Книга - Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!

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Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!
Antonio Beltramelli




Antonio Beltramelli

Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!





I


Io mi ricordo, Giacometta, quando vivevi nella tua casa bianca, dai grandi cristalli; sul lembo di un giardino. Allora avevi sedici anni ed eri la sola Giacometta di tutta la città.

Conducevi la vita delle persone per bene: uscivi poco, forse la domenica per andare alla messa con la veste più nuova; e, qualche rara volta, quando era proprio bel tempo, uscivi per far la tua passeggiata.

E la gente della tua città ti guardava perchè eri bella. I giovani si fermavano ad ammirarti.

– Quella è Giacometta!

– Che bella bambina!

E non c'era, dinanzi a Dio, nessun'altra Giacometta all'infuori di te.

Così tocca alle vergini, qualche volta, quando escono dal convento, per ritirarsi in una città di provincia che è un convento un poco diverso.

Ma tu avevi una casa bianca, tutta grandi finestre e cristalli che si accendevano, nelle albe e nei tramonti, dei fermi bagliori del cielo; avevi una casa come un faro, sul lembo di un antico giardino ed ivi regnavi, sola donna e madonna, fra due zii antichi e ricchissimi, per i quali eri, con tutta la tua giovinezza, un paradiso.

Sì, Giacometta, tu eri il paradiso anche per me che non ero tuo zio e avevo forse dieci soldi ogni domenica per allietare la mia sontuosa giovinezza.

Avrei io potuto pensare a te, logicamente, con dieci soldi per settimana?.. Io, figlio della scarna probità in camicia e dedito agli economici legumi?

Ma avevo diciannove anni solamente (ora ne ho forse qualcuno di più, e non importa) e la mia semplicità e un cuore spendaccione; avevo anche un amore sconfinato per le nuvole, per i sogni, per le apparenze, per le notti stellate, per il tempo di primavera e per il mistero de' tuoi grandi occhi celesti, Giacometta dalla veste blu.

Perchè avevi allora una veste blu ed io ti vedevo nel giardino; io solo che ero un imperatore nella mia soffitta la quale era buia, sudicia e fredda ma guardava sul tuo giardino.

E il mio cuore stava sempre alla finestra.

Tu lo vedesti un giorno, questo mio cuore un poco scemo, come un geranio rosso nel quadratuccio buio della mia soffitta ed io sentii un'ebetudine fonda paralizzarmi e una beatitudine infinita irradiare il mio corpo mortale, figlio della probità e degli economici legumi.

Allora il mio nome scomparve fra le cose luminose di questa terra ed io non fui più niente, non fui più che un sospiro e un ardore nella tua scia, giovinetta dai grandi occhi celesti che ridevi come un'allodola canta quando si ruba l'anima dei poeti e delle nuvole.

E la città dai tre campanili non parlava allora che di te, sempre di te, Giacometta Maldi, orfana, ereditiera, bella e misteriosa. Chi ti avrebbe dato marito? Quale befana impennacchiata sarebbe giunta fino al tuo cuore col suo pargolo vezzoso, appena slattato, ma sicuro già di impalmarti per le giuste nozze? Quale margherita familiare avrebbe potuto trarti alla sua casa con tutti i tuoi poderi, per mezzo di un onesto figlio di famiglia tutto amorose virtù?

Chi sposerà Giacometta Maldi?..

Ecco il bando per la città grugnita, dai tre campanili; e tutti gli uomini e gli omuncoli dai quindici ai trent'anni, si misero a far la Maratona sotto le tue finestre; e tu non uscivi che non ne avesti quindici o venti, sparsi lungh'esso la strada, in tutte le positure, con tutti i sospiri, coi più ardenti e allumacati occhi, tutti fluente giulebbe per te, per te angelo dalle belle ali, e ben piumate.

Ahi Giacometta, Giacometta!

E si mosse la signora Carolina e la signora Geltrude e la contessa Buttasenno e la marchesa Palmividi e la principessa Assaiassai! Tutte si mossero le squinternate signore, per Giacometta che aveva gli occhi celesti; e vestiron di gala e tentaron gli ispidi zii i quali rispondevano sempre con lo stesso muso e nello stesso tono:

– Lo racconta a noi? E che ci entriamo noi?.. Ne parli a Giacometta. E' lei che deve sposare.

Ma Giacometta, fin dalle prime parole, rideva.

E la città dai tre campanili si accigliò, fece il viso dell'arme.

– Ah, quella Giacometta, che testa romantica!.. Che brutta educazione!.. Ma che vuole? Ma che cosa aspetta? Il principe delle Asturie? Già, infelice l'uomo che la prenderà in moglie, con quel temperamento!.. È una cavallina da brutte sorprese!.. O certo che il marito, le corna le avrà dopo un mese, a farla lunga!..

E fosti diffamata per la bocca stessa di quelle befane che volevano impalmarti coi loro mocciosi.

Ma tu rimanesti la bella dal giardino incantato nel quale i tuoi ispidi zii solevano tendere il roccolo per uccellare nel grande silenzio; e, appunto per virtù del roccolo, ti destavi al «Francesco mio» dei fringuelli, e accendevi il lume con l'ultimo canto dei malinconici pettirossi i quali escono dalle siepi sulle rame più in cima, a cantare alla luce che muore.

E il sole era sempre con te.




II


Guardati dai salti improvvisi, anche se dovesse chiamarti Elena argiva.


Giusto in quel tempo passasti dai sedici ai diciassett'anni e raccogliesti i tuoi cappelli biondi in una nuova acconciatura.

Chi ti insegnava ad essere tanto mai bella, Giacometta, ahi, Giacometta?..

E il mio cuore, povero e inutile vagabondo, stava sempre alla finestra. E tu alzavi gli occhi celesti per vedere la mia ammirazione che si pietrificava nello spasimo. Io stavo diventando un oggetto scemo sul davanzale di una finestra.

A volte ti udivo ridere di lontano; a volte giungevi di gran corsa tutta affannata e rossa; a volte parlavi con qualcuno… con chi?.. con qualcuno al di là del vasto giardino, per il mondo. Parlavi ma non percepivo le parole; udivo bensì la tua giovine calda voce.

Poi ti si disse, e non so perchè, ch'io avevo licenziato qualche parola rimata per le stampe e ti venne in mente ch'io fossi un poeta, io, nutrito di onesti legumi e coi miei poveri dieci soldi per settimana! I poeti portano le corone di alloro ed io avevo un cappelluccio verdino e tutto spellato come una vecchia gatta e avevo altresì una miseriola di vestito che quasi quasi non mi copriva niente.

Così le scarpe piangevano dai loro tiranti e la cravattina si faceva sempre più striminzita e lisa e senza natural colore.

Potevo essere degnamente poeta con simili masserizie? Io ero appena un povero oggetto scemo sul davanzale di una finestra e avevo le scarpe solate di bucce di cocomero.

Ma tu mi vedevi e bastava questo perchè il mio affanno crescesse a dismisura. Poi siccome le alterazioni dello spirito si ripercuotono nella nostra viva materia, io venivo perdendo l'appetito di giorno in giorno mirabilmente, il che, per le domestiche economie, non era trascurabile.

La mia formidabile zia, quando eravamo a tavola, io e lei e Salsiccia, il gatto rosso, vedendo il mio piatto vuoto, mi chiedeva stridendo:

– Perchè non mangi?

– Non ho fame.

– Bravo! Chi non mangia ha mangiato.

E ciò bastava allo spirito di lei che era altruista, mentre io ero un languido giovane che dimagriva dietro le meraviglie del giardino di Giacometta.

E un altro giorno mia zia, la signora Adalgisa, mi disse:

– Tu mi sembri Salsiccia nel mese di gennaio, quando si innamora!

Bisogna sapere che Salsiccia, nel mese di gennaio, diventava il più brutto e magro ed ispido gatto dei dintorni, forse perchè era troppo sensibile e si ostinava a voler darsi appassionatamente a chi non voleva saperne di lui. Ritornava altresì questo gatto, dopo lunghe misteriose assenze, pieno di guidaleschi e mezzo divorato dai rivali suoi soffianti.

Il paragone turbò la mia bianca estasi e mi destò nei precordi un senso di ribellione; ma tacqui perchè la signora Adalgisa non ammetteva le si potesse dar torto.

Poi, una volta accadde questo. Ero al mio davanzale, quand'ecco venir di corsa Giacometta.

Il sole faceva della bianca casa di lei, in fondo al giardino, come una cosa viva. Fiorivan tre mimose lungo il viale dal quale arrivava la mia creatura, fra il cantare e lo zirlare di tutti i richiami del roccolo.

Quel giorno Giacometta si era vestita come il fiore del lino e aveva negli occhi celesti l'intiera luce di un mare. La sua biondezza passava fra sole e ombra sempre illuminata. Io sentivo tutto il mondo vivere e trasfigurarsi in quella leggera grazia e me ne stavo col più immobile e pallido volto che abbia avuto mai un povero innamorato giovinetto. Ad un tratto si fermò proprio sotto la mia finestra che non era alta più di cinque metri da terra e guardò in su, e sorrise. Io sbiancai ed impietrii come se fosse per toccarmi l'avventura più terribile della mia vita.

E Giacometta mi parlò.

– Buongiorno signor… buongiorno signor Coso!..

La guardai come l'ebete guarda la luna e le risposi un buongiorno in fa minore con una vera voce da lucertola.

Ella sorrideva ancora.

– Perchè non discende in giardino?

Ma poteva darsi tanto?..

Risposi con la stessa accorata malinconia, puntandomi un dito sul petto:

– Io?..

– Sì… lei!..

O cuore della rondine nel cielo!

– Ma… signorina Giacometta… io non conosco nessuno!..

– E che importa?

– E da dove dovrei passare?

– Scenda di lì!..

Misurai la distanza.

– Ha forse paura?..

Mi sentii d'improvviso il cuore di Salsiccia; presi lo slancio e caddi con discreta leggerezza, dentro un rosaio.

Uscii come un povero Cristo, tutto sgraffiato nelle mani e nella faccia: Giacometta si affrettò a chiedermi:

– Si è fatto male?.. Venga qua, che le tolga le spine.

Le porsi le mani, e, sulla cima di ogni dito, c'era il mio rosso cuore che ballava la furlana. Mi sentivo arder la faccia ch'era color della brage.

– Dio… quante ce ne sono!.. – disse lei. Ed io dissi:

– Infatti sono molte…

– Le faccio male?

– Non mi pare!

