’occasione per far ingelosire Afrodite, Adone non ci sarebbe mai andato. Strinse gli occhi al ricordo, il suo sguardo fisso su Donovan e la sua torcia tremolante.

Quando il mortale indietreggiò di molti passi, Adone si spazientì. L’incantesimo che lo faceva sembrare umano era sparito ore prima, al calar del sole e non poteva in alcun modo celare la propria natura di notte. Sebbene inizialmente avesse tenuto d’occhio l’umano, Adone se ne era andato dopo che l’idiota aveva definito la ninfa una succuba, per paura di non riuscire a trattenersi e interferire. Ma Donovan non si era presentato nel luogo dell’incontro all’ora stabilita e Adone si era dovuto mettere a cercare l’imbecille, convinto che ci avesse ripensato. Non lo aveva fatto, il che provava ulteriormente la sua stupidità. La ninfa era di una bellezza che meritava di essere apprezzata.

«Non volevo che accadesse» rispose Donovan, arretrando e inciampando nel terreno accidentato. Dove diamine lo aveva trovato, questo patetico smidollato? Convincerlo ad abbandonare la sua ragazza era stato fin troppo facile e per pochi soldi, in confronto agli standard delle Industrie Bach. Diecimila dollari, ecco quanto gli ci era voluto per ferire emotivamente la fidanzata. Diecimila dollari e Lily Anders non era che un ricordo lontano. Donovan non aveva negoziato per ottenere un prezzo migliore e non aveva neanche finto di essere offeso dalla proposta.

«Potevi anche non desiderare che accadesse, ma è accaduto. Sono tentato di non pagarti affatto. Ora devo rimediare ai tuoi errori, il che è difficile, visto che non posso semplicemente apparire dal nulla e rassicurarla che andrà tutto bene.»

«Ma io ho firmato un contratto…»

«Non me ne frega niente. Non hai rispettato i termini, perciò ho tutto il diritto di invalidarlo.»

Donovan iniziò a farfugliare frasi incoerenti. Sostenne di non essere una persona cattiva. Giurò di amare Lily. Tentò persino di giustificarsi dicendo di non guadagnare abbastanza per vivere da solo e di avere bisogno della somma stipulata nel contratto con le Industrie Bach per poter far fronte alla rottura con Lily.

Secondo il contratto, non ci sarebbe dovuta essere nessuna rottura. Se ne sarebbe dovuto andare e basta, lasciare l’area e tornare a casa. Gli era stato assicurato che Lily sarebbe stata al sicuro, che faceva tutto parte di un esperimento sociale… un reality show di sopravvivenza. E Donovan non aveva fatto domande, prima di firmare lungo la linea tratteggiata. Aveva persino sorriso, facendolo. Stronzo.

«Firmando, hai rinunciato al diritto di preoccuparti per Lily. Ti abbiamo tenuto d’occhio per assicurarci che mantenessi la parola data, quindi sappiamo che hai iniziato subito a cercare una ragazza per rimpiazzarla e prendersi cura di te, dopo. Sapevi che la relazione con Lily non sarebbe sopravvissuta, se fosse riuscita a ritornare a casa.»

«Che significa se? Cosa accadrà a Lily? Pensavo avessi detto che sarebbe stata al sicuro.»

«Oh, ti preoccupi per la ragazza adesso? Non ricordo avessi mai posto questa domanda prima. Perché?»

Donovan spostò il peso da un piede all’altro, a disagio. Il suo sguardo si concentrò nuovamente sugli zoccoli e rabbrividì. «Ho dato per scontato che volessi portarla a letto. Voglio dire, è davvero stupenda. Una ragazza abbandonata nei boschi… Sembra la trama di una pessima storia d’amore o di un porno. Ma con tutti i reality show che ci sono oggi in TV, credevo fosse qualche strano colpo di scena. Per di più, la settimana scorsa ho visto la pubblicità di un programma di sopravvivenza e ho fatto due più due. Considerato il tuo, ehm, costume…» Donovan guardò i piedi di Adone. «E come ci stessi spiando, chiaramente, dal momento che sapevi della rottura.»

«Dici di amarla, eppure sei pronto ad accettare del denaro perché uno sconosciuto possa scoparsi la tua fidanzata durante un reality show?» La testa di Adone minacciava di scoppiare. Era certo che questo ragazzo avesse ripetuto a Lily di amarla per tutto il tempo che erano stati insieme, che le avesse detto più volte quanto fosse perfetta per lui e che non avrebbe mai potuto desiderare di meglio. Adone ci avrebbe giocato la testa. La rabbia iniziò a ribollire in lui. Niente lo faceva incazzare più dei bugiardi che usavano le persone, le portavano a letto, le facevano innamorare e poi le abbandonavano, confuse e afflitte per ragioni fuori dal loro controllo.

E avevano il coraggio di chiamarlo amore!

«Ho davvero bisogno di quei soldi.»

La ricchezza finiva, ma l’amore sarebbe dovuto durare in eterno. Donovan aveva liquidato ciò che avrebbe dovuto custodire, per quel falso senso di sicurezza che gli avrebbe procurato il denaro. Gli umani davano così tante cose per scontate.

«Sparisci dalla mia vista. Subito.» Adone si premette le nocche contro le tempie, cercando di alleviare il dolore pulsante. Avrebbe tanto voluto poter frugare nella borsa dove aveva nascosto i suoi averi e scolarsi l’ultimo degli otri antiquati che Dioniso gli aveva donato come regalo d’addio, ma prima doveva liberarsi dell’umano. Aveva solo due opzioni per far fronte ai casini causati da Donovan: uccidere l’imbecille o bere. Bere sembrava il minore dei due mali.

«Ma… Penso di essermi perso. Da che parte devo—»

«Sei tu quello con la mappa. Scoprilo da solo, idiota.» Adone diede una spinta a Donovan e lo guardò con gioia, mentre inciampava nel fango e quasi si schiantava contro un albero.

Voltandosi dall’altra parte, ordinò al suo tirso di tramutarsi in un cellulare. L’anello al suo dito si scaldò e assunse per un attimo l’aspetto di uno scettro medievale fatto di legno massiccio, sovrastato da una pigna e avvolto in una spirale di edera. A quel punto, si trasformò in un telefonino. Sebbene un cellulare-tirso non funzionasse come un apparecchio normale, tutti i satiri della Beozia potevano usarne la magia per chiamare Dioniso. Non si poteva né effettuare né ricevere altre chiamate, purtroppo. Ahimè, la magia non era infallibile.

«Dion Bach», rispose un uomo dall’altro capo del telefono. Era il nome che Dioniso aveva assunto in questa era, ma Adone odiava chiamarlo così. Non gli piaceva quando gli dèi si nascondevano dietro false identità. Dannazione, Adone già si odiava per essersi offerto di prendere parte a questo disastro. Era terribilmente ingiusto che Lily Anders venisse usata come una pedina, ma eccolo lì. Pronto a farlo lo stesso e solo per vendicarsi per la miseria che suo fratello gli aveva causato.

«Sono Adone», disse con calma nel dispositivo. «La donna è da sola, come previsto. Ariston è in zona, ma continua a ignorare la sua presenza. La spingerò verso di lui quando il sole sarà sorto. Si è scatenato un temporale imprevisto, prima, ritardando la partenza del maschio dall’accampamento e la ninfa si è sistemata per la notte a causa degli elementi atmosferici.»

«Non ci si può mai fidare degli umani e della loro capacità di predire il tempo, nonostante la loro cosiddetta tecnologia avanzata. E il maschio umano? Costituirà un problema?»

Adone si gettò un’occhiata alle spalle e gemette, vedendo Donovan agitarsi nel punto in cui lo aveva lasciato. «Aspetta un secondo», disse a Dioniso, poi sbottò contro Donovan: «Perché sei ancora qui?»

«Volevo assicurarmi che avrei ricevuto i miei soldi.»

«Se non te ne sarai andato entro cinque minuti, non vedrai nulla, nemmeno il domani. Capito?»

