Книга - Mezzo secolo di patriotismo

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Mezzo secolo di patriotismo
Romualdo Bonfadini






Mezzo secolo di patriotismo Saggi storici





AL NOBILE CARLO D'ADDA



SENATORE DEL REGNO



Caro amico,


A te, che mi precedi negli anni, nell'autorità e nel sapere, dirigo questo mio volume, che vorrebbe richiamare i vecchi alle vigorose emozioni della loro giovinezza e radicare nei giovani il rispetto per le antiche operosità e pei patriotismi antichi.

Apparteniamo entrambi ad un'epoca, in cui la foga del vivere consuma e getta molto pasto all'oblìo. Auguriamoci che non consumi almeno più di quanto produce, e che dall'oblìo si salvi, dov'è possibile, il bene. Dimentichiamo pure il male, o piuttosto perdoniamolo. Il perdono è più virile dell'oblìo.

M'è accaduto più volte, scrivendo questo volume, di pensare alle rapide evoluzioni che possono compiere, sotto la pressura degli interessi, le amicizie politiche.

Noi siamo stati per mezzo secolo accaniti avversari di un Impero, al quale ci legano ora vincoli d'alleanza, che credo leali e che spero durevoli.

Ciò non mi ha impedito di evocare, come le abbiamo sentite, le impressioni di quel cinquantennio e di tradurle col linguaggio e colla logica di quegli anni. La storia, a parer mio, non si può scrivere che così. Giacchè i fatti perderebbero la metà dei loro veri e dei loro insegnamenti, se si volessero costringere alle stesse metamorfosi che possono subire, e sono libere di subire, le idee. Il rispetto per gli uni non turba l'adesione alle altre. Molto più che fra popoli intelligenti nessuna lotta politica dura mai oltre la scomparsa della causa giusta che la rendeva necessaria. E gli Italiani sono un popolo intelligente. Sanno lottare al bisogno; ma lottano, secondo i consigli del Vangelo, perchè il peccatore si converta, non perchè muoja.

In questi pensieri e in questi desiderj so di averti compagno; e ciò mi lascia sperare che se il mio povero libro avrà censori severi, non gli mancherà l'indulgenza del tuo giudizio. In ogni caso, lo scriverlo e lo stamparlo non mi sarà stato inutile; poichè mi avrà permesso di esprimerti pubblicamente, malgrado la tua fiera modestia, il molto bene che penso di te.



Sondrio, 8 marzo 1886.

    Tuo aff.
    R. Bonfadini.




FRANCESCO MELZI

E IL PERIODO ITALIANO


Quel brano di storia milanese e lombarda che corre dalla battaglia di Marengo alla catastrofe del Regno italico nel 1814 è stato, nei confusi ricordi popolari e negli studj superficiali, considerato quasi come un tutto omogeneo, fondato sugli stessi principj, fertile degli stessi beneficj, illustrato dai medesimi nomi e dalle stesse tradizioni di governo.

Nulla di più inesatto che questo modo di apprezzare quei tre lustri di storia. Essi hanno invece, come l'odierna cultura ha bene stabilito e sviscerato, tre stadj distinti di legislazione e d'influenze, tre fisonomie politiche notevolmente diverse.

La prima epoca va dal ritorno degli eserciti francesi fino alla Consulta di Lione; la seconda dalla Consulta di Lione alla proclamazione dell'impero napoleonico; la terza dalla proclamazione dell'impero al 20 aprile 1814.

La prima è l'epoca dei dubbj, delle confusioni, delle incertezze, delle precarietà governative, ed è la seconda Repubblica Cisalpina, conservatrice in teoria, anarchica in realtà, di poco superiore alla prima per disciplina di menti e d'indirizzo. La seconda epoca comprende gli anni della Repubblica Italiana, il vero periodo ricostruttore, sollecito dei principj e degli interessi, dei costumi, delle leggi, della pubblica dignità. Al terzo periodo, quello che la precisa dizione storica chiama propriamente Regno d'Italia, corrisponde il movimento più spiccato della legislazione, dei lavori pubblici, degli ordini militari, ma insieme il principio d'una nuova corruzione, che lima e sfata la libertà. Dallo stadio dell'intrigo e dell'agitazione infeconda si passa a quello dell'operosità onesta e dell'austera semplicità, per giungere allo stadio finale della magnificenza e dell'eccesso. Il malato guariva, ma il convalescente abusava della rifatta salute, e il cambiamento dei medici non riusciva sempre a vantaggio dell'igiene preservatrice.

L'organismo politico e amministrativo della prima epoca era stato deliberato e applicato negli otto giorni in cui Bonaparte rimase a Milano, dopo Marengo.

Egli era stato accolto in Milano coll'eguale entusiasmo, ma non si presentava più colle stesse forme e cogli stessi caratteri. In quell'esistenza straordinaria, destinata ad un'attività di corpo e di spirito che ci sembra ancora un enigma, tre anni dovevano bastare a meravigliose trasformazioni. Infatti, non era più il generale Bonaparte; era il Primo Console; un'altra fisonomia, fisica e morale; un altro indirizzo; una volontà egualmente energica, ma diretta a scopi diversi; un'intelligenza egualmente intuitiva, ma fatta più matura da più larghe esperienze; un uomo insomma che era passato dalle ipotesi dell'ambizione alle sue più sterminate realtà; che aveva divorato gli ultimi brani di una rapida giovinezza e che si presentava a trent'anni sulla scena del mondo con tre titoli nuovi aggiunti alla Campagna d'Italia: l'Egitto, il 18 brumale e Marengo.

Si vede subito che un altro sistema politico si elaborava nella mente del vincitore. Le sue parole ai magistrati cittadini, ai parroci, suonavano la più recisa condanna delle antiche demagogie del triennio. “Qu'on respecte les prêtres„ scriveva al Talleyrand “c'est le seul moyen de vivre en paix avec les paysans italiens.„ Affermava, con intera saviezza di programma politico, doversi riorganizzare come libera e indipendente la Repubblica Cisalpina, doversi rispettare l'esercizio della religione cattolica e punire ogni specie di oltraggio contro i suoi ministri e i suoi riti, doversi rispettare le proprietà di tutti senza eccezione, essere vietato usare denominazioni proprie a risuscitare divisioni ed ire di parte. Un proclama comparso in quei giorni sul Moniteur diceva: “Peuple cisalpin, dès que votre territoire sera délivré de l'ennemi, la république sera réorganisée sur les bases fixes de la réligion, de l'égalité et du bon ordre.„ Dell'antica trilogia repubblicana non era già più rimasta che l'eguaglianza. La religione e il buon ordine erano parole nuove, sorte dopo il 18 brumale.

I nomi erano per Bonaparte guarentigia delle cose; e nella Consulta legislativa, a cui spettava l'incarico di redigere le prime leggi di urgenza e di preparare la Costituzione definitiva della Repubblica, pose il Marliani, il Testi, il Luosi, il Serbelloni, il Moscati, il Caprara, il Mascheroni, il Lamberti, il Cicognara, tutte le notabilità di scienza, di nascita e di carattere che la politica del triennio aveva potuto offendere o disgustare. Fece riaprire l'Università di Pavia, chiusa durante i furori del precedente periodo e vi chiamò o vi richiamò alle cattedre i nomi più splendidi dell'intelligenza contemporanea, Gregorio Fontana, Lorenzo Mascheroni, Alessandro Volta, Antonio Scarpa, Vincenzo Monti, Tommaso Nani.

Altri provvedimenti prese sulle materie militari e di finanza; buoni, come al solito, i primi; duri, come al solito, i secondi; ma in quei giorni non ci si badava; la gioja d'essere o di credersi per sempre liberati da Russi e da Giacobini rendeva indulgenti sulle questioni di tasse. Il prestigio di Bonaparte era ancora maggiore che durante il triennio, perchè il genio era eguale, il potere cresciuto e la sua politica offendeva minori interessi. Quel rispetto per la religione conciliava alla repubblica patrizi e popolani senza riserva. Gli entusiasmi non cessavano, e crescevano le adesioni pensate. Un incidente, in apparenza spregevole, rivela questa mutazione in certe classi sociali. Nel 1796, un tenore dalla voce bianca, l'idolo della gioventù aristocratica, Marchesi, aveva osato rifiutarsi al generale Bonaparte che mostrava desiderio di udirlo[1 - Narra il Constant nelle sue Memorie, che questo musico aveva spinto allora la sua singolare impertinenza fino a rispondere: “Signor général, si c'est oun bon air qu'il vous faut, vous en trouverez oun excellent, en faisant oun petit tour de jardin.„ Il Marchesi, per questa audace risposta, era stato messo in prigione.]; nel 1800 si offerse egli stesso di cantare, e il Primo Console obliò generosamente l'antico rifiuto. Anche la Grassini, celebre prima donna del tempo, cantò in un concerto alla Scala così meravigliosamente, che Bonaparte volle riudirla in palazzo. Pur troppo, se il generale s'era modificato, l'uomo non era rimasto tal quale. La situazione psicologica subiva anch'essa un processo di rivolgimento. Giuseppina Bonaparte ebbe torto in quell'ora di essere a Parigi e non qui.

Però il Primo Console aveva fretta. Non poteva più abbandonarsi agli ozj eleganti di Mombello o allo studio paziente degli affari d'Italia. L'Europa cominciava a cadergli sulle braccia, ed all'Europa non poteva pensare che da Parigi. Partì il 25 giugno, lasciando a Milano organismi pubblici appena abbozzati, una Consulta legislativa piena di zelo ma soverchiata dall'incerta e larga responsabilità, una Commissione esecutiva troppo numerosa e poco omogenea, il generale Petiet come Ministro straordinario e quasi tutore della rinata Repubblica; uomo debole, incerto della propria azione, poco persuaso della sua autorità, e che perciò non sapeva usarla nè contro le corruzioni dei politici indigeni, nè contro gli abusi e gli arbitrj dei comandanti militari francesi, Brune, Massena, Murat.

Queste cause di male cominciarono subito a svolgersi con pessimi effetti, ed agli otto giorni di ordine e di lavoro che il Primo Console aveva così bene inaugurati seguirono venti mesi d'un governo fiacco, oscillante, senza prestigio e senza base; governo che se non potè dirsi affatto tristo, fu solo perchè due altri, di tanto peggiori, lo avevano preceduto.

La Consulta legislativa diede bensì notevoli esempj di attività intelligente e feconda. Rimise in pieno vigore le leggi emanate durante il triennio, eccettuate però le leggi deplorabili di finanza e di culto. Revocò gli ordinamenti politici e i sequestri illegali ordinati durante i tredici mesi; mantenendo però i giudicati già eseguiti, le successioni già verificate, i pagamenti e i contratti fatti secondo le leggi pubblicate nel periodo intermedio. Era un sistema savio e liberale, soprattutto per tempi, in cui il cassare con un tratto di penna tutto un insieme di ordinamenti e di diritti acquisiti pareva l'inevitabile concetto legislativo sorgente da ogni mutamento di governo, da ogni predominar di fazione.

I diritti civili furono poi subito argomento importante di studio per la Consulta. E dopo un solo anno si potè a buon conto pubblicare il Regolamento Giudiziario, unificazione salutare e progresso insperato sugli antichi sistemi, prevalenti nelle varie provincie del nuovo Stato, e anteriori per la massima parte alle stesse riforme prodotte dai libri del Filangieri e del Beccaria. Si pubblicò un'amnistia generale pei delitti politici, poi la legge 23 fiorile, anno 9.º sull'ordinamento amministrativo e territoriale della Repubblica. I provvedimenti militari furono spinti colla massima alacrità. Legge sulla guardia nazionale, legge sulla gendarmeria nazionale, legge sull'ampliamento della scuola militare di Modena; e finalmente la legge 8 brumale sulla coscrizione militare, novità ardita e non subito apprezzata dalle moltitudini, avvezze fino allora a vedere nella milizia o lo stromento di una tirannia straniera o il triste rifugio degli infingardi e dei mercenarj.

Ma a questo primo ripiglio dell'iniziativa italiana nell'opera riformatrice, non corrispondeva, anzi contrastava acremente l'azione del potere esecutivo.

Questo a poco a poco s'era venuto restringendo in mano agli elementi più inetti. Il Melzi rifiutava ostinatamente di farne parte, per manifesta sfiducia dei precarj ordinamenti, e continuava anzi a restare in Ispagna, donde non si decise ad uscire se non pei replicati inviti del Primo Console che lo volle a Parigi. A Parigi stava pure l'Aldini, inviato per trattare riduzioni di tributi e repressioni di angherie militari. Priva dei due intelletti maggiori, delle due esperienze politiche più consumate, il potere esecutivo lombardo andò a tentoni, finchè un decreto del plenipotenziario Petiet mutò ad un tratto la Commissione esecutiva in Comitato di Governo e lo compose di tre soli fra gli antichi commissarj, un Ruga, Francesco Visconti-Ajmi, e Gio. Battista Sommariva, di Lodi.

Giusto era forse il concetto di rendere meno numeroso il Consiglio esecutivo, ma ne guastò affatto i risultati la scelta infelice degli uomini, dovuta alle peggiori influenze da cui il Primo Console non seppe quella volta abbastanza schermirsi.

Francesco Visconti non era per verità uomo disonesto, e abbandonò il potere appena vide che i suoi colleghi ne facevano stromento di corruzioni. Ma per l'alta carica non aveva titoli sufficienti d'ingegno; forse dovettero parer tali al generale Berthier, influentissimo presso Bonaparte, e che, più costante del suo padrone, continuava a considerare la contessa Visconti come l'ideale della bellezza italiana.

Il Ruga, portato egli pure da influenze femminili, ebbe meno scrupoli del suo collega, e quando uscì dal governo era dieci volte più ricco che quando v'entrò.

Ma chi passò ogni misura di scandali nel salire, nel restare e nello scendere dal potere fu Gio. Battista Sommariva, che, impersonando in sè stesso il triumvirato, adunò anche sul proprio capo tutta la responsabilità di quella malaugurata amministrazione.

Nato barbiere e fattosi, per sorprese di tempi, avvocato, s'era buttato nel moto politico, imbrancandosi naturalmente fra i gruppi più romorosi e più estremi. Per influenza della Società popolare era stato nominato segretario generale del Direttorio cisalpino, ed esercitava così sugli ordini di governo una specie di sindacato costante, in nome e per gl'interessi della democrazia scapigliata.

Al sopraggiungere degli Austro-Russi, il Sommariva era corso a Parigi, e lì s'era accostato a tutti gli elementi equivoci della gran Babilonia, s'era perfezionato nella conoscenza dell'intrigo, nel maneggio degli uomini e nei segreti della corruzione. Così aveva ottenuto la confidenza e l'appoggio di alcuni fra i più alti personaggi del tempo, fra gli altri del Talleyrand e del generale Murat, che non erano troppo schifiltosi sulle qualità morali dei loro amici.

Forte di queste aderenze parigine e di quella furberia che ai mestatori tien luogo sempre d'ingegno, spadroneggiò presto nel Comitato di Governo; ostentò apparenze moderate e lasciò le briglie sul collo a' suoi antichi amici, perchè facessero rivivere le ire e le mascherate del triennio; parlava linguaggio pomposo d'indipendenza, ma ai generali francesi, protettori e complici suoi, accordava ogni più insana domanda: governò male insomma per cinica risoluzione, sapendo che soltanto dal malgoverno possono i cattivi cittadini trarre impunità e occasioni di turpi lucri.

Così dal centro partiva la corruzione e intorno al centro si allargava. Egli aveva segreti legami d'affari con un banchiere Marietti e con un giojelliere ebreo, Formiggini; i quali scontavano al 40 per 100 i boni rilasciati dallo stesso Sommariva per somministrazioni e per debiti dello Stato.

