Книга - La famiglia Bonifazio; racconto

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La famiglia Bonifazio; racconto
Antonio Caccianiga




Antonio Caccianiga

La famiglia Bonifazio; racconto





I


Il capitano Bonifazio e il maestro Zecchini erano sempre insieme, ma non andavano mai d'accordo. Il primo era un uomo d'azione e non da ciarle; ligio alla disciplina militare si era abituato ad obbedire ciecamente; il secondo avvezzo alla cattedra voleva sempre ragionare a diritto o a torto, come faceva alla scuola. Egli la pretendeva a filosofo, e amava la discussione; l'altro si schermiva girando la posizione con tattica; come nelle evoluzioni militari.

Ogni giorno alla stessa ora andavano a fare la passeggiata per le strade più remote e tortuose dei campi. Il capitano serio e silenzioso, il maestro col sorriso sarcastico sulle labbra, coll'idea fissa nel principio fondamentale d'una sua particolare filosofia, che soleva riassumere in queste poche parole: – l'uomo è un asino. Egli difendeva questa teoria a spada tratta ad ogni occasione, e colla storia alla mano, cominciando a citare la condotta di Adamo nel paradiso terrestre, e proseguendo coll'esame di tutte le vicende umane, dalla più remota antichità fino ai nostri giorni. – Leggete la storia, egli ripeteva sovente, non troverete che sommissioni di popoli intieri alle violenze d'un solo individuo, o di pochi; non vedrete che guerre, stragi, menzogne, utopie delle quali gli uomini furono vittime. I selvaggi hanno un capo che li comanda; in tutte le antiche nazioni si trova la schiavitù, questa degradazione dello stato umano; e perfino i popoli moderni, i cittadini che si credono liberi, portano sulle spalle un tal peso di obblighi e di tasse, che supera di gran lunga la soma del grano portata dall'asino del mugnaio.

I potenti, i padroni, quelli che mettono il basto e la cavezza agli altri, hanno mandato alla tortura la scienza, hanno arsa sul rogo la ragione, hanno condannata al patibolo la giustizia e la verità. E quegli stessi che si credono superiori e indipendenti dalle potenze della terra sono schiavi delle loro passioni, sono vittime dell'amore e dell'odio, dell'avidità o dell'orgoglio. L'uomo è un asino! nessuno eccettuato, e non vi sarà mai possibile di provarmi il contrario.

Il capitano crollava le spalle, e gli rispondeva in francese: —Mauvaise plaisanterie!… e poi traduceva: – Scherzi senza sugo! e rivolto al maestro gli faceva le osservazioni seguenti:

– Voi avete sempre vissuto in questo villaggio, come un ragno nel buco; io ho girato il mondo a tappe militari, ho vissuto nelle grandi capitali, ho ammirato le meraviglie del genio umano, e la vostra assurda teoria mi fa ridere di compassione.

– Voi mi parlate di eccezioni, le quali non fanno che confermare la regola, gli rispondeva il maestro. L'uomo di genio è tanto raro quanto l'uomo felice. Conoscete la storiella della camicia dell'uomo felice? Si voleva trovare questa camicia, e pagarla a qualunque prezzo. Si andò a cercarla in tutti i paesi della terra, la difficoltà pareva insormontabile, quando finalmente si è trovato l'uomo felice… ma era senza camicia!..

– Voi uscite dall'argomento. Ritorniamo alla vostra assurda teoria. Io non avrei che a snocciolarvi una lunga filza di genii per vedere se avreste il coraggio di trattarli da asini; ma mi basterà citarvene uno solo; – e così dicendo, il capitano Bonifazio si tolse la pipa dalla bocca, si levò il cappello, alzò la testa, e sfolgorando il compagno cogli occhi scintillanti, esclamò imperiosamente: – Ditemi se Napoleone il grande fu un asino?..

Il maestro pareva esitante, il capitano alzò il bastone in atto di minaccia, l'altro ebbe paura di quell'argomento perentorio e rispose in fretta:

– È un'eccezione!.. un'eccezione!

Il capitano si calmò, fecero qualche passo in silenzio, poi il maestro tirandosi alquanto in disparte, soggiunse:

– Napoleone è un'eccezione!.. tuttavia…

– Tuttavia?..

– Ma sì, tuttavia, dopo d'aver conquistata quasi intieramente l'Europa, ha tutto perduto, ed è andato a morire prigioniero, sopra uno scoglio in mezzo dell'oceano!

La bomba era slanciata, e andò a colpire la lingua del capitano che restò morta sul colpo. Per salvare il resto dovette raccogliere tutte le sue forze disperse, e quel giorno non parlarono più della teoria prediletta del maestro.

Il capitano Bonifazio aveva militato sotto Napoleone, ed era uno dei pochi reduci della catastrofe della Beresina. Testimonio dell'eroismo degli Italiani nelle guerre del primo regno d'Italia non poteva rassegnarsi alla dominazione austriaca, e viveva ritirato in campagna, per non vedere i Tedeschi, ed anche per incontrare il meno che fosse possibile i suoi compatriotti che disprezzava per la pecoraggine colla quale subivano il giogo straniero.

Il maestro Zecchini era figlio d'un ricco signore, il quale dopo di aver consumato quasi tutto l'avito censo, era morto lasciandolo povero, e con una educazione incompleta, per cui fu costretto di fare il maestro comunale per vivere. Dallo sfacello della sostanza paterna si era salvata una fattoria, con pochi campi annessi, che divennero il domicilio stabile del maestro, della cui modica rendita viveva, colla giunta d'un misero stipendio.

Il capitano aveva ereditato dalla sua famiglia parecchie buone terre ed una bella villa signorile, nello stesso villaggio del maestro, vicino a Treviso, nella pianura lodata fino dai tempi antichi che ha per orizzonte le cime nevose delle Alpi, e una verde cintura di colline sparse di castelli, d'abazie a di villaggi.

Erano diventati entrambi agricoltori per forza; uno avrebbe preferito il mestiere delle armi l'altro i piaceri della città, ma i casi della vita li avevano costretti a rinunziare ai loro gusti e a ritirarsi in campagna. L'amore dei campi venne più tardi, dopo la lunga consuetudine, dopo le attrattive della natura e la necessità del lavoro. Il suolo coltivato attira il coltivatore il quale vi si fissa, come l'albero colle radici.

Il capitano visse i primi anni nella solitudine; dopo lo sbalordimento delle guerre napoleoniche, dopo le prove ardimentose de' suoi commilitoni, dopo i gloriosi fatti d'armi che onorarono gl'Italiani in varie parti d'Europa, egli si trovava sorpreso ed umiliato di dover sopportare la dipendenza d'un popolo che giudicava inferiore, per meriti militari e civili, ai suoi compatriotti; ridotti in schiavitù da trattati diplomatici, non contratti da essi anzi contrari alla loro volontà, e pur troppo tollerati, con colpevole indifferenza ed inerzia nei momenti decisivi.

L'antica repubblica veneta degenerata nel lungo ozio e nella vita molle e gaudente, aveva lasciato i caratteri fiacchi, e dopo le rapide prove dei vari governi succeduti al suo dominio, i nobili e i preti preferivano l'Austria: il grosso della popolazione restava indifferente, mancava d'educazione politica e di energia. I pochi avanzi degli eserciti napoleonici sentivano troppo tardi il dolore della patria perduta, ed il bisogno dell'indipendenza nazionale.

Il governo austriaco entrato come liberatore, si era fissato stabilmente, passando dalle promesse alle minaccie, perseguitando e condannando come un delitto di Stato l'amore di patria, ispirato dalla natura e dalla storia.

Agli ufficiali delle guerre europee, lasciati in disparte, non rimaneva altro partito che quello di consolarsi della schiavitù colla memoria dei fatti compiuti, e colla lontana speranza di ritornare in campo, a tempo propizio.

Erano rari superstiti di grandi avventure, ma bastavano a tener viva la scintilla del patriottismo, a spargere le idee, ad apparecchiare le forze necessarie a rivendicare i diritti conculcati della patria. E intanto raccontavano quella storia di rapide e meravigliose conquiste, così precipitosamente perdute, e ne raccoglievano le immagini con religiosa devozione.

Tutte le pareti della casa del capitano Bonifazio, erano ornate di gloriosi ricordi. Statue, busti, ritratti di Napoleone, in tutti i costumi, dal costume adamitico scolpito da Canova, fino a quello col manto e la corona; ce n'erano a piedi, a cavallo, e sul trono. Ma la preferita era la statuetta di gesso, colla semplice divisa dei cacciatori della guardia, col piccolo cappello senza galloni, cogli stivali alla scudiera, le braccia incrociate sul petto, in atto d'osservazione.

C'erano grandi e piccoli quadri delle battaglie più gloriose.

Montenotte, Lodi, Arcole, Rivoli, Marengo, Cairo, Austerlitz, Jena, Wagram, Moskowa.

C'era una camera coi ritratti dei generali francesi che ebbero titoli italiani. Massena duca di Rivoli, Augeran duca di Castiglione, Victor duca di Belluno, Moncey duca di Conegliano, Savary duca di Rovigo, Mortier duca di Treviso.

Pochi ritratti di generali italiani, perchè molti erano entrati nell'esercito austriaco.

In apposita stanza aveva raccolto le tremende memorie della Russia. Un quadro rappresentava l'incendio di Mosca; un altro una marcia di feriti sulla neve, inseguiti dai Cosacchi; nel terzo si vedeva la presa di Malo-Jeroslawetz eseguita dalla divisione Pino, sostenuta dai cacciatori della Guardia reale italiana. Il quarto era il passaggio della Beresina. Fra le vedute c'erano i ritratti, dei generali che più si distinsero in Russia, Davout, Murat, Ney, il principe Eugenio, e qualche altro.

Nelle lunghe ore delle giornate piovose, il capitano Bonifazio faceva il giro delle stanze, si arrestava davanti ai suoi quadri, riviveva in quel passato, e nelle rare volte che era costretto di recarsi a Treviso pe' suoi affari, si fermava per le strade dove passavano i soldati austriaci, e guardava con pietà quei poveri Croati negri e segaligni, e le faccie bonarie dei Boemi, e alzava le spalle pensando che Massena con 50,000 Francesi non esitava ad attaccare 80,000 Austriaci, comandati dall'arciduca Carlo, e li vinceva a Caldiero; e nutriva un fastidioso disprezzo pei suoi concittadini, che non si accorgevano nemmeno di appartenere ad una nazione eroica, nella quale gli pareva che un uomo con uno spiedo avrebbe infilzato come tanti polli quattro o cinque di quei poveri diavolacci, ma invece bastavano due uomini e un caporale per scortare a Vienna i furgoni delle svanziche, colle quali gli Italiani del regno Lombardo-Veneto pagavano all'Austria il diritto di possedere i propri campi e le case dove erano nati.

E il capitano Bonifazio tornava alla sua villa fosco annuvolato, e guai a chi gli capitava fra i piedi.

Per soddisfare, almeno in parte, a quel bisogno che sentiva di attività e di lavoro, vangava e potava, piantava alberi e arbusti, vigneti e frutteti, disegnava viali, sconvolgeva la terra, seminava, trapiantava e mieteva.

A poco a poco si avvide d'aver fatto un parco magnifico, troppo superiore alla sua modesta condizione, ma davanti allo stupendo spettacolo della natura, dimenticava le umane miserie. E talvolta combatteva la umiliante teorica del maestro Zecchini, per semplice impulso della propria dignità; ma pensando al doloroso destino della patria, non poteva in tutto dar torto al suo vicino di campagna, almeno nel fondo dell'anima.

Allora diventava più indulgente pel povero maestro, sturava una bottiglia di vino vecchio, e lo invitava a bere alla salute della patria. Zecchini correva a chiudere l'uscio e le finestre, perchè nessuno potesse udire la loro imprudenza. Il capitano si accorgeva della paura del compagno, stralunava gli occhi, atteggiava tutti i suoi lineamenti al più profondo disprezzo, ritornava bisbetico e dispettoso e pensava fra sè: «tacere le proprie opinioni, nascondere come un delitto i più naturali sentimenti, è una delle tristi necessità di chi è costretto di vivere sotto il giogo» e tracannando in fretta il suo bicchiere di vino, suonava il campanello.

Poco dopo compariva Mosè per fare la solita partita a terziglio col padrone, e il vicino. Mosè fu uno degli ultimi coscritti di Napoleone, aveva servito il capitano al reggimento, e continuava a servirlo fedelmente dal tempo che deposte le armi, si erano ritirati in campagna. Era il vero amico, e il più fido compagno del padrone, gli faceva da segretario e da castaldo, da giardiniere e da cuoco. Passavano la sera colle carte in mano per evitare le questioni estranee al giuoco; il capitano diffidava del maestro, il maestro aveva paura del capitano; si guardavano in cagnesco, e Mosè collocato fra loro rappresentava il terreno neutro, e teneva in riguardo i due amici… nemici.

Del resto non era possibile di indovinare il maestro Zecchini; nessuno poteva dire con certezza se fosse buono o cattivo; nessuno aveva potuto leggere nel fondo della sua anima. I furbi sono un prodotto della schiavitù. Colle autorità superiori non mostrava che umiltà e riverenza, cogli uomini indipendenti si lasciava sfuggire delle espressioni liberali, col parroco era religioso, cogli increduli scettico, chi lo diceva sciocco e chi sapiente: il fatto sta che non aveva mai fatto male a nessuno, ed anzi in varie occasioni si era mostrato utile ai suoi scolari e ai loro parenti, col consiglio e coll'opera.

Il capitano lo trovava nullo in politica, astuto in società, utile in famiglia, pericoloso negli affari delicati, indispensabile per giocare alle carte; e sapeva servirsene secondo i casi, perchè egli aveva una tattica magistrale per utilizzare le varie attitudini, senza compromettersi con nessuno.

Il maestro si prestava con premura a rendergli parecchi servigi, andava a pagargli le prediali, lo rappresentava negli affari di ufficio, chiamava alla Pretura gli affittuali che non pagavano il fitto, gli faceva ottenere il passaporto quando ne aveva bisogno.