«Sì, signore. Ehm, grazie?» Donovan si voltò e se ne andò in fretta, gettando un’occhiata piena di panico verso Adone. Forse avrebbe dovuto infilzarlo, almeno un poco. Così che un puma lo fiutasse e iniziasse a dargli la caccia. Okay, si sarebbe sentito in colpa se lo avesse fatto. Prima o poi.

Adone fece un paio di respiri profondi, poi riportò il telefono all’orecchio. «Se ne è andato, ma potrebbe costituire un problema. Mi ha visto nella mia vera forma. Dovresti mandare qualcuno a intercettarlo. Ha iniziato ad avere dei ripensamenti, dopo aver visto cosa sono.»

«“I satiri hanno la mia ragazza” suona come un’ottima scusa.» Dioniso allontanò il cellulare dalla faccia per parlare con qualcuno in lontananza, prima di riprendere la conversazione con Adone. «Sto inviando Melancton a contenere i danni» Chiese la posizione dell’auto di Donovan e Adone gliela diede. «Resta vicino alla ninfa, ma non farti vedere. Riferiscimi qualsiasi notizia sulla siringa.» Riattaccò senza attendere una risposta. Non aveva chiesto a Adone come si sentisse e cosa ne pensasse di quella storia. A Dioniso importava solo di mettere le mani sulla siringa – una determinazione ostinata, che aveva avuto inizio parecchi mesi prima, dopo aver localizzato Pan e che da allora aveva guadagnato slancio. Le reali intenzioni del dio restavano un mistero, sebbene avesse affermato di voler usare lo strumento solo per liberare i beoti dalla maledizione. Certo… Pan ci aveva provato in passato, senza risultati, e nessuno sapeva cosa Dioniso avesse in mente di fare.

Adone riportò il tirso alla sua forma originale, facendolo roteare tra le dita come un bastone, mentre ragionava sulla situazione in cui si era cacciato e sul fatto che avrebbe dovuto sopportare Melancton e il suo silenzio del cavolo. Sospirando rumorosamente, lasciò che il tirso si trasformasse nuovamente in un anello d’acciaio. Doveva sempre ritornare alla forma originale per poter cambiare di nuovo. Adone se lo mise al dito.

Non era sua intenzione traumatizzare Lily più di quanto avesse già fatto Donovan… per colpa sua. Ad ogni modo, il suo gemello aveva un unico desiderio: essere di nuovo umano. Per costringerlo a mostrare la siringa, sempre che l’avesse lui, avrebbe dovuto far sì che necessitasse di uno strumento tanto potente. Il pensiero di dover fare qualcosa di così orribile che Ariston avrebbe avuto bisogno di usarla – ecco cosa temeva più di ogni altra cosa Adone. Ne sarei capace?

L’idea di abbandonare l’intera missione e lasciare che Ariston tenesse Lily per sé evaporò non appena Adone bevve un sorso del fantastico vino di Dioniso. Tiepido e pungente sulla lingua, avvolgeva le papille gustative con il suo sentore di uva e bacche. Chiuse gli occhi e ne assaporò il gusto. Era dolce, come un’assoluta estasi.

Non dubitava che Dioniso li avrebbe fregati tutti, una volta che si fosse impossessato della siringa. Era quello che facevano gli dèi. La distruzione li seguiva ovunque andassero. Il ricordo del giorno in cui aveva implorato Afrodite affinché lo aiutasse a sconfiggere la maledizione ritornò a galla; la ferita si riaprì. L’orrore nei lineamenti della dea alla vista di ciò che era diventato…

Adone serrò gli occhi, desiderando che sparisse. Odiava quel ricordo. Provava ancora vergogna, ripensandoci. L’aveva pregata di andare da lui, divorato dal desiderio. Afrodite aveva risposto alla sua chiamata, credendo che Adone avesse convinto Ariston a condividere il letto con lei. Reso quasi cieco dalla maledizione, Adone si era scagliato sulla dea. La pelle nuda e febbricitante, il pene dolorosamente eretto. Riusciva a malapena a pensare, guidato com’era da quel bisogno primordiale. Pronto a prenderla con la forza pur di soddisfare quella dolorosa eccitazione.

Vedendo lo stato in cui si trovava, le labbra della dea si erano arricciate in una smorfia sprezzante e Adone ricordava di aver esitato. Ma quando Afrodite aveva aperto la bocca per deriderlo, era stato invaso dal bisogno di prendere ciò di cui aveva bisogno, e in quel momento aveva bisogno di sesso. Lo necessitava quanto l’aria. La dea aveva urlato, mentre Adone si era messo ad armeggiare con la sua veste, in cerca di quel conforto e quella passione che più volte gli aveva donato in passato. Afrodite lo aveva accolto con una ginocchiata all’inguine, prima di spingerlo via e poi si era sistemata il vestito, a testa alta, nonostante la taglia minuta. La corona d’alloro dorata che portava sul capo storta. Lo sguardo micidiale.

«Sei un mostro!» aveva esclamato. «Pensavi davvero che ti avrei accolto nel mio letto con quest’aspetto più bestiale che umano? Volevi costringermi? A me!» Afrodite aveva riso, come se l’idea di essere toccata da uno come lui fosse la cosa più ridicola al mondo. Il suo tono gelido aveva spento quel fuoco che la maledizione gli aveva acceso nel sangue. «Sarebbe stato meglio se fossi morto, Adone. Vederti così insudicia il ricordo del tempo che abbiamo passato insieme. Non cercarmi mai più, orribile creatura.» Era rimasta più sconvolta dal suo aspetto che dal fatto che avesse quasi abusato di lei – quello lo aveva trovato più incredibile che disgustoso. Adone dovette ricordare a se stesso che le dee erano più antiche degli umani, una razza superiore. La loro morale si basava su una concezione assai diversa di ciò che era giusto e di ciò che era sbagliato. Adone non era stato altro che un passatempo per lei, mentre lui l’aveva amata.

Per accrescere la sua vergogna, Afrodite aveva pianto la sua scomparsa come se fosse davvero morto. Sulla sua sofferenza erano state scritte storie e canzoni, eppure non aveva mostrato neanche un pizzico di quella compassione, quando lo aveva bandito dal suo letto. E tutto perché Ariston non aveva assecondato i desideri della dea.

Un altro sorso di vino. La sua agitazione crebbe.

Adone voleva vedere Ariston soffrire, come aveva sofferto lui quando la donna che aveva reso la sua vita degna di essere vissuta gli era stata portata via e la ninfa sarebbe stata la chiave. Con la Luna del Satiro alta nel cielo, Ariston avrebbe conosciuto lo stesso dolore provato da Adone sul monte Citerone, dopo che Afrodite lo aveva abbandonato al suo destino.






Il sole mattutino fornì a Lily un’idea dei punti cardinali. Finché avesse prestato attenzione alla posizione del sole – e non fossero apparse nuvole cariche di pioggia – tutto sarebbe andato bene. Dato che non sarebbero dovuti tornare fino al giorno seguente, domenica, c’era la possibilità che la macchina fosse ancora dove l’avevano lasciata. Questo se Donovan non l’aveva abbandonata sul serio, il che avrebbe significato che si era perso nei boschi. In tal caso, si sarebbe rivelato meno idiota di quanto Lily avesse creduto, ma solo di poco.

Con un po’ di fortuna, si sarebbe imbattuta prima in una stazione della guardia forestale. Non vedeva l’ora di tornare a casa e dedicarsi a una maratona di musical con un Double Fudge Brownie Ben and Jerry’s come unico complice. L’aumento di peso dovuto al gelato le avrebbe dato qualcosa su cui concentrarsi più tardi, nel tentativo di perderlo.