Mentre a Parigi l'Aldini e il Serbelloni trattavano col Primo Console per ridurre a due milioni mensili la contribuzione militare della Repubblica, il Sommariva la stipulava con Petiet e con Murat in una cifra di 2,700,000 lire. Si moltiplicarono misure finanziarie repentine e rovinose; vendite di beni demaniali, lotterie, imposizioni di guerra, prestiti sulle famiglie più ricche, senza criterj direttivi, senza guarentigie di pubblicità; veri agguati notturni, da cui le popolazioni uscivano impoverite e i governanti arricchiti. Il ministro della guerra, Pietro Teulié, avvocato milanese, datosi per inclinazione alle armi e divenuto uno dei generali più valenti dell'esercito napoleonico, aveva dovuto dimettersi per la sua resistenza agli avidi appaltatori militari, che il capo del governo, per solidarietà d'affari, turpemente proteggeva.

Si può pensare che conseguenze dovesse produrre siffatto indirizzo governativo. Tutti ne abusavano, a seconda dei loro istinti, di prepotenza, di vaniloquio o di avidità. Brune e Massena avevano ricominciato le loro estorsioni; il generale Miollis faceva rizzare un albero di libertà e diceva che questo avrebbe fatto rivivere le virtù, le scienze, le belle lettere e le arti. Il generale Varrin si faceva sborsare 440 lire al giorno pel suo pranzo; chiedeva approvvigionamenti anticipati pel doppio della forza che aveva sotto le armi; lacerava in faccia al presidente dell'amministrazione provinciale i documenti che questi allegava a sostegno delle sue ragioni.

Questa situazione non era ignota al Primo Console, a cui denunciavano fatti e chiedevano provvedimenti Paolo Greppi, Ferdinando Marescalchi, Antonio Aldini. E a quest'ultimo rispondeva Bonaparte: “So che laggiù le cose vanno molto male; non si commettono che bestialità e si ruba a precipizio. Quella è gente nata in uno stato mediocre, che si è messa in testa di fare una gran fortuna, profittando del posto… Scrivete loro ch'io so bene tutte le loro bricconate e che creerò una Commissione per esaminarle.„

Ma intanto le altre cure del vasto Stato assorbivano il vasto intelletto; e il Sommariva, corazzato contro ogni severità di parole, continuava ad accrescere, coi metodi di corruzione, i complici d'oggi, che sperava potessero diventare gli ajuti dell'indomani. Lasciava quindi sempre maggiore libertà alle passioni, impunità maggiore ai disordini. I liberatori si atteggiavano da capo a conquistatori; e Carlo Porta flagellava di profondi sarcasmi i facili trionfi cittadini della milizia francese.

Onde Francesco Melzi, che conosceva i suoi paesi e i suoi tempi, scriveva al Primo Console, parlando dei Russi: “ils seront bien plus tôt oubliés que les Français; celui qui opprime et qui tue brutalement blesse encore moins que celui qui humilie.„ E infatti erano ricominciate le vendette personali. L'ajutante generale Hector, nel traversare piazza Fontana, veniva colpito da coltello al cuore; altri ufficiali subivano qua e là dal ferro notturno dei popolani la conseguenza dei rancori politici o più verosimilmente la pena di galanti misfatti. Il paese insomma era travagliato da una profonda malattia morale, e minacciava ricadere nell'odio per la libertà.

La Consulta di Lione ci trasse da queste abbiezioni e inaugurò veramente in Lombardia il periodo della ristorazione morale.

Fu una curiosa pagina di storia italiana e che vorrebb'essere illustrata più largamente di quanto non s'è fatto sinora.

Raccogliere la rappresentanza politica di un paese in una città straniera; elaborarvi tutto intero un organismo di Stato per questo paese; discutervi lo Statuto fondamentale; eleggervi come capo di questo paese un generale pure straniero, che era nel tempo stesso il primo magistrato della Repubblica in cui questa riunione avveniva; e datare da tutto questo guazzabuglio la prima vera epoca di libertà e d'indipendenza pel paese che si lasciava tranquillamente così regolare, sono fenomeni che bisogna giudicare solamente coi criterj di quell'età; straordinarj come i tempi, come gli eventi, come l'uomo che li dominava e li correggeva.

Tutto andava male in Lombardia e bisognava quindi tutto rifare. Chi poteva rifar tutto non era che un uomo, Napoleone Bonaparte. Egli però non poteva far solo e doveva fare rapidamente. Non poteva assentarsi dalla Francia, dove le sue mani movevano tutte le fila d'un febbrile riordinamento amministrativo; non poteva restare a Parigi, dove i rappresentanti italiani si sarebbero trovati in mezzo a troppe e troppo vivaci influenze. Bisognava che alle nuove istituzioni presiedessero gli uomini migliori, e che svanisse tra questi ogni gelosia personale, ogni dissidio d'idee. Si doveva dare al nuovo Stato tutta la forza che deriva da un'amministrazione autonoma, e impedire nel tempo stesso che il suo governo, staccato da ogni potente legame, si trovasse rimpetto a grosse complicazioni europee come



Nave senza nocchiero in gran tempesta.


Questo complesso di cose difficili e necessarie fu sciolto in un modo che allora non si poteva pensar migliore, mediante i Comizj di Lione. Questa città, a mezza via fra Milano e Parigi, dove non giungevano nè le influenze corruttrici del governo cisalpino, nè i propositi dominatori delle consorterie parigine, parve e fu veramente adatto luogo per quel convegno fra gli elementi italiani e gli elementi francesi, da cui doveva nascere il nuovo Stato repubblicano dell'alta Italia. Vi giunsero, nel cuore dell'inverno, frammezzo a intemperie che avevano reso pericolosi tutti i passaggi delle Alpi, parecchie centinaja di rappresentanti, nominati dal governo, dalle città, dalle provincie, dalle università, dalle camere di commercio, dai tribunali, dagli ecclesiastici, dalla guardia nazionale; vi stettero un mese e mezzo, suddividendosi in comitati, lavorando, discutendo, consigliando, studiando miglioramenti di cose ed elenchi di nomi.

Quel congresso presentò in embrione tutti i fenomeni buoni e i fenomeni cattivi che costituiscono il regime parlamentare; ma i fenomeni buoni vi prevalsero perchè erano alte le correnti del patriottismo. Vi apparvero ambizioni puerili che furono dissipate dalla serietà; vi si tentarono intrighi che si ruppero contro l'onestà. Il Prina, il Guicciardi, il Mariani, lo Strigelli, il Marescalchi vi guadagnarono o vi accrebbero la loro riputazione come oratori e come uomini di Stato. Lo zelo e la rapidità nel fare erano gli elementi costitutivi di quel patriotismo serio che la personalità del generale Bonaparte aveva saputo trarre dai ruderi delle parole e modellare a sapiente energia.

Certo, parrebbe incredibile ai nostri giorni, così saturi di abuso e di scetticismo in fatto di riunioni e di commissioni e di rappresentanze, che di 452 cittadini eletti a formar parte della Consulta di Lione, 450 si siano recati al loro posto e vi siano rimasti fino all'ultimo giorno. E sarà sempre un'umiliazione pei nostri meccanismi parlamentari il ricordare che quell'Assemblea costituente di 450 deputati, venuti da diverse provincie, nuovi per la massima parte a pubblici affari, non illuminati da giornali politici o da comitati elettorali, abbia trovato in sè stessa tanta forza e tanta virtù da deliberare e votare, con utile effetto e con perfetta tranquillità, un'intera legislazione politica, in un tempo minore di quello che oggi basterebbe appena per discutere un bilancio dei lavori pubblici.

Il Primo Console arrivò a Lione la sera dell'11 gennajo 1802. La Consulta vi era già radunata da un mese; egli s'era attardato in Parigi per dare le ultime spinte ai negoziati intrapresi coll'Inghilterra e che dovevano condurre alla posticcia pace d'Amiens. Arrivò come un trionfatore, come un sovrano. Era allora in tutta la forza del suo genio, al colmo della sua popolarità. La campagna d'Italia, il riordinamento della Francia, la savia pace stipulata a Luneville avevano circondato il suo nome di un'aureola che più fulgida potè sembrare di poi, non mai più serena nè più meritata. Aveva saputo domare l'anarchia senza elevarsi a tirannide, stravincere senza abusare della vittoria, ricostituire in due anni un paese, sfasciato da così lungo imperversare di guerre e di fazioni. Pochi uomini ricordava la storia, di cui l'ingegno avesse in sì breve tempo lasciata sì vasta orma. Onde la gratitudine toccava all'entusiasmo, e chi non amava, ammirava. Sei mesi dopo, la Francia gli avrebbe dato il Consolato a vita, e due anni dopo, l'Impero; ma fin d'allora il potere di Bonaparte non aveva altri limiti che la sua moderazione. Sventuratamente, questa doveva durare assai meno che il suo splendore.

La città di Lione aveva in quei giorni aspetto fantastico; Milano vi si era rovesciata, e i Francesi guardavano con simpatica meraviglia ad alcuni fra i nostri concittadini d'illustre nome, all'astronomo Oriani, al Cagnoli, al Moscati, al Bossi, pittore, al Longhi, incisore, ad Alessandro Volta, all'arcivescovo Filippo Visconti, che, vecchio di 82 anni, aveva superato le Alpi e non doveva più rivederle[2 - Morì d'improvviso, mentre sedeva ad un pranzo che il ministro Talleyrand aveva offerto ai più distinti italiani. Fu l'ultimo dei patrizj milanesi, che da S. Carlo in poi avevano retto, senza interruzione, la diocesi ambrosiana. Era uomo di alta rispettabilità e di grande influenza.]. Oltre ad essere provvisoriamente la capitale lombarda, Lione pareva quasi divenuta, per una settimana, anche la capitale della Francia. I prefetti e le autorità di venti dipartimenti vi si trovavano raccolti ad aspettare l'arrivo del Primo Console. Una parte della guardia consolare v'era stata inviata da Parigi; la gioventù lionese aveva costituito per quella occasione un corpo di cavalleria d'onore dalle ricche armi e dalle brillanti uniformi. Generali e ministri erano accorsi da Parigi, da Milano, da Marsiglia; e più solenne di ogni spettacolo la vista dell'esercito d'Egitto, reduce in quei giorni dalla sfortunata epopea; laceri e gloriosi avanzi di Arcole, di Rivoli e delle Piramidi, arrivati a Lione in tempo da vedere nel più alto grado della potenza e dello splendore il generale che li aveva guidati a vincere alle foci del Nilo come alle sorgenti del Po.

Il Primo Console era atteso già da più giorni. La popolazione bivaccava nelle campagne per timore di perdere l'ora dell'arrivo; la cavalleria lionese caracollava da quarantotto ore sulla strada maestra; la città splendidamente illuminata; gli animi ebbri. Quando la carrozza comparve, un lungo urlo: viva Bonaparte lo accompagnò fino al palazzo municipale. Colà scese, accompagnato da Giuseppina e dal giovinetto, non ancor principe, Eugenio. Ricevette il dì dopo i magistrati della città, le autorità civili e militari dei dipartimenti, lo stato maggiore dell'esercito d'Egitto, i membri della Consulta, presentatigli dal Marescalchi. A questi ultimi parlava in lingua italiana, seduzione per italiani grandissima. La sera fu in teatro, ove rappresentossi la Merope. Poi, la notte appresso, ad un ballo, a cui Giuseppina e le signore del suo seguito comparvero abbigliate di sole stoffe lionesi.

In pochi giorni, col suo meraviglioso istinto d'affari, e sugli schiarimenti che otteneva dal Marescalchi, dall'Aldini, dal Melzi, dal Talleyrand, fu interamente edotto delle cose trattate e conchiuse, delle difficoltà che restavano ad appianare. V'era stata lunga e sorda lotta fra le idee che voleva applicare all'Italia il Talleyrand e quelle da cui non dipartivasi Francesco Melzi. Prevalsero le ultime che ottennero l'aperto suffragio del Primo Console. Il Talleyrand voleva Stato piccolo, costituzioni vecchie, principe fiacco; Melzi insisteva per istituzioni nuove, per ampio Stato governato da principe illustre. Il ministro cortigiano insinuava che Giuseppe Bonaparte sarebbe stato un egregio presidente della nuova Repubblica, e lo schietto cittadino rimbeccava con fine spirito: “l'existence des archiducs a toujours suivi, jamais précédé celle des rois dans les familles souveraines.„ Egli voleva il Primo Console a capo del suo paese, perchè in lui solo aveva trovato, fra la turba degli statisti contemporanei, concetti politici affini ai suoi e l'autorità necessaria per farli prevalere. Non voleva uno Stato satellite che girasse intorno all'orbita del pianeta; poichè un uomo solo era grande e a tutti pareva necessario, voleva che quello, e non altri, assumesse, dopo la responsabilità del creare, quella del dirigere e del mantenere.

Sicchè volse tutta l'influenza sua e quella de' suoi amici a far sì che la Consulta acclamasse il Primo Console a Presidente; e la Consulta, che già aveva designato nel Melzi il proprio candidato[3 - Anzi il Coppi (Annali d'Italia) afferma che la Consulta in una seduta avesse già nominato il Melzi Presidente e l'Aldini Vice-Presidente.], misurando da quell'alto disinteresse la forza della sua convinzione, si piegò unanime a quel desiderio e incaricò un Comitato speciale di esprimere a Bonaparte la preghiera dei rappresentanti italiani.

Fu nella solenne adunanza del 26 gennajo che lo scioglimento politico si annunciò.

La Consulta era completa. Il Primo Console v'intervenne come a seduta reale, accolto da grandi applausi, e andò a sedersi nella parte più elevata della sala, accompagnato dalla sua famiglia, dai ministri Talleyrand e Chaptal, da un gran numero di generali, da venti prefetti, da quattro consiglieri di Stato. Quando l'acclamato Presidente si alzò per parlare, nell'ampia sala non s'udiva un respiro. Si afferravano le parole, s'indagavano gl'intenti. Bonaparte parlò in lingua italiana, con pronuncia netta e vibrata. Il suo discorso, abilmente conciso e improntato di quella grandiosa semplicità che distingueva il suo dir pubblico, toccava delicatamente molte corde e ne trattava altre con aspra franchezza. Si vedeva ch'egli s'era ricordato di parlare ad Italiani, ma di parlare in mezzo a Francesi.

Sulla questione capitale della Presidenza disse senza ambagi: “non ho trovato fra voi nessuno che avesse ancora abbastanza diritto sulla pubblica opinione, che fosse abbastanza superiore ad ogni spirito di località e che avesse resi tanto grandi servigi alla patria, da potergli affidare la carica di Presidente… mi sono quindi determinato ad aderire al vostro voto, e, finchè le stesse circostanze lo vorranno, io m'incaricherò del pensiero dei vostri affari.„

Sul programma di governo, soggiungeva poi con sintesi sagace, e profonda: “voi non avete che leggi particolari ed avete bisogno di leggi generali; il vostro popolo non ha che costumi locali ed è necessario che acquisti costumi nazionali; voi finalmente non avete armate e le potenze che potrebbero diventar vostre nemiche ne hanno di molto forti… Ma voi avete tutto ciò che può produrlo; una popolazione numerosa, campagne fertili, e l'esempio che in tutte le circostanze vi ha dato il primo popolo dell'Europa.„

Era difficile che tali parole, pronunciate in così straordinarie circostanze e da così straordinario oratore, non commovessero ad alto grado gli animi dei convenuti. Il discorso del Primo Console fu interrotto ad ogni periodo da clamorosi e vivissimi applausi. L'affetto della patria vibrava in tutti quei cuori. Li avvolgeva l'atmosfera della grandezza, il sentimento dell'avvenire. Parlarono il cittadino Mariani, il cittadino Prina, l'arcivescovo Codronchi. Si lessero gli articoli della Costituzione. Si aspettava con ansietà la proclamazione del nome del Vicepresidente che, in forza dell'art. 49, Titolo VIII, era di libera ed assoluta scelta del Presidente. Il Primo Console, con una di quelle mosse efficaci, di cui possedeva il segreto, levossi, chiamò a sè il conte Melzi, lo abbracciò e lo collocò a sedere al suo fianco; poi, presolo per la mano, lo additò all'Assemblea come quegli in cui riponeva piena fiducia e lo proclamò Vicepresidente della Repubblica Italiana. Il nome dell'uomo e il nome dello Stato accrebbero gli entusiasmi; qualche memoria del tempo pretende perfino che gli applausi al Melzi soverchiassero quelli dedicati a Bonaparte. Ad ogni modo il Primo Console poteva essere contento dell'opera sua. Aveva reso tutti contenti. Non gli doveva accader più nel corso successivo della sua meravigliosa carriera.