– Povero signor Coso!

Perchè poi, Coso, se mi chiamavo Francesco?

Sentivo le sue mani tepide, fini, delicate sfiorare le mie; vedevo il suo viso di mandorla, la sua testa bionda china sulle mie mani e abbrividivo come una minugia.

Ad un tratto mi prese una vampata al capo che mi fece veder tutto rosso e mi fece dire senza che neppure me ne accorgessi:

– Signorina Giacometta… io l'amo!..

Ella mi guardò dal sotto in su, sorridendo e rispose calma calma:

– E non sa dirmelo un pochino meglio?..

Riprese, dopo un silenzio:

– Tanto l'avevo capito. Lasci stare. Da quando ha preso il suo domicilio sul davanzale della finestra mi sono accorta ch'ella non stava là per studiare botanica…

Poi abbandonò le mie mani, rialzò il capo, scosse i capelli dalla fronte e disse:

– Ecco fatto. Ora sta meglio. Avevo un po' di rimorso per averle fatto fare quel salto; ma gli uomini mi piacciono alla prova. S'ella avesse preferito entrar dalla porta di strada come tutti i mamalucchi che vengono a domandar la mia mano, le avrei riso sul muso. Così la cosa è diversa. Venga venga; ora le mostrerò ciò che amo.

E mi trascinò via di gran corsa, per i viali del suo giardino incantato.

In tal modo, nonostante la mia timidezza, entrai di un salto nella vita di Giacometta.




III


– Perchè facesti tu questo?.. – Oh, per la primavera lo feci, cuor mio!..


Io avevo fatto il salto ch'eran forse le cinque di un pomeriggio di marzo; ora ci accorgevamo che il sole era già dietro ai colli.

– Giacometta, dove sono i vostri zii?

– Forse riporranno i richiami nella capanna del roccolo; ma perchè vi interessa?

– Se li incontreremo che cosa direte?

– Già! È meglio farlo subito. Venite con me, Franzi.

Fino a quel punto erano accadute molte cose inattese per me e raggianti, che mi avevano di un subito dischiusa l'ignota lontananza nella quale mi sperdevo per amore e malinconia, di sera in sera. E se pure non decadeva la delicata soavità della quale il mio sogno aveva rivestito Giacometta, tutta la tristezza di cui io, povero giovane, mi pascevo come de' miei legumi, era trascorsa di fronte a un gesto di lei, a una sua sola parola. Senonchè un'Iside più o meno velata è in ogni cuore di donna e le moderne fanciulle sono quasi sempre simili alle scatole a sorpresa.

Giacometta non era giunta tuttavia a conoscere e a far uso della cocaina, ma aveva avuto un passato singolare. Era in punto, in fatto di sottile sapere; ed io mi trovavo, di fronte a lei, fuori di strada. È ben vero che avvertii fino dai primi istanti tale contrasto, ma mi piacque. Io, ribelle ad ogni secolare e irragionevole costrizione; dispregiatore dei dogmi intessuti ad uso della media imbecillità riposante, giudicavo gli atteggiamenti di Giacometta come un portato della sua chiaroveggenza, una dimostrazione del suo senso di libertà, e di compiutezza. Nè pareva a me che dal segno raggiunto così, di scatto, senza intermedie stazioni, ella potesse tramutare, a me, giovane di semplice candore e schiettezza. Ma Giacometta, benchè piovuta nella grugnita città dai tre campanili, e, in apparenza, limpida come i suoi grandi occhi celesti, aveva un orizzonte che sconfinava ben oltre i tre famosi campanili e la mentalità dei medesimi. Questo dovevo io vedere, sopportare e sperimentare.

Quel giorno, pertanto, ella fu di una divina mobilità sì da lasciarmi talvolta disorientato e sbalordito. Debbo dichiarare che non la capivo sempre. Non è facile capire una vorticosa giovinetta che ride e si acciglia, vi ama e vitupera nel termine di pochi secondi. Giacometta era tutta a congegni elettrici, sempre però nella grazia della sua squisita femminilità.

Cominciò con l'interessarsi alla mia vita e rise della mia furibonda zia; poi mi domandò se conoscevo le Villes d'eaux e se ero stato a Biarritz. Oh, coerenza! Le confessai che ero stato una sola volta a Rimini e in bicicletta.

La cosa non la turbò. Volle sapere poi se giuocavo al tennis, se sapevo condurre un'automobile, se ballavo bene, se pattinavo, se amavo gli sports invernali, se giuocavo al poker tanto che, sfinito ed umiliato per dover dire sempre no, finii per rispondere sempre sì con imperturbata serenità.

Ahi, Giacometta, e non vedevi tu il mio vestituccio e la cravattina d'incerto colore? E non ricordavi da quale superbo balcone avevo fatto il magico salto?

Finì per domandarmi se conoscevo l'Africa centrale, alla quale domanda risposi affermativamente.

– E dove siete stato?

– All'Uganda.

– Ma quando?

– È un pezzo… un diciott'anni fa!..

Ella tacque. Mi accorsi troppo tardi del grosso sproposito. Fatto il calcolo dell'età mia, si avvide che dovevo essere partito verso gli undici mesi per il centro dell'Africa misteriosa. Soggiunse con garbo:

– Franzi, voi dovete dire qualche bugia.

Risposi:

– No, Giacometta! Cerco di abbellire la mia povera e nuda vita.

Rise. Poi mi si strinse al braccio dicendo:

– Sapete, Franzi, che mi garbate!

Volevo risponderle: – Tu sapessi poi, quanto garbi a me!.. – Ma mi trattenni. Certo si è che, in quel momento, avrei potuto toccare il cielo col simbolico dito.

Così girando di viale in viale, sostando di ombra in ombra non ci accorgevamo che il giorno se ne andava e stava sopravvenendo l'aer bruno. Ma c'era ancora una discreta e diffusa luce quando arrivammo ai piedi di un altissimo muro tutto coperto da una pianta di gelsomino. E forse perchè il muro era orientato a mezzogiorno, tanto da godersi tutto quanto il sole, certo si era che una precoce fioritura lo constellava di un mite candore. Giacometta mi mostrò un sedile. Disse:

– Sediamo qui, Franzi.

Io sentivo che la mia timidezza andava dileguando e lasciava posto ad alcunchè che non le assomigliava troppo. Ma il tuo tepore, il tuo profumo, tutta quanta la tua bellezza, Giacometta mia, erano cose troppo assassine, ed anche un buon giovane morigerato, come io mi ero, ha le sue improvvise prodigalità.

Ella mi sedeva accosto accosto perchè la panchina non era fatta che per una persona e mezzo; tanto accosto mi sedeva, da potersi dire ch'io la sentivo aderire a me, dalle spalle alle ginocchia; e certe aderenze non lasciano il tempo che trovano. Però forte era la mia costumatezza ed io cercavo, con disinvoltura, di allungare un poco la giacchettina striminzita che pareva volesse partire verso il torace per una gita di piacere.

– State attento, Franzi. Ora vedrete che cosa accadrà.

Io lo sentivo già che cosa stava accadendo e mi turbavo ed avevo la faccia accesa come certi tramonti violentissimi in cui ti domandi se il sole non si sia per caso svenato.

Ma alzai gli occhi e vidi due gatti l'uno di fronte all'altro, proprio sullo scrimolo del muro. Uno era rosso di pelo e riconobbi Salsiccia.

– Sta a vedere – pensai – che Salsiccia mi combina uno scandalo sotto agli occhi di Giacometta!

E Salsiccia mi combinò uno scandalo.

Ma mentre io cercavo di portar gli occhi altrove, Giacometta mostrava il maggiore interesse per la scena fisiologica che continua dal giorno in cui Iddio disse: Sia fatta la luce!

Poi Giacometta parlò:

– Io, un giorno, qui, in circostanze che forse vi racconterò, vorrò tessere una ghirlandella di quei gelsomini! Può darsi che la cosa vi interessi.

Le risposi:

– Giacometta, non vorrei passasse il tempo della fioritura. Questi gelsomini fan tanto presto a sfiorire!..

Sorrise e mi parve si turbasse; ed anche mi parve aderisse un poco più a me. E mi dicevo: – Baciala!.. – ma avevo il mio malnato dèmone che mi teneva inchiodato al mio posto, irrigidito, al mio posto come il più funebre palo che sia mai stato in una funebre terra.

Ella ad un tratto scattò in piedi rabbuiata e disse: – Andiamo via!.. – con lo stesso tono che avrebbe usato per dire: – Imbecille!.. – E andammo via. Ella un passo avanti, io un passo indietro, finchè non tramutò d'improvviso e non scoppiò in una grande risata:

– Ah, Franzi… Franzi… Franzi!..

– Perchè ridete?

– Di niente. Mi è passata per il capo un'idea bizzarra.

– Si può sapere?

– No. Non ne vale la pena.

Poi mi prese sotto braccio e mi chiese un libro da leggere.

– Portatemi un vostro libro.

– Io non ho pubblicato che un opuscolo: I veli de la notte.

– E che cosa sono questi veli?

Trovai una facondia improvvisa che mi parve la travolgesse. Però quando più ero infervorato e credevo tenerla nel magico dominio del mio sogno, mi interruppe per chiedermi una sigaretta che naturalmente non avevo. E disse poi:

– Ma Franzi, voi siete disperatamente infelice!

Non mi rimase che risponderle:

– Avete ragione!

Ciò la riconciliò. Poco dopo eravamo alla presenza dei due vecchi zii.




IV


Meglio è credere a un onesto merlo anzichè a una leggiadra fanciulla.


Il signor Tomaso e il signor Antonio mi squadrarono dall'alto al basso e mi chiesero:

– Chi siete voi?

Io guardavo pietosamente Giacometta che si divertiva un mondo al mio imbarazzo e non mi decidevo ad aprir bocca per non saper che dire.

Il signor Tomaso era un uomo alto più di due metri e aveva il naso pieno di bitorzoli. Il signor Antonio, all'opposto, era piuttosto piccolo e calvo e grassotto. Entrambi portavano gli occhiali a stanghetta e vestivano una vasta cacciatora di fustagno.

E ricordo che il signor Tomaso teneva, sospeso al dito anulare della mano destra, una gabbia con un uccello che mi parve o un merlo o un tordo; ma non ebbi tempo di occuparmi del particolare.

Questi due zii erano molto antichi ed entrambi scapoli.