Ottenere il passaporto sotto il governo austriaco non era impresa troppo facile. Nessuno aveva il diritto di viaggiare, nemmeno all'interno dello Stato, senza che il governo ne conoscesse il motivo, e lo trovasse plausibile. Per raggiungere l'intento giovava molto la prestazione d'un amico che fosse in buona vista della polizia. In simili casi, e in varie occasioni, l'amicizia di Zecchini riuscì utilissima al capitano, il quale vivendo incognito, ed essendo rappresentato sovente da un individuo giudicato come suddito sommesso e fedele, passava presso le autorità per uomo inoffensivo, dal quale il governo nulla aveva a temere.

E così il capitano Bonifazio congiurava senza pericoli, e senza suscitare il minimo sospetto faceva parte d'una vendita di carbonari. La sua corrispondenza politica non era mai affidata alla posta, e gli arrivava sempre per mezzo di amici, o di messi speciali. Nel mese di maggio del 1820 il capitano Bonifazio dovette recarsi in Polesine per intelligenze con quei Carbonari, e poi a Milano per riferire ai capi della setta lombarda. Domandò il passaporto pel regno Lombardo-Veneto col pretesto di fare un viaggio agricolo, nel quale si proponeva lo studio di alcune colture speciali, che facevano difetto nella provincia di Treviso, come quelle del canape e dei prati a marcita. Il maestro Zecchini fu chiamato alla Polizia per le necessarie informazioni. Egli assicurò il commissario che il signor Bonifazio era un appassionato agricoltore, che aveva già introdotto nella sua campagna delle eccellenti migliorie, e che si disponeva a fare delle altre riforme, le quali avrebbero senza dubbio aumentato il prodotto delle terre, e servito di esempio ai vicini.

Il commissario assentiva col capo, e pensava: «migliorando le terre si potranno accrescere le imposte! questo è un uomo utile all'Impero!» Poi domandava conto del carattere, delle abitudini, delle relazioni del petente; e il maestro rispondeva:

– È un po' bisbetico, si occupa tutto il giorno della coltura dei campi, del giardino, dell'orto; vive solo con un domestico, non riceve mai nessuno, ha dell'ottimo vino, e fa un eccellente cucina; io solo come vicino di campagna ho l'onore di frequentarlo, e di profittare de' suoi cortesi inviti.

«Chi mangia bene e beve meglio non fa l'umanitario, e non si occupa di politica, pensava il commissario; un uomo civile che vive ritirato in campagna non può essere che un misantropo.»

– Andate pure, egli disse al maestro, non occorre altro.

Il maestro curvò la schiena, che quasi toccava col naso lo scrittoio, presentò all'impiegato superiore i più rispettosi ossequi, uscì dalla stanza con ripetuti inchini, salutò gentilmente anche l'usciere, che aveva un'aria da sbirro, poi scese le scale lentamente, col collo torto, e un beato sorriso sulle labbra, pensando fra sè stesso: «l'uomo è un asino, è un asino, è un asino!..»

E questo suo pensiero non proveniva dal benchè minimo sospetto sulle intenzioni e la condotta del capitano, che anzi teneva per vero quanto aveva asserito; ma vedendo che occorrevano tante cerimonie per ottenere il permesso di circolare a proprie spese nel proprio paese, e che tali cerimonie erano vane, perchè generalmente la polizia veniva ingannata dalle domande, dai pretesti, e dalle informazioni, la sua teoria prediletta gli tornava alla mente, e si compiaceva di poter dare dell'asino al commissario nell'intimità del suo cuore.

Pochi giorni dopo, il capitano Bonifazio, col suo passaporto in piena regola, partiva pel Polesine, visitava alcune fattorie rinomate, procurando che l'I. R. Delegato Provinciale di Rovigo venisse a saperlo, e poi senza che nessuno l'avesse visto entrava in una casa colonica, nella campagna deserta, e s'intratteneva per un paio d'ore coi Carbonari venuti apposta da Ferrara, per intendersi con lui sulle armi e le munizioni da introdursi, per distruggere i governi dispotici, dare all'Italia un governo costituzionale, o almeno unire in vincolo federativo i varii governi italiani, tutti però aventi per basi costituzione, libertà di stampa e di culto, parità di leggi, monete e misure.

Predisposta accuratamente la prossima rivolta del Polesine, passava in Lombardia, visitava i corsi d'acqua, i prati irrigatori e le marcite, facendo parlare di lui come d'un veneto appassionato agricoltore; poi scompariva per qualche ora, si abboccava coi patriotti malcontenti, stringeva la mano ai Carbonari lombardi, comunicava le disposizioni delle vendite del Veneto, e veniva informato degli accordi presi coi fratelli del Piemonte.

Dopo quei ritrovi della setta, scriveva qualche lettera al maestro Zecchini e la gettava alla posta colla certezza che sarebbe aperta dalla Polizia la quale violava tutti i segreti. Egli si godeva a corbellare i commissari e il governo, parlando di prati e di vacche svizzere, di canape e di bachi da seta. Raccomandava all'amico le zucche e le patate, e gli prometteva al ritorno le più utili informazioni sulla coltura delle rape.

Dagli amici di Milano ebbe lettere di raccomandazione per qualche coltivatore, e per qualche possidente austriacante della Brianza, sempre collo scopo d'ingannare la vigilanza della polizia; e si recò a visitarli, occupandosi di vigneti e di stalle, benedicendo i benefizii della pace, che si godevano a merito del regime paterno dei buoni Tedeschi. Prese alloggio in un grande albergo, assunse delle informazioni che lo fecero conoscere per esperto agricoltore.

Poi lasciando gran parte del suo bagaglio all'albergo, e raccomandando all'albergatore le sue preziose sementi di bietole, cavoli e carote, annunziò una gita nei dintorni per visitare le colture, e partì solo e pedestre, munito d'una semplice valigietta alla mano. Prese la direzione opposta a quella che intendeva di seguire, e girando per certi viottoli deserti, assicurandosi che nessuno lo vedeva, trovò la sua strada, che lo condusse in un angolo romito delle colline, ove sorgeva una modesta casa di campagna quasi nascosta dai tigli, dai platani, e dalle robinie.

Abitava in quella dimora un suo antico commilitone, un valoroso colonnello degli eserciti napoleonici, un fiero soldato, un ardente patriotta, che non aveva mai potuto comprendere come gl'Italiani si fossero rassegnati a subire l'umiliazione d'un governo straniero. Acerrimo nemico dell'Austria, egli congiurava come capo carbonaro contro l'aborrito governo, ma sapeva operare con tale avvedutezza che non comprometteva mai nessuno, apparecchiava le riunioni, dirigeva la congiura con sommo accorgimento, e metteva tanta astuzia nel gabbare i sospetti del governo, nello sviare le ricerche della polizia, nell'abbindolare le commissioni speciali, che il suo grande maestro, il generale Napoleone, non avrebbe impiegata tanta avvedutezza nell'apparecchiare il piano d'una battaglia.

Odone Palanzo era un antico cospiratore, ancora giovinetto si era acceso di entusiasmo al primo raggio della nascente libertà. La portentosa discesa del San Bernardo, compiuta dall'esercito francese condotto dal generale Buonaparte, la sua improvvisa comparsa in Italia, la battaglia di Marengo che liberava il Piemonte e la Lombardia dagli Austriaci, esaltarono lo spirito liberale del giovane italiano, il quale detestava il regime debilitante del governo straniero che conservava sotto il giogo una popolazione rassegnata, e non curante della sua sorte nè dell'onore del paese.

Egli non rifiniva di ammirare e celebrare l'eroica difesa di Genova, il carattere e le prodezze dei vincitori dei Tedeschi, l'impassibilità di Massena durante l'assedio, la fermezza di Lannes sul campo di battaglia, la carica di cavalleria di Kellermann, la risoluzione fortunata di Desaix. E quando tre giorni dopo di quella famosa battaglia Buonaparte entrava in Milano sul far della sera, il giovane lombardo si trovava fra quella folla plaudente che gettava fiori nella carrozza del primo Console, che procedeva lentamente nelle strade accalcate e illuminate a giorno.

Allora si arruolò come semplice soldato, quantunque avesse moglie e una bambina, fece il giro d'Europa, guadagnò i suoi gradi ad uno ad uno, da caporale a colonnello, fu ferito in varie battaglie, e non depose le armi che dopo l'ultima campagna di Russia, dove ridotto all'estrema miseria, lacero, esausto dalla fame, e quasi cieco, sarebbe morto sulla neve se non avesse incontrato il capitano Bonifazio che lo sostenne, lo guidò, lo nutrì di crusca bollita e di carne di cavallo; e attraverso a mille pericoli poterono entrambi ripassare la Beresina, dopo le più strane venture. Giunti in Polonia come due fantasmi da far paura a vederli, fecero una lunga dimora negli ospitali, fino che ristabiliti in salute, ritornarono a Parigi, e ripresero servigio fino alla caduta di Napoleone.

Rimandati in patria, il capitano Bonifazio accompagnò l'amico alla casetta di Brianza, dove il colonnello lo presentò alla famiglia come il suo salvatore.

La moglie era un'ottima donna; e la figlia Maddalena, una bella ragazza, con due grandi occhi che ne rivelavano la bontà, era stata allevata dalla madre alle cure domestiche e rurali. Entrambe vivevano modestamente colle rendite di alcune terre che stavano intorno all'abitazione. Vedevano poca gente, e assai di rado il loro capo di casa, il quale di tratto in tratto compariva all'improvviso, si fermava alquanti giorni, e spariva. Scriveva poche lettere e laconiche, sempre da nuovi paesi, da varie parti d'Europa. Il colonnello aveva un fratello più giovane, che si fece parimenti soldato, e questi alla caduta di Napoleone prese servizio nel piccolo esercito piemontese.

Quando furono di ritorno dalla Francia invasa dagli stranieri di varie regioni, il colonnello volle che il capitano si riposasse alcuni giorni nella sua casa, dove si godeva una pace serena, in quel paradiso della Brianza. Quel silenzio, quella solitudine sotto gli alberi, producevano l'effetto d'un delizioso calmante negli animi ardenti di quei soldati avezzi a tanti frastuoni e a tante stragi. A poco a poco il loro spirito esaltato dalle lotte si raddolciva, il loro sangue rallentava il suo corso, il loro cuore si apriva a nuove aspirazioni verso la tranquilla felicità della pace domestica. Finalmente il colonnello sentiva il bisogno di riposo, in quel nido fortunato, fra il sorriso sereno d'una buona moglie, e la fiorente gioventù d'una diletta figliuola.

Il capitano Bonifazio che aveva perduto tutti i suoi parenti, si arrestava ben volentieri in quel ridente soggiorno, prima di rientrare nella solitudine e nell'isolamento che lo attendevano nella sua casa deserta.

Gli occhi profondi di Maddalena lo colpivano vivamente, la sua voce gli penetrava nell'animo, i suoi lineamenti gli lasciavano nel cuore una indelebile impressione, ma egli non osava guardarla che di soppiatto, quando era sicuro di non esser veduto da lei; quella soave fanciulla gli pareva cosa divina, e si giudicava troppo ruvido soldato per credersi degno di meritare il suo affetto.

I due commilitoni passavano alcune ore seduti sopra un banco rustico del giardino, colla pipa in bocca, rammentando le loro geste, e quando passava Maddalena, Bonifazio si alzava in piedi, ritirava in fretta la pipa, e faceva il saluto militare come davanti un generale.

Alla sera quando si ritirava nella sua camera, invece di andare a letto a dormire si sdraiava sul canapè, pensava lungamente alla Maddalena, ne faceva il paragone colle altre donne che aveva incontrate nei vari stati d'Europa, e la trovava più bella, più interessante e più adorabile di tutte. Era stato piuttosto libertino, intraprendente, audacissimo col bel sesso, e poteva vantarsi di ardite conquiste tanto sui campi di battaglia che nelle alcove; ma quelle erano donne, e questa era un angelo, ed egli si trovava ospite da un amico, del quale gli era sacra ogni cosa, e più di tutto la famiglia.

Così passavano i giorni, e Bonifazio si lasciava vivere in pace, in una specie di allucinazione, e di ebbrezza felice, e chi sa quando avrebbe pensato di andarsene allorchè la lettera d'un avvocato di Treviso lo chiamò al suo paese per affari urgenti.

Il colonnello non voleva lasciarlo partire, le signore lo pregavano di non abbandonarle, e gli parve perfino di scorgere una lagrima che brillava come un diamante nei grandi occhi di Maddalena; ma la lettera era pressante, e poi sentiva anche il bisogno di fuggire da quell'amore soffocato che quasi quasi gli pareva un insulto alla casa dell'ospite e dell'amico; e partì.

L'ultima parola del colonnello fu questa: – Siamo intesi, facite judicium et justitiam… e l'altro rispose:

– Pubblice felicitatis incrementum…

Erano parole del diploma guelfo dei Carbonari.

Pochi giorni prima si erano abboccati coi fratelli della setta, in un sito deserto, e avevano giurato nuovamente di liberare la patria dal giogo straniero, o di morire.

Nel viaggio di ritorno si arrestò a Brescia, Verona, Vicenza, Padova; fece una scappata a Rovigo e a Venezia, e in tutte queste provincie s'incontrava coi federati, faceva dei proseliti, formava nuovi centri carbonari, allargava le diramazioni nei principali villaggi, e stringeva i nodi d'un'ampia rete che doveva serrare nelle sue maglie l'aquila a due teste.

Poi rientrò tranquillamente nella casa paterna, solo e disarmato, ma profondamente convinto che presto o tardi ma di certo, l'Italia sarebbe unita, libera e indipendente.




II


Erano passati sei anni da quella prima dimora in Brianza, quando nel maggio 1820, il capitano Bonifazio ricomparve per la seconda volta davanti la casa del suo vecchio commilitone.

Non era ancora guarito della profonda ferita ricevuta dai grandi occhi di Maddalena, e stupiva che una così bella ragazza non si fosse ancora maritata. Ma in quella solitudine!.. egli pensava, è come un fiore delle Alpi che sboccia, profuma l'aria d'intorno, e muore senza che nessuno lo veda.

Le accoglienze furono cordialissime. Il colonnello e sua moglie lo abbracciarono come un fratello… Maddalena impallidì.