Lily si sfregò il retro del collo e si guardò intorno. La sensazione di essere osservata si era presentata a più riprese durante la notte, ma da quando aveva smontato la tenda e aveva iniziato a camminare era diventata densa e soffocante. Non era una sensazione fisica, ma un’inquietudine che la seguiva mentre avanzava lungo il cammino. La scacciò via come paranoia e ansia, effetti residui della consapevolezza che Donovan l’aveva lasciata lì da sola di proposito. Era davvero una persona così orribile da essere abbandonata? Eh. Così chiede l’orfana.

Gli uccellini cinguettavano allegramente le loro liete canzoni dalla cima degli alberi e il suono spezzava il silenzio della solitudine. Normalmente, Lily avrebbe trovato l’atmosfera tranquilla e rilassante, ma quella mattina le sembrava più spaventosa dopo ogni passo. Un fruscio proveniente dai cespugli alla sua destra le fece venir voglia di piangere. Tagliò per gli alberi a sinistra, in modo da evitare qualsiasi animale selvatico volesse divorarla per colazione. Non era la prima volta che deviava dal percorso stabilito dopo aver sentito un rumore spaventoso. Lily si domandò se non lo avesse immaginato, ma di sicuro si stava perdendo sempre di più nella foresta. Non riusciva a capire come il sole fosse finito dalla parte opposta rispetto a quella in cui avrebbe dovuto essere.

Il terreno era ancora bagnato dal temporale della sera prima e il suolo e il muschio emanavano un odore pungente, ma non del tutto sgradevole, che andava ad aggiungersi all’atmosfera cupa in un modo che in altre circostanze avrebbe apprezzato. Il bosco era tanto triste quanto i suoi pensieri. Non è un bene quando accogli i pensieri tetri per scacciare quelli paranoici. Qualcosa o qualcuno la stava osservando di nuovo. Sbatté rapidamente le palpebre per fermare le lacrime e contemporaneamente allungò il collo per intravedere chi o che cosa la stesse pedinando. Non era una che piangeva spesso e si rifiutava di iniziare a farlo.

Guardandosi intorno con la coda dell’occhio, in cerca di pericoli, Lily non vide nessuno aggirarsi fra gli alberi. Guardò verso l’alto, ma non riuscì a scorgere nulla, a parte un piccolo opossum intento a esplorare tra le foglie. Quando voltò la testina grigia e pelosa nella sua direzione e la guardò con occhi grandi e lucidi, Lily non sentì nulla di ciò che aveva provato prima. Che ancora provava.

«Donovan?» chiamò, fermandosi per voltarsi di nuovo. Aveva piovuto da matti per tutta la notte. Donovan poteva essersi rifugiato da qualche parte in attesa che smettesse. Un tuono risuonò in lontananza, ricordando a Lily che doveva continuare a muoversi. Attraverso i pini e le querce che la circondavano riuscì a scorgere nuvole cariche di pioggia che incombevano minacciose.

Se non lo avesse ritenuto impossibile, avrebbe giurato che fossero state evocate dal ricordo del temporale. Si erano scurite da sole? Come si formavano le nuvole cariche di pioggia, in ogni caso? Non riusciva a ricordarlo dai giorni del liceo, non le era mai sembrata un’informazione utile da conoscere fuori da un’aula di scuola.

Guardò l’orologio. Era già passato mezzogiorno; aveva perso delle ore andando nella direzione sbagliata. Non mi farò prendere dal panico…

Una melodia si diffuse intorno a lei. Debole all’inizio, così debole che quasi non se ne rese conto. Quando il suo cervello collegò il suono alle sue implicazioni – un qualche tipo di civilizzazione doveva trovarsi nei paraggi – le sue spalle, prima tese, si rilassarono.

Lo strumento doveva essere un qualche tipo di flauto. Mentre Lily cercava di capirne di più sulla strana melodia, qualcosa di alquanto strano accadde. Le note iniziarono a filtrare nei pori della sua pelle, come un sensuale balsamo e a lambire come acqua calda le delicate aree della sua femminilità. Una parte della sua mente le lanciò un avvertimento, ma era il suo corpo a detenere il controllo ormai e non aveva intenzione di farsi distrarre dal buon senso. Come il Bianconiglio di Alice, quella melodia avrebbe potuto condurla dritta nella tana del coniglio e non le sarebbe importato, a patto che il Paese delle Meraviglie fosse stato pieno di quelle stesse sensazioni fantastiche che la musica le procurava.

Il buon senso, tuttavia, non si lasciò zittire completamente e Lily lottò per ascoltarlo, sebbene il suo corpo si stesse muovendo verso la fonte della musica. Una melodia sexy le stava mettendo in subbuglio gli ormoni nel bel mezzo del nulla. Tre ragioni sembravano le più credibili. La prima: era disidratata o febbricitante e stava avendo delle allucinazioni. La seconda: qualcuno stava tentando di rievocare Un tranquillo weekend di paura – grazie al cielo non stavano suonando il banjo. Al pensiero, iniziò a urlare a se stessa di correre nella direzione opposta, ma i suoi piedi non le prestarono attenzione. La terza: era morta, finita in Paradiso e qualche ragazzo davvero figo stava per suonarla nello stesso modo seducente riservato a quella specie di flauto, facendola venire più e più volte per tutta l’eternità.

A pensarci bene, la terza opzione sembrava piuttosto allettante. Peccato che cose del genere non accadessero nella vita reale e, in ogni caso, Lily non era emotivamente pronta. Non pensava di potersi fidare di nuovo abbastanza da entrare in una relazione e non era interessata ad avventure di una notte.

In qualche modo, doveva scegliere fra seguire la musica o tornare indietro. L’idea continuava a comparire nella sua mente, come un’insegna al neon con scritto: Decidi, decidi, decidi. Quando Lily credette di aver riassunto il controllo di sé necessario a rompere il sortilegio, i suoi occhi si posarono su di lui.

Beh, non lo vide davvero. Sebbene sembrasse totalmente reale, Lily era ancora abbastanza cosciente da distinguere un sogno a occhi aperti dalla realtà. Riusciva a vedere dove stesse andando, riusciva a prestare abbastanza attenzione ai detriti da non inciampare, eppure lo vide fare un cenno nella sua direzione. Era appoggiato contro un albero e la sua mano si stava muovendo in un gesto che sembrava dirle “vieni qui”. I suoi capelli erano come una cascata d’oro, impreziosita da ciocche ambrate, che gli cadeva oltre le spalle e ondeggiava nella brezza, accarezzandogli i pettorali. Assomigliava a un guerriero vichingo, abbastanza forte da sconfiggere intere legioni prima di fare ritorno a casa e condurre la sua innamorata nel Valhalla del piacere. Allo stesso tempo, però, non sembrava affatto nordico, ma esotico, con un’abbronzatura mediterranea a colorargli la pelle. E quegli addominali. Avrebbe potuto lavarci i vestiti sopra.

L’uomo delle sue fantasie fece l’occhiolino e sollevò un flauto, formato da diverse canne tenute insieme dalla più lunga alla più corta con strisce di cuoio. Lo portò alla bocca e ci soffiò sopra, senza mai toccare lo strumento con le labbra, e le note colpirono Lily come un’onda anomala che si infrange contro una costa rocciosa. Parole che non erano parole danzarono nella melodia. Lo farai? Non lo farai? Non vuoi sapere com’è?

Sì, pensò Lily. Aveva un disperato bisogno di saperlo.

No, urlò il suo buon senso. Non arrenderti così facilmente. La tua volontà non è così debole. Non entrare nella sua rete.

Al diavolo il buon senso. Le aveva fatto credere che Donovan fosse affidabile. Che sarebbe stato onesto e non l’avrebbe mai tradita in alcun modo, perché era un bravo ragazzo. Eppure, l’aveva ingannata comunque, le aveva spezzato il cuore e l’aveva lasciata lì a morire come un randagio al lato della strada.