Continuando adunque il mio penoso silenzio, il signor Tomaso, lo zio Pertica, si fece innanzi e muovendo la gran bocca nera, fra rari ed ispidi peli bianchi, mi domandò:

– Ehi, giovanotto, non sapete dire dunque per quale ragione vi trovate qui?

Io vedevo Giacometta che si mordeva le labbra per non scoppiare a ridere e credo di esser stato in quel punto, sì per la mia naturale timidezza, come per la orripilante sorpresa, di esser stato più bianco della panna.

Continuando il mio silenzio, il signor Antonio si rivolse a Giacometta e le chiese:

– Ma dove hai trovato questo signore?

– L'ho trovato in giardino – rispose Giacometta.

– E da qual parte è passato se Girolamo non ci ha annunciato neppure una visita?

La giovinetta fece una smorfia e rispose con palese indifferenza e tranquillità:

– Credo sia passato da una finestra.

– Da una finestra?.. – domandarono i due zii ad una voce e tanto l'uno quanto l'altro mi spalancarono addosso due smisurati occhi.

– Volete spiegarci questo enigma? – domandò il signor Antonio.

– Su, Franzi, parlate – fece Giacometta con adorabile semplicità.

Ma io non trovavo modo di spiccicar parola; tormentato fra mille dubbi; preso da un inverosimile timore ero nell'assoluta impossibilità di formulare alcunchè di concreto. E mi sosteneva inoltre l'ultima disperata speranza che Giacometta intervenisse.

Allora il signor Tomaso, continuando il silenzio, divenne aggressivo.

– Spero non ci vorrete far perdere maggior tempo – disse. – Su, che diavolo facevate con Giacometta?

– Che diavolo facevate? – soggiunse il signor Antonio.

– Ma, Franzi, siete davvero tanto timido?.. Quando io sono contenta potete parlare liberamente. Gli zii sono buoni e fanno quello che desidero!

Allora impallidii certamente anche nelle mie parti più celate. Di fronte a quale enigma mi poneva la mia sfinge improvvisa?

Dopo le parole di Giacometta i due anziani si guardaron negli occhi, poi lo zio Pertica domandò alla nipote:

– Dunque tu conosci questo signore?

– Eh, se lo conosco!

– E perchè non dircelo prima? – fece lo zio Antonio.

– Perchè è per lo meno strano che io debba parlare prima di lui.

– Ma allora, se lo conosci, saprai anche perchè è venuto – riprese lo zio Pertica.

– Certo che lo so! Anzi lo so benissimo! E parlerò. Siete contento Franzi?

Le avrei gettato le braccia al collo.

– Sì, Giacometta, ve ne prego!.. Parlate… Parlate subito!..

Che cosa avrebbe detto?.. Che cosa avrebbe detto mai?..

– Ebbene… il signor Franzi è venuto a chiedere la mia mano!..

Il primo impulso, il più forte, fu quello di gridare ai vecchi musi:

– No, non è vero!.. Non è vero!..

Ma tacqui, allibito, aspettando che l'inevitabile burrasca mi investisse.

Invece seguì un silenzio in cui i due cacciatori mi osservarono ancora; poi lo zio Pertica chiese tranquillamente a Giacometta:

– E tu che ne pensi?

– Io sono contenta!

– Ma sai chi è questo signore?

– È un giovine povero; ma è un grande poeta! – rispose imperturbata la mia Sibilla.

Allora i due anziani si guardarono nel fondo degli occhi e l'uno fece all'altro, ad un dipresso, il ragionamento che segue:

– Già!.. Che ne pensate, Antonio?.. Dopo tutto noi non ci entriamo e non dobbiamo entrarci. Ma, – dice – il mondo non fa così… È vero, è vero, è vero!.. Lo sappiamo… lo sappiamo!.. Ma noi facciamo così, noi Tomaso Maldi e Antonio Maldi!.. Dice: – Un poeta!.. A chi la danno quella povera figliuola, a chi la danno!.. – Adagio, rispondiamo noi. In primo luogo noi non diamo Giacometta a nessuno, non vi pare, Antonio?.. È lei che si dà! Poi un poeta è un uomo rispettabile come un altro. Che ne pensate, Antonio?.. Siamo stati poeti anche noi, ai nostri bei tempi! Se Giacometta ama questo signore e se questo signore ama Giacometta, la nostra coscienza è tranquilla. Noi non dobbiamo guardare un millimetro più in là. Noi non dobbiamo investirci della parte di una giovinetta. Così quando Giacometta ci presenta il suo uomo, a noi non resta che mettere la firma sotto la sua decisione. Che ne dite, Antonio?.. E noi mettiamo la firma!

– Sicuro!.. E noi mettiamo la firma – soggiunse il piccolo zio. – Dopo tutto si tratta di logica.

– È quello che ho sempre detto io – fece lo zio Pertica. Poi, senza più occuparsi di noi, alzò fino agli occhi la gabbia che teneva sospesa al dito anulare della mano destra, guardò amorosamente il suo merlo o tordo che fosse, e disse al fratello:

– Antonio, questo sarà un richiamo monumentale. Ha la voce di Caruso.

E si avviarono, rifacendo il verso agli uccelli, verso le ombre e le tese insidie del loro uccellatoio.




V


Anche se sei sulla soglia non ti credere entrato!


Non appena soli mi ricordo che giunsi le mani ed esclamai, rivolto alla mia fidanzata improvvisa:

– Che cosa avete fatto, Giacometta?

– Mi pare che ora possiate trattarmi con maggior confidenza – rispose dolcemente il mio vivo enigma.

– Ma come si aggiusteranno le cose?

– Perchè?

– Come perchè? Io, Francesco Balduino, fidanzato di Giacometta Maldi?..

– In primo luogo – rispose Giacometta – non vedo la necessità che voi andiate a raccontar fuori ciò che oggi vi è accaduto; ed anzi vi prego, e vivamente vi prego, di non farne parola. Ciò che passa fra voi e me non riguarda che noi due, mi sembra, ed io comincerei ad odiarvi il giorno in cui vi sapessi vanitoso e pettegolo. Poi, caro Franzi, non correte troppo! Fidanzato non vuol dir niente e voi avete troppo ingegno per non capir questo. Io, se così vi piace, mi sono fidanzata a voi, oggi, solo per aver più agio a conoscervi; ma non vi illudete, Franzi! Può darsi benissimo, fra le altre cose, che posdomani non mi garbiate più ed io stessa vi preghi di allontanarvi!

– Ciò che mi dite è molto chiaro, ma non è confortante!

– Come più vi piace, caro Franzi; ma non si può fare diversamente. Ora sta a voi a conquistarvi tutto il cuore di Giacometta!

Eravamo presso l'atrio della casa bianca dalle grandi invetriate e moriva l'ultimo crepuscolo. Il cielo si approfondiva nell'ambra; si allontanava per aprir le sconfinate strade degli astri. E già c'era una stella sopra le vecchie roveri del roccolo, la stella nata dal cuore del sole, la tuttachiara, quella che ha il sorriso della giovane malinconia. Nè il marzo era freddo quell'anno, anzi si ammorbidiva in un tepore di precoce primavera. Ogni aroma, nella delicata grazia della sera che moriva, poi che l'aria si faceva immota come la pupilla che si affissa e attende, si diffondeva più intenso e insistente, tanto da associarsi alle sensazioni più vive e da compenetrarle con la sua dolcezza. E i sensi miei, desti ed alerti, avvertivano questo, e più avvertivano, con un nuovo spasimo, il profumo quasi violento che si sprigionava dalle vesti e dalle carni di Giacometta; un profumo di cui non sapevo il nome, del quale non avevo anteriore ricordo; ma che mi dava un'ebbrezza improvvisa, una perduta volontà di carezze e di abbandono. Ne ero come ubbriaco. Mi pareva che, sotto quell'eccitante invito, avrei potuto dire o fare le più belle e le più grandi cose; ma, come sempre sciaguratamente mi accadeva, all'interiore possibilità non rispondeva l'animo e la parola, tanto che dissi con pedestre malinconia:

– Come sapete di buono, Giacometta!

Ella non rispose e non mi guardò. Stava appoggiata, le spalle e la nuca, allo stipite di una grande porta e aveva gli occhi all'aria, e tutto il suo piccolo volto soave, veduto così di scorcio, pareva cento volte più bello. Notai come il naso le si affilasse ancor più, come accade nello spasimo del piacere; e le pinne sottili si inarcavano un poco nel respiro breve ed intermesso.

Si lasciò prendere una mano e non disse niente; ma stava come se fosse morta. Io sentivo, fra le mie mani che ardevano, la sua piccola mano abbandonata e la guardavo, inebetito dalla troppo grande emozione.

– Giacometta… – mormorai. – Tu sapessi… tu sapessi…

Ella, senza muoversi, ebbe un sorriso vago e sperduto; sorrise con l'aria, con le stelle e con il suo indecifrabile enigma. Ed io mi domandavo: – «Che farò?.. E se ardisco, che farà?.. Sarà la fine di tutto o lascierà fare guardando da un altra parte?.. Perchè non mi risponde?.. Perchè non vuole accorgersi che io, povero giovane, non sono di cemento armato?.. Perchè non mi incoraggia?..

Finalmente le baciai una mano, poi il polso, poi le accarezzai il braccio ignudo sotto la veste leggera; poi, come la vidi arrossire e abbrividire, la strinsi alla cintola… ed ella sorrideva, sorrideva sempre, le iridi più grandi e fonde, la bocca più rossa e dischiusa, la gola più bianca e scoperta, una gola tanto tersa e amorosa e viva da dar le rosse vertigini al più bianco fra i candidi e morali idealisti.

E, come avviene agli imbecilli par miei, io uomo timido e d'improvviso predace, non ebbi il garbo di saper cogliere quel dolce frutto senza turbare la palese e volontaria assenza della mia fidanzata; anzi, sorpreso da una grandissima sete, da un annebbiamento improvviso, da un fuoco che mi fucinava il sangue in un tumulto indiavolato, mi gettai su quel candore: avido, cieco, sitibondo, disfatto. E appena ebbi tempo di assaporarne la freschezza che Giacometta, scostatasi violentemente, mi disse in tono acerbo, come una nemica:

– Siete sciocco e volgare!.. Andate via!..

Poi, nello stesso tempo, quasi tutto ciò non fosse bastato, udii giungere dal fondo del giardino il domestico stridere della mia zia formidabile, la quale urlava su tutti i toni…

– Checco?.. Checco?.. Checco… Checcoooo?..

E allora fuggii vergognoso, disperato, in compiuta rovina pensando seriamente a un placido suicidio.