Bonifazio vide il pallore della fanciulla, sentì la mano di lei tremante nella sua, lesse ne' suoi grandi occhi un sentimento di tenera affezione, della quale non si era accorto al primo incontro.

E come poteva avvedersene se non osava guardarla? non era lei che doveva confessargli il suo amore! Era partito all'improvviso, ed era rimasto sei anni senza ritornare in Brianza; anzi aveva paura di ritornarvi, e non sarebbe tornato senza la politica.

La luce entrata per uno spiraglio non tardò a diffondersi. Venne a sapere che non mancarono alla fanciulla ottimi partiti, ma essa aveva respinto inesorabilmente ogni domanda di matrimonio. Si fece coraggio, incominciò a guardarla negli occhi: essa non evitava quegli sguardi, anzi vi corrispondeva con tale espressione che era il linguaggio dell'anima, un linguaggio eloquente per il cuore del capitano.

Egli aveva 34 anni, otto anni di vita militare lo avevano reso robusto, sei anni di vita rurale lo avevano ringiovanito. Ella ne aveva 25, era un frutto maturo, conservato perfettamente dall'aria pura dei campi. La sorte li riavvicinava, e tutto li spingeva ad amarsi, le affinità naturali e domestiche, la riconoscenza, le memorie e le abitudini della vita.

Le dichiarazioni furono franche, e soldatesche.

– Maddalena, le disse un giorno il capitano, l'immensa amicizia che sento per vostro padre, è superata dall'amore che ho per voi; se vi degnate di concedermi la vostra mano io sarò l'uomo più felice del mondo, – e così dicendo le sporse la destra.

Essa depose, senza esitazione, la sua mano in quella del capitano dicendogli:

– Per la vita!..

– Per la vita!.. egli soggiunse, stringendosi al petto quella mano, e vi depose un bacio rispettoso, come suggello della santa promessa.

Poi si presentò subito al colonnello, rigido, diritto, come quando andava a presentare il rapporto nella vita militare, e gli disse:

– Mio colonnello, sono innamorato!

– Per la cinquantesima volta! gli rispose l'amico.

– Per la prima volta! mio colonnello.

Il vecchio soldato sorpreso da uno scoppio improvviso di risa, fece un'aspirazione così rapida, che il fumo della pipa gli entrò in gola, lo fece tossire, sputare, e bestemmiare con tanta violenza, che pareva soffocarsi.

Quando tornò in calma, Bonifazio gli fece il solenne giuramento, che la sua asserzione era la pura verità. Era verissimo che aveva conosciuto molte donne, ma non ne aveva amata seriamente nessuna, o perchè nessuna aveva saputo meritarlo, o perchè le continue marcie forzate non gli lasciavano il tempo di dare l'importanza d'una passione ai suoi capricci passeggieri. Se n'era persuaso nel 1814, quando s'era innamorato seriamente per la prima volta, ma aveva amato in silenzio per sei anni consecutivi, e finalmente si era risolto di parlare…

– Ci hai messo del tempo!.. gli rispose il colonnello, hai perduto l'abitudine della furia francese, hai contratto il contagio della flemma tedesca…

– Non mi credevo degno della donna amata, non osavo alzare gli occhi fino a lei…

– E adesso li hai alzati?..

– E adesso domando la sua mano…

Il colonnello lo guardava fisso, e cominciava a comprendere.

Allora il capitano riprendendo la sua posa militare soggiunse:

– Ho l'onore di domandare al colonnello Odone Palanzo la mano di sua figlia Maddalena.

Il colonnello si gettò nelle braccia dell'amico, ridendo e piangendo, e gli mancava la parola per la commozione.

Si recarono insieme dalla buona madre che accolse la domanda con vera soddisfazione, e concertarono ogni cosa di comune accordo. E quando nei giorni successivi, e negli intimi colloqui colla fidanzata, essa confessò a Bonifazio che lo amava fino dal loro primo incontro, e lo aspettava rassegnata, colla speranza di rivederlo, risoluta di non volere che lui o nessuno, egli non sapeva darsi pace della sua dabbenaggine, e del tempo perduto.

E scrisse una lettera al maestro Zecchini che cominciava con le seguenti parole: «Faccio adesione piena ed intiera alla vostra prediletta teoria; sì, l'uomo è un asino! e me ne sono accorto in questi giorni, studiando la verità sopra me stesso.» Non si spiegava di più, passava ad altri argomenti, raccomandava le sue coltivazioni, ma le ultime parole del foglio confondevano il maestro, il quale restava sbalordito da questa conclusione: «ho il piacere di annunziarvi che prendo moglie.»

Il povero Zecchini non sapeva che cosa pensare.

Intanto l'amore del capitano Bonifazio andava di pari passo colla congiura. Al giorno godevano il sole di maggio sotto la pergola dei gelsomini, e vagavano per le colline, soffermandosi ad ammirare i lontani orizzonti, e il sorriso di primavera sulle rive dei laghi.

Alla sera il colonnello e il capitano uscivano insieme col pretesto d'una lunga passeggiata militare, e invece si recavano ai convegni notturni dei Carbonari, tenuti in luogo sicuro.

Era stato scelto a tale scopo un casolare incendiato nella campagna deserta, vicino a un bosco. I contadini rimasti senza tetto si erano rifuggiati altrove. Dietro alcune macchie di alberi i giovani apprendenti stavano in sentinella per dare il segnale convenuto in caso di bisogno, ai capi che si raccoglievano fra le rovine, al lume delle stelle. Ciascuno portava un nome romano, Sallustio, Orazio, Livio, Nerone, e molti di loro non si conoscevano che con questo nome. La parola di passo era: libertà vendicata. Colà il deputato veneto dei cavalieri guelfi combinava gli accordi coi federali lombardi, i quali corrispondevano coi capi dirigenti degli Adelfi del Piemonte. La Costituzione latina era il loro statuto, che conteneva il piano fissato per effettuare una rivolta armata. Fra gli ufficiali del disperso esercito italiano i Carbonari si contavano a migliaia. Il colonnello si teneva in corrispondenza segreta con suo fratello Aristide, che annodava le relazioni della setta di Lombardia colle società segrete di Torino.

La rivoluzione piemontese doveva scoppiare nei primi mesi del 1821, d'accordo coi Napoletani e i Lombardi.

Esauriti gli argomenti da trattarsi i congiurati fissavano la notte pel successivo ritrovo, poi uscivano dal nascondiglio alla spicciolata.

Il colonnello e il capitano ritornavano a casa fumando la pipa, parlando delle glorie passate, delle presenti vergogne, e dell'immensa sventura di vivere senza patria.

All'alba il capitano era alla finestra a respirare l'aria mattutina e le soavi esalazioni dei campi. Poi passava delle ore deliziose conversando colla promessa sposa, e ammirando la perizia che dimostrava nel disimpegno delle faccende domestiche.

L'amore e l'amicizia gli avrebbero fatto dimenticare la sua casa, e i suoi affari, se la politica non lo avesse costretto alla partenza, per apportare nel Veneto le decisioni prese dalle assemblee dei Carbonari, e provvedere con ogni sollecitudine ai prossimi avvenimenti.

Furono presto d'accordo nel fissare il tempo delle nozze. Le donne chiesero sei mesi per apparecchiare il corredo, gli uomini assentirono volontieri, colla tacita speranza che fra sei mesi l'Italia sarebbe libera dal dominio straniero, e che per allora, la nuova famiglia italiana avrebbe una patria.

La separazione fu dolorosa, abbracci e lagrime da ambe le parti, ma l'addio fu raddolcito dalla promessa d'una assidua corrispondenza epistolare, e dal ritorno nel novembre per celebrare le nozze.

Il viaggiatore non distolse gli occhi da quella casa diletta che all'ultima svolta lontana della strada, e vide ancora un fazzoletto bianco che sventolava fra quel gruppo d'alberi, dove aveva lasciato il suo cuore. Rientrò all'albergo di Brianza raccontando le meraviglie vedute nelle sue gite agricole, nominò tutti i paesi, meno quello dove aveva soggiornato, e partì per Milano carico di sementi. Di là colle solite fermatine perfettamente dissimulate, e colle relative conferenze segrete coi principali centri carbonari, si diresse a piccole giornate verso il Veneto.

Il maestro Zecchini e il fedele Mosè lo aspettavano con curiosa ansietà. Forse ritornava colla sposa! Era vero che non aveva dato alcuna disposizione in proposito, ma la casa era in ordine, e il parco era degno di ricevere qualunque signora. Mosè non voleva credere a questo precipizio, ma il maestro Zecchini non si sorprendeva di niente, anzi si aspettava ogni bizzarria da quell'originale, che gli aveva annunziato il suo matrimonio con tanto laconismo.

Finalmente giunse una lettera che fissava il giorno preciso del ritorno, e siccome il capitano era esatto come un cronometro, così il domestico e l'amico stavano ad aspettarlo sulla porta quando si udirono i sonagli della vettura che riconduceva il pellegrino.

Le disposizioni da prendersi per il prossimo matrimonio furono nuovo argomento di conversazioni e di diverbi fra il maestro e il capitano. Zecchini metteva fuori degli utili consigli per gli arredi, Bonifazio lo canzonava; Mosè dava sempre ragione al padrone, il quale dopo di aver ripetutamente disapprovato i piani dell'amico finiva qualche volta coll'adottare quei consigli che aveva respinti con ironia e indignazione. Ma si conchiudeva sempre la pace al tavolo del terziglio, ovvero si cambiava argomento di discussione raccogliendo le diatribe sulle carte da giuoco.




III


Durante l'estate venne apparecchiata la stanza nuziale, e furono acquistati tutti gli arredi necessari per abbellire la casa, e renderla degna di accogliere una donna gentile. La corrispondenza correva regolare fra gli sposi, e il capitano seguitava ad occuparsi di agricoltura, e faceva delle gite a Venezia e altrove, per completare i mobili della casa, mascherando con studiate apparenze le trame della congiura, e i ritrovi dei Carbonari.

Non riceveva mai nessuno, e solamente in una sera di settembre, sull'imbrunire, un signore smilzo, in occhiali, si presentò al cancello della villa, e chiese del capitano. Gli fu aperto da Mosè che lo introdusse nel salotto, e corse a chiamare il padrone.

Il capitano parve sorpreso assai di quella visita. Rimasero un'ora in conferenza; poi, fatto attaccare il cavallo, partirono insieme col legno di casa. Il padrone prendendo in mano le redini e la sferza, avvisò Mosè che non sarebbe tornato che dopo la mezzanotte, e dicesse al maestro che era andato a ricondurre un amico, venuto a fargli visita.

Un mese dopo questo fatto, insignificante in apparenza, successero dei casi che impressionarono fortemente il Bonifazio. Il maestro capitava ogni sera colle novità del giorno: arresti di persone stimate ed illustri di Milano, e in altre parti di Lombardia, e del Polesine.

Si parlava dovunque di società segrete scoperte, di Carbonari fuggiti o messi in prigione. Il capitano crollava le spalle, tentennava la testa, brontolava, voleva mostrarsi indifferente, ma poi domandava le più minute informazioni. Quando suonavano il campanello stava sopra pensiero fino che non sapeva chi fosse; sbagliava le carte e ne dava la causa al maestro, il quale sbalordito dall'accusa fissava tanto d'occhi in faccia del capitano, che lo rimbrottava di guardarlo in quel modo, con quello sguardo da inquisitore. E si bisticciavano più del solito.

Il giorno dopo, il capitano si chiudeva in camera, lo si sentiva aprire degli armadi, scartabellare delle carte, nelle ore che era solito di stare in giardino.

Quella sera, il maestro che veniva come il solito a fare la partita, fiutava l'aria della stanza, guardando intorno con inquietudine.

– Che cosa avete, che torcete il naso? gli chiedeva il capitano.

– Sento un odore di bruciaticcio, gli rispondeva, e guardo se c'è qualche cosa che prenda fuoco.

– Sono delle vostre solite idee!.. io non sento niente… non c'è niente.

– Eppure c'è qualche cosa di bruciato! insisteva l'altro, andiamo a vedere.

Il capitano s'impazientava, montava in collera, lo accusava d'essere un visionario, lo sgridava e lo consigliava a desistere dalle sue inquietudini, e l'obbligava a sedere in quiete, colle carte in mano.

Ma la partita era turbata dalle insistenti aspirazioni nasali del maestro, che continuava a dimenarsi sulla seggiola, e a mostrarsi pauroso del fuoco. Il capitano fremente lo tacciava d'uomo ostinato, fino alla cocciutaggine.

Ma quando il maestro partì fece spalancare tutte le finestre e le porte, affinchè uscisse ogni odore sospetto, e volle che Mosè tirasse fuori dalla stufa delle carte bruciate incompletamente, e che le riducesse in cenere, ma persisteva nel sostenere che non ci poteva essere nessun odore da fumo.

– Ma quel benedetto uomo, egli ripeteva, vuol mettere il suo naso da per tutto!

Mosè, come al solito, dava ragione al padrone, e vuotando la stufa delle carte bruciate, continuava a dire che non c'era il minimo odore di fumo.

Poi il capitano diede degli ordini precisi e segretissimi, per delle possibili contingenze. «Che il cancello del giardino sia sempre chiuso a chiave, anche di giorno, in modo che se qualche persona vi si presentasse per entrare, sia costretta ad aspettare che si vada a prender la chiave, da lui stesso tenuta in saccoccia. La porticina in fondo del brolo, che mette ai campi, sia sempre aperta di giorno e di notte.»

Il matrimonio che doveva aver luogo in novembre fu rimandato di comune accordo a tempo più opportuno.

C'era pericolo imminente da ogni parte. Furono prese infinite precauzioni per non entrare nelle trappole tese dai nemici, ma non tutti i sorci hanno gli accorgimenti necessari per evitare le insidie, e burlarsi degli insidiosi; molti furono accalappiati, ed era indispensabile di non muoversi, di non dar segno di vita, per non eccitare sospetti.

Il maestro che ignorava la dilazione del matrimonio aveva apparecchiato il suo bravo sonetto per le nozze dell'amico, nel quale non mancò di rammentare le prodezze guerriere dello sposo, e la bellezza della sposa (che non aveva mai veduta) per tirar fuori il solito paragone di Venere e Marte. Gli pareva di aver fatto un lavoretto abbastanza degno dell'occasione, e portò il manoscritto alla I. R. Censura per ottenere il permesso di stamparlo.