Lily si asciugò una lacrima, maledicendo le emozioni che minavano la sua risolutezza. Mentre l’uomo delle sue fantasie continuava a suonare il suo flauto arcaico, una foglia gli si posò sull’addome, trasportata dal vento. Lily lanciò un’occhiata più in basso, ma l’erba alta lo copriva dalla vita in giù. Era probabile che fosse magnificamente formato anche lì come sopra. Era una sua fantasia, quindi doveva esserlo. Se solo avesse potuto dare una sbirciatina per saperlo…

Non vorresti saperlo? La musica sembrò leggerle nel pensiero. Potresti andartene ora, ma a quel punto resteresti con il dubbio per il resto dei tuoi giorni. Vieni da me, te lo mostrerò.

I suoi talloni si conficcarono nel fango. Lily non sapeva bene come ci fosse riuscita, ma aveva riacquistato il controllo. Poteva ancora tornare indietro; aveva sentito il bisogno di fermarsi e lo aveva fatto. Aveva preso in considerazione l’idea, prima, ma non aveva mai davvero voluto farlo. Lo voleva? Lily si morse il labbro. Voleva davvero che l’uomo delle sue fantasie glielo mostrasse…

Lo farai? Non lo farai? Non vuoi sapere com’è?

Voleva davvero saperlo. Se in quel momento l’avesse ignorata, avrebbe poi desiderato conoscere l’origine di quella musica per sempre. Proveniva davvero da un uomo attraente in mezzo ai boschi? Improbabile. Benché apprezzasse l’immagine mentale fornitale dal suo cervello. Non si sarebbe avvicinata ai musicisti, a meno che non fossero sembrati affidabili, ma doveva sapere chi stesse suonando il flauto. Magari avrebbero potuto aiutarla.

Fece per avanzare di un passo.

Allora si ricordò di come Donovan fosse sembrato “affidabile”. Non poteva fidarsi del proprio giudizio.

Vacillò.

Lily si guardò alle spalle, nella direzione da cui era arrivata e quasi gemette. Si era concentrata talmente tanto sulla canzone da non prestare attenzione a ciò che la circondava. La sensazione di essere osservata era tornata, ma non riusciva a scorgere nessuno. Cosa diavolo sta succedendo!

La melodia sensuale andava in un erotico crescendo, scivolando sul suo corpo come seta, rivendicando la sua totale attenzione. Si aggrappò a un ramo, il suo respiro usciva in modo irregolare tra i denti stretti. Ben presto Lily si ritrovò a camminare verso la musica. Posso farti sentire in quel modo ancora e ancora, risuonarono le note, promettendole una ricompensa per la sua scelta. Riusciva quasi a crederci. Lily voleva sentirsi ancora in quel modo. Perdersi in quella sensazione.

Lo farai? Non lo farai? Non vuoi sapere com’è?

In quel miraggio allucinogeno che aveva davanti, l’uomo biondo smise di suonare per studiarla. Improvvisamente, Lily si rese conto di non volerlo solo incontrare, ma di voler anche conoscere la sua storia. Era la seduzione in persona, eppure la sua espressione conteneva un accenno di tristezza. Cosa potrebbe rendere infelice un uomo tanto bello? Suona la sua musica perché si sente solo?

L’uomo ritornò a suonare e le sue palpebre ondeggiarono fino a chiudersi, mentre riversava la propria anima nelle note.

Abbandona i tuoi pensieri. Senti! Trovami! Trooovamiiii!

La decisione ormai presa, Lily decise che lo avrebbe cercato davvero. Man mano che si avvicinava, il ritmo della melodia aumentava, travolgendola e facendola inciampare dalla premura. Avanzando con determinazione, Lily vide un campo di fiori selvatici con l’erba alta, molto simile a quello in cui si era trovato l’uomo delle sue fantasie. La canzone era diventata frenetica, il volume aveva raggiunto il culmine, come se si trovasse proprio accanto alla fonte. Il musicista doveva essere in quel campo.

Lily rallentò il passo, esitante, ma poi si avvicinò in punta di piedi, non volendo rendere nota la sua presenza, sebbene la musica la spingesse a manifestarsi. Nella boscaglia oziava un uomo dalla chioma dorata. Lily si nascose velocemente dietro un albero ed ebbe un sussulto, la mano poggiata sul petto, dove poteva sentire il suo cuore battere rapidamente sotto la superficie. L’uomo che aveva immaginato era reale, ma come? Come è possibile tutto questo? L’aveva davvero chiamata a sé con una canzone e una promessa di seduzione?

Lily diede un’altra sbirciatina e si rese conto che l’uomo delle sue fantasie era esattamente come l’aveva immaginato, eccetto per un piccolo dettaglio.

Un gioco di luce creava la forma di un corno a spirale di colore scuro al lato della sua testa. Sempre suonando lo strumento, l’uomo si mosse e divenne ovvio che la luce non c’entrava nulla. Aveva chiaramente un paio di corna. Un copricapo pagano di qualche tipo? Forse faceva parte di un culto e sarebbe stato più saggio sgattaiolare via prima di essere notata. Stava suonando lo strumento che Lily aveva visto nella sua mente: una serie di flauti di diverse lunghezze legati insieme. Soffiò sulle estremità e le note risuonarono nell’aria, dandole il benvenuto. Pregandola di ricambiare il saluto. Giurandole piacere e libertà ed estasi e tutte le cose necessarie a farle scatenare gli ormoni. All’improvviso, come avvertendo la sua presenza, l’uomo abbassò lo strumento e si mise più ritto, allerta. Pronto ad agire. Salvo che non guardò nella sua direzione. Al contrario, si concentrò su qualcosa dritto davanti a sé, da qualche parte alla sinistra di Lily.

Una donna dai capelli biondi si addentrò nella radura. Indossava una camicia a quadri gialli e blu annodata sopra l’ombelico e i pantaloncini di jeans più corti mai cuciti – abbassandosi avrebbe probabilmente mostrato le parti intime al mondo intero. Stava fissando l’uomo con uno sguardo pieno di ammirazione e Lily non poté biasimarla. Lei stessa sarebbe stata forse abbastanza sciocca da precipitarsi verso l’uomo delle sue fantasie, se la bionda non l’avesse preceduta.

L’altra donna si fermò a contemplare l’uomo che aveva davanti, poi piegò il fianco verso l’esterno e iniziò a sbottonarsi la camicia. Ancheggiando verso di lui, la bionda continuò a spogliarsi, portando Lily a domandarsi se non fosse la sua professione. A quel punto, l’uomo si alzò. Era completamente nudo e Lily ebbe una perfetta visione frontale. Fece un impercettibile cenno di approvazione, tirando fuori il labbro inferiore. Non male.

Era magnifico.

Lily non riusciva a scorgere alcun elastico o corda che sostenesse le corna d’ebano sulla sua testa. Partivano dalle sue tempie e si arricciavano, incurvandosi all’indietro, ruotandogli sotto le orecchie, per poi pendere con le estremità appuntite sulle sue spalle. Erano più spesse nella parte superiore e incorniciavano il suo splendido volto come la corona di una divinità della natura. Si credeva il Re della Foresta o cosa? Lily ridacchiò ripensando per un attimo al testo della canzone del Leone Codardo ne Il mago di Oz. Non poteva prendere la situazione sul serio. Aveva chiaramente perso il senno.

Mentre il Signor Bendotato, primo fra tutti i nudisti di montagna, avanzava verso la bionda, Lily notò qualcosa di strano. I fiori celavano i suoi piedi, ma le gambe si piegavano in modo strano quando si muoveva. Si inarcavano leggermente all’indietro, sotto il ginocchio, come quelle di un animale; i suoi polpacci non avevano la linearità delle gambe umane. Ed erano molto più pelose vicino alla caviglia, come se avesse dei ciuffi di pelo.

Forse è eccessivamente peloso e sopra si depila. I peli sul suo torso erano radi, una spruzzata dorata che gli cospargeva il petto, scendendo giù versi i genitali e le cosce, che non erano affatto pelose come le caviglie. Lily sbatté le palpebre. C’era qualcosa di molto strano nei suoi piedi. Quello è… è uno zoccolo?

Macché. Non può essere.