VI


Iddio ti dette i parenti perchè tu imparassi a guardartene.


Si parla della formazione dei mondi nella spaventosa immensità del niente e ci si perde dietro gli spettri delle nebulose, quando lo stesso mistero è sotto agli occhi nostri, tanto è vero che tutto si riproduce uguale, nella spaventosa immensità del niente.

Quale differenza, vi prego amici miei, quale differenza vi poteva essere, ditemelo, fra Giacometta e la nebulosa della costellazione dei Cani da caccia o la nebulosa planetaria della Lira? Nessuna! Io ero un innamorato al telescopio, il quale vede passare, nella tenebra dell'immenso, una forma che non potrà mai comprendere nè raggiungere. Ero il povero astronomo di Giacometta, ma senza il prezioso sussidio di spettroscopi o di calcoli sublimi. Perchè in amore, ahimè, non è stato ancora inventato uno spettroscopio e l'anima di una nebulosa fanciulla non può decomporsi come la luce di una qualsiasi ragionevole stella. Così navigavo nell'inconoscibile e non potevo servirmi che della più infida fra tutte le bussole del mondo e cioè del mio amore.

Quella sera pertanto, dopo il tumultuoso pomeriggio, pieno l'animo delle più dolci e più amare sensazioni, non appena ebbi varcato l'uscio della mia su non lodata casa, ecco che vidi venirmi incontro, tutta arruffata e torva, la mia formidabile zia, signora Adalgisa.

Io, giovane taciturno e remissivo per consuetudine, di fronte alla vampata affocante che si chiamava signora Adalgisa, quella sera, o fosse per la troppo lunga ed intensa emozione patita, o che so io per quale altro disequilibrio psicologico, non attesi che l'impeto, il quale già si apprestava a travolgermi, mi investisse e con voce aspra affrontai il mio consanguineo tormento e dissi:

– Non importa mi secchiate, zia Adalgisa! Vi avverto che oggi non ne ho voglia e non ho punta pazienza!

La cosa inusitata fece spalancare alla mia belva domestica due enormi e sbalorditi occhi; e la bocca, già aperta al torrente degli improperi, non trovò parole per esser riempita, ma appena si mosse per mormorare:

– Diventi matto?

Approfittai dell'indecisione di lei per aggiungere:

– Sono stanco. Lasciatemi tranquillo, altrimenti può succedere qualche brutto guaio.

E infilato il corridoio, passai sotto i lumi esterrefatti della zia, per chiudermi a doppia mandata nella mia soffitta. Ivi giunto non pensai nè ad accender la candela di sego che mi passava il convento, nè a chiuder la finestra: mi gettai sul letto affondando subito in un addolorato smarrimento. Ma la mia quiete fu di brevi istanti, chè, dopo qualche secondo, eccoti picchiare all'uscio e una voce imperiosa comandare:

– Aprite!

Non risposi.

– Secondo me – pensai – tu puoi bussare fino a domani, bell'arnese!

– Aprite, dico!.. vi farò vedere di che cosa sono capace!..

Uguale silenzio.

– Checco, non mi sentite?

Ma mi chiamavo Franzi, quella sera.

– Checco, non fatemi perdere l'ultima pazienza!..

E grugniva, e tempestava, e borbottava sempre con egual risultato. Vuotò il sacco degli improperi; mi chiamò carogna, bastardo; ebbe per me cento altre delicate attenzioni e finalmente tacque e mi parve si allontanasse. Ma se Giacometta era una nebulosa, la zia Adalgisa era una meteora ed io, sventurato giovine, dovevo trovarmi sempre fra codesti indecifrabili fenomeni.

Allorchè credevo aver guadagnata la quiete, ecco ritornare il domestico castigo, e, questa volta, con una voce di grandissimo pianto e tale che mi avrebbe mosso al riso, se non avessi avuto ben altro per il capo.

– Checco, perchè tratti così tua zia?.. E pensare che non ho mangiato per aspettarti!.. E pensare che ti ho cercato per tutta la città!.. Che ti hanno detto i Maldi, dopo la caduta?.. Ti sei fatto male, figliuolo mio?.. Che cosa hai fatto dai Maldi fino a quest'ora?.. Checco?.. Rispondi alla tua povera zia che non vive che per te!..

Ora io sono stato sempre buono, buono… talmente buono da farmi schifo! E che ci posso fare? Finii per impietosirmi.

Quel piagnucolìo interminabile, unito agli occhi di Salsiccia, ch'io vidi d'improvviso folgorare nel buio della stanza, mi vinsero.

Forse neppure Salsiccia aveva mangiato dopo lo scandalo in cima al muro dei gelsomini… forse, povero gatto, egli, inconsapevolmente, mi aveva fatto promettere la famosa ghirlandella…

Ahi, Giacometta! Io ebbi allora un tuffo al cuore e aprii la porta alla mia povera zia. Incominciò un nuovo tormento.

La signora Adalgisa, dopo aver acceso la candela, sedette sul letto vicino a me e, accarezzandomi sui capelli con le sue grosse e nodose mani che parevan mattoni, incominciò a coprirmi di domande e di pietà.

Volevo resistere, non volevo dir niente, ve lo assicuro; ma qualcosa dovevo pur rispondere!

Così dissi una parola, ne dissi dieci… e finii per dir tutto.

Avvenne allora un nuovo e sgradevolissimo miracolo: la signora Adalgisa mi coprì di baci.

E mentre mi pulivo da una parte, ella mi baciava da un'altra. Ebbi da lavorare assai per non rimaner rugiadoso di quel vivo ribrezzo.

– Zia, lasciatemi stare!

– Ma non sai, ma non capisci che è la tua fortuna… la nostra fortuna?.. Non sai che, un giorno, Giacometta avrà quindici milioni?.. Non capisci, Checco?..

– Vi prego, zia, non chiamatemi Checco!

– Come debbo chiamarti?

– Francesco… Franzi…

– Non capisci, Francesco?.. E non sei allegro? E non salti sul letto?.. Pensa… ma pensa che cosa diranno gli altri… Un povero diavolo senza un soldo, senza un avvenire, senza niente.

Quella ragazza è matta davvero! Però io l'ho detto sempre… col tuo grande ingegno…

– Zia, non dite sciocchezze!

– Perchè?.. Non sarebbe la prima volta!.. Intanto domani andrai a farti un bel vestito.

– Ma neanche per sogno!

– Ed io ti dico di si!

– Zia, se mi volete bene davvero, vi prego, vi scongiuro di non parlare. Zia, voi non conoscete Giacometta!

– Ma mi credi tanto sciocca? Io parlare?.. Vorrei piuttosto che mi tagliassero la lingua. Intanto questa notte tu le scriverai.

– Intanto io non scriverò proprio a nessuno!

– Vuoi che le scriva io?

– Mamma mia!.. Ma siete matta, zia Adalgisa?.. E non vi ho detto che non dovete saper niente, niente, niente!..

– Va bene, va bene! Ma io, dopo tutto, sono tutta la tua famiglia e Giacometta deve ben diventare mia nipote!

– Voi volete farmi impazzire!

– No… no… ma no!.. Stai quieto, tesoro mio. Ora va a letto e riposa. Riposa bene, amor mio. Domani ne riparleremo. Non vegliare, sai?.. Guarda che verrò a vedere se dormi. Ora entra nel tuo nanni… pensa alla tua gioia… e che il Signore ti benedica.

E, dopo avermi guardato con amorose lanterne, scivolò dietro la porta e scomparve.

Prima di prender sonno vidi ancora, nell'ombra della stanza, folgorare gli occhi rotondi di Salsiccia… e ripensai al tuo dono, Giacometta, al dolce dono di amore…




VII


L'amore ha centomila occhi; ma tu sei sempre cieco!..


Io avevo un vestito nuovo, ma Giacometta non tornava più.

La signora Adalgisa ricominciava ad esser formidabile.

Ella mi sospinse per tre volte verso la casa dei Maldi ed io vi andai, suonai il campanello… ma Giacometta era fuori.

Giacometta era sempre fuori.

Il viso della mia giunonica zia passava per tutta la gamma dei colori.

Io, Francesco Balduino, sentivo che forse era meglio morire.

Avevo un vestito nuovo, ma il mio amore non l'avevo più.

Voi, che avete amato, capirete la profonda tragedia che è in queste due cose le quali possono anche compenetrarsi.

E vi confesso che piansi; piansi come un giovane, il quale deve ormai pensare seriamente a morire. Perchè se tutto era finito io pure dovevo andarmene col mio sogno. Ero stato troppo vicino a cogliere la ghirlandella perchè la potessi scordare. A diciannove anni non si vive quando una ghirlandella promessa non arriva mai. E Salsiccia mi era stato galeotto… e mi ero trovato a un passo dal fenomeno gaudioso. Così sognavo e piangevo, disgraziato me, e vedevo approssimarsi la mia funebre ora.

– Almeno – dicevo mentalmente a Giacometta – almeno piangerai quando mi saprai morto!

E mi facevo una grandissima pena; oh, questo sì! Mi facevo proprio pietà!

– Che male ti ho fatto io, ingratissima bionda? Io stavo qui, al mio davanzale e non ti avrei domandato mai niente. Non pensavo alla tua ghirlandella… pensavo ai paradisi lontani, ai tuoi grandi occhi celesti, alla sola poesia che si partiva da te per venirmi a trovare e non ti avrei domandato mai niente! Avrei scritto di te come della cosa più lontana, nel mondo più irreale e, sarei stato contento. Mentre adesso…

E singhiozzavo perchè la pena era profonda Del resto questo capita a tutti, una volta nella vita, dai quindici ai cento anni.

Piangere per una donna non è male; forse è male non piangerne mai.

Il giardino incantato di Giacometta era senza più voce, senza più colore ed io, dalla mia soffitta, lo vedevo come un luogo squallido dal quale fosse esulata l'anima. E pioveva ed era ritornato il freddo.

L'aprile si era fatto frate trappista, questo benedetto mese d'amore.

E tu non c'eri più, cuor del mio sogno.

Perchè non dirmi piuttosto:

– Franzi, voi dovete fare come io voglio!

Sarei stato sempre disposto ad accontentarti. Invece mi avevi mostrato l'indecifrabile e perchè non avevo saputo leggervi, o vi avevo letto malamente, ecco mi abbandonavi come una cosa che si getta fuor dalla finestra, in mezzo a una strada.