Francesco Melzi aveva quarantotto anni allorchè assumeva così alto incarico di governo frammezzo a così alte difficoltà. Avrebbe potuto dirsi nella pienezza delle sue facoltà morali e fisiche, se queste ultime non avessero già cominciato ad essere offese da frequenti attacchi di gotta.

Figlio del conte Gaspare e di Teresa d'Eril, damigella spagnuola del seguito della governatrice Rosa di Harrach, aveva appena 21 anni, quando Maria Teresa lo nominò fra i decurioni municipali, tratta dalla grande riputazione che in paese s'era già levata di lui per l'ingegno pronto e l'amabile vivacità. Era stato educato, come la massima parte dei patrizj d'allora, in un collegio di gesuiti, a Modena; ed aveva dovuto resistere, con sagacia e volontà maggiore degli anni, alle pressioni ed alle seduzioni di quei terribili educatori, che, indovinando le forti qualità del loro allievo, avevano concepita la speranza di chiuderlo nel loro bruno sodalizio.

Nella gioventù milanese ottenne presto quella prevalenza che non isfugge all'ingegno, soprattutto quando è sorretto dalla ricchezza. Era l'idolo delle riunioni gaje, l'oracolo delle adunanze pensose. Cognato di Pietro Verri, che aveva sposato in ultime nozze sua sorella Vincenza, era legato per mezzo suo a quel manipolo di preclari intelletti, che, ormai sul tramonto, si vedevano con soddisfazione rivivere in quel giovane forte, serio e gentile. Non era stato esente da un vizio, pur troppo caratteristico delle società eleganti, quello del giuoco; anzi vi si era abbandonato con una forza che ad alcuni amici pareva minacciosa pel suo avvenire. La nobiltà della sua indole doveva trionfare della bassa tentazione. Un giorno si trovava al verde, e si recò a chiedere duemila scudi in prestito ad un amico in cui riponeva grande fiducia. L'amico glieli rifiutò nettamente. “Sarebbero pochi„ gli rispose “pel conte Melzi; sono troppi per un giuocatore.„ Il giovane fu così tocco della severa risposta che abbandonò le bische e non giocò più.

Auspicj femminili lo trassero dalla vita brillante e spensierata dei circoli cittadini, per avviarlo a più vasti orizzonti. Primeggiava allora fra le gentildonne milanesi la marchesa Paola Castiglioni, colta e gentile Egeria di ogni Numa dell'epoca, la cui riputazione di eleganza, di bellezza e di spirito, consacrata nei serali convegni, traversò due generazioni per giungere ancora intera e vivace fino a quella che immediatamente ci ha preceduti.

Francesco Melzi, che allora chiamavano il contino, non era fra gli amici della marchesa il più trascurato. Anzi fu lui ch'essa volle compagno in un viaggio che intraprese in Francia; ed essa gli dischiuse l'ingresso in quelle celebrate riunioni parigine, dove, sotto la gonfia dottrina degli enciclopedisti, romoreggiavano i nuovi e minacciosi ardimenti degli uomini del terzo Stato. Fra quel meraviglioso turbinío di stranieri non si smarrì l'ingegno del Melzi, non ancora trentenne. Vi conobbe il D'Alembert, il Diderot, l'Helvetius, il Marmontel, il barone di Holbach, Vittorio Alfieri. Stette con loro come uomo a cui fosse famigliare qualunque forma di attività intellettuale. E non parve piccino fra quei giganti; tanto che madama di Stael, nelle sue Considerazioni sulla Rivoluzione Francese, ebbe a scrivere di lui: “non esserci stato mai uomo più distinto, neppure in Francia, pel sapore della conversazione, e nessuno averlo mai superato nell'arte di conoscere ed apprezzare tutti quelli che sostenevano una parte sulla scena politica.„

L'indole tutta italiana del Melzi non si sformò al contatto dei ribollimenti francesi. Chè anzi grave materia di esperienza e di studio trasse egli dallo spettacolo vivo di quella nazione, fra cui si elaborava tanta mole di novità. E pur tenendo l'animo aperto alla seduzione per ciò che v'era in quei concetti di generoso e di grande, l'acuto senno ne misurava il pericolo e intravedeva già, dietro il fascino delle parole, la futura intemperanza delle cose.

Innamoratosi dei viaggi e del largo osservare, dopo la Francia percorse la Spagna, il Portogallo, sopratutto l'Inghilterra, studiando ed annotando costumi, istituzioni, uomini, arti, paesi. Tornò, come cinquant'anni dopo il conte di Cavour, ammiratore della costituzione inglese, e convinto non essere possibile ad una nazione acquistare ordini e forze di libertà senza il beneficio principalissimo dell'indipendenza, cui egli giudicava fin d'allora doversi indirizzare il desiderio e lo sforzo di quanti amavano possedere, come le altre nazioni, una patria.

Così, nudrito di fatti e di pensieri nuovi, che lo rendevano, per intelletto e per carattere, singolarmente idoneo a cose di Stato, Francesco Melzi aspettava gli eventi.

Quando apparvero, soverchiando d'un tratto ogni argine di dottrina e di ragione, non si sgomentò. Resistette alla fiumana demagogica come doveva resistere più tardi al torrente del cesarismo. Ai giacobini fu subito in uggia perchè non si umiliava dinanzi a loro. Lo accusarono, nel loro stile barocco “di mettere il capo nel cielo e i piedi nell'inferno per essere nel centro degli affari[4 - Termometro politico, anno 1796.].„ Non era vero. Nessuno più del Melzi era schivo di chiedere ed assumere importanza politica. Più tardi fu anzi questo un difetto che il paese poteva a buon diritto rimproverargli. Ma allora come poi, dir male degli uomini virtuosi era pei viziosi il modo più sicuro e più spiccio di salire in grazia alle turbe e far loro dimenticare le proprie magagne. I malvagi strepitavano, il Melzi taceva; era una prova evidente del torto di quest'ultimo e della ragione dei primi. Così fu imprigionato, sbandito, richiamato.

Non era però il Melzi tal uomo che dello sfregio a sè fatto tenesse broncio al paese. Onde, non appena la prevalenza degli uomini onesti cominciò a risorgere e seppe essere richiesti i suoi servigi, non pose tempo in mezzo a prestarli; e, come addetto ai Comitati di governo, come inviato diplomatico a Rastadt, come consigliere di Bonaparte a Mombello, come inviato a Parigi, come promotore e ordinatore della Consulta di Lione, sollecito in ogni occasione degli interessi e della dignità del paese, ben presto riebbe quella fiducia e quella stima che i suoi concittadini non gli ritolsero poi per tutta la vita. Tanto è vero che popolarità durevole ed unicamente apprezzabile non si acquista col blandire ogni traviamento di moltitudini, per istrapparne un facile applauso, ma coll'uniformare sempre la propria condotta ai dettami di quella onesta coscienza, la quale allora solo è fallace quando s'impaurisce o si fiacca per biasimi non meritati.

Tali erano i precedenti dell'uomo che il 7 febbraio 1802 entrava in Milano, per assumere, con istituzioni nuove, le redini di uno Stato, in cui tutto era sconvolto e tutto era da mutare e da rinnovare. Le accoglienze, com'era da aspettarsi, furono assai festose e sincere. Da un pezzo la Repubblica s'agitava nel vuoto; indispettita della larva di governo cattivo che possedeva; ignara se ne avrebbe avuto uno migliore; incerta fino agli ultimi giorni se dalla Consulta di Lione le sarebbero giunte fortune o delusioni.

“Quel contino se la caverà con onore„ aveva scritto Vittorio Alfieri, appena udita la nomina di Melzi a Vice-presidente. Ed era, più che il pensiero, la speranza di tutti; essendo tutti ansiosi di uscire dal lungo provvisorio e dalla lunga anarchia. Era inoltre confortato il sentimento pubblico dall'idea che questa volta l'omaggio suo non si volgeva ad uno spagnuolo, nè ad un francese, nè ad un tedesco, nè ad un russo. Erano dei secoli che un italiano non appariva più come capo, come guida politica di una così grossa e bella compagine di popolazioni italiane! Onde l'istinto nazionale si sentiva rialzato nella sua dignità e si aprivano gli animi a speranze maggiori di maggiori compagini.

L'arte e la poesia celebravano a gara l'auspicato rinnovamento.

La Costituzione di Lione, firmata da Bonaparte, da Melzi, da Marescalchi e da Guicciardi[5 - Ha la data del 26 gennajo 1802, anno I.º], si deponeva nell'Archivio pubblico, dove tuttora si trova. Andrea Appiani aveva disegnato una medaglia, il Manfredini ne incideva un'altra, Ugo Foscolo pubblicava la sua veemente Orazione a Bonaparte, Vincenzo Monti cantava le lodi del nuovo magistrato e lo chiamava



il mio Melzi, a cui rivola

Della patria il desío.


E il Melzi, serio e severo, perchè preoccupato della grave responsabilità, entrava da Porta Vercellina, in una carrozza preceduta e seguita da brillante accompagnamento di magistrati, di militari, di popolo. Il generale Pino era nella carrozza con lui; il generale Murat era corso ad incontrarlo a capo dello stato maggiore; nell'ultimo posto, ed obliato da tutti, chiudeva umilmente il corteggio – rappresentanza viva delle ironie della sorte – quel generale Despinoy, che sei anni prima aveva trattato i milanesi con tanta impertinenza e che aveva fatto arrestare, con brutalità soldatesca, Francesco Melzi.

Qui comincia il periodo dell'attività politica e della responsabilità per l'uomo insigne che s'era fino allora mantenuto nei più facili confini del consiglio e della censura. E non è piccola lode sua, non è prova leggiera delle sue alte qualità di Stato il poter dire che Melzi uscì con intatta, anzi con cresciuta riputazione, da questo periodo, che è sempre così pericoloso e spesso così fatale per le ambizioni politiche.

Non ci è dato poter qui giustificare questa asserzione. Per essere fedeli alle necessità ed alle proporzioni del nostro studio, dobbiamo respingere da tutte le parti argomenti e fatti che ci si affollano innanzi alla mente; dobbiamo chiudere gli occhi por non vedere il periodo, per dimenticare la moltiplicità degli ostacoli vinti, delle riforme cominciate, delle leggi votate, dei lavori compiuti; dobbiamo resistere alla tentazione di uscire dall'atmosfera dell'uomo per entrare in quella delle cose. Ed è qui soprattutto che sentiamo l'insufficienza del metodo che ci siamo imposti: è quì che dobbiamo chiedere scusa ai lettori se la parola sarà impotente a condensare in un capitolo la materia di un libro e se a questa irta contraddizione fra lo spazio e l'intento ciascuno di essi crederà sacrificate quelle speciali rimembranze e quelle glorie speciali, – militari, legislative, edilizie, – onde s'è composta fra noi la ricca e simpatica tradizione dell'amministrazione italiana.

A questa ha presieduto per più di tre anni Francesco Melzi, rialzando veramente in ogni pubblica azienda quel concetto alto e morale che s'era perduto durante gli ultimi rivolgimenti, e mettendo le basi a quasi tutte le istituzioni che i nove anni successivi del Regno italico avrebbero potuto svolgere e perfezionare.

Il governo di Melzi fu veramente un complesso di uomini, rispettabili nella vita privata, capaci nella vita pubblica, pieni di zelo e di attività salutare. Bonaparte gli aveva dato fin da Lione due soli collaboratori, lo Spanocchi, Gran Giudice, magistrato di severa dottrina e d'incorruttibile probità, e Diego Guicciardi, Segretario di Stato, amministratore sagace e ricco di espedienti, che delle persone e delle cose lombarde aveva conoscenza profonda e precisa.

Intorno a questo nucleo raccolse presto il Melzi gli altri elementi di cui aveva bisogno; e si ajutò di Carlo Verri e del Villa per gli affari interni, di Pietro Moscati per l'istruzione pubblica, di Prina e di Veneri per le finanze, di Bovara e di Giudici per gli affari del culto; all'importante dipartimento delle pubbliche costruzioni venne allora e durò poi lunghi anni quel conte Paradisi, sotto la cui amministrazione furono compiute così gigantesche opere stradali ed idrauliche, ed alla cui scuola si educarono ai futuri prodigi tanti giovani illustri, fra cui la nostra generazione non può dimenticare Elia Lombardini e Pietro Paleocapa.

Soprattutto al concetto morale badava il Melzi, e faceva convergere a rialzarlo tutti i suoi discorsi e l'opera sua. “L'uomo libero„ scriveva al parroco di Magenta “non è che l'uomo probo.„ E pubblicava, dover sopravvivere a tutte le divisioni passate quella sola che ponesse un muro di bronzo fra gli uomini onesti e quelli che non lo sono.

Gli erano dunque fieramente avversi tutti quegli elementi equivoci, che nel primo triennio e dopo la battaglia di Marengo avevano fatto sulle finanze pubbliche così turpi speculazioni. Il Sommariva, congedato con severa frase dal Melzi, ordiva intrighi a Parigi per isbalzarlo. Aveva tentato perfino di mettere contro di lui l'influenza ancora efficace di Giuseppina, facendole offrire dal suo complice Formiggini una collana del valore d'un milione. Giuseppina, onestissima malgrado la sua vanità, respinse il dono, che sotto altre apparenze poteva ricordare il famoso episodio fra Maria Antonietta e il cardinale di Rohan. Ebbe minori scrupoli il Talleyrand, che ritenne, senza chiederne la provenienza, un orologio a brillanti del valore di ottantamila lire.

Questo intrigo poteva essere tanto più pericoloso in quanto s'ajutava di tutte le ostilità, segrete o palesi, a cui la politica schiettamente italiana del Melzi dava pretesto. Giuseppe Bonaparte, che attribuiva all'opposizione sua di non essere Presidente della Repubblica Italiana, ostentava grandi accoglienze al Sommariva, che aveva sposato un'antica amante di Gian Giacomo Rousseau e che teneva in sua casa corte bandita per equivoci commensali, orpellando colle nuove ricchezze l'antica volgarità. Fra i generali, avvezzi all'impunità degli abusi, l'irremovibile severità del Vice-presidente suscitava fieri lamenti. Se n'era fatto il più romoroso banditore Giuseppe Lechi, uomo altrettanto immorale quanto valoroso, non molto dissimile per torbida indole dal fratello Galeano, tiranno di Bormio. Il generale Marmont non era schivo dal prestar mano a queste corruttele, che venivano ad allacciarsi intorno al comandante supremo dell'esercito francese a Milano, Gioachino Murat; cuore onesto, ma debole, che dal suo grado militare e dalla sua stretta parentela col Primo Console traeva un certo disdegno d'essere in qualunque paese il secondo, e a cui non era difficile persuadere che gli spettasse esser primo.

Un pettegolezzo letterario, a cui questa coalizione d'interessi aveva saputo dare le proporzioni d'una congiura, complicava la situazione e accresceva gl'imbarazzi del Vice-presidente. Da Parigi venivano ordini fulminanti, richieste di processi contro Cicognara, contro Magenta, contro Teuliè, per alcune poesie d'un capitano Ceroni, che affettava ostilità giacobine contro il governo del Primo Console. Il quale s'avviava già, per insensibile pendio, su quello sdrucciolo di despotismo violento, in fondo al quale doveva pochi anni dopo trovare la fine della sua grandezza. Scriveva al Melzi, ordinandogli di sfrattare dallo Stato una dama milanese, la signora Fossati, perchè teneva circolo serale di elementi non favorevoli al regime francese. E per queste minutaglie politiche si accalorava tanto da scrivere: “la faiblesse du Gouvernement à Milan passe tout ce qu'il est possible de concevoir.„

Melzi resistette a queste molteplici bufere con severa e tranquilla dignità. “Le général Murat„ scriveva al Primo Console “a couvert de son nom cette trame odieuse„, e se ne appellava alla stessa sorella di Bonaparte, Carolina Murat, donna di maggior senno e di maggiore energia del marito.