Non lo avesse mai fatto! il censore lo fece chiamare in ufficio, gli diede una solenne lavata di testa, e gli osservò:

– Anche senza badare all'indole sovversiva di tutto il sonetto non potrei lasciar passare alcune parole proibite, come Italia, patria, libertà; e poi che diavolo si è messo in mente di parlare di Buonaparte e di chiamare l'Italia una nazione? dove vede la nazione?.. mi dica…

Il maestro tutto confuso gli rispose:

– Sono stato trascinato dalle rime: Marte Buonaparte; Napoleone-Nazione. Sapeva di far piacere allo sposo che fu soldato di Napoleone.

– Peggio che peggio! Ella ignora dunque che Napoleone Buonaparte fu nemico dell'Austria?..

– Fu genero del nostro venerato Sovrano, di Sua Maestà l'Imperatore!..

– Senta, le dò un consiglio da padre, lasci la politica agli uomini di Stato… e a chi ha voglia di andare in prigione; e se vuol fare il poeta, quantunque io non ne veda la necessità, lasci stare i cavalli di battaglia, e salga al Parnaso col modesto ronzino che serve al suo pievano per andare alla congrega, e cavalchi tranquillamente nella pacifica Arcadia, che non ha mai fatto male a nessuno.

E così dicendo lacerò il sonetto incriminato, lo gettò nel cesto, e congedò il poeta con uno sguardo severo accompagnato da queste poche parole:

– Si tenga per avvertito!

Il maestro Zecchini uscì dall'ufficio di Censura annichilato.

Gli tremavano le gambe, si riteneva fortemente compromesso, vedeva già il commissario di polizia e gli sbirri che picchiavano alla sua porta, che lo perquisivano, lo arrestavano, lo conducevano in prigione.

Corse difilato dal capitano a confessargli la sua imprudenza, e a domandargli consiglio.

– Che cosa vi è passato per la mente? gli domandò il Bonifazio, in collera. Ignorate dunque che senza patria non si ha il diritto nè di scrivere, nè di pensare? Avete commesso una vigliaccheria degnandovi di sottomettere i vostri concetti alla censura, avete commesso una asinaggine gettandovi volontariamente in bocca al lupo. Non sapete che a Milano hanno soppresso il Conciliatore? che hanno chiuso le scuole di mutuo insegnamento?.. Vi siete cacciato in un vespaio… potreste essere arrestato.

– Ma io non ho fatto niente!..

– Appunto per questo siete in pericolo. Tutti quelli che furono arrestati in questi giorni non hanno fatto niente… qualche leggerezza, qualche imprudenza, qualche fanciullaggine come la vostra; ma saranno condannati, perchè coloro che agiscono seriamente, sanno farlo colle dovute precauzioni, e l'Austria ne prenderà pochi. I generali muoiono raramente in battaglia, sono i semplici gregari che pagano per tutti. Ma pazienza che voi andiate in prigione, il peggio si è che compromettete gli amici con la pazzia dei sonetti, che non servono a niente. Non siete uomo da esporvi alle conseguenze d'un atto coraggioso, la vostra tempra frolla non vi permette di sfidare le crudeltà del dispotismo. Guai se vi manca ogni mattina il vostro caffè nero, e i calzerotti di lana l'inverno, il pancotto la sera, guai se vi togliessero l'aria e il sole dei campi, e vi chiudessero in un camerotto, colle balze agli stinchi per finire i giorni sul tavolaccio del carcere duro!..

Il povero Zecchini si coricò colla febbre, e battendo i denti andava borbottando la sua massima prediletta, come una giaculatoria in articulo mortis, e questa volta intendeva parlare di sè stesso, quando ripeteva con compunzione: – l'uomo è un asino, un asino, un asino!..

Gli volle molto tempo prima di ricuperare una discreta salute; e quando leggeva sulla Gazzetta di Venezia dei nuovi arresti, sentiva un brivido fra carne e pelle, gli pareva di vedersi in mezzo ai Carbonari, e se li figurava tutti neri, le vesti, il viso, e le mani, e faceva il più solenne giuramento di mai più esporsi a simili pericoli, e per evitare ogni occasione di compromettersi, non voleva più vedere nessuno, e non frequentava che una sola casa, quella del suo vicino, il capitano Bonifazio.

Intanto i processi di Milano e di Venezia continuavano le inchieste, e sempre nuove vittime cadevano in mano dell'Austria.

Il capitano Bonifazio e il colonnello Palanzo erano costretti di protrarre continuamente il matrimonio nell'interesse di Maddalena, perchè nè un fidanzato nè un padre potevano condannare una giovane sposa a vincolarsi per la vita con un uomo minacciato dalla prigione o dall'esilio. E attendevano silenziosi e cauti che fosse cessato il pericolo, cercando di giustificare il ritardo con facili pretesti, ammessi facilmente da chi non vedeva altri motivi.

Ma tutto non isfuggiva alla perspicace penetrazione delle donne; alcune parole colte a volo, alcuni fatti sospetti che coincidevano coi dolorosi avvenimenti del giorno le illuminavano abbastanza, da renderle rassegnate al destino, come ad una necessità ineluttabile.

Il più difficile per Bonifazio consisteva nel giustificare il ritardo delle sue nozze presso il maestro Zecchini, il quale s'interessava vivamente alla sorte dell'amico, trovava opportunissimo il matrimonio, si riprometteva dal medesimo una conversazione più geniale, e non poteva credere nè rassegnarsi ai pretesti che gli venivano presentati dal capitano come i veri motivi della prolungata dilazione.

E questo era nuovo argomento di dissenzione fra i due vicini, per le osservazioni noiose da una parte, e le risposte bisbetiche dall'altra.

Così passavano i mesi dolorosi pei fidanzati, pieni di angoscie per le famiglie, con maneggi segreti dei congiurati per stornare le minacce, e per disperdere tutte le prove compromettenti per coloro che erano liberi.

Tutto il 1821 trascorse nella caccia accanita degli inquisitori in cerca di congiurati, e nella somma destrezza dei capi della setta per sottrarre nuove vittime alla vendetta degli usurpatori, e alla insidiosa procedura di giudici arrabbiati per non poter cogliere nei loro tranelli che un numero assai limitato di Carbonari.

In febbraio 1822 il lungo processo degli arrestati era finalmente finito, e interessava ai capi di assistere alla lettura delle sentenze delle povere vittime, che si faceva sulla pubblica piazza.

A tale scopo il capitano Bonifazio partì per Venezia col suo domestico, potendo aver bisogno d'un uomo fidato, in quella dolorosa circostanza.

Era il 22 febbraio, una bella giornata serena, il sole rallegrava la laguna e illuminava le case e le botteghe in assetto di festa.

Mosè che ignorava il motivo del viaggio del padrone, essendo libero fino a mezzogiorno, chè a quell'ora doveva trovarsi in piazza, girovagò tutta la mattina intorno a Rialto.

Passeggiando per la pescheria si fermava davanti i banchi ad ammirare i pesci di tutte le dimensioni e di tutti i colori, dal roseo al verde, dal bianco al bruno, tutti brillanti di squamme metalliche; e passando per l'erberia stava colla bocca aperta davanti le botteghe rigurgitanti di commestibili d'ogni genere, ornati di verdi fronde, e contemplava estatico i cestoni di frutta e di erbaggi, le piramidi di aranci e di limoni, le valanghe di bietole e patate, i mucchi di polli e di selvaggina, i monti di carubbe, i barili d'uva calabrese e di fichi secchi.

I mercanti vantavano ad alta voce le loro merci ad eccessivo buon mercato, e invitavano i passanti a non lasciarsi sfuggire la bella occasione; chi cantava e chi urlava i nomi degli oggetti messi in vendita, chi alzava in aria i campioni, chi metteva il cesto sotto il naso dei passanti. E una folla allegra e ciarlona di curiosi e di acquirenti andava e veniva per la via fra quella babilonia di gente e di prodotti di tutti i colori e di tutti gli odori. Quando fu vicina l'ora fissata dal padrone, Mosè dovette allontanarsi da quel bizzarro e rumoroso spettacolo, e si avviò verso la piazza.

Percorrendo le Mercerie si trovò fra gente affatto diversa, che camminava in fretta, colla testa bassa, verso un altro spettacolo.

Sotto l'arco dell'orologio si stentava a passare, tutti andavano verso la piazzetta dove sorgeva la berlina, un palco alto, con una colonna tronca nel centro intorno alla quale girava una panca. Una folla immensa si stipava al sole in mezzo ai magnifici edifizi, davanti lo specchio della laguna. Tutta la guarnigione austriaca era sotto le armi, non si vedevano che teste e baionette.

Comparvero fra gli sbirri, alcuni Italiani ammanettati, salirono sul palco, e rivolti verso il palazzo dei Dogi si udirono condannare a morte, e al carcere duro per aver osato sognare l'indipendenza della patria dallo straniero; e questa sentenza veniva letta da un curiale austriaco da quel palazzo, in quella piazza eretti da un popolo libero, ove tutto attestava quattordici secoli di indipendenza, contro un dominio usurpato da circa nove anni senza l'assenso dei veri padroni.

Il terrore dominava quella folla, che assisteva in silenzio all'orribile spettacolo. Alle parole «condannati a morte» un fremito di sorpresa, di pietà, di sdegno sorse dalla folla, ma subito dopo ritornò il silenzio della paura.

Mosè non potendo trovare il padrone in quella calca ritornò all'albergo, e quando vide il capitano gli andò incontro con aria misteriosa e gli domandò:

– Ha veduto sulla berlina quel signore magrolino cogli occhiali che è venuto a farle visita una sera d'autunno, or son quasi due anni?!

– Non dirlo nemmeno all'aria, se un giorno non vuoi vedermi al suo posto. Tutti quei condannati sono veri galantuomini, vittime d'una imprudenza. Volevano fare il bene, ma non sapevano farlo colla finezza indispensabile nella lotta del diritto inerme contro la forza armata.

Mosè restò sbalordito, e pensava agli ordini ricevuti dal padrone poco dopo la visita di quel signore: il cancello del parco sempre chiuso, il cancello del brolo sempre aperto! e cominciava a capire qualche cosa, ma il capitano poteva essere sicuro che il segreto delicato starebbe sepolto per sempre in fondo al cuore dell'onesto e fedele domestico.

Abortite le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte e terminato l'infame processo dei Carbonari colle barbare condanne, il paese, seminato di spie, scoraggiato per le prove fallite, parve immerso in un silenzio di morte. I vecchi patriotti rimasero prostrati, scoraggiati di tentare nuove imprese; i giovani si gettarono negli stravizi, nella vita molle effeminata, che il governo straniero incoraggiava in molte maniere per facilitarsi il dominio d'uomini fiacchi e di anime corrotte.

Quella fu l'epoca fortunata dei teatri, delle ballerine e delle mime, dei veglioni mascherati, dei carnevali rumorosi, degli intrighi galanti, della vita allegra e spensierata.

Duravano tuttavia le proteste contro il dominio straniero, ma si limitavano a maledire o beffare il governo, eludere le leggi, burlarsi della dabbenaggine di qualche Tedesco, degli spropositi italiani dei Croati, a canzonare la ingenua semplicità d'un soldato, a guardare in aria sprezzante gli ufficiali dell'esercito austriaco.

Poi sorsero nuove sétte, ma coi capi cospiratori viventi all'estero, pieni d'illusioni sulle condizioni locali del paese, con forze immaginarie, e con tentativi arrischiati che esponevano le vite dei cittadini, moltiplicando le piccole sollevazioni impotenti, e producendo nuove vittime.

Che cosa potevano fare i prodi soldati degli eserciti napoleonici lasciati in disparte? i patriotti intelligenti rimasti senza patria? Crearsi una famiglia, educarla coi sani principii della giustizia, vivere ritirati, apparecchiare i figli per l'avvenire, attendere e sperare.

E così fece il capitano Bonifazio.

Andò in Brianza a sposare la sua Maddalena. Le nozze ebbero luogo in primavera del 1822, con semplicità patriarcale, senza feste, senza chiassi, e senza sonetti, come conveniva in tempi tristi, dopo dolorosi avvenimenti.

La sposa che aveva sempre vissuto in campagna si trovò benissimo nella sua nuova dimora nei dintorni di Treviso. La casa era più grande, il possesso più esteso e più ricco; l'aspetto della pianura era meno pittoresco delle colline di Brianza, ma l'orizzonte più ampio ed aperto, la campagna bagnata da acque correnti, e l'aria pura ed elastica che viene dalle Alpi e passa per l'immenso letto del Piave apporta la salute, esilara lo spirito, ed eccita l'appetito.

Il capitano riprese i suoi lavori agricoli e di giardinaggio, la Maddalena assistita da Mosè e da una fantesca, ordinò la casa; e così ebbe origine la nuova famiglia Bonifazio, della quale abbiamo raccolto la semplice istoria in queste povere pagine.




IV


Talvolta i filosofi hanno il torto di ritenere troppo assolute le loro teorie, se si contentassero di limitarle al circolo ristretto della loro visualità, avrebbero perfettamente ragione.

Per esempio: se il maestro Zecchini avesse proclamato, che l'uomo è un asino, senza uscire dalla sua scuola, nessuna autorità competente avrebbe trovato un argomento valido per confutarlo: e forse nemmeno lo stesso maestro avrebbe presentata un'eccezione.

E infatti, studiando sè stesso, egli aveva sovente l'occasione di confermarsi nel suo principio.

Appena ritornato dalla Brianza, il capitano Bonifazio invitò a pranzo il maestro Zecchini per presentarlo alla sposa, come amico e vicino di casa. Il maestro rimase colpito dalla bellezza lombarda della signora Maddalena, e per esprimere la sua ammirazione in modo che gli pareva molto appropriato, cominciò a raccontare a tutti i suoi amici e conoscenti che la sposa del capitano aveva due occhi da carbonara. E questa fu vera imprudenza, in un tempo, nel quale gli stessi mercanti di carbone non avrebbero osato chiamarsi col loro nome.