Finalmente Principina che mi vedeva sempre in attesa, col mio vestito nuovo, sempre inchiodato al davanzale, nonostante il freddo che faceva, Principina, il piccolo fior del giardino, si commosse e arrivò un giorno fin sotto la mia finestra.

Principina era figlia del giardiniere e aveva sedici anni; e aveva un visetto gentile questa bimbetta, nata fra una serra e una macchia di lillà.

Mi chiamò.

– Signor Franzi?

– Che c'è?

– Sa? La signorina è partita!

– Partita?.. E quando?..

– Quattro giorni fa. È andata a Firenze.

Soggiunse subito, vedendo il mio viso stravolto.

– Ma ritorna questa notte.

– Come lo sai?

– Ha telegrafato adesso.

– Ed è partita sola?

– No, col signor Tomaso.

Trassi un sospiro e domandai:

– E perchè, quando sono venuto a cercarla, non mi hanno detto che era partita?

– Perchè… – e Principina si «guardò intorno – perchè la signorina non voleva che lei lo sapesse!

– Bei riguardi!

La piccola sorrise. Soggiunse:

– Sa, non bisogna badarci! La signorina è fatta così!

Non aggiunsi verbo. Lo sapevo bene che era fatta così. La mia esperienza datava da quando la signora Adalgisa mi aveva fatto indossare un abito nuovo di non troppa spesa.

Principina sorrideva ancora e mi guardava. Strappò da una macchia alcune foglie e si dette a cincischiarle nell'atteggiamento di chi voglia dir qualcosa e non ardisca, poi levò verso di me il suo dolce visetto dai grandi occhi neri e, spegnendo la voce, soggiunse:

– Del resto la signorina le vuol bene!

– Come lo sai?

– Si capisce. E… se lei la sa prendere…

– Già!.. Come se fosse una cosa facile prendere Giacometta!

– Ci si provi.

– È inutile, Principina mia! Mi sono già provato e l'ho fatta scappare a Firenze. Se dovessi ritentare dove andrebbe mai quest'altra volta?..

Dissi queste cose con tanto impeto e convinzione che Principina sospirò:

– Povero signor Franzi!

Poi mi fece un cenno di saluto, ma la trattenni per richiederle:

– A che ora arriva?

– A mezzanotte.

Rimasi solo e chiusi la finestra. Che cosa avveniva nel mio turbato spirito? Fuori pioveva a scroscio. Era una squallida sera piena di nubi e di vento, fredda e aggrondata, che si prendeva tutto il caldo del cuore per portarselo via. Io mi trovai solo in una fra le tetre solitudini nelle quali le anime giovani si sentono a volte desolatamente smarrire. Nessuna cosa mi venne dinanzi per sorridermi: neppure una pallida memoria di bene; neppure l'alito di un giorno di sole, vissuto pienamente. Tutto era conchiuso nel basso cerchio del cielo, per l'eternità. Simile a un uomo curvo e stanco che si allontana per una deserta via maestra, sotto un piovoso crepuscolo interminabile, era l'anima mia nella sua angoscia inattesa. Da dove mi proveniva tanta tristezza? Certo da te, Giacometta, certo da te. E anche da un'eredità della quale non si ha coscienza. Ne' suoi cerchi bui, l'anima racchiude tutta l'immane desolazione dal principio della nostra vita sulla terra. Io ero, fra gli uomini, Francesco Balduino, ciò che vuol dire una entità distinta, per quanto trascurata e condannata agli indiscreti legumi. Io possedevo, e possiedo tuttavia per mia disperazione, una raccapricciante sensibilità, la quale come mi sprofondava di un subito nella più fitta tenebra del mistero, nella più angosciante sfera del dubbio, mi risollevava così, di scatto, alle serenità più distese, alle radiose strade che dall'amore conducono a Dio. Così anche quella volta, dal niente arrivai alla gioia; da un presentimento di desolata fine, balzai a un intiero e stupendo possesso della vita. E che mi era servito al trapasso?

Niente, Giacometta: solo, ma solo la luce de' tuoi grandi occhi celesti. E fino a quando quella luce fosse stata con me, potevo chiamarmi un divino pastore per il mondo. Nè si trattava più di ghirlandelle (posso dirtelo, Giacometta, se tu vuoi ancora ascoltarmi dalla tua interminata lontananza) ma solo di quella parte di te meno terrena che poteva essere con la stella di Dio e alla soglia del mio cuore e diffusa come la Primavera che non è alito, nè colore, nè sentore di profumo ma una presenza che appena si avverte quando si abbia, come io avevo, una buia e desolata soffitta.

Così mi inondai di sole per festeggiare il tuo ritorno e l'inaugurazione, alla tua presenza, del mio vestito nuovo che costava poco.

A buon punto capitò allora la signora Adalgisa. Non lasciai che aprisse bocca, ma spiccai un salto e, battendo insieme le palme, incominciai a cantare:

Ritorna questa notte…
ritorna… ritorna!..
Ritorna questa notte…
con l'espresso del Perù!..

La mia consanguinea mordace mi lasciò finire, poi commentò, calma calma:

– Mi pare tu stia diventando un perfetto imbecille!

– Non voglio negare – risposi – che la vostra sia un'onesta e discreta opinione; però posso assicurarvi che questa notte ritorna Giacometta Maldi.

– Dici davvero?

– Ve lo giuro, zia!

– Dunque era partita?

– Partitissima.

– E… senza avvertirti?

– No. Voleva farmi una sorpresa.

– Secondo me incominciamo bene.

– Perchè zietta?

– Il perchè non lo puoi capire, povero sciocco! Noi donne ce ne intendiamo. Vuoi un consiglio?

– Sì, lo voglio.

– Bene, Checco, dà retta a me, non perder tempo!

– E cioè?

– Non perder tempo, ti dico! Sei un uomo o sei un palo?

– Che ne pensate voi?

– Se sei un uomo fatti valere e non far lo spiritoso.

– Vorrei foste ne' miei panni.

– Oh, se fossi ne' tuoi panni io, Adalgisa Balduino, sorella della sant'anima del fu tuo padre, se fossi ne' tuoi piedi ti farei ben vedere come si fa con le donne!

– Bum!..

– Screanzato!

– Ho detto bum perchè voi, probabilmente, avreste fatto ridere Giacometta solo col vostro naso.

Poi, senza attender risposta, infilai l'uscio e uscii per le strade semibuie, sotto il monotono pianto delle vecchie gronde.




VIII


In amore non esiste una rosa dei venti.


Il diretto della mezzanotte arrivò con un'ora di ritardo. Sotto la tettoia della stazione non eravamo ad attenderlo che io, il capostazione, e due facchini assonnati.

Uscì poi qualcunaltro, quando il treno fu per arrivare.

Io avrei voluto vedere senza esser veduto e cercavo un angolo nel quale nascondermi; ma non mi riuscì di prendere il mio gran batticore e di infilarlo nel buio; fui costretto a tenerlo in mostra sotto i fiochi fanali stillanti acqua. Però mi ritirai nell'angolo più remoto della tettoia ed attesi trepidando.

Il fragore si avvicinava fulmineo nella notte; già le lucide rotaie vibravano sotto l'impeto sopraggiungente; poi ad un tratto, in una folata di vento, tra il fumo e le rosse scintille, la vaporiera entrò nella stazione e in pochi metri fu ferma.

Si aprirono pochi sportelli. Scesero due vecchi da una terza classe e una scomposta signora la quale si dette a gridare: – Facchino? facchino? – nello stordimento di esser sbalestrata, a quell'ora, per l'ignoto mondo. E Giacometta? La mia piccina non c'era; forse… chi sa?.. non sarebbe ritornata mai più!

E già mi sentivo serrare alla gola dall'angoscia, quando avvertii una rapida corsa alle mie spalle, nè ebbi tempo di rivolgermi che due braccia mi si strinsero al collo e una fresca bocca si posò sulla mia guancia in un grande bacio. Ed io non te lo restituii quel tuo bacio, Giacometta! A me, la improvvisa gioia ha fatto sempre un effetto catalettico: mi ha impietrito. Fra le altre disgrazie anche questa doveva toccarmi dal buon Dio.

Ma, ditemi voi: come potevo io orientarmi dal nord al sud con sì grande velocità? Quando mi sarei logicamente atteso una tutt'altra accoglienza?.. Quando ero già nel tristissimo convincimento ch'ella non sarebbe ritornata nè quella notte nè mai?

Rimasi adunque, con la mia gioia serrata, a guardarla in una estasi immobile la quale non era adatta alla pioggia che scrosciava.

Ella aveva imprigionato il mattino, con quei suoi capelli biondi, e lo portava con sè come l'anima di questo coso pensante, noto al secolo col nome di Francesco Balduino. Tu discendevi dalla notte, attraverso l'uggia, il freddo, il vento e la pioggia, simile a una radiosità che non può spegnersi, che non soffre mutamento. E chi non ti avesse veduta ancora, era costretto ad averti chiusa nella sua memoria, con la nostalgica malinconia che lasciano le cose troppo belle che non si potranno mai possedere. Tu piccina, esile, diritta, armoniosa, illuminata dai tuoi grandi occhi celesti e dai capelli biondi. Tu, con la tua giovinezza stellare, sola nel mondo, perchè ti si poteva essere accanto accanto senza essere in te.

E, dopo il bacio, le sue piccole mani inguantate sulle mie spalle, gli occhi negli occhi, mi parlava ridendo, affannata come s'io fossi stato davvero il suo grande amore, nel cuore di quella notte piovosa.

– Franzi!.. Ah, Franzi come hai fatto bene a venire!.. Dunque pensavi che Giacometta sarebbe ritornata un giorno o l'altro?

Sospirai:

– Se ci pensavo!

Veniva innanzi, fra le lampade fioche, nella sua lunghezza sbilenca, accompagnato da un facchino carico di valige, lo zio Pertica. Aveva un berretto da viaggio calzato fino alle orecchie e un ombrello sotto il braccio, benchè piovesse a dirotto.

Non appena mi vide mi salutò senza scomporsi.

– Buonasera, signor Balduino.

– Buonasera.

E Giacometta continuava a parlare.

– Sai?.. Siamo stati a Firenze, poi a Siena, poi a Pisa. Da Pisa lo zio voleva arrivare a Roma ma non ho voluto; e sai perchè?

– Perchè?

– Come?.. non indovini?.. Ma perchè avevo un gran desiderio di rivederti. Ti ho telegrafato. Hai avuto il mio telegramma?

– No.