Ma se lo fosse… La curva delle sue ginocchia spiegava l’angolo incorretto delle caviglie, necessario per supportare il suo corpo bipede abbastanza da permettergli di camminare. Lily era convinta che avesse un senso dal punto di vista fisico, ma le sue uniche conoscenze scientifiche provenivano da Discovery Channel. La ragazza si ritrovò a fissare la sua andatura, finché il suo sguardo non cadde nuovamente sul suo pene – uguale a quello di un umano – che ondeggiava con i suoi movimenti, decisamente pronto all’azione. Era stupendo, persino con le sue deformità e Lily lo avrebbe rappresentato volentieri su una tela, se fosse stata capace di dipingere decentemente.

Okay, quelli sembrano seriamente zoccoli.

Era chiaro cosa stesse per accadere. Lily stava delirando, dopotutto. E dato il suo stato delirante, avrebbe potuto guardare l’uomo-bestia e la bambolina bionda esplorarsi i corpi a vicenda senza ripercussioni. Erano state le accuse di Donovan del giorno prima a farle venire un esaurimento nervoso e a evocare quello scenario di perversione estrema?

Forse.

Si tolse lo zaino e lo appoggiò delicatamente contro il pino dietro al quale si era nascosta. Era difficile spiare i prodotti della sua immaginazione schiacciata dal peso opprimente della realtà. Ho trasformato sul serio il mio zaino in una metafora? Devo essere davvero impazzita.

L’uomo – ehm, la creatura? – fece sdraiare la donna tra i fiori selvatici, sottraendola allo sguardo di Lily. L’uomo-bestia non perse tempo e si tuffò di testa. Vista la posizione delle gambe di lei e la testa di lui, l’immaginazione di Lily non ebbe problemi a indovinare dove la stesse baciando. Non era neanche lontanamente eccitata dall’attacco appassionato della creatura al corpo della donna. No no, non lei. Non quanto la bionda, in ogni caso… I suoni che stava producendo quella donna sembravano quasi disumani, una sorta di lamento e gemito insieme.

Santo. Cielo. Lily li fissò con la bocca aperta e gli occhi spalancati per lo stupore. Cosa cavolo sta facendo con quella bocca per farle fare un suono simile?

Lily rimase impassibile. Le sue folli allucinazioni pornografiche non la eccitarono. No. Neanche un po’. Non si rimproverò nemmeno per essersi dimenticata di mettere il vibratore nello zaino.

Si spostò dall’altro lato dell’albero per vedere meglio.

Crack!

Lily fissò il bastone spezzato sotto la sua scarpa con lo stesso terrore che immaginava dovesse provare la vittima di una mina, pochi secondi prima della sua esplosione. Quando sollevò la testa, la sicurezza che quella scena non fosse che un prodotto della sua immaginazione morì di una morte rapida. Lo sguardo dell’uomo dai capelli biondi era puntato su di lei, come il mirino del fucile di un cacciatore con la sua preda.

A quel punto, non c’era che un modo ragionevole di affrontare la situazione.

Lily iniziò a correre.




Capitolo tre


Non tutte le donne soccombevano al canto da satiro di Ariston, il che andava bene. Non gliene importava molto, dal momento che non erano altro che facce senza nomi, corpi disponibili per alleviare il suo desiderio e rendere l’eternità un po’ più piacevole per qualche settimana. Se non avesse fatto sesso con delle donne a caso, il dolore dell’eccitazione lo avrebbe costretto a trasformarsi di nuovo in quella creatura irrazionale con una sola cosa in mente. Ariston non voleva assolutamente sperimentare di nuovo quell’orribile e doloroso bisogno al massimo della sua intensità.

La maggior parte delle donne si arrendeva alla sua melodia. La canzone fungeva da richiamo, ma le donne potevano scegliere, come pesci di fronte a un amo con esca. Se avessero desiderato il premio abbastanza da correre il rischio, avrebbero abboccato. Se invece fossero state spaventate da quanto offerto, lo avrebbero evitato. Ariston poteva dare loro qualcosa che molte avrebbero avuto paura di chiedere: del sesso privo di sensi di colpa con un immortale, il cui ricordo sarebbe parso solo come un sogno. Potevano ritornare alle loro vite e ai loro innamorati come se niente fosse successo. Nessun legame. Nessun rimpianto.

Solo che un rimpianto c’era – Ariston provava rimorso per ogni subdolo metodo usato per fare sesso, ma tale era la vita dei satiri. Non poteva certo instaurare una relazione con una donna e aspettarsi che questa non desse di matto, quando dopo un appuntamento gli fossero spuntate le corna e avesse iniziato a zoccolare per la camera da letto come il diavolo in persona, con i suoi zoccoli fessi. No, giusto o sbagliato che fosse, aveva smesso da tempo di preoccuparsene, dopo aver rinunciato alla speranza di poter cambiare il proprio destino.

La speranza non era che una fantasia. Spingeva le persone a credere che ci fosse una possibilità, una cura. Salvezza. Ma c’era un limite ai decenni, ai secoli persino, che uno poteva attraversare prima che la speranza diventasse un mito. Le ninfe erano tutte scomparse, nonostante la promessa fattagli da Dafne tantissimi anni prima. Ariston aveva vagato per il mondo intero, lo aveva percorso tutto almeno venti volte. Non c’era salvezza per lui.

Aveva intrapreso la strada della solitudine, ricorrendo alla magia del suo flauto di Pan per ottenere, al bisogno, della compagnia femminile. Gli arcadici, quando ancora non conoscevano l’incantesimo che li faceva apparire umani durante il giorno, avevano imparato a usare il canto per ingannare le donne e far vedere loro quello che volevano, quando li guardavano. Non era infallibile e non tutte le donne si gettavano fra le loro braccia. Alcune restavano fedeli ai loro mariti e altre si rifiutavano di cedere ai propri desideri. Tuttavia, alcune lo facevano, risparmiando ad Ariston molti fastidi. Permettendogli di non diventare ciò in cui la maledizione avrebbe voluto trasformarlo – ciò che si rifiutava di diventare.

Una donna bionda emerse dalla foresta e Ariston si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, nonostante il contraddittorio nodo allo stomaco. Sebbene non avesse assunto sembianze umane, la bionda vide solo ciò che desiderava vedere. Se lo stava vendendo in forma di satiro e gli si avvicinava comunque, beh, a ognuno le sue perversioni.

La bionda si spogliò, sorridendo.

Ariston ripose il flauto di Pan nella fondina che aveva creato appositamente e lo mise sopra l’uniforme da ranger, che aveva ripiegato e lasciato vicino all’albero quando si era spogliato. Aveva resistito per poco più di tre settimane questa volta, ma più si avvicinava l’eclissi, più la sua agitazione cresceva. Avrebbe fatto tutto meccanicamente, come sempre – darle piacere, prendersi il suo e rispedirla alla sua tenda. Ariston riceveva poco da queste esperienze, a parte una breve sensazione di appagamento e la consapevolezza che non sarebbe stato un pericolo, finché avesse fatto sesso di nuovo in un paio di settimane. Se avesse aspettato di più la maledizione avrebbe iniziato a offuscare il suo giudizio, fino a fargli perdere il controllo.

Prima che Ariston potesse soffermarsi sulla sua mancanza di entusiasmo, la bionda fu sotto di lui, eppure non provò alcun desiderio di godersi il suo tempo insieme a lei. Non lo stava facendo per divertimento, ma per necessità. Lo nauseava. Il suo corpo iniziò a tremare, prova che il suo autocontrollo stava per esaurirsi. Voleva spingere via la donna. Per gli dèi, cosa c’è che non va in me? Non posso resistere più a lungo? Ariston era abbastanza convinto che sarebbe stato più brutale del solito e, non volendole fare del male, si tuffò tra le sue cosce per prepararla, soffocando un’imprecazione.

Crack!