Guai se il capitano lo avesse udito! ma il maestro contemplando quegli occhi bruciava in silenzio, nascondeva le brace sotto la cenere, e pensando al carattere vivace dell'amico celibe, aveva doppia paura dell'amico ammogliato quantunque costui avesse dei pensieri molto più gravi di quello di sospettare del maestro Zecchini.

Malgrado tutte le precauzioni passibili, il primo tempo di quel matrimonio non poteva essere tranquillo e sereno, come sogliono essere tutte le lune di miele. A certe suonate di campanello il capitano lasciava trasparire un'involontaria apprensione, come al tempo degli arresti, a certi rumori notturni egli si alzava dal letto e andava a spiare attraverso le gelosie. La giovane sposa indovinava la causa di quelle inquietudini, e ne divideva le ansietà.

Tale condizione di cose rendeva il capitano più bisbetico del solito, e avendo ripreso le partite serali delle carte, ad ogni errore commesso il maestro andava soggetto a dei rabuffi che lo intimidivano; la buona signora si studiava di consolarlo dei modi bruschi del marito con indulgenti sorrisi, e sguardi incoraggianti, e l'asino bruciava.

Dopo qualche tempo la partita di terziglio fu abbandonata pel tresette. Il maestro pregato dal capitano aveva trovato un quarto giuocatore; certo Giacomo Pigna, fittaiuolo del paese, un po' rozzo, ma galantuomo, laborioso ed allegro, e gran bevitore. Egli capitava ogni sera fedelmente, anche attraverso la neve e le bufere, per fare la solita partita. Gettava il suo tabarro e il cappellaccio a cencio sopra una seggiola dell'anticamera, ed entrava intrepidamente nel salotto coi capelli sulla fronte, l'occhio brillante, il naso violetto, i zigomi accesi, un buon sorriso sulla bocca, il ventre proeminente, e gli stivali sopra i calzoni. Il capitano gli dava la mano, che egli non osava stringere che debolmente, per riguardosa modestia.

Prima di giuocare una carta si bagnava il pollice in bocca, e alla fine d'ogni partita tirava fuori la scatola di tabacco colla Madonna sul coperchio, ne offriva agli uomini, diceva le sue barzellette alla signora, e tirava su pel naso la sua presa, con una profonda aspirazione.

Il parco diventava sempre più rigoglioso, abbellito di nuove piantagioni di alberi e di arbusti ornamentali, le macchie si arricchivano di fiori elegantissimi, l'orto aveva degli erbaggi stupendi, e il cortile sorvegliato dalla padrona di casa era popolato di numerosi pollami, d'anitre, tacchini e colombi.

Un anno dopo le nozze un fortunato avvenimento allietò la famiglia, i parenti e gli amici, la nascita d'un figlio maschio, al quale venne imposto il nome di Gervasio. Due anni dopo ne nacque un altro, che fu chiamato Stefano; e così la famiglia cresceva, e viveva abbastanza felice, una vita tranquilla e regolare, come un paese senza storia.

I bambini vennero allevati all'aria aperta, con una semplice vesticciuola, un cappello di paglia, e gli zoccoletti di legno: giuocavano tutto il giorno sotto i boschetti e sull'erba, e correvano incontro alla madre, colla bocca aperta, come i pulcini.

Ebbero i primi insegnamenti dal maestro Zecchini sempre innamorato platonicamente della loro mamma, ed essa educava i loro cuori all'amore di Dio, dei genitori e del prossimo, con elevati sentimenti. Il babbo li voleva robusti e patriotti e li indirizzava per questa via. Divenuti grandicelli frequentarono le scuole di Treviso, modificate dall'insegnamento domestico. Il governo austriaco per assicurarsi dei soggetti rispettosi faceva leggere e imparare a memoria nelle scuole il libriccino intitolato I doveri dei sudditi.

Il capitano faceva osservare ai suoi figli che la stessa natura ci ispira l'amore della patria, che la patria non può essere felice senza la libertà e la giustizia, e se non era giusto che un cittadino comandasse in casa altrui, così non poteva esser giusto che un popolo s'imponesse ad un'altra nazione. Ristabilita la vera base del diritto, dimostrava che quei pretesi doveri dei sudditinon erano altro che gli obblighi degli schiavi, ed indicava la prudenza necessaria per condursi alla scuola, eccitandoli a farsi uomini per vendicare la patria.

E invece di limitare le loro conoscenze alle nozioni di storia imposte dal programma austriaco, spiegava ai suoi figli la storia universale, ove l'Austria faceva una figura secondaria e insignificante, e talvolta odiosa; poi li voleva istrutti minutamente sulla storia d'Italia, dalla più remota antichità fino ai nostri giorni, perchè imparassero a conoscere i grandi avvenimenti, i fatti gloriosi che onorano il nome della patria davanti al mondo, rilevando in pari tempo tutti gli errori, tutti i torti, i vizii, i delitti che conducono i popoli alla schiavitù. E si fermava con somma compiacenza a certi nomi, e spiegava le azioni generose che li avevano resi immortali.

Li addestrava a tutti gli esercizii del corpo, alla scherma, al tiro a segno, alla ginnastica.

– Verrà il giorno che potrete utilizzare tutte le vostre conoscenze e tutte le vostre forze, – egli diceva loro; – impiegatele sempre a favore della giustizia e della libertà, a vantaggio dei buoni contro i malvagi, – e rivolto a sua moglie soggiungeva: – Questa è la migliore congiura che possa riescire a liberarci dal governo straniero.

E scriveva ai parenti di Brianza i progressi dell'educazione dei figli, i loro costumi intemerati, e gli animi audaci, ma onesti. È facile immaginare come egli spiegasse la storia di Napoleone, davanti i ritratti e i quadri di casa. Erano racconti che facevano venire la pelle d'oca; ma a poco a poco lo spirito bellicoso li metteva in voglia di menar le mani, sentivano vergogna di vedersi dominati dagli stranieri, e ascoltavano a bocca aperta le geste di quei generali che rotta la spada prendevano in mano un fucile e trascinavano i soldati contro la mitraglia, mettevano in fuga il nemico colla baionetta, e restavano illesi in mezzo alla mischia.

Gervasio, secondando il gusto dominante del padre si era dato con passione all'agricoltura e al giardinaggio. Coltivava dei bei fiori, ne faceva dei mazzi magnifici, e li presentava a sua madre nei giorni delle feste natalizie ed onomastiche. Piantava degli alberi nelle occasioni solenni, come modesti monumenti della vita domestica.

Stefano amava lo studio, leggeva molto, annotando le cose che gli parevano degne d'essere rilette.

Il maestro Zecchini li amava come figliuoli, ringiovaniva giuocando con loro; talvolta lo canzonavano per la sua teoria, ma con maniere scherzose che non potevano offenderlo.

– Aspettate, e mi darete ragione col tempo, – egli diceva; – siete giovani senza esperienza, e giudicate le bestie dal pelo. È un errore! bisogna che la bestia sia morta per pronunziare un giudizio esatto delle sue qualità. Ci sono degli animali di tutti i colori, ma senza la pelle tutte le bestie sono eguali.

Giacomo Pigna aveva un figlio, Giuseppe, col quale i ragazzi andavano a caccia, ora in montagna ed ora in palude, e così si esercitavano alle marcie e al tiro, con grande soddisfazione del capitano.

Di tratto in tratto si facevano degli inviti alla villa, per mangiare cogli amici il lepre o la selvaggina. In quelle occasioni il vecchio Pigna alzava il gomito fuor di misura, e quando era brillo ne diceva delle grosse, che facevano ridere la brigata. Allora il maestro guardava gli amici strizzando un occhio, per dimostrare che l'occasione era favorevole all'applicazione della sua teoria.

Questa vita semplice e laboriosa, rallegrata da festicciuole di famiglia, durò parecchi anni, senza che nessun avvenimento importante venisse a turbarla. Le aspirazioni liberali crescevano nel silenzio, lo spirito nazionale era coltivato dalle letture di buoni libri, ma lo si teneva nascosto nell'intimità, come un'arma proibita. Il bisogno d'indipendenza era penetrato anche nel popolo, e le condizioni d'Europa lo favorivano. Nel giorno memorabile 22 marzo 1848, fu scosso il giogo per la prima volta, con unanime slancio, nella Lombardia e nella Venezia.

L'insurrezione di Milano fu irresistibile, gli Austriaci dovettero ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero; il resto del paese fu libero per quella serie di fatti complessi che fecero cadere rapidamente il dominio austriaco, con poco spargimento di sangue.

A Venezia pochi cittadini audaci, secondati dalla popolazione, ottennero il medesimo risultato. Pareva una corrente elettrica che gettasse a terra il governo sbalordito. Ma esso raccolse l'esercito e si apparecchiò alla rivincita; mentre la nazione esaltata dalla facile vittoria, priva d'esperienza e di senno politico si abbandonava alla gioia del trionfo, e non pensava ai pericoli imminenti. Sorsero dovunque i governi provvisori, incominciarono le pacifiche dimostrazioni, i proclami ampollosi, seguiti da tutte le esitazioni della inesperienza.

Il capitano Bonifazio era soddisfatto della caduta del governo straniero, ma desolato delle declamazioni che mantenevano il paese nelle più pericolose illusioni.

– Armi, disciplina ed unità di comando ci vogliono, egli esclamava, non vane ciarle, e mal fondate speranze. Gli Austriaci si concentrano per organizzarsi, attenderanno dei rinforzi da Vienna, e un giorno usciranno dalle fortezze, e riprenderanno il terreno perduto. Bisogna circondarli, combatterli e vincerli. Bisogna abbandonare le questioni accademiche sulla forma di governo più opportuna all'Italia, mentre il paese è ancora occupato da un esercito agguerrito di stranieri tenaci alla preda. Bisogna ripudiare la rettorica, è inutile scrivere degli indirizzi umanitari ai fratelli Ungheresi, ai fratelli Boemi, ai fratelli Croati, i quali non domanderebbero di meglio che tornarsene a casa in santa pace, ma che la mano ferrea dell'Austria saprà conservare sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d'un popolo disarmato.

Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell'entusiasmo dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti, modesto coi timidi, audace cogli esaltati, gridava cogli urloni, declamava coi barbassori, e abbondava nel senso di tutti per vivere d'accordo con ciascheduno.

Il capitano Bonifazio si recò a Treviso coi figli per prendere le armi contro il nemico.

Trovò il governo provvisorio composto di tredici persone (cattivo numero!). Mancava il denaro, quantunque ci fossero due ministri di contabilitàe finanze; mancavano le armi e i soldati, ma c'erano due incaricati alla milizia e un ministro di diplomazia e guerra, un abate all'istruzione pubblica, un canonico al culto, un avvocato alla consulta, due ingegneri alle pubbliche costruzioni, un avvocato all'amministrazione comunale, un altro alla Polizia, e l'avvocato Presidente del governo, per mettere in moto questa gran macchina provinciale, e governare un popolo che non contava novantamila abitanti.

E pubblicavano, dice uno storico contemporaneo, «annunzi, disposizioni, decreti, proclami, consigli a tenore delle circostanze, mostrandosi però sempre sicuri nel buon esito dell'impresa.» (Semenzi).

La città era in festa, le case pavesate, le contrade illuminate, l'entusiasmo dei cittadini si manifestava in mille forme diverse. E così avvenne in ogni città e borgata del Lombardo-Veneto liberato dagli stranieri. Ma le aberrazioni della gioia furono brevi, sufficienti però a dimostrare all'Europa l'odio degli Italiani per il dominio straniero.

Provenienti da varie regioni d'Italia entravano in città le più bizzarre milizie, in costumi pittoreschi: elmi romani e medioevali, pennacchi napoleonici, durlindane dell'Orlando furioso, fiocchi, galloni, giacche di tutte le parti del mondo, cappelli calabresi, romagnoli, trasteverini, napolitani e siciliani.

Il capitano Bonifazio fu subito nominato istruttore e organizzatore della milizia, i suoi figli si arruolarono nei volontari, i quali ignoravano ancora il mestiere del soldato, quando furono mandati ad affrontare i primi scontri dell'esercito austriaco che scendeva dal Friuli, preceduto dei soliti Croati.

Giovani studenti trasformati repentinamente in artiglieri, operai divenuti fantaccini in pochi giorni, resistettero intrepidamente al primo fuoco, si batterono con coraggio, e sparsero il loro sangue per la libertà.

I Tedeschi bombardarono Treviso, che dopo la coraggiosa resistenza ottenne una delle capitolazioni più onorevoli delle guerre di indipendenza. Quei giovani soldati uscirono dalla città cogli onori militari, conservando le armi e i bagagli, con due pezzi di cannone, regalati dal generale austriaco «in contrassegno della particolare sua stima per la buona condotta durante il combattimento, e perizia nel maneggio delle armi.» (Capitolo III della Capitolazione). «I sudditi austriaci arruolati nelle truppe italiane, saranno considerati come emigrati.»

Ed ecco che cominciava una nuova iliade di mali per gli Italiani, e la nazione tornava ad essere invasa ed oppressa dalle forze preponderanti degli invasori stranieri.

Mentre le milizie italiane uscivano dalla porta Santi quaranta (ora Cavour), gli Austriaci entravano dalla porta di San Tommaso (ora Mazzini).

Nella villa suburbana del capitano Bonifazio la povera Maddalena restava sola a piangere la partenza del marito e dei figli, che non aveva potuto abbracciare.

Il maestro Zecchini e Mosè cercavano invano di consolarla facendole credere che sarebbero presto ritornati, ma il suo cuore di donna la avvertiva che i suoi cari starebbero assenti lungamente, esposti a mille pericoli; e al suo dolore di moglie e di madre si aggiungeva quello di buona italiana, che vedeva la patria rioccupata dagli stranieri.

Quale solitudine, qual vuoto in quella casa, e in quel parco dopo la partenza de' suoi cari! Una parte della cavalleria austriaca aveva preso alloggio nelle case di campagna intorno la città, le scuderie erano piene dei cavalli nemici, e i soldati inquieti andavano e venivano con volti arcigni e truce aspetto.

Ecco il santuario domestico invaso dagli stranieri, che non hanno nulla di sacro nel paese conquistato. Si prendevano le frutta come fossero in casa propria, calpestavano le colture, legavano agli alberi i cavalli che coi denti rosicchiavano le corteccie.