– Peccato! Ho da dirti tante cose. Quando verrai a trovarmi? Domattina?.. Sì, domattina. Vieni verso le dieci. Franzi… hai pensato a me?

– Sempre!

– Anch'io, sai?.. Anch'io! Povero Franzi, ti ho fatto soffrire?

– Ho pensato al suicidio.

– Non esagerare.

– Giacometta, ti dico che ci ho pensato!..

Uscimmo dalla stazione. Tutti si voltavano a guardarci. Il meno commosso era sempre lo zio Pertica il quale sa il diavolo qual tordo o qual beccafico si pensasse. Il certo si è ch'egli non si occupava di Giacometta la quale mi si era appesa al braccio e continuava a ridere e a cinguettare.

Quando fummo vicini all'automobile e feci per accomiatarmi, Giacometta disse:

– No, vieni con noi.

– Salga, signor Balduino – soggiunse lo zio Pertica. – Ormai ella può considerarsi della famiglia.

Io ero, quella notte, come l'ombelico del mondo, come il triangolo mistico, come la divina colomba, ero al di sopra di ogni cosa umana e di ogni vita: astro fra gli astri, costellazione fra le costellazioni, l'amore fra tutti gli amori.

Io, Francesco Balduino.




IX


Se un amico non vale un tesoro che cosa vale allora una formidabile zia?


Per alcuni giorni io detti il mio nome mortale alla felicità. Ero così pieno di mondo, così compiuto in tutte le cose, che mi parve belloccia anche la signora Adalgisa; la qual cosa non mi era capitata mai, ve lo giuro!

E la signora Adalgisa ritrovava i sorrisi e le graziette de 'suoi remotissimi sedici anni, tantochè ritenne necessario compilarsi una veste nuova di un gusto fantastico, sbalorditivo.

Un giorno me la vidi arrivare tutta color zafferano; la vidi folgorare in un involucro di raso e camminar molleggiando. Due grandi boccoli neri le scendevano, attorcigliati come due trucioli, giù dalle tempie fin oltre le orecchie. E aveva le calze gialle, le scarpette gialle, i guanti gialli, il ventaglio giallo e un nastro giallo fra i capelli raccolti a nodo scorsoio sopra la fronte, come una porcheriola che stesse per dirupare.

Ed era un giallo che prendeva a schiaffi chi lo guardava. Era una signora Adalgisa solare; pareva l'ora della canicola e della insolazione. Eppure si credeva seducente.

Venne innanzi scodinzolando come se le suonasse dentro un tempo di minuetto, su dai vecchi precordi impolverati. E il suo visaccio, insolcato per tutti i versi, come una strada motosa in un giorno di fiera, cercava una peregrina soavità per intonarsi al nuovo involucro in cui si era infilato il suo corpo civettuolo.

Oh, zia!.. Oh, paterna zia!..

Ristette alla mia presenza sorridendo anche dai neri vani che avevano lasciato i denti partiti per l'eterno esilio.

– Cosa ne pensi, Francesco?

Risposi semplicemente:

– Sicuro!

Ella rimase in dubbio; riprese con la sua più piccola voce:

– Come sicuro?

– Vi siete fatta una veste nuova.

– Ti piace?

– Mah?!.. Ecco… il colore…

– Già, l'avevo detto anch'io alla sarta. Io avrei preferito un verde… un bel verde pisello, ma la sarta mi ha assicurato che questo è il vero colore di moda.

– Ve l'ha assicurato la sarta?

– Ma sì!

– Allora non c'è rimedio.

– Ti sembra brutto?

– È piuttosto vivace.

– Però la confezione è stupenda!

– Perdio!.. Mi sembrate la signora Cagliostro.

– E chi era questa signora?

– Era evidentemente la moglie del famigerato Cagliostro. Ora è morta.

– Povera donna!

Io frattanto volgevo per la mente un atroce dubbio: perchè mai la mia signora zia si era conciata in quel modo? che pensava fare? quale infernale macchinazione si associava al suo vestito giallo. Le domandai:

– Perdonate, zia: se non sono indiscreto, perchè vi siete fatta quella veste?

– Ma per essere degna di te.

– Di me?.. E che c'entra?..

– Scusa, ma quando si celebreranno le nozze dovrò ben essere presentabile!

– E chi vi ha detto che io sposi?

– Come?!..

– Sì, chi ve lo ha detto?..

Ella mutò voce e atteggiamento all'improvviso:

– Non scherziamo, Checco. Tu sai benissimo che su certe cose non amo scherzare. Non avresti scelto, in tutti i casi, il momento buono. Poi ringrazia Iddio di avere una zia come me, che pensa a riparare alle tue balordaggini!

Nè potei aggiunger parola ch'ella già, voltatami la parte tramontana e infilato l'uscio della stanza, dileguava.

La seguii e la vidi scender le scale; e la vidi andarsene per il Borgo dei Cotogni, rullando come una nave a mare morto. Poi si fermò a parlare con qualcuno che non riconobbi. Due monelli le fecero i versarci e un cane, un vecchio cane filosofo, le annusò l'ampissima gonna poi, posato su tre gambe, lasciò piovere sulla medesima un ingeneroso ricordo.

Il mio dèmone si dichiarò soddisfatto; ma io non ne avevo colpa, posso giurarlo.




X


Non dire di aver mangiata la ciliegia se prima non te la trovi in bocca!..


Giuocando a tutti gli equilibri, cercando gli adattamenti più disparati ed improvvisi; ecclissandomi a tempo debito e a tempo debito ricomparendo; schivando le forme più correnti in cui l'amore cerca il sigillo di una effimera eternità; essendo uno e multiplo come occorreva essere per non urtare le infinite suscettibilità di un'insidiosa vergine ero riuscito a farmi volere un po' di bene da Giacometta; a non stancarla durante il non lungo, ma per me penatissimo, periodo di cinque giorni. E, durante questi cinque giorni, ero stato alle corse con lei, avevo incominciato a ballare, a giuocare al tennis e imparavo a cantare.

Giacometta mi aveva scoperta una bella voce. A vero dire non me ne ero mai accorto. Il fatto si era che cantavo, sedendo ella al pianoforte; cantavo ed ero sempre più innamorato.

Ero adunque riuscito a farmi volere un po' di bene, però, per conto mio, rincaravo la dose di giorno in giorno col moltiplicarsi delle stramberie di Giacometta. Ma l'uomo, per quello che ho potuto imparare, e dalla mia e dalla altrui esperienza, è quella tal creatura la quale tanto più si logora e si rode quanto meno si vede apprezzata; e le maggiori trionfatrici di questo fierissimo animale sono state appunto quelle fanciulle e donne le quali erano e non erano; davano e non davano, abili sempre nell'inasprire la più o meno bramosa povertà del maschio e nel lasciarla insoddisfatta o quasi. E in tutti i secoli, per la generosità che lo distingue, l'uomo si è vendicato di queste sue più amate compagne vituperandole.

Ora la prima volta ch'io potei baciare in pieno Giacometta, fu lo stesso giorno del suo arrivo. La breve assenza l'aveva rinverdita, aveva dato all'anima di lei una specie di distesa continuità inusitata. Io ero entrato nella sua bianca casa, sul lembo di un giardino, alle dieci e ne ero uscito a mezzanotte. Queste quattordici ore erano state meno che niente.

Fu nel pomeriggio, dopo una lauta colazione. Eravamo nel giardino incantato, dietro una gran macchia di roveri. Il giorno di aprile aveva una limpida soavità come gli occhi di Giacometta e c'era per l'aria un non so quale pàlpito che gonfiava il cuore.

Non si parlava. Giacometta si abbandonava sul mio braccio con maggior languore. Poi, quasi per un contemporaneo avvertimento, ci volgemmo a guardarci. Il brivido che era in me era in lei; ciò ch'io sentivo ella sentiva; la mia inespressa volontà era la sua volontà inespressa. Io vidi ne' suoi grandi occhi celesti, un lontano sorriso morire in fondo alle pupille in un'ombra amorosa, vidi ch'ella non era più vigile, ma tutta nel suo abbandono; ch'ella cercava di non saper più niente, di non udir più niente ma solo di lasciarsi portar via, in quell'ora dolcissima, dal pàlpito dell'aprile che gonfiava il cuore.

Nè io ragionai più ch'ella non ragionasse quando le passai un braccio attorno alla vita, quando la trassi a me, la strinsi, la serrai a me con improvvisa violenza, la mia bocca sulla sua bocca. Allora fui ebbro del profumo e del fiore di quella divina giovinezza che si piegava fra le mie braccia come affranta e prostrata; fui ebbro e la vidi inarcarsi, abbandonar il capo all'indietro come per offrir meglio il rosso desiderio della sua bocca alla furia dei baci; vidi il suo pallido volto contrarsi un poco e illuminarsi nel sorriso della profonda angoscia; la vidi, dalle radici dei capelli all'ombra del piccolo seno, vibrar tutta, di uno spasimo nuovo; più affilato il volto come se in realtà il piacere lo coprisse di un'improvvisa ombra di morte.

– Bella bella bella!..

Non seppi dir altro, nel tremito di ogni mia vena. Ella chiuse i grandi occhi e allora, alla sommità del suo viso, non fu se non l'oscura ombra delle ciglia. Poi di un subito, le sue braccia dapprima inerti, mi allacciarono il collo ed ella aderì tutta quanta a me, dalle ginocchia al seno, tutta quanta mia, tutta nel mio desiderio, accesa del mio ardore, soggetta alla mia volontà e la sua bocca, dischiusa sulla bianchissima chiostra dei denti serrati, mormorò una parola sola, il segno della sua perduta volontà di non esser più che una sofferenza e un piacere nell'impeto del mio amore, nella violenza della mia forza maschia.

Ci trovammo seduti sull'erba.

E già ogni mia timidezza era un solo remotissimo ricordo allorchè udimmo levarsi dal discreto silenzio, una squillante risata.

Rotto l'incantesimo, mi trovai di fronte al tremendo compito di assumere in un battibaleno il più indifferente aspetto che potesse avere un garbato giovine giunto nuovo in quel luogo e ignaro di quanto si era fino a quell'ora passato.

Io conoscevo ormai l'anima di Giacometta. Ella infatti volse il viso da un'altra parte, si ricompose i capelli, si riassettò e, sorta in piedi, riprese il cammino, affatto dimentica della mia presenza.

Comunque fosse, il resto della giornata non ebbe a risentire di troppo violente variazioni.