Nonostante gli esuberanti gemiti della donna, l’interruzione riuscì a uccidere definitivamente quel poco di interesse che Ariston era riuscito a raccogliere per portare a termine l’atto. Cercando di ignorare le mani troppo impazienti che gli tiravano i capelli, si concentrò su ciò che lo circondava. Se ci fosse stato qualcun altro nell’area, Ariston avrebbe potuto essere scoperto. Il suo sguardo corse verso il flauto di Pan e calcolò quanto tempo gli ci sarebbe voluto per raggiungerlo e per suonare la melodia che avrebbe prodotto l’illusione di un aspetto umano. Se lo avessero scoperto, avrebbe perso la sua casa. Gli piaceva la vecchia baita della guardia forestale dove si era stabilito e non era ancora pronto per andarsene. Era difficile per un satiro trovare un rifugio sicuro in questa nuova epoca.

Ariston si passò una mano sulla bocca e strizzò gli occhi, continuando a scandagliare l’area da cui era giunto il suono. Eccola là! Alta e snella, con i capelli marrone scuro, forse persino neri, tirati indietro dal viso e dalle spalle. Lo stava fissando con gli occhi spalancati.

«Perché ti sei fermato», si lamentò Biondina, tirandosi su e infilando una mano tra loro per afferrargli il pene. Ariston la ascoltò appena e le allontanò la mano. Il suo desiderio si era risvegliato durante la gara di sguardi con il suo pubblico, ma non voleva le mani di Biondina su di sé. La mora aveva dirottato la sua attenzione e a mettere le mani su di lui sarebbe stata solo lei. Stranamente, tutta la rabbia che aveva nutrito mentre era solo con Biondina svanì. Voleva davvero la nuova ragazza. Il bisogno era lì, come sempre, ma la desiderava. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che avesse desiderato spontaneamente di giacere con una donna, dato che la mancanza di scelta tendeva a rovinare per lui l’intero atto.

Chiuse gli occhi e prese a immaginare la scena. A breve la nuova ragazza si sarebbe addentrata nella radura e li avrebbe raggiunti. Ariston avrebbe suonato una breve melodia per scacciare Biondina, rimuovendola dall’equazione, e poi si sarebbe concentrato solo su Moretta. Si sarebbe preso il suo tempo con lei, estorcendole fino all’ultima goccia di piacere e forse finalmente, finalmente, avrebbe apprezzato di nuovo il sesso. La ragazza sembrava avere bisogno di una bella e forte s—

Ariston aprì gli occhi e vide Moretta voltarsi e fuggire come una cerva spaventata.

«Cazzo!»

«Sì, ti prego!» Biondina allungò le braccia e fece un gesto con le mani, come a dire “dammelo”. Seriamente? Ariston non aveva tempo di occuparsi di lei in modo adeguato. Moretta poteva aver scattato delle foto ed essere sul punto di inviarle a qualche fonte di notizie, mentre lui se ne stava lì seduto come uno stupido, sotto shock. L’avvistamento di un satiro da parte di un mortale avrebbe scatenato il panico e potevano esserci altre persone insieme a lei.

Il sesso poteva aspettare. Moretta andava fermata, prima che rivelasse ciò che aveva visto. Ovviamente, dopo averla colta con le mani nel sacco, avrebbe dovuto punirla per averlo spiato. Saltò in piedi, apprezzando il piano e corse a recuperare il flauto di Pan, in caso gli fosse servito. Biondina mise il broncio e lo imitò, alzandosi a sua volta. Cazzo. Mi ero già dimenticato di lei.

«Ehm… non hai finito.» Che vocina arrogante per una ragazza così carina. Piena di altezzosa presunzione e segno di un’infanzia viziata. Ad Ariston non piacevano le donne come lei. Non sembravano mai contente, persino quando le soddisfaceva.

«Lascia che ti suoni una canzone. Creerà l’atmosfera.» Ariston forzò un sorriso e nel frattempo fece scivolare lo strumento fuori dalla fondina e lo portò alle labbra.

«Sono già dell’umore. Ero così vicina quando hai deciso di fermarti. Così. Vicina. È semplicemente da maleducati tirarsi indietro ora!»

Ignorandola, Ariston soffiò lungo le canne. Quando la melodia per rimpiazzare la realtà con un ricordo onirico fece presa su di lei, si sentì sollevato. Gli occhi di Biondina si fecero vitrei, iniziò a raccogliere i propri abiti e si vestì velocemente, farfugliando oscenità che oscillavano fra l’insulto e il desiderio che accadessero cose sgradevoli ai suoi genitali. Si allontanò per fare ritorno alla sua tenda, ovunque fosse. Auspicabilmente, l’incantesimo sarebbe durato. Ariston non aveva tempo di farle da babysitter per assicurarsene. Sentendosi leggermente in colpa per non averla fatta venire, suonò un paio di altre note veloci… e Biondina vacillò con un gemito. Buon per lei.

È il momento della caccia. Con un gran sorriso, Ariston voltò le spalle a Biondina, augurandole silenziosamente un buon viaggio. Moretta non lo sapeva ancora, ma era una delle cose più interessanti che gli fossero successe da anni. Legò la fondina su una spalla e di traverso sul petto, come se volesse nascondere una pistola, e assicurò il flauto di Pan all’interno. Per i vestiti sarebbe potuto tornare più tardi, perché indossarli gli avrebbe fatto perdere altri secondi preziosi.

Ariston se ne pentì subito dopo essere partito all’inseguimento, rendendosi conto che la sua nudità avrebbe reso Moretta più guardinga, una volta che l’avesse raggiunta. Erano finiti i tempi in cui un satiro nudo sarebbe stato, beh, sorprendente, ma prevedibile. Sarebbe parso non solo come un mostro, ma anche come un pervertito della peggior specie. Lo aveva spiato in assenza dell’incantesimo che gli conferiva un aspetto umano, dunque alterare le sue sembianze non sembrava una priorità. C’erano dettagli più importanti su cui concentrarsi. Come aveva fatto a trovarlo senza seguire la sua canzone fino alla radura e fra le sue braccia – o lo aveva fatto? C’è solo un modo per scoprirlo.

Le sue tracce si rivelarono facili da seguire. Moretta non gli stava certo rendendo le cose difficili con quelle vistose orme nel fango umido. Si era lasciata l’attrezzatura da campeggio alle spalle, il che lo fece esitare. È sola?

Scosse la testa e ridacchiò. Non sarebbe stata sola a lungo. Ariston avrebbe messo presto le sue mani su di lei. Ne era quasi deluso. Quasi. Forse l’ebbrezza di giocare al gatto e al topo era ciò che gli serviva per sedare il suo desiderio. Anche se, una volta che avesse catturato Moretta…

Il rumore di respiri affannati lo fece rallentare. Scostò con delicatezza le lunghe foglie di una felce selvatica e le sue narici si spalancarono in trionfo. Dietro l’angolo, Moretta era piegata in due, con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendersi dalla corsa. Sciocca femmina. Da dietro il fogliame, Ariston si concesse di esaminare accuratamente la sua preda. I suoi capelli scuri erano raccolti in una treccia che le arrivava a metà schiena e la sua t-shirt bianca avvolgeva un seno di medie dimensioni. La sua vita sottile si allargava in fianchi ben scolpiti e un sedere stupendo e le sue gambe toniche ostentavano la loro perfezione da sotto l’orlo di un paio di pantaloncini kaki. Ariston sarebbe potuto rimanere ore a fantasticare su cosa avrebbe trovato rimuovendo quegli strati; invece, fece la sua mossa.

Quando entrò nel suo campo visivo, Moretta sussultò. Poi, con gli occhi spalancati, lo fissò spudoratamente, fino a che il suo sguardo atterrò finalmente sui suoi piedi. Ad Ariston sembrò di scorgere sul suo viso un breve lampo di trionfo. Sorrise, mettendo in mostra dei perfetti denti bianchi. Poi il sorrisetto si trasformò in una smorfia. La ragazza sbatté le palpebre e scosse la testa. Quando incontrò di nuovo lo sguardo di Ariston, la paura era ancora là.