Degli intriganti parigini scriveva col più grande disdegno e si meravigliava che presso le alte influenze del Governo avesse “le plus grand jeu la faction de l'ancien gouvernement qui est celle des voleurs.„

Circa le violenze poi che Bonaparte imponeva o consigliava contro avversarj politici, rispondeva: “je crois fermement qu'il y aurait de la folie à combattre les folies, les erreurs, les passions des hommes par la force, car la force leur donne un caractère extrêmement plus dangereux par la réaction qu'elle provoque. Je crois également qu'il est juste et nécessaire de punir les actes ou faits qui portent un caractère criminel. Toute ma conduite a été réglée sur cette distinction.„

Non vi pare di veder qui riassunta con linguaggio preciso e liberale, fin dal 1802, quella famosa teoria del prevenire e del reprimere, che alcune ingenuità dottrinarie considerano come un trovato di tempi così recenti?

Il Melzi chiudeva finalmente le sue corrispondenze, respingendo alteramente qualunque sospetto intorno alla sua lealtà, ed offrendo, come un primo ministro odierno, le sue dimissioni. “Comme il serait aussi injuste qu'absurde d'accuser ma loyauté, ainsi il serait au-dessous de moi de descendre à la justifier… J'avais pu sacrifier mon existence et mon repos au bonheur de ma patrie; mais je n'ai ni le courage ni l'envie de sacrifier mon bonheur à de viles intrigues.„

Bonaparte, reso ai sentimenti nobili e giusti da questa fiera dignità dell'amico suo, gli diede intera soddisfazione sopra ogni argomento. Cacciò da Parigi il Sommariva e i complici suoi, scrisse a Murat, biasimando la sua ostilità contro Melzi e dicendogli: “vivez bien avec lui.„ Al Cicognara, al Magenta, al Teuliè restituì, dopo poco tempo, libertà ed onori. Non accettò naturalmente le dimissioni offertegli, dicendogli anzi: “il est impossible qu'avec la confiance que je vous accorde, vous éprouviez aucune tracasserie.„ E, avendogli anche più tardi, sotto un altro accesso di stanchezza e di gotta, ridomandate il Melzi le sue dimissioni, Bonaparte gli rispondeva con una delle sue frasi sovrane: “vous êtes engagé dans la lice; il faut désormais que vous mouriez au milieu des hommes et des embarras du gouvernement des nations.„

Di questa tempra alta e veramente liberale del Melzi si potrebbe trovare la traccia in ognuna delle sue lettere, in ognuna delle sue disposizioni di governo. Era un ingegno equilibrato e coerente, che non aveva nessun pregiudizio di tempi e in parecchie cose preludeva a progressi futuri.

Quando riordinò l'Università di Bologna, nominò alla cattedra di lingua e letteratura greca una colta signora, Clotilde Tambroni. Costituì vigorosamente il servizio pubblico dell'innesto del vajuolo, disciplina ancora così discussa e così timidamente accettata, che Lorenzo d'Orlando scriveva qualche anno prima al conte Giberto Borromeo: “Mi rallegro con V. E. dell'esito felice d'una operazione tanto pericolosa come è l'innesto del vajuolo.„

Sollecito di cultura pubblica, incoraggiava di sussidj e di commissioni Ugo Foscolo, Francesco Soave, Andrea Appiani, Canova. Ordinò l'Esposizione annuale periodica di Brera; stabilì dodici pensioni pei giovani artisti che si recavano a Roma; destinava fondi dello Stato a incoraggiare la grandiosa pubblicazione dei Classici Italiani; sussidiava del proprio una splendida edizione dei celebri scritti militari del bolognese Francesco Marchi.

Delle grandi necessità politiche poi aveva un sentimento alto e sicuro. Patrocinava in ogni occasione l'ingrandimento territoriale della Repubblica, la cui mostruosa conformazione, prima dell'annessione del Veneto, diceva fonte di gravi danni e pericoli. Agli ordinamenti militari poneva tutto il suo zelo, e fin dalla prima riunione del Corpo Legislativo, aveva scritto nel suo Messaggio, con intonazione affatto napoleonica: “Poichè le armate d'Europa riappresero il cammino d'Italia, è pur forza sovvenirvi che a' suoi soldati apprese l'Italia un giorno le vie del mondo.„

Dopo tre anni di un'amministrazione governata con tanta prudenza e tanto affetto, ecco un nuovo turbine che scende dalle Alpi, l'Impero.

Un giorno, Francesco Melzi è invitato a recarsi senza indugio a Parigi dal Primo Console Presidente. La novità della richiesta fa presagire gravissimo abboccamento. Parte, lasciando il governo al Gran Giudice, colla raccomandazione di consultare negli affari importanti il Moscati e il Guicciardi. Giunge a Parigi a tarda notte, è subito condotto alla presenza del Console, e rimangono quattro ore in segreto colloquio. Quando ne usciva, la nuova rivoluzione politica era stabilita, la Repubblica Italiana diventava il Regno d'Italia, Napoleone I cingeva la sua corona e nominava Vicerè il suo figlio adottivo, il colonnello Eugenio Beauharnais.

È la terza fase del periodo italiano che ora incomincia: fase che ha usurpato, nella tradizione storica, tutta la gratitudine dovuta all'intero periodo, soltanto per quella fatale preferenza che l'uomo accorda sulle felicità oneste e tranquille alle glorie tragiche ed alle romorose sventure.

Nulla si mutava in apparenza, tranne i nomi, gli spettacoli e le uniformi; in realtà, delle due basi fondamentali su cui fino allora il governo s'era fondato, la saviezza e l'energia, la prima cominciava ad affondarsi, e la seconda, abbandonata dalla sua compagna, assumeva sempre più uno solo degli aspetti sotto cui suole presentarsi, quello della violenza.

Ad un uomo, invecchiato negli affari e nelle difficoltà politiche, come Francesco Melzi, succedeva un giovane di 23 anni, inesperto degli uomini, voglioso di piaceri e di gloria, che, soverchiato dalla immensa grandezza del genitore, non si permetteva di discutere il menomo dei cenni suoi.

Giacchè questa fu veramente la differenza caratteristica fra la Repubblica e il Regno. Nella prima, agli ordini impensati, talvolta impetuosi del Presidente era efficace correttivo la prudente fermezza del Vice-presidente; nel secondo, le volontà imperiose e precipitose del Re erano aggravate dalla leggerezza e dalla inesperienza del Vicerè. L'equilibrio era rotto fra l'autorità lontana e la saviezza vicina; questa spariva, quella cresceva; e gli eccessi napoleonici, spintisi, per la rottura dei freni, alla ricerca dell'universale e dell'impossibile, preparavano sordamente la riscossa dell'odio nelle popolazioni balestrate da così mobile tirannia.

Napoleone, divenuto imperatore, scese due volte ancora dalle Alpi a Milano; ma egli pure aveva subito la sua terza trasformazione. Non era più il generale Bonaparte, vivace, entusiasta, colla patria sul labbro e l'amore nel cuore; non era più il Primo Console, pensoso, gentile, prudente nel parlare e savio nell'operare; era un uomo ingrassato di corpo e irrigidito di animo, freddo, altiero, preoccupato di cerimonie e di etichette, insofferente di ogni contraddizione, duro cogli uomini, ineducato colle signore; il cui linguaggio era forza, la cui politica era forza; un uomo che credeva legge morale il suo capriccio, e giustizia la collera, e impertinenza la verità, e felicità del mondo la sua soddisfatta ambizione.

L'antico giacobino era imbarazzato sotto il manto imperiale. Lo portava talvolta con un fasto di cattivo gusto, talvolta se ne spogliava con soldatesca ruvidezza. Metteva la dignità nell'essere brusco anzichè nell'essere cortese. Sentenziava sopra ogni materia, e sovente, su quelle di cui era digiuno, spropositava. Si fece incoronare con pompe teatrali, con isfoggio di carrozze dorate, di cavalli bianchi, di mantelli d'ermellino, di corone, di scettri, di globi d'oro. Obbligava i parroci a vegliare di notte, nel rigido inverno, sulle porte delle chiese, per incensarlo quand'egli passava in carrozza chiusa. Aveva sulle braccia l'Europa, il blocco continentale, la prigionia del Papa, e rimproverava la marchesa Busca, figlia del suo amico Serbelloni, perchè si era presentata un giorno alla sua Corte collo stesso abito che portava il dì prima.

Questo sovrano, tutto a sbalzi e ad effetti, sterminato di genio e innamorato di forme, dava ad Eugenio consigli eccellenti in cose di governo, ma poi, giunto a Parigi, li dimenticava affatto e gli fulminava ordini e decreti in aperto contrasto coi consigli di prima. Gli diceva a Milano: “supremo interesse per voi è di ben trattare gl'Italiani: „ e da Parigi gli scriveva: “abbiate per divisa: la Francia innanzi tutto[6 - Cusani, VI, pag. 165 e 318.].„ Dall'antica dicitura presidenziale: “Je vous conseille, je crois nécessaire, je trouve convenable„ era passato alla formola pura e semplice del padrone: “je veux, je vous ordonne.„ Prescriveva da Parigi la dislocazione dei corpi d'esercito e la quantità di vino che doveva bere la vice-regina incinta. Negli ultimi anni, il suo despotismo era divenuto veramente un delirio, ed ogni traccia di genio spariva dietro il linguaggio brutale che usciva dal suo pensiero malato. Sopprimeva, con un tratto di penna, una delle istituzioni fondamentali dello Stato, il Corpo Legislativo; dava ordine che si fucilasse Andrea Hofer, violando le promesse fattegli all'epoca del suo arresto; in lotta col Papa, scriveva ad Eugenio di fare appiccare un librajo che ne pubblicava le encicliche, di mitragliare alla menoma apparenza di movimenti cittadini, di fucilare chi distribuisse coccarde papaline, fossero anche dei cardinali. Le istruzioni che mandava al principe Eugenio, per mezzo del maresciallo Duroc, respiravano una cinica frenesia di potere. “Si vous demandez a S. M. ses ordres ou son avis pour changer le plafond de vôtre chambre, vous devez les attendre; et si, Milan étant en feu, vous les lui demandez pour l'éteindre, il faudrait laisser brûler Milan et attendre les ordres…[7 - Du Casse, Mémoire et Correspondance du Prince Eugène.]„

Ci volevano questi ebbri furori per paralizzare i beneficj sorti dagli ordini precedenti e gli splendori che erompevano a scatti dal genio disordinato. Dal 1802 al 1814, la vita di Milano era stata grandiosa. Sentiva per la prima volta, da Lodovico il Moro in poi, gli effetti di una vera preminenza politica e civile. Era la capitale di un grande Stato, che negli ultimi anni comprendeva ventiquattro dipartimenti ed una popolazione aggirantesi intorno a sette milioni. Dopo tanti anni di vita umile, isolata, ora compressa, ora fanatica, ma sempre secondaria, il popolo milanese respirava in un ambiente largo, importante; vedeva i grandi personaggi passeggiare per le sue vie; si sentiva legato, per autorevoli solidarietà, coi grandi affari d'Europa. Lo spirito pubblico, vivo e intelligente, si metteva a livello de' nuovi destini. Elaborava uomini politici e generali d'esercito, che tenevano con onore il loro posto in quella meravigliosa generazione europea. La conversazione sociale e i discorsi popolari trovavano pascolo educativo in fatti nuovi e memorabili, che li svezzavano dall'antico pettegolezzo. Ora si vedeva aprire la via del Sempione, ora sorgevano le fondamenta dell'Arco di Piazza d'Armi, ora si metteva mano alla facciata del Duomo, ora si scavavano navigli e canali, a favore di Milano, di Pavia, di Mantova, di Brescia. Oggi era l'incoronazione di Napoleone, domani il matrimonio del Vicerè. Un giorno si discorreva dell'annessione al Regno delle provincie venete o marchigiane, un altro giorno del famoso decreto di Milano intorno al blocco continentale; poi le glorie dei nostri militari infiammavano d'entusiasmo; si udiva con dolore ed orgoglio che al Teuliè morto a Colberg l'esercito francese innalzava un monumento; s'era altieri che Napoleone avesse detto ad Aldini: “gl'Italiani ridiventeranno i primi soldati d'Europa.„ Splendidissime feste celebravano il ritorno dalle campagne germaniche dell'eroica divisione di Pino. E dal fondo della Spagna giungevano altre notizie del valore italiano, tenuto alto dal Palombini, dal Severoli, dal sergente Bianchini. Il principe Eugenio, non felice negli affari, presiedeva meglio alle feste e sosteneva bravamente le guerre. La sua Corte era il regno dell'eleganza e dello splendore; vi teneva uno scettro indisputato quella donna squisita di bellezza e di bontà che era la Vice-regina Amalia di Baviera; e intorno ad essa brillavano di splendori proprj alcune gentildonne universalmente ammirate; la marchesa Litta, la contessa Parravicini, la contessa Arese; apparve più tardi in quelle sale, e vi portò un profumo di fiera amabilità quella gentile Teresa Casati-Confalonieri, predestinata ad essere di un cupo e pietoso dramma la vittima e l'eroina.

In tutto questo periodo di romori e di magnificenze, Francesco Melzi tiene silenziosamente ma efficacemente il posto suo. L'austero vecchio vede esplicarsi e allargarsi le conseguenze dell'onesta attività da lui impressa alle cose pubbliche, e se ne compiace; vede i pericoli che preparano allo Stato le passioni sfrenate o frivole de' suoi condottieri, e si rammarica di non poterli evitare; vede le popolazioni cementarsi, malgrado ciò, in una forte ed omogenea comunanza di vita politica, e ne trae lusinghiere speranze per un avvenire ch'egli non è destinato a vedere.

L'imperatore Napoleone non gli scema, anzi gli accresce dimostrazioni d'amicizia e di stima. Gli aveva proposto in moglie la sorella Paolina, vedova del generale Leclerc; onore che Melzi declinò con grande riconoscenza e con maggiore prudenza. Quando la Repubblica fu tramutata in Regno, Napoleone lo nominò Gran Cancelliere Guardasigilli, coll'onorario di trentasei mila franchi; poi gli accordò, unico fra tutti gli Italiani, uno dei grandi feudi della Corona, col titolo di duca di Lodi e un appannaggio di duecento mila lire. Quando venne a Milano nel 1807, andò con grande ostentazione a visitare il Melzi nel palazzo Serbelloni, e non permise che l'illustre gottoso si alzasse dalla sua seggiola per riceverlo.

Le lettere poi che Napoleone scriveva da ogni angolo dell'Europa all'antico amico suo respirano sempre la più grande benevolenza e la più solida stima. “Je vois avec peine que vôtre santé n'est pas aussi bonne que vôtre tête.„ “Depuis que vous gérez les affaires de l'État son administration s'est considérablement ameliorée.„ Al principio del 1812, sul punto d'intraprendere la campagna di Russia, Napoleone sente il bisogno di avere intorno alla lontana Italia informazioni sicure, ed ordina a Melzi di fargli ogni giorno un rapporto sulla situazione del Regno. Nell'archivio della famiglia si conserva il protocollo di queste relazioni giornaliere, che, senza offendere l'autorità diretta del Vice-re, servivano forse, nel concetto dell'imperatore, a controllarne l'inesperta politica.

Fu detto che Francesco Melzi fosse stato assai offeso di vedersi, negli onori supremi del nuovo Regno, posposto ad un giovinetto senza titoli come Eugenio Beauharnais, e che il suo contegno riservato negli ultimi anni movesse da questa causa.