Nei giorni che seguirono la faccenda fu diversa, per quanto fra tennis e pianoforte riuscissi a destreggiarmi abbastanza abilmente fra le meteoriche burrasche della mia nebulosa. Però Giacometta era sempre una creatura di mistero e nessuno avrebbe potuto mai con certezza dire che cosa avrebbe fatto, o pensato, o deciso, o amato da un'ora all'altra. Ella usciva dal comune; aveva un suo sistema metrico decimale o non ne aveva affatto, ciò che le capitava più spesso. Passava dal termine dell'abbandono al più risoluto disprezzo; dimenticava ciò che aveva calorosamente affermato un'ora prima; poteva concedervi la più grande gioia e ritogliervela dopo dieci secondi. Era più mutabile del mare del quale portava il colore ne' suoi grandi occhi fondi. Una volta si era ordinata quattro vesti di cui mi aveva decantata la grazia e l'eleganza; orbene, quando le arrivarono, capitò questo: una fu regalata alla cameriera; un'altra andò a finire sotto il letto e le ultime due ebbero una sorte peggiore: volarono con la scatola e tutto fuori dalla finestra. Questa era Giacometta.




XI


Tu sola, Principina, eri veramente la primavera!


Ora avvenne ch'io portassi, un giorno, un garofano rosso all'occhiello e che la mia formidabile zia uscisse per le strade della Città dai tre campanili, tutta vestita color zafferano. Nè io sapevo che si rimuginasse la mia congiunta nella sua ampia testa dai grandi boccoli neri attorcigliati come trucioli, nè ella sapeva che mi pensassi di far io della mia vita in quel giorno di sole.

Era una giornata calda e di languore come ne porta l'aprile nel suo grembo. A quando a quando passavano delle nuvole bianche e altissime; piccole nubi indolenti, abbandonate a un vento inavvertibile. I tre campanili della mia città le salutavano a gara, tutti immersi, talvolta, nel loro chiarore d'argento.

Non avevo preso il pastrano ed indossavo il mio nuovo vestito da poca spesa.

Mi avviai lungo il Borgo dei Cotogni. Erano le tre del pomeriggio. Non c'era nessuno. La gente dormiva. April dolce dormire! C'erano le nuvole bianche e amorosamente pigre nel cielo profondo; c'erano i tre campanili immersi nella gran luce come tre fantastici coni di tre maghi in ascolto sul mistero del mondo. La mia piccola città non grugniva più; dormiva sotto le bianche nuvole dell'aprile. Epperò io mi sentivo preso da un languore voluttuoso, da un sordo spasimo, da un'ansia inespressa, sentivo battere alle tempie e ai polsi la mia giovane forza d'amore.

Da dietro le basse case arrivava l'anima dei giardini. Erano i lillà, le madreselve, i gelsomini, le acacie che riempivan l'aria tepida del loro vivo sentore, di un amoroso ed ebbro profumo solare. Per le strade non c'era nessuno. La gente dormiva od amava dietro le griglie socchiuse, per le stanze immerse nella penombra. Erano in me un nuovo senso pànico ed una nuova levità. Io mi sentivo immerso e preso nel piacere del mondo perchè era il mese d'amore, e la prima gioia e il primo spasimo della fecondazione riempivan le ore dei giorni commossi.

Mi fermai alla bianca casa di Giacometta sul lembo di un giardino. Sarei entrato? Come mi avrebbe accolto Giacometta? Premetti il bottone del campanello; venne ad aprirmi Principina. Domandai:

– C'è?

– Sì – rispose la piccola sorridendo.

– Dov'è?

– In giardino…

E mi guardava sempre.

Attraversai l'andito; uscii nel sole. Principina mi precedeva di qualche passo. Era tutta rossa in volto e scalza. Camminava lungo il margine del viale; leggera e sottile. Vestiva di un niente. Di sotto la stoffa si accennava appena, come una promessa novella, il suo acerbo seno.

Proseguì, scalza levità bambina, fra l'erba di un prato conchiuso da una fiorita di meli e io vedevo il suo respiro profondo animarla come di un affanno senza parole, nel cuor dell'aprile, e vedevo batterle una vena, forte forte, alla fontanella della gola.

Giunti che fummo oltre la cerchia fiorita dei vecchi meli, Principina si fermò e mi disse tendendo un braccio verso il sentiero delle roveri:

– È là.

Poi mi sorrise e si allontanò nel dolce sole che porta sul mondo le nuvole bianche.

Giacometta era seduta sull'erba a una grande ombra. Era scapigliata. Aveva puntato i gomiti sulle ginocchia e appoggiava la faccia sulle palme aperte. Non mi vide. Non so che guardasse. Anche quando le fui vicino non si accorse della mia presenza. Mi sedetti al suo fianco. Allora ella, senza volgersi, allungò una mano e la pose fra le mie. Rimase così, gli occhi larghi e fissi fra l'erba. Aveva sui finissimi capelli biondi e ricciuti, dei pètali di fior di melo. Si vedeva dalle sue vesti, un poco in disordine, e dal rossore di tutto il volto che doveva aver corso fino allora.

Mi domandò senza guardarmi:

– Perchè sei venuto così tardi?

– Non sapevo di trovarti in casa.

– Sono tre ore che ti aspetto.

Strinsi forte, fra le mie, la sua piccola mano nata per le carezze; una mano bianca, dagli unghielli rosati, leggera come la rondine. E la piccola mano di lei si avvinghiò alla mia, dito con dito, amorosa e calda. Fu già, in questo, un principio di possesso, perchè le mani mandano al cuore il primo tonfo, quando si intendon fra loro; ed aprono il varco improvviso ai giardini senza cancelli nei quali l'amore si esilia per vivere più oltre e, spesso spesso, per morire.

Come era prevedibile, l'ultima distanza che ci separava fu superata senza ch'io mi accorgessi come la cosa fosse avvenuta. Io combattevo, in ardore, col mio garofano rosso, ma tutte quante le mie parole naufragavan nell'ombra. E ciò mi faceva pena. Perchè nessuna porta si dischiude, anche lentissimamente, senza una paroletta sorrisa, senza il barlume di un sogno.

Passavano adunque le nuvole quando anch'io passai un braccio attorno alla vita di Giacometta. Questo non potrà farvi dispiacere, credo. E la strinsi a me con tanta forza ch'ella ne ebbe il respiro mozzo; ma non disse niente. Fui io che le dissi a un tratto:

– Giacometta, io sento qui dentro – e mi portai una mano al cuore – sento qualcosa che mi fa morire!..

Ella sorrise con un ranuncolo giallo.

– Non mi credi?..

Guardò, più lontano, una macchia di lillà che sfumava nella penombra.

– E poi, Giacometta, sarebbe tanto bello morire davvero!

Respirava un po' forte e non rispose.

– Morir d'amore… per te sola!..

Giacometta chinò il mento al seno e questo mi piacque. Si volse e mi guardò smarrita. Poi le nostre bocche furono unite.

E aveste tempo di trascorrere, nuvole bianche dell'aprile, per il gran cielo turchino! Il nostro bacio era tenace e qualcosa stava per accadere di molto diverso. È inutile ch'io vi racconti quale dolce pericolo si corresse allora, perchè lo sapete meglio di me.

Però Giacometta mi aveva parlato, una volta, di una ghirlandella ed era molto naturale, anche se a voi non sembra, ch'ella vi ripensasse proprio in quel punto.

E vi ripensò.

Le vergini soffrono così di inesplicabili pause quando sono per varcare la linea.

Sta di fatto che, essendo noi, anche quella volta, sul punto logico e gradevolissimo della suprema carezza, a nulla si approdò.

Di un subito Giacometta cambiò volto e mi disse:

– Franzi, mi sono dimenticata una cosa.

Mio Dio, quale cosa poteva aver dimenticato che le fosse necessaria?

Si levò, mi tese una mano. Riprese:

– Andiamo.

– Andiamo pure!

Andammo come era naturale che avvenisse. Io, a vero dire, mi trovavo in un certo disagio. Poi il cuore mi batteva forte: c'erano troppe cose a mezzo. Questo accade quasi sempre quando si fa all'amore. Accade anche alle persone molto pudiche.

Si prese un piccolo viale traverso. Giacometta camminava lentamente e il giardino non finiva mai. Poi incominciò a raccontarmi la nobile ed istruttiva istoria che segue.

– Franzi, una volta una mia nonna doveva andare a nozze. Era un matrimonio d'amore ch'ella faceva. Si chiamava Tatiana questa mia antenata ed era di un paese lontano lontano, in fondo alle steppe della Siberia. Nonna Tatiana era discesa in Italia per accompagnarvi sua madre, malata di petto. Era una giovinetta bionda con dei grandi occhi turchini. Dicono mi assomigliasse. Ne giudicherai. Ti farò vedere una sua miniatura. Dunque nonna Tatiana era diretta a Bordighera. In quel tempo usavano ancora le diligenze. Volle il caso che nella stessa diligenza in cui viaggiava nonna Tatiana, si trovasse anche nonno Felice il quale, giusto in quei giorni, era partito per recarsi ad una fiera a Lione. Ora avvenne che, ad un certo punto, in uno svolto brusco della strada costiera, uno dei cavalli della diligenza adombrasse e si imbizzarrisse tanto da rovesciar tutto, giù per una scarpata. Nonno Felice uscì dal disastro con le ossa peste e nonna Tatiana anche; ma chi rimase moribonda sul colpo fu la madre di lei. Conveniva ricoverare la povera donna in qualche luogo per apprestarle le cure più urgenti. Giusto nelle vicinanze sorgeva una vecchia villa disabitata. Nonno Felice andò, pagò il guardiano, si fece aprire la villa e vi raccolse la ferita la quale poche ore dopo moriva. Ecco Tatiana sola, con uno sconosciuto. Ho sempre sentito raccontare che, quella notte, la passò come se fosse impietrita. Non pianse, non parlò, sedette accanto al letto della morta e stette per ore ed ore, gli occhi sbarrati contro l'ombra. Nonno Felice rispettò quel dolore, in disparte, raccolto nell'angolo più buio della stanza. Poi doveva essere ciò che fu. I due giovani andarono insieme a Bordighera. Ivi la nonna si fermò e il nonno proseguì per Lione con la promessa di ritornare. E ritornò perchè era innamorato. Gli zii mi hanno raccontato poi che Tatiana non voleva saperne di matrimonio; era una tartara selvaggia e voleva ritornare fra le sue steppe desolate. Amava l'Italia ma sentiva il doloroso incantesimo del suo triste paese. Nonno Felice non volle lasciarla. Partirono insieme e Tatiana non fu sua…

Io ascoltavo allibendo. Non riviveva l'anima della remota antenata in quella di Giacometta?