«Oh, mio Dio. Oh, mio Dio. Sto avendo le allucinazioni, probabilmente ho la febbre e ho bisogno di uscire da qui, subito.» Annuì dicendo l’ultima parola, come a finalizzare il suo balbettio, confermando una discussione interiore di qualche tipo.

«Non credo che tu stia soffrendo di alcuna malattia. Puoi continuare a fissarmi per tutto il tempo che vuoi. Anche se preferirei che guardassi un po’ più in alto dei miei piedi.» Decisamente più impressionante, quello. Perlomeno, nessuno se ne era mai lamentato prima.

La donna fece un suono sprezzante in fondo alla gola. «Per favore, dimmi che sei un qualche fan di D&D in un costume fatto veramente bene e che non vuoi farmi del male. Inoltre, se hai un cellulare, ti sarei grata se non prendessi il mio commento precedente sul personale e me lo prestassi per un momento.» Ah, bene, questo risolveva una delle sue preoccupazioni; senza un telefonino non poteva aver inviato delle prove o contattato qualcuno per raccontare ciò che aveva visto. A meno che non avesse una macchina fotografica nascosta da qualche parte. Dovrei perquisirla per scoprirlo.

Incrociò le braccia. «Non è un costume.» Ariston strinse gli occhi, colpito da un pensiero. «Non ho sentito la tua attrazione per la mia canzone, come è successo invece per la bionda. Sei un essere magico? Una divinità? Una semidea?» Era vicino a scoprire qualcosa, ma non sapeva esattamente cosa. Era stata lei a causare lo strano temporale della notte precedente? Non c’era stato alcun segnale di pioggia, eppure aveva piovuto. Aveva persino grandinato.

«Giusto… Forse dovresti darmi quel telefono che ho menzionato prima. Penso che potrebbe portare aiuto per entrambi.»

«Non ho con me un cellulare. Dove potrei metterlo? Tra i peli della mia gamba?» Alzò uno zoccolo e lo sventolò in senso antiorario.

Gli occhi di Moretta si spalancarono di nuovo. Perché tutti si agitavano per gli zoccoli, ma non per le corna? Quelle di solito scatenavano delle scrollate di spalle, seguite da qualche battuta. Quasi temessero che iniziasse a fare il verso della capra e a masticare bottoni. L’unica parte davvero importante della sua anatomia gravava pesantemente tra le sue gambe ed era tanto umana quanto quella di qualsiasi mortale. Anche se gli piaceva pensare di essere più dotato.

«Nella tua, ehm, fondina?» La mora indicò il suo flauto di Pan.

«Che cosa?» chiese Ariston.

«Hai chiesto dove avresti potuto mettere il telefonino. C’è una ampia tasca in quella tua specie di borsetta.» La donna si mordicchiò il carnoso labbro inferiore, un’azione che accese un fuoco all’altezza del suo inguine.

«Non è una borsetta. Come puoi anche solo pensarlo? È molto maschile.»

«Sì, sì. Certo.»

«Lo è.» La fitta di desiderio si affievolì quando notò la benda macchiata di sangue, stretta attorno al palmo della sua mano. «Come ti sei ferita?»

Ariston fece inconsciamente un passo verso di lei. Aveva delle scorte mediche nella sua baita. Pur guarendo a una velocità fenomenale, il suo sangue faceva comunque un casino quando scorreva dalla parte sbagliata della sua pelle. Avrebbe potuto ricucirla in un lampo.

La donna si guardò il palmo, quasi sorpresa di vedervi la benda. Poi scosse la testa e disse: «Sì, questa è decisamente la conversazione più strana di sempre. Mi dispiace, ma… devo scappare». Schizzò via nella direzione opposta. Mentre fuggiva, pungenti gocce d’acqua iniziarono a bombardargli la pelle. Doveva essere Moretta a manipolare la pioggia, ma come? Che cos’era? Qualunque cosa fosse, doveva essere in qualche modo collegata alle sue emozioni e lo portò a chiedersi che cosa fosse accaduto per provocare il furioso assalto degli elementi della notte precedente.

Ariston si risvegliò dal suo torpore e la inseguì. «Ehi, non così veloce!» Un pensiero iniziò a mettere radici nella sua mente. Era già entusiasta di lei prima, ma se avesse avuto ragione… Per gli dèi, non poteva lasciarsela scappare. Non se ci fosse stata una possibilità.

Moretta possedeva una natura magica, influenzava gli elementi. Il tempismo era troppo buono per essere vero. Ariston era in cerca di una come lei da quando era diventato un satiro e se si fosse rivelata davvero una ninfa, sarebbe stata la sua salvezza. Sfortunatamente, la sua salvatrice continuava a mettere distanza fra di loro. Poteva anche avere un vantaggio nella pioggia, ma lui conosceva bene la foresta. L’avrebbe catturata, come nelle antiche leggende e sarebbe stata sua. Mia!

Si era rivelata a lui. Magari non di proposito, ma lo aveva fatto. Tutto ciò di cui aveva bisogno era che Moretta lo desiderasse abbastanza da farne il suo amante sotto la Luna del Satiro. Sorrise. Ariston era un po’ arrugginito quando si trattava di vera seduzione, senza l’uso della magia, ma gli piacevano le sfide. Avrebbe potuto essere libero, mortale, avrebbe potuto avere una famiglia, finalmente, invecchiare e vivere una normale vita umana.

Moretta si guardò alle spalle ed ebbe un sussulto. Credeva davvero che le avrebbe concesso di rivelarsi così per poi correre via? Come se non sapesse cosa ci fosse in gioco per lui. Se non avesse trovato uno specchio d’acqua in cui nascondersi, l’avrebbe catturata. Una ninfa dei boschi o delle montagne sarebbe già svanita, camuffandosi da albero o quant’altro, ma la pioggia era acqua e lei doveva essere una rara ninfa delle acque per avere una tale influenza sugli elementi atmosferici.

Quando Moretta deviò a sinistra, Ariston andò a destra, scivolando facilmente tra i rami aggrovigliati e sfrecciando sopra i tronchi caduti. Il satiro rallentò il passo e avanzò lentamente verso di lei. La ragazza perse tempo a guardarsi indietro.

Ariston le si posizionò davanti mentre era voltata e lei gli finì dritta contro il petto. Allungò le braccia per stabilizzarla, circondando il suo corpo esile e concedendosi nel mentre una palpatina al suo sedere. I satiri palpeggiano. È così. Il tessuto della sua maglietta era bagnato, la pelle ghiacciata. Da vicino, riusciva a sentire l’odore della pioggia sulla sua pelle, mischiato al profumo di lavanda di qualcosa con cui si era lavata o che aveva spalmato sul suo corpo.

«Guarda dove vai. Finirai con il farti male, continuando a fare la preziosa» mormorò Ariston contro i suoi capelli, sorridendo. Quando la donna si rese conto di chi la stesse tenendo, si irrigidì e lo spinse via con forza. Ariston la lasciò fare, approfittando dell’occasione per ammirare la sua bellezza, mentre lo fissava furiosa. Lo sguardo di Ariston cadde sulla sua scollatura. I suoi capezzoli erano chiaramente visibili attraverso la maglietta bianca bagnata e il reggiseno sportivo. Senza pensarci, aggiunse: «Guarda, guarda. Il bianco ti dona».

Moretta incrociò le braccia, lanciandogli un’occhiataccia. «Pervertito. Perché non mi lasci in pace?»

Ah-ah. Ariston sapeva che lo avrebbe chiamato così. «Sarei io il pervertito? Chi è che mi stava spiando, prima? Ti è piaciuto lo spettacolo?»

«Non ti stavo spiando. Ho sentito la musica e volevo sapere da dove provenisse. Sei tu quello che gira in giro nudo. Chi fa una cosa del genere?»

Ariston scrollò le spalle. «Sfortunatamente, sei finita dritta dritta in qualcosa che era destinato ad accadere da molto tempo. Se tua madre e le tue sorelle ti avessero avvertita per bene, come hanno fatto con tutte le altre, avresti prestato più attenzione.» Grazie agli dèi non lo aveva fatto.