Maddalena che conosceva la passione del marito e dei figli per quelle belle piante, allevate con tante cure, piangeva disperata per non poter arrestare quella devastazione.

Il maestro Zecchini trovò il modo di rendersi utile alla povera donna ed agli amici assenti, andando a parlare ad un colonnello che cercava un comodo alloggio in mezzo ai suoi soldati. Gli si presentò col cappello in mano, in attitudine riverente, e gli disse:

– Se Vostra Eccellenza desidera un magnifico alloggio non ha che comandarmi; io sono il maestro del villaggio, e non ho altro desiderio che quello di servirla bene.

Il colonnello volle vedere, lo seguì, e fu soddisfattissimo; e quando fu bene installato accolse con benevolenza un rispettoso reclamo che gli fu fatto dal maestro in favore degli alberi del giardino.

I soldati coi cavalli ricevettero l'ordine di sgombrare immediatamente, e di ritirarsi nelle adiacenze, con l'obbligo di mai più mettere i piedi nel parco, e una sentinella fu collocata in sito opportuno colla consegna di non lasciar passare alcuno, e di sorvegliare la proprietà.

Partito quell'ufficiale superiore ne venne un altro dello stesso grado, e così di seguito. La tradizione conservò l'abitudine dell'alloggio riservato, e così fu preservato dalla devastazione quel delizioso soggiorno.

Ma intanto i proprietari vagavano raminghi per le terre d'Italia, invase per ogni parte da eserciti nemici.

Milano ricadeva in mano dell'Austria, e tutto il sangue sparso dagli Italiani in quei mesi di lotta e di ansietà non valse a liberarli dalla invasione.

La sola Venezia resisteva eroicamente, e i Bonifazio si recarono colà, per contribuire alla difesa.

Le vicende dell'assedio di Venezia sono forse la più bella pagina nella storia della nostra emancipazione.

Questa gloriosa città, tradita ed oppressa, che si ridesta alla libertà, dopo l'umiliazione del dominio straniero, che lacera e insanguinata si difende contro un nemico potente, combatte valorosamente, intrepida fra le rovine delle fortificazioni, che estenuata dalla fame, decimata dal coléra e dalle bombe, decide di resistere ad ogni costo, offerse un esempio di tale fermezza indomabile, che le guadagnò l'ammirazione del mondo.

I Bonifazio furono fra quelli eroi che presero parte alla sortita di Mestre, e che difesero Marghera fino che fu ridotta ad un mucchio di rovine. Ma il vecchio soldato di Napoleone fu il solo che potè ritirarsi incolume in città dopo di aver combattuto per tanti giorni in mezzo ad un diluvio di palle.

Gervasio rimasto fra gli ultimi sulla breccia fu ferito alla mano destra e Stefano ebbe una gamba traforata da una palla; e passarono gli ultimi tempi dell'assedio all'ambulanza.

Finito l'ultimo pane nero, e l'ultima carica di cannone, Venezia dovette cedere senza esser vinta.

Al momento della capitolazione i due fratelli erano ancora convalescenti. Tennero consiglio col padre, il quale pensando alla povera donna che non li aveva visti da più d'un anno, desiderava che volessero tornare entrambi a casa con lui. Per Stefano non ci poteva esser dubbio, poichè non era in caso di tenersi in piedi senza l'aiuto d'un bastone, ma Gervasio storpiato alla mano destra si rifiutò recisamente di ritornare a vivere sotto il governo austriaco, preferì di condannarsi all'esilio. Il padre non volle insistere, nella speranza d'un pronto risveglio della nazione e d'un ritorno alle armi.

La separazione fu dolorosa. Gervasio s'imbarcò in un bastimento francese, e il vecchio soldato, sostenendo sotto il braccio il più giovane dei suoi figli ferito, ritornò alla sua villa.

Povera Maddalena!.. quando li vide entrare pallidi e magri, col suo Stefano ferito, e senza Gervasio, fu costretta di sostenersi ad un albero per non cadere; poi fatto animo e ripreso fiato si gettò nelle braccia loro esclamando:

– Dove è Gervasio?..

– È partito… risposero, ma speriamo di rivederlo fra poco…

– È morto! essa gridò con accento straziante, il mio povero Gervasio è morto!.. sarebbe qui di sicuro se non fosse morto!..

Non voleva persuadersi che fosse partito, che avesse preferito l'esilio alla casa paterna, alle cure di sua madre!

– Ha preferito l'esilio all'umiliazione di vivere sotto il giogo dei nostri nemici, come tanti altri suoi compagni, le disse il marito; ma le cose non possono durare a questo modo, – e manifestando tutte le illusioni di quel tempo, si studiava di provare l'impossibilità d'un lungo dominio austriaco in Italia, perchè i popoli coraggiosi possono tutto quello che vogliono; ma Maddalena non lo ascoltava più, baciava teneramente il suo Stefano, lo interrogava ansiosamente sulla ferita che gl'impediva di camminare, lo fece sedere in una poltrona, apportò dei ristori ai poveri viaggiatori sfiniti dai lunghi patimenti, dalla fame, dalla fatica del viaggio, in quello stato.

Appena saputo il loro ritorno accorse anche il maestro Zecchini, e non finiva mai d'interrogarli sui più minuti particolari del memorabile assedio; si mostrò desolato per tante sventure, e voleva sostenere che bisognava rassegnarsi al destino, che era finita per sempre, che sarebbe assolutamente impossibile di vincere la potenza austriaca. Il capitano lasciò andare un pugno così violento sul tavolo che fece saltare i piatti e i bicchieri, e così incominciarono nuovamente le diatribe fra i due vecchi amici, che dopo l'assenza ritornavano a vivere insieme, sempre inseparabili, e sempre discordi.

Intanto il Gervasio navigava verso la Francia, e pochi giorni dopo sbarcava a Marsiglia coi molti esiliati di Venezia, i quali si dispersero in vari paesi.

Egli partì per Parigi colla speranza di trovare un'occupazione per non vivere a carico della famiglia. Ma in quel tempo la capitale francese rigurgitava di emigrati d'ogni parte d'Europa; le varie rivoluzioni del quarant'otto vi avevano gettato i loro naufraghi, che cercavano un rifugio. Tutte le passioni umane, e i diversi partiti politici si concentravano nel cervello del mondo; la vita era una lotta di forze contrarie che si agitavano convulse fra gli amari disinganni del passato, e le più esagerate illusioni dell'avvenire.

Ad un'anima mite e senza ambizioni, come quella di Gervasio, la vita tumultuosa rendeva più doloroso l'esilio. Dopo lunga aspettativa gli venne offerta una cattedra di lingua italiana in Bretagna. Non esitò ad accettarla perchè sentiva anche il bisogno di quella pace campestre nella quale era stato allevato, e che gli mancava affatto nel movimento turbinoso della moderna babilonia.

Ma il clima umido e triste della Bretagna accresceva la sua malinconia, e la vita solitaria gli faceva sentire doppiamente tutte le amarezze della nostalgìa. Non vide mai sorgere quel sole opaco dietro le nebbie, senza che il suo pensiero non lo trasportasse alla casa paterna; e la vedeva da lontano, illuminata dallo splendido sole d'Italia, e gli pareva di udire lo stormir delle fronde dei suoi boschetti, il pigolìo dei passeri al crepuscolo, credeva di respirare l'olezzo di quelle piante, e sentiva l'aria pura dei monti e del Piave, che gli sbatteva il viso, quando appariva il balcone della sua cameretta così piena di ricordi. La modesta stanza di Bretagna non aveva nulla che sorridesse alla memoria dell'emigrato; e i prospetti, l'aria, gli accenti, le esalazioni, tutto gli rammentava l'isolamento, e la lontananza della patria.

I giorni delle feste solenni erano i più dolorosi. Tutti si raccoglievano lietamente alla mensa di famiglia, il povero emigrato viveva solo, colla memoria delle affettuose cure materne, delle abitudini domestiche del padre e del fratello, e della perduta compagnia degli amici.

Bisognava cercare degli altri derelitti per fare insieme società.

Conobbe allora i Ravelli, emigrati lombardi. La famigliuola si componeva del padre vedovo, del figlio Battistino, che fu ferito al Tonale difendendo quel passo alpino coi volontari, e di sua sorella Angelina, una buona ragazza di diciotto anni. Scambiavano fra loro le amarezze e i conforti comuni, dividevano i timori e le speranze, e quelle eterne illusioni degli esuli, sempre distrutte dagli avvenimenti, e sempre rinascenti dalle stesse rovine. Ogni primavera speravano il ritorno in patria per il prossimo autunno, ogni autunno per la ventura primavera; ma ogni volta che si credevano vicini al porto, una burrasca inaspettata li rigettava in alto mare. Tornato il cielo sereno, esaminavano l'orizzonte, e ad ogni nuvoletta lontana pronosticavano l'uragano che doveva sconvolgere l'Europa, far trionfare la libertà, e restituirli al loro paese; ma un venticello importuno rasserenava il cielo. Si lamentavano della indifferenza di tutte le nazioni per ciò che violava i loro diritti e il loro onore, vedevano in ogni piccolo alterco diplomatico un'offesa sanguinosa che rendeva indispensabile la guerra, aspettavano ansiosamente la dichiarazione desiderata; ma la pace si andava consolidando a loro dispetto, e l'esilio temporaneo diventava domicilio stabile degli emigrati. E così passavano gli anni, e intanto l'amicizia e l'amore fiorivano anche sulla terra straniera.

Gervasio divenne intimo di casa Ravelli, fu il compagno inseparabile di Battistino, e non tardò a sentire per l'Angelina una profonda simpatia che a poco a poco si trasformò in reciproca affezione.

Allora la primavera di Bretagna parve più bella ai giovani innamorati, che aprendo l'animo ai sentimenti e ai pensieri concordi, si creavano una nuova patria sul suolo straniero, la patria dell'amore, e così trovavano più ridenti quelle verdi campagne, più vaghi i fiori, meno fosco l'orizzonte, meno pallido il sole, e le notti azzurre e brillanti di stelle più belle delle notti italiane.

Vivere insieme per amarsi sempre, e dimenticare tutto il resto, questa divenne l'unica aspirazione dei loro cuori.

Dopo uno scambio di lettere colle rispettive famiglie in Italia, furono fidanzati; pochi mesi dopo si celebrò il matrimonio, e la terra di Bretagna parve un paradiso terrestre ai due sposi, nell'ebbrezza dell'amore soddisfatto.

Passati dieci mesi venne alla luce un bel maschio, che per comune consenso dei due nonni fu battezzato col nome di Silvio, in segno di simpatia verso l'amico carbonaro, che fu prigioniero allo Spielberg, e di protesta contro il dominio straniero.

Pareva che la felicità sorridesse pienamente alla nuova famiglia, quando una febbre insidiosa assalì la puerpera, e mise subito in dubbio ogni speranza. I sintomi più minacciosi si succedettero con terribile rapidità, e la malattia finì in pochi giorni con un lutto spaventoso.

L'infelicissimo marito perdette la sua diletta compagna nel primo anno di matrimonio, il neonato perdette la madre nel primo mese di vita.

Sotto il colpo inaspettato dell'improvvisa sventura, lontano dai cari parenti, fra il suocero e il cognato al pari di lui disperati, Gervasio risentì tutto il peso dell'esilio e dell'isolamento.

La donna morta fu portata al cimitero colla sua candida veste di sposa; il bambino fu messo a balia; i Ravelli affranti dal dolore abbandonarono il paese, il povero esule rimase solo, fra una culla e una tomba, a piangere la sua cara compagna scomparsa; – solo senza patria, e senza famiglia!..




V


Anche la famiglia Bonifazio si sentì colpita crudelmente dalla sventura del figlio. Alle lagrime dell'esule corrisposero da lontano le lagrime dei parenti, privi del conforto di stringere fra le loro braccia affettuose il povero orfanello e il padre desolato.

Così l'esilio colpisce sempre da due parti; tanto chi resta, che chi si allontana soffre egualmente, senza il sollievo del reciproco conforto, senza l'amara consolazione di piangere assieme.

Stefano guarito dalla sua ferita, andava spesso a Treviso, ove aveva molti amici. Un bel giorno girovagando per le strade della città, fu colpito dall'aspetto di una di quelle ragazze del popolo, tanto famose in tutto il Veneto per la rara bellezza dei lineamenti, per l'abbondanza dei capelli, la grazia della persona e l'eleganza del vestito. Si direbbero nate in mezzo al lusso d'uno splendido appartamento, e invece non sono che una curiosa aristocrazia della classe operaia, le contessine del popolo. Dove abbiano imparato a darsi quell'aspetto disinvolto, ed alzare quegli sguardi alteri di principesse, nessuno lo sa. Escono dalle povere catapecchie ove abitano, come da un palazzo signorile, scendono maestosamente dalle loro scalette di legno, come se fossero gli scalini del trono, raccogliendo, colla piccola mano coperta di guanti, e con flessuosa destrezza, gli svolazzi della veste, per lasciar vedere la elegante calzatura a talloni, portando con certa alterigia la testina graziosamente pettinata, e adorna d'un velo nero puntato con grandi spilloni. Camminano con franca andatura, portando l'ombrellino di seta, e il ventaglio, e vanno dalla sarta o dalla modista, ove dopo una lunga pratica giungono a guadagnare venti soldi per dodici ore di lavoro.

La ragazza seguìta da Stefano, aveva sulla nuca una treccia di morbidi capelli color castagno, acconciata in molti giri, da destare l'invidia dei più avveduti parrucchieri che le offersero invano molto denaro per acquistarla, dicendole che una treccia posticcia avrebbe prodotto lo stesso effetto, e che i capelli crescendo più rigogliosi, essa poteva farsene una rendita lucrosa, senza che nessuno se ne accorgesse. Era la povera figlia d'un falegname, ma non volle mai tagliare i suoi capelli per nessun prezzo; quella era la sola sua ricchezza, la sua corona, e non l'avrebbe ceduta per tutto l'oro del mondo. Suo padre le dava torto, perchè i parrucchieri lo avevano sedotto colla promessa irresistibile di certe bottiglie d'un vino delizioso, che gli avevano fatto assaggiare in un bicchierino, e che gli era sembrato un balsamo di lunga vita.