Tutti i precedenti dell'uomo, i suoi carteggi col principe Eugenio e la sua condotta all'epoca della finale catastrofe dimostrano come questa supposizione non regga. Può darsi che Melzi sentisse abbastanza alteramente di sè da credersi meglio indicato e meglio atto del principe Beauharnais a dirigere, sotto e contro Napoleone, gli affari italiani. In ogni caso, era una opinione che sarebbe stato solo a non avere fra gli uomini intelligenti al di qua delle Alpi. Ma nessuna attitudine sua autorizza il sospetto che questa opinione lo avesse, nè prima nè poi, reso più indifferente alle cose del Regno o meno zelante a rimuovere, d'innanzi al principe Eugenio, le difficoltà del Governo.

La severità del carattere si univa in lui all'artritide per allontanarlo da quelle pompe e da quelle pubblicità, onde troppo si compiaceva la giovanile spensieratezza del figlio di Giuseppina. Ma dei doveri della sua carica non fu dimentico mai e, quando vennero i tempi grossi, non risparmiò ad Eugenio consigli insieme affettuosi e severi, che, seguiti, avrebbero forse dato alle cose del Regno un avviamento migliore e prevenuta la tragedia del 20 aprile 1814.

Intorno a questa, ed alle cause, dirette o indirette, che la produssero, c'intratterremo con qualche larghezza nel successivo capitolo.

Francesco Melzi sopravvisse pochi mesi a quella funesta rivoluzione.

Ridottosi a vita privata, alternava i soggiorni fra il palazzo di Milano e l'artistica villa che s'era fabbricata a Bellagio; riceveva pochi e sicuri amici; discorreva con essi di questioni politiche e di riforme educative[8 - Fra queste bisogna mettere in prima linea l'interesse vivo e costante che portò ai nuovi metodi inglesi d'istruzione e di educazione. Fu lui che acquistò nel 1812 da un Luigi Piccaluga l'antico convento di S. Maria delle Grazie in Lodi, per insediarvi appunto una di quelle istituzioni didattiche, venute più tardi in gran riputazione fra noi, sotto la denominazione di Dame inglesi. I suoi eredi e successori continuarono e completarono in questa materia le intenzioni del loro glorioso antenato; e nel 1830 il duca Gio. Francesco cedette, con pubblico istromento, alla signora Maria Cosway, rappresentata da don Palamede Carpani, allora consigliere ispettore delle scuole elementari, tutto l'edificio di Lodi, in cui ebbe sede d'allora in poi, e mantenne alto il principio educativo, l'Istituto chiamato appunto delle Dame Inglesi.]; si spense, religiosamente tranquillo, il 16 gennajo 1816. Uomo di carattere antico e di cultura moderna, che discende politicamente in retta linea dai grandi personaggi milanesi dei secoli antecedenti, dal Simonetta, dal Morene, da Bartolomeo Arese; austero come il primo, intelligente come il secondo; come il terzo, bramoso di conciliazioni fra le asprezze del tempo. Liberale di dottrina, perchè vissuto in mezzo ad abusi nobiliari ed a corruttele plebee, tenne sempre alti, innanzi a sè, interessi di paese, non di fazione; e per quelli non esitò ad affrontare nei pubblici uffizj Maria Teresa come i Giacobini, come il Primo Console, come l'Imperatore. Governò tempi di rivoluzione con guarentigie di conservazione; e dopo di lui bisogna giungere fino al conte di Cavour per trovare un altro italiano che abbia retto, con eguale autorità, compagine eguale di popoli appena riuniti. Ebbe a programma di rinnovazione la politica nazionale più unitaria che i tempi avessero consentito; come programma di conservazione, adottò un sistema di governo che non usciva dai limiti e non si perdeva per via; religione senza fanatismo, libertà senza frasi, disciplina senza pedanteria, ordine senza violenza, un gran sentimento di dignità dello Stato, una resistenza tranquilla ma severa alle tirannie che discendono e a quelle che salgono.

Nel complesso, può dirsi in Italia il creatore del partito liberale moderato negli ordini di governo; poichè, prima di lui, s'era governato o con riforme di principi assoluti o con assolutismi di apostoli democratici; e, se oggi vivesse, avrebbe poco a mutare degli scritti suoi, poco a modificare de' suoi metodi e de' suoi principj nelle questioni di Stato.

Quando morì, l'imperatore Francesco, pauroso della sua scomparsa come della sua presenza, vietò che i giornali ne annunciassero la morte. Era logico il sovrano straniero, desiderando di cancellare dall'affetto dei contemporanei e dalla memoria dei posteri il cittadino che aveva tratto governo riparatore da rivolgimento d'indipendenza. Ma non sarebbero logici i concittadini suoi, se a sentimenti affatto contrarj non dessero affermazione più decisa e più risoluta.

Milano ha tuttora un debito verso Francesco Melzi d'Eril, duca di Lodi. E noi ci uniamo al desiderio già espresso da un valente illustratore di storia patria[9 - Il nobile Felice Calvi, vice-presidente della Società Storica Lombarda.], augurandoci che la nuova magistratura cittadina metta fra i cómpiti suoi quello di trarre dalla prossima riforma edilizia della città l'occasione di onorare in faccia ai posteri con durevole forma la memoria dell'unico milanese che nel corso dei secoli abbia governato sette milioni d'Italiani con metodi di libertà.




GIUSEPPE PRINA

E LA FINE DELL'EPOCA NAPOLEONICA


Si seguono ordinariamente due metodi nello studiare la storia. L'uno (ed era il metodo caro sopratutto agli antichi) considera l'uomo come fattore esclusivo dei fenomeni storici, come l'arbitro dei fatti e dei casi. Con questo metodo, la storia diventa in certo modo un dramma od una epopea. Lo svolgimento dei destini storici dipende dalla passione d'un uomo, da un affetto di donna, da un'eccentricità. Si può sostenere, per esempio, con questo metodo, che la Repubblica Romana è perita perchè Cesare aveva dei debiti da pagare; che l'Austria esiste perchè il pugnale di un fanatico, Ravaillac, ha spento trecent'anni fa il più formidabile dei suoi avversarj; che la riforma religiosa è divenuta potente in Europa perchè un Re libertino ha veduto due begli occhi in volto ad Anna Bolena. È un'esagerazione, che spegnerebbe ogni fede nelle ragioni del progresso e della civiltà.

Poi è venuto Bacone, è venuto G. B. Vico, è venuto Herder. La storia ha cessato d'essere un caso ed è diventata una legge; dalle peripezie del dramma è passata all'angolosa rigidezza della filosofia. Quello che accade, è accaduto perchè doveva accadere; lo svolgimento storico segue teorie prestabilite, malgrado e contro ogni risoluzione umana; non è più il libero arbitrio che regge la storia, è la fatalità. Siamo qui in un'altra esagerazione; e bisogna reagire, in nome del vero, contro le inflessibilità sistematiche, così dell'uno come dell'altro metodo. Cinquant'anni di storia non rappresentano che un atomo nello svolgimento dell'umanità; ma rappresentano la fortuna o la sventura di due intere generazioni, ed è possibilissimo che il genio o il vizio d'un uomo diano a questi cinquant'anni un avviamento buono o fatale. La storia non è nè tutta dramma, nè tutta legge; nè tutto metodo, nè tutta fatalità; non devia, per capriccio d'uomini anche potenti, dalla successione logica de' suoi sviluppi; ma non è neanche così rigida ne' suoi contorni da non lasciare gran posto alle virtù o agli errori, alla previdenza od alla spensieratezza degli uomini. Se fosse altrimenti, non varrebbe neanche la pena di studiarla; bisognerebbe incrociare le braccia e invocare il destino, a scusa delle nostre viltà.

Studiare la storia vuol dunque dire: esaminare quanta parte di responsabilità abbiano i casi e quanta gli uomini nello svolgimento o troppo tardo o troppo rapido delle grandi leggi morali; formarsi un giusto criterio delle situazioni storiche comparabili o affini; e cercare alla filosofia e alle scienze sociali il mezzo di coordinare il moto degli uomini a quello degli eventi, il segreto di quelle prudenze e di quelle tolleranze, per cui a questo duplice moto, irresistibilmente fatale, possano essere risparmiati gli urti, cagioni quasi sempre di dolori, talvolta di catastrofi.

Riflessioni di questa natura si presentano spontanee alla mente, quando si volge lo studio all'epoca fortunosa che si chiuse colla rivoluzione del 20 aprile 1814. Giacchè in poche catastrofi storiche si possono vedere e sceverare più chiaramente le forze per così dire eruttive degli avvenimenti; pochi esempj valgono più di questo a mostrare come la passione degli uomini abbia turbato, credendo di aiutarla, l'elaborazione degli effetti.

Eccederebbe troppo le proporzioni ordinarie di questi nostri saggi storici il riassumere, anche nella forma più breve, il processo evolutivo del primo Regno d'Italia. Creazione capricciosa e artificiale, come tutte quelle che uscivano quasi settimanalmente dal genio sfrenato e politicamente infecondo del primo Napoleone; un complesso di casi e di uomini, costretti ad assumere forma plastica e quasi compatta sotto l'influsso di quella potente volontà, aveva dato però a questo organismo politico una fisonomia così forte e così spiccata, da lasciare grandi speranze di una solidità maggiore e più duratura.

Aveva cominciato con quattro milioni d'abitanti e quattordici dipartimenti lombardi ed emiliani; vi si erano aggiunti man mano otto dipartimenti veneti, tre dipartimenti marchigiani, un dipartimento tirolese; aveva ormai raggiunto i sette milioni d'abitanti; era lo Stato più forte d'Italia, dopo il regno di Napoli. Possedeva un'amministrazione oculata e sopratutto energica; s'era fatto, dai ruderi delle legislazioni anteriori, un codice di leggi chiare, efficaci, assai previdenti; contava una plejade d'uomini distinti in ogni ramo di scienza, di arti, di pubblica e pratica attività; aveva un esercito nazionale di 80 mila uomini, condotto da brillanti generali, al cui valore e alla cui disciplina Napoleone, giudice non indulgente di questioni italiane, aveva reso più volte sincero omaggio[10 - Al generale Fontanelli diceva Napoleone, passando in rassegna nel 1813 la sua divisione “con centomila soldati pari ai vostri, Eugenio sarebbe già sul Danubio.„]; vedeva sorgere od ampliarsi, per avvedute iniziative di governo, istituzioni pubbliche di alto e progressivo indirizzo, il Monte Napoleone, le Università di Pavia e di Bologna, le Accademie di Belle Arti, il Conservatorio di musica, il Collegio reale delle fanciulle. I lavori pubblici, così edilizj, come stradali ed idraulici, ebbero allora un impulso, per lo innanzi non ricordato mai; dalla strada del Sempione ai canali navigabili del Mincio e del Po, dalla facciata del Duomo all'arsenale di Venezia, dal parco di Monza alla villa di Stra, tutto il Regno era invaso da una febbre di costruzioni, condotte con larghi criterj e con isplendida munificenza. La politica finanziaria del governo era fiscale, ma non taccagna. Si faceva pagare, ma si spendeva.

A questo bagliore di prosperità materiale faceva duro contrasto la mancanza di libertà politica. L'arbitrio governativo era enorme; la polizia onnipotente; la noncuranza di ogni garanzia legale di ordine politico trasudava, per così dire, da tutti i pori dell'Amministrazione suprema. Un dì era Melchiorre Gioja che si sfrattava dallo Stato per avere scritto un opuscolo timidamente disapprovatore dei ministri in carica; un'altra volta era un giornalista, il Lattanzi, che si chiudeva – orribile a dirsi – in uno spedale di pazzi, per aver osato rivelare un segreto di governo che sarebbe stato pubblico otto giorni dopo[11 - Federico Coraccini, Storia dell'Amministrazione del Regno d'Italia durante il dominio francese.]; una sentenza politica d'inaudita implacabilità colpiva il comune di Crespino e lo poneva per un anno fuori della legge, a discrezione di un brigadiere di gendarmeria, per aver accolto con applausi, durante la guerra, un drappello di nemici giunto ad impadronirsene.

Che più? il Corpo legislativo, stabilito dal terzo Statuto costituzionale del Regno, avendo voluto discutere un progetto di legge sul Registro, mandato da Parigi, e domandare qualche modificazione alla tariffa, l'imperatore Napoleone prescrisse al Vicerè che riproponesse tal quale il progetto al Corpo legislativo e lo facesse votare senza ulteriore disamina. E malgrado che dalla servilità di quell'assemblea avesse ottenuto quanto voleva, allorchè gli fu presentato il successivo bilancio, in cui era naturalmente impostata la cifra delle spese pel Corpo legislativo, si risparmiò anche la fatica di un decreto di soppressione; si limitò a cancellare, con un tratto di penna, la cifra assegnata a quel capitolo, e del Corpo Legislativo in Italia non si parlò più. Vi sostituì, due anni dopo, un corpo più ossequioso, di funzioni consulenti e d'indole non elettiva, il Senato.

Di questo miscuglio di beni e di mali aveva la responsabilità ufficiale un giovane di animo generoso e di molta inesperienza politica, Eugenio Beauharnais.

Assunto a Vicerè d'Italia in un'epoca, in cui pareva che la incredibile grandezza della fortuna napoleonica dovesse vincere ogni legge di tempo, il principe Eugenio s'inchinò coll'affetto d'un figlio e colla devozione d'un discepolo a quella grandezza, e pose ogni zelo nel secondarne gl'intenti, le volontà, il delirio. Persuaso che in quella intelligente tirannia stesse il segreto del governo delle nazioni, ubbidì come Napoleone voleva essere ubbidito, disapprovando talvolta in cuor suo la violenza di quei comandi, cercando spesso addolcirne la pratica esecuzione, assumendone sempre, con molto disinteresse, la diretta responsabilità. Esposto alle facili seduzioni della vita in quegli anni in cui l'austerità non invoglia, ebbe un primo periodo in cui teneva volentieri per sè le soddisfazioni del governo, ne lasciava i pesi e gli affari al suo segretario Méjean. Offese colle prime molte suscettività, come il segretario offendeva dal canto suo molti interessi. Verso gli ultimi anni del regno, divenuto più serio e più pensoso, reagì nobilmente contro quelle prime spensieratezze giovanili, gettandosi nelle cose militari, dove mostrò talenti distinti e raccolse plauso ed onori. Ma neanche lì risparmiò raccolta di avversarj, scoppio di rancori, addensati da rivalità di campo o da misure di disciplina. Nel complesso, non era odiato, ma era impopolare; impersonava diffidenze, pericoli, antipatie che avevano cagioni varie, non tutte e non le più gravi imputabili a lui; nè bastava a rompere questa corrente la dolce influenza della Vice-regina, Amalia di Baviera, a cui le tradizioni dell'epoca attribuiscono concordi lo scettro della gentilezza e della virtù.

Fra queste gare e queste influenze si veniva peggiorando lo spirito pubblico, a cui era venuta meno la saggia impulsione di Francesco Melzi. Infatti, il Gran Cancelliere, ridotto dal nuovo regime a funzioni di parata piuttosto che a direzione d'affari, perdeva sempre più l'occasione di esercitare sui suoi concittadini quell'influenza salutare che per tanto tempo la sua esperienza e il suo carattere gli avevano mantenuto. Il personale francese del gabinetto di Eugenio era geloso di lui. Più ancora del conte Méjean lo astiava un favorito del principe, Antonio Darnay, nominato, in uggia alla pubblica stima, Direttore generale delle Poste, e che non si peritava di abusare dell'ufficio suo per disuggellare le lettere e sorprendere i segreti dei cittadini.

Melzi, troppo altiero per scendere ad avversarj così minori di lui, si limitava ad offrire al Vicerè i suoi consigli, sempre assennati, ma non sempre accolti con quella serietà di propositi con cui erano dati. Egli vedeva le condizioni del Regno farsi sempre più gravi e ne avvertiva il pericolo. Fin dal 1811, più di 250 aggressioni a mano armata sulle pubbliche vie, più di cento invasioni nelle case private, con assassinj e ferimenti, dimostravano a che debole filo tenesse la pubblica sicurezza, il sintomo ordinario da cui si può giudicare il pregio di un governo.