Delle emozioni indistinguibili balenarono sul suo volto. «Non ho una famiglia. Sono cresciuta in affidamento.» Moretta distolse lo sguardo, furiosa. Se con lui o con se stessa, Ariston non sarebbe stato in grado di dirlo. Era certo che non avesse avuto intenzione di condividere quell’informazione, tuttavia, spiegava perché non si fosse nascosta da lui. Perché avesse seguito la canzone, invece che prenderla come un avvertimento e correre nella direzione opposta. Nessuno l’aveva messa in guardia. Non le era stato insegnato a evitare i satiri e probabilmente non sapeva neppure di essere una ninfa. Moretta non sapeva assolutamente in cosa si fosse cacciata. Se Ariston glielo avesse spiegato, rivelandole quella notizia bomba, di sicuro non l’avrebbe presa bene.

«Mi dispiace per il tuo passato, ma il Fato ti ha messa sul mio cammino per una ragione, perciò non andrai da nessuna parte se non con me.»

Quello sembrò attirare la sua attenzione. «Il mio ragazzo è poco distante, nella direzione da dove sono venuta. Mi basterà urlare e verrà qui. È grande e forte e perfettamente in grado di farti il culo.»

Eppure, non aveva pensato di urlare, mentre la stava inseguendo. L’angolo della bocca di Ariston si inclinò verso l’altro in un sorrisetto. Avrebbe dovuto sapere che avrebbe smascherato il suo bluff. Aveva visto la sua attrezzatura abbandonata fra i cespugli mentre la inseguiva. «Mi piacerebbe vederlo provarci. Tuttavia, se davvero c’è un fidanzato tra questi boschi, sicuramente starà facendo un pisolino. Vedi, la canzone che stavo suonando prima tende a rendere gli uomini un po’ sonnolenti, quando le loro ragazze decidono di seguirla. D’altronde, nemmeno un marito o un padre scontroso potrebbero salvarti ora. Arriverei persino a combatterli per te.»

«Ti prego, non farmi del male. Sono una brava persona. Me ne andrò e non dirò a nessuno che ti ho visto. Non denuncerò né te né niente di tutto questo. Non lo racconterò nemmeno al mio ragazzo, ma… per favore…» Sbatté furiosamente le palpebre.

La determinazione di Ariston vacillò e il senso di colpa gli lacerò il petto. Se lo strofinò. Le aveva dato l’impressione di essere un pervertito, troppo aggressivo e strano. Aveva gli zoccoli, per l’amor degli dèi! Forse avrebbe fatto meglio a lasciarla andare. Lasciare che continuasse a vivere la sua vita nella beata ignoranza della propria vera natura. Tuttavia, aveva lasciato andare Dafne e si era maledetto per secoli, sebbene nel suo cuore sapesse che era stata la cosa giusta fare.

Che il Fato sia maledetto per ciò che sto per fare. Voleva essere di nuovo umano. Gli si era presentata una seconda occasione, finalmente e la ragazza non sapeva nulla. Ariston avrebbe sconvolto il suo mondo e non solo sessualmente. Certo, avrebbe avuto solo una settimana per convincerla ad accettarlo.

«Non ti farò del male.» Ariston ammorbidì il suo tono. «Ma non posso lasciarti andare fino a dopo l’eclissi. Ho bisogno del tuo aiuto per una cosa importante. Poi potrai andartene… se lo vorrai.»

La ninfa si guardò intorno in cerca di una via di fuga. «E se non volessi aiutarti?»

«Lo farai. Forse non vuoi adesso, ma crollerai di fronte ai miei metodi di persuasione.»

«Ne dubito.»

Ariston le rivolse un ampio sorriso. «Mi divertirò a dimostrarti che ti sbagli.»

Moretta spalancò la bocca, ma non replicò. Evidentemente, riteneva che scappare fosse l’opzione migliore, perché tentò la fuga. Di nuovo. Peccato che non possa lasciarti scappare. Ariston rise, inseguendola. Prima o poi la ninfa si sarebbe stancata, ma non lui.

L’aveva quasi raggiunta, aveva quasi circondato la sua esile vita con le braccia, quando Moretta scivolò su una pozzanghera di fango, sfuggendo alla sua presa. Un sonoro plop riecheggiò tra i tic tac della pioggia e il rumore di un tuono che risuonava in lontananza. La ragazza non si rialzò.

Ariston corse verso di lei, tutto il divertimento svanito. Quando le sollevò la testa per controllare i danni, vide la radice nodosa e sporgente responsabile del suo stato di incoscienza. La pioggia si fermò, veloce come era iniziata. È decisamente lei a causare questi cambiamenti climatici.

Dato che non sembrava aver subito altre lesioni a parte il colpo in testa, Ariston prese Moretta tra le braccia. Qualcosa in lei lo stimolava e non solo sul piano sessuale. Abbassò lo sguardo su di lei, non riuscendo quasi a credere che esistesse davvero, mentre il contatto con il suo corpo caldo gli accendeva nelle vene scintille di consapevolezza.

La ninfa era incantevole. Ed era anche coraggiosa, perspicace e intelligente. Ariston non avrebbe potuto chiedere di meglio in una donna. Fuggire da lui era stata una scelta saggia. Fortunatamente per lei, non avrebbe potuto assecondare le sue intenzioni decisamente poco caste. Per ora. Ciò gli avrebbe concesso del tempo per accattivarsela.

“Non arrenderti mai, Ariston. Troverai la tua ninfa, un giorno. Non oggi, ma un giorno. L’ho vista ed è molto bella. Proteggila.” Le parole pronunciate da Dafne tanto tempo prima gli risuonarono nella testa.

Era Moretta la ninfa che aveva predetto? Ariston le premette una mano contro la guancia e deglutì. Zeus misericordioso, poteva davvero convincerla a restare insieme a lui? Poteva guadagnarsi la sua fiducia, il suo desiderio?

Da che cosa avrebbe dovuto difenderla, oltre che da se stesso?





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Dal giorno della sua maledizione, Ariston non desidera che una cosa – essere di nuovo umano. Ha cercato in tutto il mondo una ninfa che lo liberasse, ma più di tremila anni di fallimenti lo hanno spinto a una vita di solitudine. Quando sorprende Lily a spiarlo nella foresta, Ariston crede di aver finalmente trovato la salvezza tanto desiderata. Sfortunatamente, dovrà prima riuscire a conquistarla.

Sotto la Luna del Satiro una maledizione è stata lanciata e sotto la stessa luna verrà cancellata…

…se il destino lo consentirà.

Un lavoro come fotografa freelance va presto a rotoli, quando il fidanzato di Lily Anders la scarica e sparisce dall’area di campeggio, abbandonandola nel bel mezzo dei Monti Blue Ridge. Sentendosi persa, con il cuore infranto e impaurita, Lily segue una misteriosa melodia attraverso la natura incontaminata. Non avrebbe mai potuto immaginare che la fonte della musica le avrebbe rivelato che le creature leggendarie della mitologia greca esistono realmente e che lei stessa potrebbe essere una di loro.

Dal giorno della sua maledizione, Ariston non desidera che una cosa – essere di nuovo umano. Ha cercato in tutto il mondo una ninfa che lo liberasse, ma più di tremila anni di fallimenti lo hanno spinto a una vita di solitudine. Quando sorprende Lily a spiarlo nella foresta, Ariston crede di aver finalmente trovato la salvezza tanto desiderata. Sfortunatamente, dovrà prima riuscire a conquistarla.

Quella che sembrava opera del Fato, intento a unirli in tempo per la Luna del Satiro, si rivela essere un piano elaborato con macabri intenti. Dioniso ha inviato il fratello estraniato di Ariston, Adone, per assicurarsi che la maledizione non venga spezzata e niente getta acqua fredda sulla fiamma della seduzione come un gemello in cerca di vendetta.

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