Ogni mattina la ragazza si metteva allo specchio coi capelli disciolti giù per le spalle, che arrivavano fino al ginocchio, e quella ricchezza la rendeva orgogliosa, perchè la più gran signora della città non poteva comperarli per nessun prezzo.

Poi faceva colazione con due soldi di pane e latte, si vestiva con eleganza, e correva al suo magazzino. Lungo la strada tutti si voltavano a guardarla, ed essa era beata.

Stefano non fece attenzione a quei capelli, che potevano anche essere posticci, ma fu sedotto dal sorriso degli occhi, dalla dolce espressione dei lineamenti, dalla bocca attraente, che indicava somma bontà e cuor contento, quantunque fosse un po' troppo grande in proporzione delle altre linee del viso.

La seguì parecchie volte dal magazzino alla casa, essa se ne avvide, e gli fece comprendere con uno sguardo che non disdegnava quell'omaggio, e che trovava il giovinotto di suo gusto. Egli non tardò molto ad esprimerle modestamente la sua rispettosa ammirazione, e le oneste intenzioni che lo animavano. Essa in principio si mostrò molto incredula, gli fece capire che era povera, e lo pregò di lasciarla in pace, di non voler renderla infelice per un capriccio.

Stefano la rassicurò con solenni promesse, e così non tardarono a prendere la dolce abitudine di vedersi spesso, di passeggiare insieme in luoghi solitari, nella più cordiale intimità, coll'espansione di pensieri e sentimenti che sono il melodioso linguaggio dell'amore.

L'affetto che i Bonifazio provavano pel figlio assente, pareva che volesse manifestarsi con doppie cure sul figlio vicino; l'indole soave e il carattere onesto del giovane lo rendevano degno della loro affezione.

Egli non tardò molto a rivelare alla madre il suo amore per la Beppina, mostrandole il desiderio di farla sua moglie, e la buona madre predispose favorevolmente il marito.

Il capitano Bonifazio, al contrario di molti padri, era sempre preoccupato dal timore che suo figlio potesse innamorarsi d'una signora. L'educazione delle ragazze nelle ricche famiglie cittadine gli metteva spavento, e diceva a sua moglie:

– Se Stefano vorrà prender moglie, la nostra quiete sarà in pericolo. Che cosa faremo noi di una sposa cittadina colle nostre abitudini campagnuole? Vorrà essa adattarsi alla semplicità di questa vita? che cosa farà tutto il giorno alla villa? vorrà essa occuparsi delle cure domestiche recando qualche sollievo alle tue fatiche, quando la età avanzata ti farà sentire il bisogno di riposo? Avvezza alle visite oziose, ai teatri, agli spettacoli, alla società elegante, potrà essa sopportare senza noia la solitudine, le sciocchezze del maestro Zecchini, le asinaggini dei Pigna, padre e figlio?

La povera Maddalena lo consolava facendogli osservare che la città era vicina, che i giovani avrebbero potuto fare una vita conforme ai loro gusti, e i vecchi si sarebbero dedicati ad allevare i bimbi, e a governare la casa, senza cambiare le abitudini di nessuno. Ma il capitano non era persuaso e pronosticava mille disturbi, in tal modo che quando Stefano gli annunciò il suo progetto, ne fu lietissimo, e volle subito vedere la ragazza.

La Beppina avvertita in tempo di questa visita aveva messo in ordine la povera dimora, e li aspettava ansiosamente fingendo di lavorare, seduta davanti al balcone, adorno di alcuni vasi di fiori, che le erano stati regalati da Stefano.

La visita fu breve, ma decisiva. Pareva che il capitano ne fosse più innamorato del figlio, tanto si mostrava entusiasta del soave sorriso di quel bel volto. Esso la trovò modesta e gentile, graziosa e intelligente, e ritornò a casa contento per darne l'annunzio a sua moglie, pronosticandole dei giorni felici, ed una vecchiaia tranquilla, con una figlia di più, la più cara e simpatica che si potesse mai desiderare, e diceva a Stefano:

– Facciamo presto; a domani la domanda al padre, e quanto prima le nozze.

E fu secondato in ogni suo desiderio. Al giorno seguente il falegname Morato non andò a bottega, e attese il capitano, dopo di essersi rasa la barba e vestito da festa, secondo gli ordini della figlia.

All'ora fissata i Bonifazio furono esatti, e in poche parole si trovarono d'accordo. Alla cortese domanda del capitano, il Morato rispose:

– Sono anni cattivi, siamo povera gente, mia figlia non ha nè dote, nè corredo…

– A questo ci pensiamo noi, soggiunse il capitano. Facciamo presto; io non vi domando altro, prima di tutto perchè non mi piacciono le cose lunghe, e poi perchè sono vecchio, e vorrei vedere un nipotino, prima di chiudere gli occhi per sempre.

– Non parliamo di malinconie, gli rispose il falegname, con naturale buon senso. Siamo a vostra disposizione, riconoscenti dell'onore.

Fissarono l'epoca delle nozze, il capitano baciò in fronte la Beppina, e i due giovani si mostrarono molto lieti degli accordi.

Stefano scrisse al fratello, raccontandogli minutamente tutti i particolari del suo amore, vantandogli le buone qualità della sposa, senza nascondere la sua povertà.

Poco tempo dopo arrivava dalla Francia una cassa pieni di arredi da donna con una lettera di Gervasio, nella quale egli si congratulava col fratello per il prossimo matrimonio, e gli faceva mille scuse se osava spedirgli il corredo della sua povera defunta, ancora nuovo, per l'immatura sua morte. «Non saprei farne un uso migliore, egli scriveva, la tua sposa non se ne offenda se la tratto fino da questo momento come sorella; fra fratelli che si amano quello che è dell'uno è anche dell'altro. Vivi felice in famiglia, intanto io pregherò il cielo che ci conceda di rivederci presto, per poter vivere tutti uniti in casa nostra, nella nostra patria, colla nostra famiglia, tutte cose preziose che ci vennero tolte dalla usurpazione straniera.»

Al tempo fissato si fecero le nozze. Il capitano accompagnò Stefano a Treviso di buon mattino, e dopo la celebrazione del matrimonio, montarono in carrozza colla sposa e suo padre e tornarono alla villa. La buona Maddalena li aspettava sulla porta, Beppina si gettò nelle sue braccia.

– Hai trovato la madre che ti mancava, disse alla nuora, baciandola in fronte.

Dopo una breve refezione fra soli parenti, Stefano condusse la sposa a fare un giro pel parco. Avvezza al chiuso ambiente della sua cameretta in una casa vecchia di città, in una contrada di povera gente, le parve di passeggiare in paradiso. Attraverso le fronde passavano pochi raggi di sole, che segnavano degli sprazzi d'oro sulla sabbia dei viali. Il silenzio dei boschetti era rallegrato da qualche gorgheggio d'un capinero, accompagnato dal mormorio delle acque cadenti d'una cascatella sul lago. Dalle macchie di rose, dai caprifogli e dai gelsomini che si arrampicavano sui muri emanava un soave profumo che imbalsamava l'aria. La ricca vegetazione nel suo pieno vigore esalava degli aliti vitali, raccolti da tutte le forze unite della natura, dalla terra e dall'acqua, dalla luce, dalle foglie e dai fiori. Un'arcana voluttà serpeggiava nelle vene e inebbriava i sensi.

Vagarono, ora bisbiglianti ed ora silenziosi, nella soave armonia delle commozioni e dei pensieri, sotto ai boschetti e sui prati di quell'incantevole giardino fino che udirono le campane dei villaggi vicini che suonavano il mezzogiorno. Era l'ora destinata al pranzo di famiglia coi parenti, e pochi amici. La stanza era adorna di fiori, la tavola apparecchiata con garbo, ma a quella mensa c'era un vuoto doloroso che ricordava la tristezza dell'esule lontano, gettava un velo di malinconia sulla gaiezza delle nozze, e faceva spuntare una lagrima sugli occhi della madre, mentre si atteggiava al sorriso.

Tuttavia gli amici festeggiando gli sposi con ripetute libazioni fecero echeggiare un po' d'allegria alla fine del pranzo. Il maestro Zecchini diventava loquace, papà Morato, volendo sostenersi con gravità, si teneva diritto con uno sforzo, e pareva diffidente delle sue gambe, il vecchio Pigna aveva due occhietti rossi e brillanti come rubini, suo figlio, con un sorriso immobile e costante, cogli occhi fissi, e due macchie rosse sulle guancie, mostrava il volto d'un ebete colla testa di legno. Dopo il caffè gli sposi presero congedo dai parenti e dagli ospiti e partirono per Venezia ove avevano fissato di passare i primi giorni del matrimonio.

Ritornati in famiglia presero le abitudini regolari, e la giovane si mostrò degna della sua buona ventura. Affettuosa coi suoceri, gentile cogli amici, d'indole facile e allegra, si faceva amare da tutti. Stefano ne era più innamorato di prima, e le buone qualità che le aveva trovate gli facevano giudicare con indulgenza quei piccoli nonnulla che saltano fuori col tempo e colla intimità. L'amore è un vetro appannato attraverso il quale appariscono le figure piane come nelle ombre; il matrimonio è un cristallo trasparente che lascia vedere gli oggetti in rilievo, con tutti i loro pregi e difetti.

Le belle qualità dell'animo, scoperte nella Beppina, compensarono Stefano della educazione incompleta, e la vista di quei capelli meravigliosi, che credeva prima un ornamento aggiunto alla natura, lo rese indulgente sull'ortografia e la grammatica, che mancavano alla sposa come il corredo.




VI


Dopo un anno circa di matrimonio la Beppina diede alla luce una bella bimba, che somigliava alla mamma. Furono tutti contenti. La nonna ringiovaniva per fare la bambinaia, il nonno era beato che non fosse nato un maschio in quei tempi funesti, quando si richiedeva il sangue di nuove vittime per riscattare la patria.

– Abbiamo già un nipote, nato in esilio, diceva il capitano, che un giorno dovrà fare il soldato, non sarà dunque mai al nostro fianco; questa bambina che è una vera delizia, sarà il sostegno della nostra vecchiaia.

– E poi l'uomo è un asino! soggiungeva il maestro.

Il capitano alzava le spalle indispettito, corrugava la fronte, faceva gli occhi severi, atteggiava la bocca all'ironia, e interrogava:

– Se l'uomo è un asino, che cosa sono le donne?.. che cosa sono le mogli, le figlie, le sorelle degli asini?..

E il maestro rispondeva tranquillamente:

– L'uomo è un asino, e le donne sono donne!.. La storia ce lo insegna; essa ci parla di sovrani che furono belve, di guerrieri che furono eroi, e non dice che le loro mogli fossero nè bestie, nè eroine, erano donne. La donna non è simile all'uomo, sono gli uomini stessi che la giudicarono un essere inferiore, e fecero le leggi in conseguenza di tale giudizio… ed anche in questo si mostrarono asini per eccellenza!..

Il capitano gli voltava le spalle brontolando, e gli teneva il broncio fino all'ora della solita partita a tresette.

Stefano era felice di vedere sua moglie ristabilita in salute, ed era soddisfatto della contentezza degli altri. E quando vedeva la sua Beppina allattare la neonata, la gli pareva una delle più belle madonne di Rafaello. La bimba fu battezzata col nome di Maria. Ma anche in seno d'una esistenza felice, Stefano non dimenticava mai i principii succhiati col latte, e sviluppati in tutta la loro forza dalla educazione paterna, dalle lotte del quarant'otto, e dai successivi avvenimenti della patria. Nessun galantuomo viveva indifferente alle faccende del giorno, nè si chiudeva in casa con sentimenti da egoista, abbandonando l'avvenire della patria alla fatalità del destino. Tutti i buoni Italiani apportavano la loro pietra, e apparecchiavano le fondamenta della futura nazione.

Stefano andava a Treviso a vedere gli amici, e s'informava esattamente di tutto quello che veniva tentato per l'emancipazione del paese.

Era il tempo dei Comitati secreti e del prestito di Mazzini.

Come in tutte le parti soggette all'Austria, così anche a Treviso i patriotti corrispondevano segretamente cogli emigrati in Piemonte e in Francia, e apparecchiavano l'avvenire.

La piccola Maria cominciava a camminar sola, correva incontro ai nonni, balbettava le prime parole, era la tenerezza di tutti.

Venuto l'inverno la famiglia raccolta passava le sere nel salotto, ciarlando, giuocando alle carte e leggendo, la bambina dormiva tranquillamente nella sua cunetta di vimini, perchè la madre voleva tenersela sotto gli occhi fino all'ora di andare a letto, e allora se la portava in braccio, nella stanza, e la metteva nel suo letticino senza svegliarla.

Se venivano gli amici facevano la partita alle carte e il capitano litigava col maestro. Maddalena cercava di mitigare le irritazioni, di giustificare gli errori, non si lamentava mai degli sbagli di Pigna che giuocava con lei, molto peggio del maestro col capitano; Stefano stava a guardarli, la Beppina lavorava nei vestitini della sua bimba. Quando erano soli il capitano giuocava agli scacchi con Stefano, o metteva in ordine i cartocci delle sementi, mentre suo figlio leggeva ad alta voce un buon libro, e le donne agucchiavano. Una sera di gennaio la pioggia cadeva a scrosci, il vento fischiava fra gli alberi, la famiglia era sola, raccolta nel tepore della stufa, quando si udì una scampanellata che indicava molta fretta.

– Sarà il maestro Zecchini che si bagna, disse il capitano.

Mosè corse ad aprire. Due sconosciuti domandarono se il signor Stefano Bonifazio era in casa.

– Sì, signori, rispose il domestico, vengano avanti; e dopo di averli introdotti nell'atrio, domandò chi doveva annunziare.

Uno di loro rispose:

– Pregatelo di uscire un momento, abbiamo bisogno di dirgli una parola.

Mosè entrò nel salotto col volto turbato, dicendo che c'erano di fuori due figure antipatiche che volevano parlare col signor Stefano.

Stefano impallidì, il capitano se ne avvide e gli disse:

– Andiamo a vedere.

Uscirono insieme, lasciando le donne inquiete, nell'ansietà di un pensiero sospettoso.

Erano due impiegati di Polizia, un commissario col suo assistente.