Quando comincia la campagna di Russia, e il principe Eugenio deve partire per l'esercito, conducendo seco il fedele Méjean, le cure dello Stato ricadono forzatamente sulle spalle del Duca di Lodi, la cui corrispondenza col Vicerè e coll'Imperatore diventa più minuta e più frequente. E, quando giungono le prime notizie dell'immane disastro, che piomba nel lutto tante migliaja di famiglie italiane, Melzi non esita ad informare Eugenio della molta concitazione di animi che si manifesta a Milano e dell'avversione che comincia a destare una politica così spensieratamente ed ostinatamente guerriera.

In cosiffatte circostanze, le preoccupazioni del Vicerè si rivolgevano alla Corona di Ferro, e scriveva a Melzi (il 7 novembre 1813) che “se si dovrà evacuare il territorio e ritirarsi a Torino, incarichi Pino di recarsi a Monza e trasportare in salvo la Corona ferrea.„ Poi, da Verona (il 27 novembre) risponde agli avvisi di Melzi una lettera piena di amarezza, quantunque non priva di alti sentimenti. “Sono abbastanza sicuro del mio carattere per garantire che quelli che non avranno ferito che me non avranno motivo d'accorgersi che io mi sovvenga dei loro torti… Io meritavo meglio di quello che ho ricevuto… mi rimarrà, ne son certo, la stima degli uomini che, come voi, hanno potuto e voluto valutare le mie intenzioni e giudicare le mie azioni. L'opinione di questi mi basta[12 - Archivio Melzi d'Eril.].„

Ma il vecchio uomo di Stato non s'illudeva più da assai tempo intorno alla crisi del sistema napoleonico. E invano l'imperatore gli scriveva da Parigi il 18 novembre (1813): “J'ai ici 800,000 hommes en mouvement et, quelque chose qui arrive, les Autrichiens ne resteront point maîtres de l'Italie[13 - Archivio Melzi.].„ Melzi accettava con rispettoso silenzio queste ultime confidenze del genio morente, ma non si lasciava avvolgere in quelle deliranti speranze.

Sicchè il 1.º febbrajo 1814, il principe Eugenio, che fronteggiava sull'Adige le schiere nemiche, riceveva dal Gran Cancelliere una lettera grave, che conteneva gravi consigli. Lo scongiurava a differire il richiamo dei figli unici nella nuova coscrizione militare “pour calmer la douleur des nombreuses familles qui y sont interessés.„ Gli pareva che importasse “dans l'heure qu'il est„ di allontanare “tout sujet de desagrément autant qu'il est possible, et de ne pas laisser à l'ennemi l'occasion de se concilier l'affection du peuple, en exécutant lui quelques jours après ce que nous aurions pu executer quelques jours avant[14 - Archivio Melzi.].„ Soggiungeva il Melzi: “l'expérience des mois passés nous a prouvé que sur dix hommes qu'on appelle, il y en a six ou huit qui deviennent réfractaires et grossissent la masse des assassins„; tanta era già divenuta la ripugnanza del popolo al servigio militare e tanta già l'impotenza amministrativa a renderlo obbligatorio! Nè alle sole questioni militari si limitavano i suoi consigli, ma sentendo già profondo anche il malcontento finanziario, gli suggeriva di condonare parecchie quote non soddisfatte di un prestito forzato che alcuni mesi prima, dal suo quartier generale di Caldiero, il Vicerè aveva decretato, e che il Melzi affermava “malissimo basato fin dal principio.„ Fu inutile. Stimolato dalle pressioni dell'Imperatore, Eugenio metteva la sua forza nell'obbedirgli, nel racimolare ad ogni costo, per le ultime sue disperate campagne, armi, denari, soldati.

Gli è in queste circostanze che avviene e si annuncia lo scroscio del sistema napoleonico. Desiderato da molti, previsto da pochi, questo scroscio è cagione per tutti di una incertezza che s'avvicina allo sgomento. S'era così avvezzi a girare intorno a quel sole! Il suo sparire dovette fare su quelle generazioni l'effetto che cagiona una caduta nel vuoto. Eppure l'Europa s'avanzava tutta in armi, accintasi a debellare un uomo; e le nazioni allibite non sapevano a chi confidarsi, tra quella fiumana di principi che, traendosi dietro un milione di soldati, parlavano un linguaggio novo di pace, di nazionalità, e quel colosso che si sprofondava in silenzio, guizzando lampi di gloria, tra le bufere scatenate dall'irrequieto suo genio.

Fu verso la metà d'aprile che giunsero a Milano e in Lombardia le prime notizie dei risultati finali della campagna del 1814 e della capitolazione di Parigi. E sotto l'impulso di quella gran commozione cominciò subito a svolgersi un dramma politico, che doveva finire, dopo tre giorni, in una così turpe tragedia.

Milano era rimasta, per la condizione delle cose, quasi priva di quelle forze complessive di governo che, nei momenti supremi, sono la guarentigia dell'ordine pubblico. I ministri erano uomini fiacchi, avvezzi alla continua e costante direzione che veniva da Parigi, incapaci di assumere responsabilità e iniziative pari alle nuove difficoltà. Le forze militari v'erano scarsissime e delle meno efficaci. Tutto l'esercito valido e validamente organizzato era stato naturalmente chiamato al campo sotto gli ordini del Vicerè. Al campo era il ministro della guerra, generale Fontanelli; e in Milano, oltre qualche drappello di dragoni e di veliti, erano rimasti i convalescenti, i picchetti di guardia e una quarantina di granatieri; più numerosa di tutti la Guardia Civica, forza equivoca ed oscillante nei giorni d'interno commovimento.

Il Vicerè poi, costretto dalle mosse combinate degli Austriaci e di Murat, s'era ritirato lentamente dall'Isonzo all'Adige, dall'Adige al Mincio, e, ridottosi in Mantova, aveva, al primo annuncio della catastrofe di Parigi, conchiuso col maresciallo Bellegarde l'armistizio di Schiarino-Rizzino, che fu sottoscritto il 16 d'aprile. Di questa Convenzione militare Eugenio aveva comunicato le basi fondamentali al Gran Cancelliere fin dal dì prima. Gli aveva scritto che ciascun esercito avrebbe mantenute le proprie posizioni, e che due deputati avrebbero dovuto portare ai Sovrani Alleati l'espressione dei desiderj di indipendenza e di buon governo. Gli suggeriva d'incaricare Prina, Fontanelli o Testi di siffatta missione, e raccomandava ad ogni modo che si scegliessero fra rappresentanti appartenenti alle due sponde del Po. Si offriva, se i due deputati fossero passati per Mantova, di dar loro commendatizie per l'imperatore Francesco.

Ma già fin dall'11 aprile i dispacci di Melzi rivelavano maggiori preoccupazioni e proponevano risoluzioni più radicali. Egli affermava necessario di convocare i Collegi Elettorali, far loro proclamare l'indipendenza del Regno, che, ratificata poi dal Senato, sarebbe divenuta una base forte e legale di riassetto politico anche in faccia alle potenze coalizzate[15 - Francesco Cusani, Storia di Milano, vol. II, cap. 35.].

Questa iniziativa, afferrata allora con vigore pari alla previdenza, avrebbe probabilmente evitata la crisi milanese e reso possibile il regno indipendente d'Eugenio. Differita, fu, – come sempre avviene – impugnata come arma efficace dagli avversarj, e al 20 aprile la petizione pubblica per la riunione dei Collegi Elettorali divenne il pretesto della rivoluzione. Il principe Eugenio portava forse all'eccesso un sentimento generoso, quello della lealtà. Perciò non seppe mai prestarsi alle sollecitudini, atte, nel pensiero di Melzi, a rendergli negli ultimi giorni quella popolarità che la sua costante obbedienza all'Imperatore gli aveva fatto perdere, e che era pure così necessaria in quell'ora per le nuove combinazioni politiche. Ed era nel medesimo intento che Melzi aveva invano insistito perchè la Vice-regina, prossima al parto, rimanesse a Milano, invece di recarsi a Mantova. La sua presenza nella città, dov'era a tutti simpatica, era certamente una forza di governo, che il Gran Cancelliere, così privo di altre, considerava assai efficace. La nascita eventuale d'un principino, che sarebbe stato milanese fin dal primo giorno, avrebbe potuto disegnare il grato principio d'una soluzione avvenire; e ad ogni modo pareva al Melzi che, rimanendo la principessa Amalia in Milano, un gran freno ne avrebbero sentiti i propositi di violenza che già cominciavano a buccinarsi.

Ma a questi prudenti ed austeri consigli nessuno badava più. L'Imperatore avrebbe voluto che la Vice-regina andasse a Parigi per isgravarsi; il maresciallo Bellegarde le suggeriva Monza; Eugenio naturalmente la desiderava presso di sè, ed ella partì da Milano alla fine di marzo. Melzi non potè che esprimere schiettamente al Vicerè la dolorosa impressione che quella partenza aveva lasciato nella società milanese.

Nondimeno il duca di Lodi, vero uomo di Stato se mai ne fu, non rinunciava, per le debolezze o per le esitazioni di Eugenio, a quella che gli pareva la soluzione politica più favorevole agli interessi della sua patria. Teneva fiso lo sguardo alla monarchia nazionale sotto la famiglia Beauharnais, come all'unico modo di salvare un po' d'indipendenza e di libertà, frammezzo alla tempesta di cui tutti gli Stati d'Europa erano più o meno minacciati. Voleva quindi che, subito dopo firmato l'armistizio, Eugenio venisse a Milano. Sentiva crescere l'onda intorno a sè, e gli pareva d'essere solo a vederla, impotente, solo, a respingerla. “J'ai dû me convaincre (gli rispondeva il 17) que ces têtes sont dans une confusion inconcevable et tout-à-fait incapables de se mettre au niveau des circonstances; ceux-même qui ont voulu aider ont contribué plutôt à gâter les affaires[16 - Archivio Melzi.].„ Nè gli risparmiava, con franca parola, gli ultimi ammonimenti. “V. A. va devenir Italien, et Elle doit l'être uniquement, c'est la seule manière de réussir ici. En bon et fidèle serviteur je ne lui cache pas qu'en gardant ces Français autour d'Elle, Elle partagerait, sans la mériter, la haine qu'on leur porte[17 - Id. ibid.].„

Ma Cassandra era, come al solito, inascoltata, e l'ora della violenza giungeva. Abbandonato, o quasi, dal Vicerè, poco sorretto da ministri impreparati agli eventi, insidiato da rivalità occulte e da una polizia già scossa e pusillanime, il duca di Lodi si trovò soverchiato dall'audacia dei partiti politici, che dalla situazione della capitale, in momenti di un così grande sfascio d'autorità, traevano naturalmente un'influenza maggiore e più appassionata.

Per audacia e risolutezza d'intenti prevaleva il partito austriaco puro, di cui erano a un tempo gli stromenti e gl'inspiratori principali il conte Ghislieri, bolognese, e un conte Gambarana, pavese. Questi non avevano scrupoli; erano in corrispondenza diretta col principe di Metternich e col quartier generale austriaco; cospiratori innamorati di assolutismo, accettavano per ora la parte di delatori e di organizzatori d'una rivolta, la cui fine sanguinosa è lecito credere non fosse lontana dalle loro supposizioni.

Nel paese appartenevano a questo partito pochi signori tenaci di vecchio e nuovo legittimismo; di cui i più capaci e più noti erano il conte Alfonso Castiglioni e il conte Giacomo Mellerio.

Un'altra e più numerosa frazione dell'aristocrazia milanese si lasciava pure adescare da simpatie austriache, ma non scendeva a propositi di tumulti e di violenza. Erano uomini quieti, d'ordine, di affari, il vero partito conservatore religioso del tempo; aveva sopratutto nel Senato i suoi principali rappresentanti, il conte Diego Guicciardi e il conte Carlo Verri.

Contro questi stavano i così detti Italici, nobili e borghesi che s'erano, per varie cagioni, non tutte politiche, inaspriti col Vicerè, e che speravano trovare, nello sconvolgimento europeo, una forma di governo che rispettasse l'indipendenza del regno d'Italia, mutandone il capo. Non erano però d'accordo sulla sostituzione, com'erano d'accordo sulla negazione. Alcuni avrebbero volontieri veduto succedere all'odiato Beauharnais un altro personaggio franco-italiano, Gioachino Murat; altri fantasticava un re nazionale nel generale Domenico Pino, a cui la vanità naturale e l'esempio dei marescialli francesi non lasciava forse parere affatto assurda la speranza di una corona. Le frazioni politiche del partito accarezzavano soluzioni diverse; l'una accettava un principe austriaco, con separata costituzione pel Regno; l'altra aveva posto gli occhi sopra un principe inglese, il duca di Chiarenza, il secondo dei dodici figli di Giorgio III, e sperava con ciò di attirarsi la protezione e le simpatie di lord Castelreagh, l'onnipotente diplomatico della coalizione europea. Nè mancavano, come vedremo più tardi, altri progetti più serj, ma piuttosto individuali che di partito.

I personaggi più attivi fra questi gruppi erano senza dubbio il conte Federico Confalonieri e l'avv. Traversi; ma l'uno, aristocratico altiero e liberale, carattere rigido e forte, uomo d'istinti piuttosto che di combinazioni, camminava per la sua via, mosso da una vivace ambizione personale che non si disgiungeva da un alto sentimento di patria, accettando alleanze piuttosto che ricercandole; l'altro, vecchio ed astuto mestatore d'affari, volgare d'animo come d'ingegno, stretto in solidarietà di intrighi politici con una moglie avida di ricchezze e di onori, commensale e nel tempo stesso insidiatore del ministro Prina, non aveva ripugnanze nè di mezzi, nè di scopi, nè di alleati; e pare che su lui principalmente ricada la responsabilità di cupi accordi col conte Gambarana, mediante i quali, Austriaci ed Italici lasciarono poi tacita libertà di tumulto all'orda sanguinaria del 20 aprile.

Un quarto o quinto partito caldeggiava invece la nomina del principe Beauharnais, sottraendolo come sovrano indipendente ad ogni vincolo verso la Francia o verso la famiglia del vinto Imperatore. Era il partito di gran lunga men numeroso e pochissime aderenze noverava tra i nobili milanesi. Aveva l'esercito per sè, ma l'esercito era lontano, e subiva, quantunque valoroso, l'umiliazione della sconfitta. Aveva per sè i ministri, ma erano uomini impopolari, e perchè di un passato troppo ligio all'Imperatore e sopra tutto, bisogna dirlo, perchè estranei a Milano, essendo modenesi il Luosi, il Vaccari, il Veneri, bolognesi l'Aldini e il Marescalchi, novarese il Prina. L'autorità maggiore a questo partito veniva dal Cancelliere Guardasigilli, il duca Melzi d'Eril, uomo che naturalmente a tutti sovrastava per la grandezza della situazione personale, per la integrità del carattere, per la lunga e profonda esperienza delle cose di Stato. Sgraziatamente, l'abbiamo già detto, l'influenza del duca di Lodi sopra i suoi concittadini era sminuita; lo vedevano poco e lo avevano facilmente dimenticato; ai giovani pareva troppo vecchio, ed ignoravano che nelle questioni politiche l'età giovanile è piuttosto feconda di impeti che di energie.

Infatti fu da questo vecchio acciaccoso e solitario che partì la prima iniziativa virile, in tanta disgregazione di propositi; una iniziativa, che, se fosse stata secondata dalla fiducia pubblica come era stata concepita dal privato intelletto, avrebbe probabilmente dato alle sorti del regno italico quella forma d'indipendenza che invano si fantasticava per altre vie.

La sera del 16 aprile, un avviso di convocazione chiama il Senato ad una seduta straordinaria pel giorno dopo. Si buccina per la città che trattasi di un messaggio del duca di Lodi per invitare il principe Eugenio ad assumere il titolo di Re d'Italia. La notizia commove gli animi e dà la stura all'agitazione dei partiti. Gli ostili si rinfocolano nelle ire, contestano la competenza del Senato, deplorano, colla consueta ipocrisia dei partigiani, la sorpresa di siffatta convocazione. Quasichè la sorpresa maggiore non venisse dalla capitolazione di Parigi e quasichè in politica la peggiore delle sorprese non fosse quella di lasciarsi sorprendere!

I senatori, di ogni partito, accorrono numerosi, e il presidente, conte Veneri, raccomandando il segreto sugli oggetti posti all'ordine del giorno, dà comunicazione al Senato del messaggio di Melzi.

Questi proponeva, dopo gli opportuni preamboli, che il Senato inviasse all'imperatore d'Austria una deputazione, coll'incarico di richiedere la sua mediazione presso le potenze alleate, affinchè: 1.º cessassero tutte le ostilità nel territorio italiano; 2.º fosse consacrata e riconosciuta l'indipendenza del Regno; 3.º fosse riconosciuto Re il principe Eugenio, le cui virtù e la cui onorata condotta avevano meritato l'amore del popolo e la stima dell'Europa.

L'iniziativa di Melzi era piena di avvedutezza politica. Sapeva egli, per le sue vaste relazioni personali, che l'imperatore Alessandro di Russia era favorevolissimo al Beauharnais[18 - Una lettera scritta a Melzi dal Vicerè proprio il 20 aprile, e quindi tre giorni dopo che Melzi aveva presentato il suo programma al Senato, gli diceva che avendo letto sul Moniteur del giorno 12 l'abdicazione dell'Imperatore, aveva scritto subito ai Sovrani Alleati, raccomandando loro l'indipendenza del Regno Italiano. Aggiungeva di sapere che specialmente l'Imperatore di Russia gli era favorevolissimo e s'era espresso nel più simpatico modo coll'imperatrice Giuseppina. La lettera si conserva, con molti altri autografi importantissimi, nell'archivio della famiglia.Anche il Cusani, degnissimo di fede, racconta nella sua storia (Vol. VII, cap. 34) d'avere udito dal conte B. Colleoni, che fino dal 1812 abitava Parigi ed era intimissimo dell'ex-imperatrice Giuseppina, far menzione parecchie volte delle promesse di Alessandro, e ricordare lo sdegno di lui alla notizia della rivoluzione di Milano, che gli tolse di patrocinare la causa del Vicerè.]. Rivolgendosi direttamente all'imperatore d'Austria, metteva questi nella necessità di consultare il suo imperiale alleato; il cui sicuro consenso rendeva poi difficile all'Austria di accampare per proprio conto pretese territoriali. D'altronde, una deputazione consimile stava per partire, in nome dell'esercito, secondo uno dei patti dell'armistizio conchiuso il giorno 16 col maresciallo Bellegarde. Questa doppia dimostrazione, che avrebbe additata una completa concordia degli elementi civili e militari del Regno in favore del principe Eugenio, non poteva non fare una grande impressione sui governi alleati, compromessi dalle loro magniloquenti dichiarazioni di rispetto per la nazionalità e l'indipendenza degli Stati. E finalmente, approfittando subito della simpatia che aveva destato la condotta leale ed onesta del Vicerè, in confronto di quella subdola ed ambiziosa del re di Napoli, si rendeva più facile che, data la disposizione delle potenze a conservare in Italia almeno una delle dinastie uscenti dalla famiglia napoleonica, la scelta cadesse piuttosto su quella di Beauharnais che su quella di Murat.

In un paese che avesse serbato, insieme col desiderio vago dell'indipendenza, un concetto serio e giusto delle situazioni politiche, il programma di Melzi avrebbe dovuto trovare un incoraggiamento larghissimo nel paese ed una votazione unanime fra i suoi rappresentanti. Ma non fu così. Svegliatosi per le questioni di materiale interesse, l'intelletto del paese s'era attutito circa le questioni di Stato. Il dispotismo napoleonico aveva irrigidito ogni elasticità di pensiero pubblico. Gli uomini politici erano spariti; non erano rimasti che degli amministratori e dei legulej.

L'opposizione scattò subito, dopo finita la lettura del messaggio di Melzi; e ne fu l'oratore più autorevole e più accanito il conte Diego Guicciardi.

Quest'uomo, già s'è detto, aveva riputazione di essere nel Senato il capo del partito austriaco; n'era effettivamente al di fuori uno dei capi. Però non bisogna credere che allora questa denominazione avesse il significato odioso e antinazionale che ebbe più tardi. È una delle abitudini che rendono più confusa la storia e più difficile l'indagine critica quella di attribuire parole di un'epoca a fatti di un'altra. Si creano delle storpiature morali, non dissimili da quelle di cui si renderebbe colpevole un artista che dipingesse Cleopatra col guardinfante o Carlo Magno colla parrucca di Luigi XIV.

A settant'anni di distanza, poche pagine possono essere utilmente impiegate a delineare la fisonomia di un uomo che fu tra i più operosi e i più influenti del tempo suo.

Ambizioso quanto attivo e sagace, fertile nelle difficoltà politiche di espedienti e di transazioni, ricco d'ingegno più che di cultura, di una esperienza d'affari da pochissimi superata in quei giorni, il Guicciardi s'era mescolato di buon'ora ai pubblici negozi, e sotto tutti i regimi aveva tenuto un posto importante.

Nato a Ponte, in Valtellina, era stato fino dai primi anni spettatore della sordidissima dominazione che i Grigioni esercitavano sul suo paese. Ne divenne tra i più caldi a volerne scuotere il giogo, e concepì il pensiero di allacciare con solidi nodi alle provincie italiane della sottoposta valle del Po, una provincia rimasta fino allora pressochè digiuna di tradizioni italiane, sebbene teatro di lunghe ed acerbe lotte, combattute, pel dominio d'Italia, da Svizzeri, da Francesi, da Spagnuoli, da Tedeschi. Quel pensiero lo seguì per tutta la vita e poteva certo bastare, in tempi così agitati, ad occupare tutte le facoltà di una mente attivissima.

Le rivolture cisalpine del 1796 fornirono ai patrioti valtellinesi la cercata occasione di sottrarsi al vassallaggio d'oltr'Alpi; e fu principalmente per le influenze del Guicciardi che il generale Bonaparte aderì allora ad emancipare la Valtellina, Chiavenna e Bormio, dichiarando quei territori irrevocabilmente uniti alla Repubblica Cisalpina.

D'allora potè datare il Guicciardi l'ingresso nella vita politica più larga e più attiva. Piacque dapprima a Bonaparte, gran nemico degli ideologhi, che ne fece un ministro dell'interno, per controbilanciare il vuoto frasario demagogico degli amministratori cisalpini. Ai Comizi di Lione, il Guicciardi fa, dopo il Melzi, nominato direttamente dal Primo Console come Segretario di Stato della nuova Repubblica Italiana; onore diviso unicamente con quell'altro eminente magistrato che fu il Gran Giudice, Spanocchi.

Nè fra così alte vicende obliava il Guicciardi gl'interessi della sua provincia nativa, a cui seppe mantenere, contro ogni sforzo di emule diplomazie, l'irrevocabilità dell'annessione italiana. Questo affetto di montanaro ostinato spiccava anzi nel Guicciardi così evidente, che partecipandogli l'alto grado a lui conferito, Bonaparte credeva necessario di scrivergli: “vous n'appartenez plus à aucun département. N'ayez jamais en vue que l'interêt et la politique de la République entière„[19 - Corresp. T. VII, pag. 478.].

Melzi non amava Guicciardi, e non lo nascondeva. Sicchè, fattisi difficili i loro rapporti personali. Napoleone collocò Guicciardi alla Consulta di Stato. Ma costituitosi poco dopo il Regno d'Italia, lo volle ritornato a capo di un dicastero, e gli affidò la direzione generale della Polizia. Bisogna dire, ad onore del Guicciardi, che in tali funzioni egli non seppe interamente prestarsi alle sfrenate volontà del sovrano. Uomo pratico, voleva la moderazione; uomo onesto, voleva la legge. Onde scadde dalla fiducia dell'Imperatore, che gli tolse la Direzione della Polizia e gli inflisse, con metodo imitato spesso dappoi, la dignità di senatore del Regno.

Voltandosi all'Austria, contro il sistema francese, Diego Guicciardi non poteva dunque dirsi nè un ingrato, nè uno spensierato. Aveva servito con zelo il governo da cui era stato beneficato. Caduto quello, ricuperava il sentimento della sua indipendenza politica, e credette scorgere nell'Austria, vale a dire nel più forte dei governi allora segnalati sull'orizzonte, la sola potenza capace di guarentire i due scopi politici che gli erano cari: il mantenimento della Valtellina nel regime lombardo ed una libertà onesta pel Regno. L'avvenire ha dimostrato che s'ingannava almeno per metà. Ad ogni modo, la sua evoluzione politica suscitò allora e mantenne intorno al suo nome fino agli ultimi tempi un ambiente di sfiducia, a cui s'ispirarono con troppa ingiustizia alcuni scrittori contemporanei. Dopo l'avversione del Melzi, incontrò quella del Marescalchi; e irosamente ostile gli fu sopra tutti Ugo Foscolo, che lo chiamava con suo sarcasmo: l'uomo valtellinese, e che avrebbe dovuto, più d'ogni altro, essere indulgente verso le debolezze dell'epoca.

In realtà, il Guicciardi, che tante antipatie s'era nella vita pubblica ingrossate contro, aveva fra le pareti domestiche riputazione di animo buono e probo, cui sempre giustificarono legami di affetto famigliare vivi e durevoli. Ma il Guicciardi era figlio del suo tempo ed aveva subìto, non corretto, l'ambiente in cui era vissuto. La mobilità degli eventi, avendo educato tutta la generazione sua ad un certo scetticismo utilitario, – che ora torna di moda, – non gli permise di mostrare, nella sua vita pubblica, ciò che si è convenuti di chiamare carattere; ma sarebbe ingiusto affermare, col Foscolo, che in quella non si fosse proposto se non utili individuali. No, il Guicciardi aveva il sentimento del paese, il concetto della vita politica. Non gli sacrificava con larga generosità le sue convenienze personali e famigliari, ma non può dirsi che abbia cercato queste a ritroso della sua coscienza di uomo pubblico.

Gli è che il Guicciardi non poteva propriamente dirsi un uomo moderno. Per l'educazione, per le tradizioni, per le necessità degli eventi contro cui ebbe a lottare, egli apparteneva a quella scuola di statisti italiani, che dal Macchiavelli, dal Morone, da Vittorio Amedeo avevano imparato l'evoluzione dei metodi come unico avviamento ai successi del bene. La saldezza delle convinzioni politiche, divenuta, sotto l'influenza dell'odierno liberalismo, quasi guarentigia e sinonimo della onestà degli uomini pubblici, non poteva sembrare qualità egregia di governo in tempi, in cui contro la prepotenza dei dominatori unico schermo era l'astuzia, ed unica preoccupazione quella di assicurare quanto più si potesse delle vite e delle sostanze dei sudditi contro l'imperversare delle mutabili tirannie. Onde accadeva sovente che uomini di rette intenzioni e di vita illibata serbassero, nei loro rapporti politici, andamenti così incerti e così brusche mobilità, da eccitare la riprovazione di chi non abbia l'indulgenza, naturale allo storico, per le incoerenze di cui ogni epoca è necessariamente feconda.

Il programma austriaco del Guicciardi poteva dunque essere, e fu, un errore; ma non era un traviamento.

Dell'Austria non s'aveva allora fra gli uomini di governo quel concetto che dopo il 1815 divenne popolare in Italia. Il Guicciardi non l'aveva conosciuta che come potenza estera, e gli uomini di parte sua in Milano ne ricordavano il mite regime teresiano e leopoldino come un ideale di autonomia, in confronto delle prepotenze repubblicane e imperiali piovuteci dalla Francia. Quegli uomini mancarono piuttosto, e mancarono affatto, dell'esperienza politica, che s'acquista unicamente colla meditazione e colla lettura. Furono vittima di quella illusione, che seduce sempre le menti volgari, di credere che un partito o un governo, abbandonato ad un dato punto della vita, sia rimasto immobile e si possa riprendere e ripresentare colle stesse forme e cogli stessi caratteri, allo stesso punto in cui s'è lasciato.



Il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo


che non vede, non sente, non istudia le modificazioni che intorno a lui e in sè stesso cagiona la forza delle cose o lo spirito dei tempi, non sa immaginare che si sia mutato o in bene o in male quel partito, quel governo, quel sistema che da un pezzo ha perduto di vista. S'ostina a respingerlo o a ribramarlo, sulla base delle passate nozioni, inconscio dello squilibrio che vi può essere fra la sua ricordanza ed il vero; e quando poi la fortuna dei casi lo ripone in contatto con quella forma, desiderata o abborrita, dei tempi andati, s'accorge con sorpresa che quella forma è mutata, che ha subìta, affrettata, compiuta quella stessa evoluzione benefica o disastrosa da cui egli credeva che fosse rimasta lontana od immune.

Questo complesso di circostanze e di idee, unito probabilmente ad un senso di gelosia e ad un ricambio di antipatia pel duca di Lodi, unito ad una certa sfiducia dell'uomo d'affari per quella vaghezza di teorie e quella imprecisione di scopi che distinguevano il partito degli Italici puri, pose risolutamente il Guicciardi campione della resistenza contro il programma savio e patriottico esposto al Senato nella seduta del 17 aprile.

Rifar qui la storia di quella discussione parlamentare non sarebbe forse inutile, ma sarebbe certamente assai lungo; nel complesso, la sua intonazione fu meschina e rivelava la pochezza dei valori intellettuali rimasti in quella assemblea. È, del resto, uno dei fenomeni più volte ripetutisi nella storia, che, alla vigilia delle grandi crisi, l'eloquenza parlamentare si trovi quasi sempre inferiore all'urgenza delle situazioni o schiacciata da quelle. Invece di affrontare la discussione delle cose, si affronta quella delle apparenze; invece di trarre i fatti dalla necessità delle parole, si cerca di oscurare i primi sotto il viluppo delle seconde.

Il Guicciardi, secondato dai suoi, combattè innanzi tutto con mozioni d'ordine; mostrò dubitare che il Guardasigilli avesse facoltà di convocare straordinariamente il Senato; gli contestò il titolo di rappresentante dello Stato, mentre, a suo credere, lo era soltanto del governo; propose, vecchio espediente d'ogni nuova contesa, la nomina di una Commissione per istudiare l'argomento. Propostosi un Comitato segreto, per discutere subito l'affare e prendere una deliberazione, il Guicciardi si oppose di nuovo, sostenendo che un Regolamento organico del 1809 non consentiva al Senato il metodo dei comitati segreti.

Per uscirne, fu deciso che una Commissione, secondo il suggerimento di Guicciardi, si nominasse seduta stante e che il Senato fosse riconvocato la sera stessa alle otto per udirne la relazione. Guicciardi fu eletto naturalmente a far parte della Commissione, e fu incaricato, col Verri e col Dandolo, di recarsi dal duca di Lodi per udirne schiarimenti e notizie.

Questo colloquio e le gravi e dignitose parole del vecchio uomo di Stato parvero scuotere la Commissione; la quale, scelto a relatore il Dandolo, accettò e propose al Senato l'invio della Deputazione, dirigendola però a tutte le Potenze Alleate e sostituendo alla domanda esplicita del trono pel Vicerè un elogio cauto ed insignificante delle sue virtù. Questo inciso aveva, nella sua forma ipocrita, una significazione anche maggiore di indifferenza per la persona del Principe; e in tal modo lo commentò Carlo Verri, lasciando intendere che dubitava fossero i voti della nazione favorevoli a lui. L'imminenza del voto decisivo scosse i senatori del partito vicereale, e il Vaccari, il Paradisi, il Prina sostennero energicamente la forma del messaggio Melzi, facendo notare a ragione che, escludendo la domanda del principe a Re, lo scopo del decreto e della Deputazione si risolveva in una inutilità. Al che Guicciardi rispose, che essendo, per gli Statuti Costituzionali del Regno, erede diretto della corona d'Italia il figlio legittimo dell'imperatore Napoleone, i senatori, che erano tali in forza di quegli Statuti, non potevano chiedere un altro Re. Il ragionamento era rigido, ma non era leale; giacchè a nessun uomo di senno poteva sembrare possibile che la coalizione lasciasse un trono al successore immediato dell'uomo contro cui s'era rovesciata; e si ricadeva nel sofisma e nel bizantinismo, rifiutando di riconoscere la situazione di fatto per aggrovigliarsi nelle situazioni di forma.