Il primo mostrò l'ordine superiore, l'altro uscì a cercare le guardie che aspettavano dietro al cancello. Fecero una rigorosa perquisizione, misero sottosopra la casa, raccolsero varie lettere di Gervasio, dei documenti, delle carte varie, ne fecero un pacco e vi apposero il sigillo, raccolsero tutte le armi e ne fecero un fascio, poi intimarono l'arresto di Stefano.

Ogni opposizione era vana. Il capitano frenava a stento lo sdegno che lo agitava. Le signore sulla porta del salotto, guardate a vista, supplicavano invano che a motivo della burrasca, aspettassero fino al mattino. Il commissario fu irremovibile, e intimò la partenza.

Stefano corse a dare un bacio alla sua bambina, che dormiva tranquillamente, poi si gettò nelle braccia della moglie che svenne.

La adagiarono sul canapè. Maddalena che voleva soccorrerla, non sapeva quello che si facesse; era fuori di sè, e barcollava.

Il capitano cercava un'arma per fare un massacro, ma erano già tutte scomparse; le avevano portato fuori col pacco delle carte. Nella confusione generale, due sbirri presero Stefano sotto le braccia e lo trascinarono, seguiti dagli altri poliziotti, fino ad una vettura che aspettava a piccola distanza della casa. Lo fecero entrare nel calesse, tutti si collocarono nello stesso veicolo, chi dentro e chi fuori, e sferzati i cavalli partirono.

In casa la desolazione e lo squallore erano succeduti alla pace d'un'ora prima. Beppina colle mani nei capelli, coricata sul canapè, chiamava il suo Stefano, mandando dei singhiozzi convulsi che parevano soffocarla. Maddalena in ginocchio se la stringeva al seno, piangendo dirottamente, il capitano col volto sconvolto, girava per la casa come un pazzo, senza sapere dove andava; Mosè lo seguiva col lume in mano senza parlare.

Il primo a riprendere il dominio di sè stesso, fu il vecchio soldato, ma tutti i suoi ragionamenti riuscirono vani; nè la madre, nè la moglie, potevano consolarsi di tanta sventura; ascoltando gli scrosci della pioggia e i sibili del vento di quella orribile notte, pensavano ai patimenti fisici e morali del povero arrestato durante il viaggio, e poi negli orrori della prigione; conoscevano i processi lunghi e insidiosi dell'Austria, paventavano delle sue crudeltà; i genitori erano rimasti senza figlio, la moglie senza marito, la figlia senza padre! ogni felicità era scomparsa da quella casa, quella gente onesta e tranquilla non aveva diritto di amare il suo paese, nè di volerlo libero dagli stranieri, i quali si credevano in diritto di punire severamente i più nobili sentimenti della natura e dell'umana dignità.

Quella notte tutti vegliarono, oppressi dall'angoscia, spaventati dall'avvenire.

Il giorno seguente si sparse la notizia di molti arresti fatti nella stessa notte. Accorsero gli amici, ma nessun conforto poteva consolare quegli infelici caduti vittime di tale sventura.

I prigionieri erano partiti per Mantova. Stefano fu gettato solo in una cella angusta, umida, oscura ed infetta, e pensava ai suoi cari, alla disperazione della moglie e della madre, all'afflizione del padre, alla bambina, alla casa, alle dolci abitudini domestiche. Quel cambiamento repentino di vita, quel rapido trapasso dalle gioie serene della famiglia, alle torbide agitazioni d'un processo pericoloso, dall'aria profumata d'un parco all'afa nauseabonda del carcere, era un colpo troppo violento per restare senza conseguenze sopra un giovane felice ed avvezzo all'aria libera dei campi.

Quando i patemi d'animo, che lacerano il cuore, sono accompagnati da tutte le angustie del corpo, la natura umana soccombe.

Dopo un accesso violento di disperazione, di furore e di lagrime, Stefano cadde sfinito sul fetido pagliericcio della prigione, e gli parve di essere stato sepolto vivo. Pensava alla vita passata come ad un altro mondo, abitato in un'epoca lontana, prima d'essere precipitato in fondo d'un precipizio. Provava una sete ardente accompagnata da affanni e da nausea.

Fu trascinato davanti il giudice inquisitore colla febbre; le arterie delle tempie gli battevano come due martelli. Non intendeva le domande che gli venivano indirizzate, rispondeva con sdegnoso disprezzo, con pungente ironia, gli pareva di trovarsi fra le unghie adunche d'una belva feroce che stesse per divorarlo.

Ritornato nella sordida cella fu visitato dal medico che lo trovò coi lineamenti immobili, colla lingua e i denti fuliginosi, in una prostrazione di forze completa; rispondeva lentamente, con parole insensate. Il medico conobbe i primi sintomi d'una febbre tifoide, e ordinò che fosse subito trasportato all'infermeria. Il povero infermo non se ne avvide nemmeno. Gli comparvero sul volto delle macchie rosse che sparivano sotto la pressione delle dita.

Passò più d'un mese in questo stato, poi cominciò a peggiorare, e aveva perduto i sensi da qualche giorno, quando alle ripetute istanze della famiglia fu concesso di visitarlo.

I parenti partirono subito per Mantova. Il giorno dopo del loro arrivo, il capitano colla faccia sparuta, ma fiera, conduceva la moglie e la nuora, che parevano uscite da una tomba, e camminavano sostenendosi reciprocamente, attraverso gli squallidi e infetti corridoi della prigione, sotto la scorta d'un attuario e d'un secondino. Il malato non conobbe nessuno, i poveri parenti non videro che una faccia cadaverica, coperta da un sudore viscido, con un respiro affannoso, che era il solo segnale di vita che gli restava.

La Beppina cadde su quel sordido pagliericcio, perdendo i sensi, ed anche la povera madre stava per venir meno. Uscirono dalla infermeria, Maddalena sostenuta dal marito, e la Beppina trasportata da due infermieri. Adagiarono le misere donne in una carrozza che le condusse all'albergo. Chiamato subito un medico, la Maddalena fece uno sforzo sovrumano per assistere la nuora, reggendosi appena sulle gambe.

Beppina era incinta di quattro mesi. Quando giunse alla villa il permesso di visitare il moribondo, i genitori pronti a partire, avevano fatto una vivissima opposizione al viaggio della nuora, della quale conoscevano la condizione pericolosa, peggiorata dalla disperazione per la prigionia del marito, e dalle gravi notizie sulla sua malattia, che erano state comunicate da Mantova. Ma ogni resistenza fu vana; non valsero nè le ragioni persuasive del medico, nè i più affettuosi consigli dei suoceri, essa si irritava talmente contro chiunque volesse impedirle di rivedere il suo Stefano, che in fine parve meno pericoloso il condurla con loro che il lasciarla a casa in preda della disperazione.

Partì in uno stato di grande debolezza, con violente palpitazioni di cuore, ma si sostenne durante il viaggio a forza d'energia, la quale la resse fino alla porta dell'infermeria, ma la abbandonò totalmente all'aspetto dell'ammalato, ridotto in tale stato che era appena riconoscibile.

Coricata nel letto dell'albergo, all'arrivo del medico la misera donna aveva già abortito, e la violenta emorragia cominciava a svenarla. Non le mancarono le cure più sollecite ed affettuose, ma il medico non dissimulava la gravità del pericolo, e diceva al capitano:

– Caro signore, le carceri politiche hanno ucciso più donne che prigionieri. Questi resistono con vigore alle prove tremende, perchè sono animati da un altissimo sentimento che sostiene il loro coraggio, ma le madri e le spose soccombono colle viscere straziate dalla violenza che le privò dei figli e dei mariti. Nella condizione di vostra nuora colpita atrocemente nel giorno dell'arresto, quest'ultima scossa terribile fu un colpo mortale.

E pur troppo riuscirono vani tutti i tentativi fatti per salvarla.

L'anemia progrediente andò esaurendo d'ora in ora tutte le forze vitali, e alfine dovette soccombere.

L'ultima mattina la povera inferma, sentendo la morte imminente, volle baciare i suoi cari, raccomandò caldamente all'affetto della suocera la sua piccola Maria, mostrò il più vivo desiderio di ricongiungersi al suo Stefano, in una vita di oltre tomba, e rivolti al cielo gli occhi languenti spirò.

Il volto della povera morta pareva di marmo greco, il suo pallore risaltava maggiormente sulle morbide treccie di capelli che furono il suo diadema di sposa, e la sua corona di martire. Pochi giorni dopo moriva anche Stefano nel Castello di San Giorgio, e così sfuggiva al patibolo di Belfiore ove sarebbe perito con tanti eroi della patria.

Il vecchio carbonaro accompagnava al sepolcro i due figli morti alla distanza di pochi giorni, e li faceva collocare uno presso dell'altro, piangendo di dolore, fremendo di sdegno, e invocando dal cielo la pace ai defunti, il castigo di Dio sui despoti della terra; e la libertà alle nazioni, che hanno saputo guadagnarsela con tanti sacrifizi di vittime umane.




VII


La notizia di questa catastrofe colpì tutta Italia come una calamità nazionale; si sparse dovunque, ridestò l'odio degli esuli che soffrivano lontani dal focolare domestico, portò la desolazione a Treviso e in Brianza, ove i parenti e gli amici appresero con orrore la rapida morte dei loro cari, che parve a tutti lo schianto di due fiori prodotto dalla violenza d'un uragano. A tale sventura si aggiunsero le relazioni dell'infame processo, i patimenti di chi languiva nel carcere, i supplizi che lo seguirono, e tutto insieme accumulava le maledizioni degli oppressi sugli oppressori.

I due poveri vecchi che in così breve spazio di tempo avevano perduto i due diletti figliuoli involati violentemente alla pace domestica, compiute le onoranze funebri, ritornarono piangenti alla loro casa, ove un'orfanella innocente li aspettava colle braccia protese invocando il ritorno della sua buona mamma, e del babbo.

La nonna Maddalena dovette assumere gli uffici di madre, e dissimulare la grave disgrazia all'infelice bambina, essa che aveva tanto bisogno di piangere.

Il capitano scriveva lettere di fuoco al figlio superstite, perchè gli esuli si agitassero anche in Francia, e spingessero quella nazione a non tollerare più oltre in Italia la infamia della dominazione straniera, e aiutassero gli schiavi ad infrangere quelle catene che li rendeva impotenti alla rivendicazione dei loro diritti.

Da ogni parte venivano voci di speranza, ma il frutto non era maturo.

Intanto le disgrazie accasciavano i vecchi. Il capitano curvava la schiena sotto il peso degli anni aggravati dal dolore. Soffriva delle vertigini che lo esponevano a cadere, se non trovava un sostegno. Il maestro Zecchini lo consigliava a consultare un medico, il Bonifazio alzava le spalle con dispetto e non gli dava retta.

– Avete bisogno d'un salasso, insisteva a dirgli il maestro.

– Il salasso bisogna farlo all'esercito austriaco, abbondante fino allo svenimento, e allora sarò sicuro di guarire.

La piccola Maria cresceva in salute ed in grazia, sotto quegli alberi maestosi che colle loro ombre avevano protetta l'infanzia di suo padre, ed avevano consolato i giorni più lieti della breve esistenza di sua madre. La bimba giuocava coi fanciulli della sua età, e coglieva fiori e farfalle intorno a quei viali tortuosi che erano stati percorsi dai suoi genitori nel tempo felice.

Il maestro Zecchini le insegnava a leggere sui vecchi libri che avevano servito al suo babbo ed allo zio Gervasio; ma quando la bambina si rifuggiava sui ginocchi della nonna, mostrandosi annoiata della monotona cantilena del maestro, implorando la grazia di ritornare ai suoi diletti infantili, la buona donna la liberava subito dal peso della lezione, e la rimandava libera ai boschetti del parco.

– A che cosa serve l'istruzione per chi non ha patria? essa diceva a Zecchini, a che cosa hanno servito tanti studi al mio povero Stefano? se fosse stato un ignorante, sarebbe ancora con noi.

– È vero! pur troppo è vero! rispondeva il maestro, il diritto, la ragione, la scienza sono impotenti contro la forza brutale. Contro le baionette non valgono che i cannoni, e il nostro popolo subisce la dura tirannide senza rivoltarsi. – L'uomo è un asino!.. condotto colla cavezza e spinto col bastone, cammina rassegnato da vera bestia da soma. – E dopo qualche sospiro, riprendeva: – Tuttavia l'istruzione è l'unica arma che ci resta. Bisogna istruirsi per saper distinguere il male dal bene, l'intelligenza e la coltura aprono tutte le strade, è un dovere di tutti istruirsi; non solo gli uomini, ma anche le donne. Avete torto di incoraggiare la bimba a trascurare lo studio…

– Che sia felice almeno nella infanzia, interrompeva la Maddalena; chi sa a quale sorte è riservata nell'avvenire!.. i pochi giorni felici sono tutti guadagnati.

Così la bambina, secondata dalla nonna, cresceva ignorante, ma bella come la sua mamma, della quale aveva i capelli abbondanti, il sorriso degli occhi, e la bocca un po' grande, ma affettuosa.

Essa, che adorava la nonna, si prestava però volentieri per assisterla nelle faccende domestiche, le piaceva di stare in cucina ad ammannire le vivande, imparava prontamente ad apparecchiare a condire ed a cuocere le varie pietanze, e a sorvegliare i fornelli. Faceva grande attenzione alle faccende della casa, voleva che la nonna la lasciasse fare da sola, era contentissima quando riusciva bene, e che il nonno le faceva un elogio, per qualche manicaretto elaborato dalle sue tenere mani.

E imparò presto a cucire, a rammendare la biancheria, a inamidarla e stirarla a dovere. Faceva bene la pulizia delle camere, metteva tutto in assetto con attenzione, le piaceva l'ordine in ogni cosa.

Si annoiava soltanto quando le mettevano in mano un libro, o la facevano scrivere; allora sbadigliava, faceva delle smorfiette, e si rassegnava soltanto per contentare il nonno, che non divedeva l'opinione di sua moglie sull'istruzione, ed esigeva questo sacrifizio come un dovere indispensabile. La nonna difendeva sempre Maria, che non aveva voglia di studiare.

– Lasciala in pace, diceva a suo marito, lascia che sia felice, le donne più felici sono quelle che sanno meno.





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