Ben lo fecero notare Prina e Luosi, proponendo una nuova dizione che riservasse almeno il diritto eventuale del principe Eugenio. Guicciardi non cedette su nessun punto; ed essendosi venuti ai voti, piuttosto per istanchezza che per esaurimento della discussione, come accade nelle sedute parlamentari notturne, quasi tumultuariamente il Senato approvò a grande maggioranza il progetto della Commissione, nominando il Guicciardi e Luigi Castiglioni a deputati presso le potenze alleate. E i due deputati, accettato, sebbene a malincuore, l'incarico, e forniti dal duca di Lodi delle commendatizie necessarie presso i governi europei, partirono infatti da Milano il giorno susseguente e si trovarono in Mantova la sera del 19.

La seduta del 17 aprile ebbe un contraccolpo immediato sull'attitudine dei partiti in Milano.

I cospiratori del partito austriaco, visto che nel Senato il governo era ridotto ad una piccola minoranza, decisero di approfittare della circostanza per sollecitare quella rivolta di piazza, che doveva, nel pensier loro, rendere inevitabile l'intervento dell'esercito austriaco e quindi la definitiva occupazione, a tutela dell'ordine pubblico.

Gli Italici poi, indispettiti perchè nel Senato stesso neanche una voce si fosse levata a sostenere il loro programma, rivolsero i loro sforzi contro il Senato stesso, considerandolo, nella loro cecità, come l'unico ostacolo al trionfo della parte loro. Fra due partiti, chiaritisi ostili ad un terzo, una coalizione per distruggere è presto fatta. Gli Austriaci accordarono il loro appoggio e le loro firme ad una protesta che gli Italici presentavano, contro la deliberazione del Senato, per domandare l'immediata convocazione dei Collegi Elettorali, come unica legittima rappresentanza del Regno. Gli Italici dovettero tollerare, con trista e tacita complicità, l'agitazione popolare che il Ghislieri, il Gambarana e il Traversi organizzavano con torbidi elementi chiamati dal Pavese e dal Novarese.

La protesta in favore della convocazione dei Collegi Elettorali era imponente per la stessa moderazione con cui era redatta, pel numero e per la qualità delle firme ond'era accompagnata. Il primo nome sottoscritto era quello del generale Domenico Pino, e dietro a lui venivano tutti i nomi più noti dell'aristocrazia e dell'alto commercio, i Porro, i Trivulzi, i Confalonieri, i Fagnani, i Borromei, i Visconti, i Greppi, i D'Adda, i Cicogna, i Rasini, i Mellerio, i Sormani, i Trotti, i Brambilla, gli Arese, i Ciani, i Busca, i Silva, i Bossi, i Giovio, i Serbelloni, i Crivelli, i Castiglioni, gli Scotti, i Castelbarco, i De-Capitani, i Balabbio, i Besana, i Barbò; v'era il presidente del Consiglio comunale, conte Gian Luca Della Somaglia; vi erano il podestà di Milano, conte Durini, e tutti i Savj municipali; v'erano le illustrazioni intellettuali, Carlo Porta, il Monteggia, il Cagnola, Carlo Rosmini, e un giovane già alto nella riputazione cittadina, Alessandro Manzoni.

Questo documento parve atto così grave e così pieno d'incognite minaccie a Carlo Verri, uomo di animo retto e fermo, non indegno dei suoi illustri fratelli, che si recò senza indugio a casa del duca di Lodi, supplicandolo a prendere, come depositario del supremo potere, misure di previdenza. Fu inutile; il duca di Lodi, prostrato da un accesso di gotta, ingannato dai rapporti di una polizia che s'era fatta complice dei turbolenti, forse persuaso in cuor suo che ogni cosa precipitava e non v'erano più probabilità di salute, non volle far nulla. Era fatale che la catastrofe succedesse[20 - Per una inesattezza, che è, bisogna dirlo, affatto eccezionale nel diligente Cusani, questi asserisce nella sua storia che “sopraggiunti Veneri e Guicciardi, confermarono il racconto, insistendo sull'imminente pericolo del Prina.„ Ora questo può essere pel Veneri, ma pel Guicciardi certamente non è, giacchè il Guicciardi era partito col senatore Castiglioni, fin dal 18 per Mantova, dove giunsero il 19, e fu lì, e alla stessa presenza del principe Eugenio, ch'essi udirono i fatti occorsi a Milano, riferiti al principe dai fuggitivi ministri, Vaccari e Méjean.].

La mattina del 20 aprile era il giorno ordinario delle riunioni del Senato; e, malgrado l'eccitazione popolare, che già si annunziava, il presidente Veneri non ebbe il coraggio di sospendere la convocazione. Pioveva; e i senatori s'avviavano nelle loro carrozze verso il palazzo dove solevano radunarsi.

E allora, in quel palazzo dove oggi accorrono gli studiosi del tempo antico a frugare le polverose cartelle degli Archivj di Stato, in quel cortile dove un imperatore di bronzo aspetta, colla stessa imperturbabilità di cui fu simbolo in vita, che si risolva il quesito di giustizia storica e di libertà politica agitato intorno al suo nome, accadde la seguente scena. Quando le carrozze dei senatori si fermavano dinanzi al vestibolo, un uomo d'alta statura, domestico di una casa signorile, montava sopra uno sgabello, si accostava allo sportello e gettava alla folla il nome del senatore, dando egli stesso il segnale dei fischi o degli applausi, secondochè il personaggio appartenesse o no al partito vice-reale. La folla era variopinta: v'erano giovani delle primarie famiglie, con ombrelle di seta, v'erano lacchè, popolani, faccie truci come di sicarii assoldati, e perfino, asserisce il Coraccini, delle dame di Corte. Quando giunse la carrozza del conte Verri, fu accolta da applausi, voltisi poi in fischi nel salire lo scalone; e il senatore vide distintamente il conte Federico Confalonieri dare il segnale degli applausi. La folla cresceva ad ogni momento, e assumeva, come avviene, aspetto più minaccioso e propositi più torbidi dal maggior numero. Mentre il Senato, appena riunitosi, cominciava la lettura della protesta e delle firme, un capitano Marini fece annunciare che la Guardia Civica chiedeva di voler presidiare essa il Senato, invece dei soldati di linea. Era il primo procedimento metodico della rivoluzione. I senatori, già sgomentati di questi preliminari, non seppero neanche dare risposta. E il capitano Begnino Bossi, del partito italico, rimandando senza contrasto il picchetto di linea e i dragoni ch'erano di servizio, fece occupare dalla Guardia Civica il cortile e le scale. Voleva dire, e volle dire infatti, che la turba fosse padrona d'invadere le scale e i cortili con assai maggiore libertà di prima. Il romore della sommossa cominciò allora a penetrare nella sala senatoria, e il pallore degli uscieri avvertì del crescente pericolo. Il conte Carlo Verri, affidato alla notorietà del suo nome e della sua famiglia, si offrì di uscire e di arringare la turba. Lo fece infatti e più volte, man mano che si udiva ingrossare il tumulto. Ma ad ogni arringa sua, vedeva più inquieta e più cupa l'attitudine della folla, respinta più in alto la guardia, sempre più occupati dai tumultuanti gli accessi e le scale del palazzo. La terza volta che si presentò sul pianerottolo dello scalone, vide che ogni freno era spezzato; che l'invasione delle sale era imminente. Gli ufficiali della Guardia Civica gli si strinsero intorno, dicendosi pronti ad esporre la loro vita per salvarlo; egli, impotente a farsi udire frammezzo agli urli, agitò un fazzoletto bianco e visto poco lungi il conte Confalonieri, lo chiamò ad alta voce per nome, invitandolo ad esporre i lamenti e i desiderii dell'assembramento. Furono poche parole, ma chiare: che si convochino immediatamente i Collegi Elettorali e che si richiami la Deputazione del Senato. Poi, gli urli proruppero come prima e più di prima, e assunsero quel tono foriero delle imminenti violenze: abbasso il Vicerè! abbasso il Senato! che si sciolga la seduta!

Il Confalonieri si pose a lato del Verri, quasi per fargli scudo della sua momentanea popolarità, e lo accompagnò fino all'uscio della sala, rimanendo sul limitare. Nell'interno poi della sala, tutto il Consiglio era scompigliato; i senatori, sbigottiti, non idonei per tempra ad affrontare somiglianti tempeste, non chiedevano altro senonchè si cedesse. Il Verri confermò loro che, senza un'immediata adesione ai desiderii della folla, non si poteva guarentire la salvezza del Senato. Non v'era bisogno di più forti scongiuri. Un senatore stese il decreto, di forma semplicissima: il Senato richiama la Deputazione, riunisce i Collegi Elettorali, e la seduta è sciolta. Il presidente Veneri appose la firma; siccome la folla già batteva all'uscio ed occorreva pubblicare il decreto, tutti i senatori e gl'impiegati si posero a scriverne copie, che poi venivano gettate e diffuse tra il popolo tumultuante.

Questa risoluzione salvò probabilmente i senatori da un possibile eccidio; i capi della cospirazione riuscirono a calmare per un istante le turbe, tanto che i senatori potessero, sgusciando ad uno ad uno, sfilare lungo i corritoi, tra gli urli e i fischi di quella plebe sfrenata. Poi cominciò il saccheggio. Il ritratto di Napoleone, dipinto da Appiani, fu bucato dalla punta di un ombrello e gettato sul lastrico della via. Poi, tavoli, sedie, usci, specchi, stufe, persiane, le carte d'archivio e i libri della biblioteca, tutto fu rovesciato, divelto, rotto in frantumi, buttato dalla finestra.

La prima parte della Rivoluzione era compiuta; il Senato era esautorato, sgominato, poteva dirsi abolito. Gli ostacoli che parevano gravi al partito italico s'erano superati. Ma restava l'altra metà del programma; quella che stava più a cuore del partito austriaco puro; e anche questa, poche ore dopo, era inesorabilmente e atrocemente compiuta.

Bisogna ora che ci trasportiamo col pensiero in altra parte della città; sopra un'altra area, pure oggi immemore della tremenda tragedia, i cui edifici sono consacrati a quanto v'ha di sereno e di nobile nel consorzio umano, la religione, l'arte, l'amministrazione cittadina, l'ospitalità.

La piazza di S. Fedele non aveva allora nè quell'aspetto regolare nè quella sufficiente ampiezza che oggi le si riconosce. L'edificio in cui trovasi l'albergo della Bella Venezia si protendeva allora assai più innanzi, con un massiccio quadrato, diviso dal prolungamento della via del Marino dalla casa Imbonati, divenuta ora teatro Manzoni.

La facciata poi si prolungava tanto verso il palazzo Marino da lasciare adito ad una viuzza strettissima ad angolo retto colla via del Marino; tanto stretta quella viuzza che, come nota il compianto Cusani, obbligò il celebre architetto di Tomaso Marino a costruire questa fronte del suo palazzo senza euritmia; cosa che ognuno può verificare od avrà verificato, notando che la porta centrale ha otto finestre a diritta e soltanto sei a sinistra, per potere collocare quella porta d'ingresso in faccia alla contrada dell'Agnello e sottrarla all'oscura strettoia, per cui nessun rotabile avrebbe potuto passare.





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notes



1


Narra il Constant nelle sue Memorie, che questo musico aveva spinto allora la sua singolare impertinenza fino a rispondere: “Signor général, si c'est oun bon air qu'il vous faut, vous en trouverez oun excellent, en faisant oun petit tour de jardin.„ Il Marchesi, per questa audace risposta, era stato messo in prigione.




2


Morì d'improvviso, mentre sedeva ad un pranzo che il ministro Talleyrand aveva offerto ai più distinti italiani. Fu l'ultimo dei patrizj milanesi, che da S. Carlo in poi avevano retto, senza interruzione, la diocesi ambrosiana. Era uomo di alta rispettabilità e di grande influenza.




3


Anzi il Coppi (Annali d'Italia) afferma che la Consulta in una seduta avesse già nominato il Melzi Presidente e l'Aldini Vice-Presidente.




4


Termometro politico, anno 1796.




5


Ha la data del 26 gennajo 1802, anno I.º




6


Cusani, VI, pag. 165 e 318.




7


Du Casse, Mémoire et Correspondance du Prince Eugène.




8


Fra queste bisogna mettere in prima linea l'interesse vivo e costante che portò ai nuovi metodi inglesi d'istruzione e di educazione. Fu lui che acquistò nel 1812 da un Luigi Piccaluga l'antico convento di S. Maria delle Grazie in Lodi, per insediarvi appunto una di quelle istituzioni didattiche, venute più tardi in gran riputazione fra noi, sotto la denominazione di Dame inglesi. I suoi eredi e successori continuarono e completarono in questa materia le intenzioni del loro glorioso antenato; e nel 1830 il duca Gio. Francesco cedette, con pubblico istromento, alla signora Maria Cosway, rappresentata da don Palamede Carpani, allora consigliere ispettore delle scuole elementari, tutto l'edificio di Lodi, in cui ebbe sede d'allora in poi, e mantenne alto il principio educativo, l'Istituto chiamato appunto delle Dame Inglesi.




9


Il nobile Felice Calvi, vice-presidente della Società Storica Lombarda.




10


Al generale Fontanelli diceva Napoleone, passando in rassegna nel 1813 la sua divisione “con centomila soldati pari ai vostri, Eugenio sarebbe già sul Danubio.„




11


Federico Coraccini, Storia dell'Amministrazione del Regno d'Italia durante il dominio francese.




12


Archivio Melzi d'Eril.




13


Archivio Melzi.




14


Archivio Melzi.




15


Francesco Cusani, Storia di Milano, vol. II, cap. 35.




16


Archivio Melzi.




17


Id. ibid.




18


Una lettera scritta a Melzi dal Vicerè proprio il 20 aprile, e quindi tre giorni dopo che Melzi aveva presentato il suo programma al Senato, gli diceva che avendo letto sul Moniteur del giorno 12 l'abdicazione dell'Imperatore, aveva scritto subito ai Sovrani Alleati, raccomandando loro l'indipendenza del Regno Italiano. Aggiungeva di sapere che specialmente l'Imperatore di Russia gli era favorevolissimo e s'era espresso nel più simpatico modo coll'imperatrice Giuseppina. La lettera si conserva, con molti altri autografi importantissimi, nell'archivio della famiglia.

Anche il Cusani, degnissimo di fede, racconta nella sua storia (Vol. VII, cap. 34) d'avere udito dal conte B. Colleoni, che fino dal 1812 abitava Parigi ed era intimissimo dell'ex-imperatrice Giuseppina, far menzione parecchie volte delle promesse di Alessandro, e ricordare lo sdegno di lui alla notizia della rivoluzione di Milano, che gli tolse di patrocinare la causa del Vicerè.




19


Corresp. T. VII, pag. 478.




20


Per una inesattezza, che è, bisogna dirlo, affatto eccezionale nel diligente Cusani, questi asserisce nella sua storia che “sopraggiunti Veneri e Guicciardi, confermarono il racconto, insistendo sull'imminente pericolo del Prina.„ Ora questo può essere pel Veneri, ma pel Guicciardi certamente non è, giacchè il Guicciardi era partito col senatore Castiglioni, fin dal 18 per Mantova, dove giunsero il 19, e fu lì, e alla stessa presenza del principe Eugenio, ch'essi udirono i fatti occorsi a Milano, riferiti al principe dai fuggitivi ministri, Vaccari e Méjean.



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    21.08.2023
  • константин александрович обрезанов:
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    11.08.2023
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