– … Tatiana non fu sua. Era una giovinetta gagliarda e fiera tanto da non temere di rimaner sola anche con dieci giovani. Sapeva volere e sapeva difendersi. Quando un uomo si imbatte in una simile creatura può dirsi perduto.

«… Andarono, viaggiarono per più di un anno, durante il quale nonno Felice non dette mai notizie di sè alla famiglia. E a casa lo credevano già sperduto o morto fra le steppe della Siberia quando un bel giorno di aprile del 1820, una vettura si fermò dinnanzi a questa casa e ne discesero nonna Tatiana e nonno Felice. Ancora non avevano sposato e Tatiana non era stata di chi l'amava…

«Però si era decisa ormai e nonno Felice la presentò come fidanzata. Ora, dall'arrivo alle nozze, non doveva correre più di una settimana perchè nonno Felice aveva molta fretta…

– … Aveva molta fretta e combinò tutto in modo che non potessero sorgere impedimenti improvvisi. Però Tatiana non parlava mai. Giusto in quei giorni fu presa da una fra quelle grandi tristezze alle quali andava soggetta di quando in quando e nonno Felice, nonostante tutto il suo amore, non poteva trarla dalla profonda lontananza nella quale affondava…»

Eravamo arrivati, camminando così passo passo, al muro del gelsomino di Spagna e Giacometta mi invitò a sedere vicino a lei sulla minuscola panchina.

La storia mi interessava ormai troppo perchè avessi la mente ad altro.

– Da quel tempo – riprese Giacometta con la voce più spenta e gli occhi semichiusi – da quel tempo nulla è mutato qui. I lunghi anni han lasciato le cose come erano. Anche allora c'era questo muro e lo stesso gelsomino. Tu hai veduto, in casa, la stanza dei nonni; la stanza verde, stile impero; nessuno l'ha toccata da quel tempo. Sono passati ormai tanti anni eppure dentro il canterale, nel primo cassetto, vi sono ancora dei gelsomini secchi. Li raccolse certo la nonna in un giorno della sua remota primavera e li lasciò là con la sua memoria. Io ho pensato tanto alla mia avola alla quale assomiglio. Certo qualcosa dell'anima di lei è in me! Però debbo raccontarti un altro episodio perchè tu capisca ciò che voglio dirti e tu mi comprenda in ciò che sono per fare.»

Raccolse il volto fra le piccole palme aperte e si concentrò nella lontananza dei ricordi. La guardavo, preso dal suo fascino oscuro. Ella non era più presente come palpito e desiderio; il suo sangue si era di un subito acquetato. Vedevo come i suoi occhi celesti si smarrissero in una grandissima ombra quasi che ella comunicasse con l'ultravisibile e fosse, ad un tempo, vicina e lontana: nella profondità del mistero e con me, accanto a me nella tepida primavera d'amore.

Incominciò una capinera a cantare sommessamente da una macchia di lillà.

– Io non son nata qui – riprese. – Nacqui a Madera, nell'inverno di un triste anno che doveva lasciarmi al mondo senza nessuno. Mio padre era in America allora. La mamma morì pochi mesi dopo avermi partorito e il babbo volle seguirla a breve distanza, laggiù, nelle pampas dell'Argentina. Vissi a Madera fino ai cinque anni. Di quel mio tempo quasi di sogno non ricordo che una sivigliana, una giovane sivigliana che aveva il colore dell'ambra. Questa giovane mi raccontava certe storie che mi facevano abbrividire ed erano sempre storie d'amore e di sangue. Così, bambina com'ero, mi ci appassionavo tanto che volevo stare sempre con lei e sentirla parlare. Se vi ripenso, ho ancora nella mente la sua voce fonda, il volto malinconico e forte, i suoi occhi che lampeggiavano. Questa donna mi fece provare i primi brividi; tolse l'anima mia bambina dalla sua inconsapevole serenità.

Giusto in quel tempo dovetti partire. Gli zii vennero a prendermi a Madera. Mi ricordo che piansi come una disperata e che non volevo saperne di seguirli. Ne avevo paura. Erano sempre serii. Mi parlavano, fin da allora, come se fossi stata una donna. Tu non li conosci bene; sono tanto buoni ma hanno attraversato la vita come due minori osservanti senza sapere niente di niente all'infuori delle loro cacce. Non hanno avuto mai un cuore di donna vicino; e la loro casa, come l'anima loro, manca di quella intimità, di quell'amorosa penombra che può portare solo una innamorata… Allora ne avevo paura. Se vollero condurmi con loro furono costretti a sobbarcarsi al peso di Paquita. Diversamente non avrei abbandonata l'isola dolce dove ho trascorsi i primi cinque anni del mio sogno terreno.

Arrivammo in questo paese che era d'inverno. Un grigiore infinito; un gran freddo. Mi ricordo che, per i primi mesi, non feci che piangere. Abbracciavo stretta stretta Paquita e volevo mi riconducesse al bel sole della mia isola lontana. Non avevo veduto mai la neve; non avevo tremato mai dal freddo; e, al mio primo arrivo in questa casa, non vidi che neve ed ebbi a soffrire per il freddo che mi tormentava giorno e notte. Poi finii per abituarmi a tutto. Gli zii erano molto buoni benchè non si occupassero di me se non per dirmi buongiorno e buonasera. Così rimasi nella tua piccola città malinconica. Dopo un anno Paquita si ammalò e volle ritornare a Madera. La vidi partire quasi con indifferenza. Non piansi. La mia malinconia rimase serrata dentro di me; senza parole. Quando ci separammo, avevo incominciato a poter vivere tranquilla nella mia solitudine. Ho avuto una serietà precoce, Franzi, ho pensato e sofferto in quell'età in cui le bambine non conoscono che il riso e il sonno. A sette anni ebbi un'altra compagna: una istitutrice inglese; ma non mi piacque fin dal primo giorno e la trattai come una nemica. Fin da allora ero padrona di me stessa. Gli zii mi davano sempre ragione e mi lasciavano fare ciò che volevo. Ciò mi fece pensare prima del tempo. E diventai scontrosa; chiusi in me la mia tristezza; stetti giornate intiere senza uscire di camera o dispersa negli angoli più remoti del giardino. Poi incominciai a voler conoscere la mia vecchia casa dai tetti alle cantine; e girai, frugai, interrogai. Volli sapere tutto di tutto.

«C'era allora, in casa, un vecchio servo che era venuto fanciullo al servizio dei Maldi e sapeva punto per punto la storia della famiglia, da cento anni a questa parte. Si chiamava Lorenzo e fu Lorenzo che mi illuminò circa un passato che apparve prodigioso agli occhi miei di bambina. C'era qualcosa di romantico e di misterioso nella storia della famiglia mia. Questo bastava per appassionarmi. Fu allora che conobbi nonna Tatiana.»

Tacque e mi guardò senza levare il volto ma volgendo appena gli occhi dalla mia parte, mi domandò:

– Ti annoio?

Le risposi invitandola a proseguire; dopodichè riprese:

– Nonna Tatiana fu la compagna de' miei silenzi. Per lunghe ore restavo estatica innanzi al suo ritratto, o chiusa nella camera verde dove ella aveva compiuta la sua breve gioia. Ormai non avevo che una ardente curiosità e cioè quella di conoscere fino in fondo la vita della mia misteriosa antenata. Lorenzo, toltone i fatti più salienti, non poteva darmi se non accenni vaghi e questo non mi soddisfaceva ormai più. Volevo saper tutto. Come ti ho detto c'era, e c'è ancora, nella stanza della nonna, un grande canterale, di cui, nel tempo del quale ti parlo, non potevo trovar la chiave. Un presentimento mi avvertiva che, nel segreto del vecchio mobile, doveva trovarsi qualcosa che avrebbe soddisfatta la mia inesausta curiosità di sapere. Come al solito, gli zii non ricordavano che fosse mai esistita una chiave di quel canterale e non si occupavano della faccenda più che io non mi occupassi della loro caccia. Eppure volevo venire a capo del mio desiderio; ma senza che altri sapesse ciò che intendevo fare; senza che altri assistesse alla mia ansiosa ricerca. Ricordo che un giorno mi feci sanguinare le mani nei tentativi di forzare le robuste serrature. Poi mi decisi ad andar alla ricerca di un fabbro il quale, con un grimaldello ebbe, in breve, ragione del vecchio mobile cocciuto. Quando rimasi sola, mi chiusi nella grande oscura stanza e la mia gioia non ebbe più limiti. Parlavo ad alta voce, ridevo, piangevo; mi pareva che nonna Tatiana, rinata mistero delle sue memorie, mi stesse vicina e mi dicesse: – Sì, bambina, sì… tu sei la mia cara figliuola… tu mi assomigli… il mio cuore è il tuo cuore!.. – Mi passavan fra le mani, gioielli, vesti, piccoli libri scritti in una lingua che non capivo, nastri, lettere, fiori secchi; tutto ciò che nasconde una creatura innamorata e triste, in fondo a un cassetto che nessuno aprirà. Trovai, fra l'altre cose, una lettera spedita da Tatiana a nonno Felice. Era scritta in italiano. Diceva, fra l'altro: – … tu ti ostini sulla mia strada e non sai dove potrà riuscire. Io ti ho detto che il mio amore non può soffrire vincoli umani. Bisognava lasciarlo libero per il suo ignoto destino; non bisognava cercare di ridurlo alla misura comune. Hai insistito, hai pianto, hai corso la terra dietro le tracce di questa creatura sperduta, hai rinunziato al tuo mondo, ti dici pronto a rinunziare a tutto.. e sia come vuoi! Purchè tu sappia che Tatiana ti vuol bene, viene con te, ti segue nel paese del sole, farà ciò che desideri, ma la sua strada, che incomincia dall'immensità di una steppa, non potrà finire nella riposata quiete di un piccolo giardino in fondo alla tua provincia; la sua strada, povero amore, dovrà ritornare all'infinito dal quale si è partita. Ogni anima ha il suo destino segnato e gli uomini, con tutte le loro morali e le loro leggi, son meno che niente di fronte al destino di un'anima. Ti ricordi che cosa ti dissi la prima volta, quando l'amore fu con noi? Lo ricordi? Io ti dissi: – Non promettermi niente, non parlare, cerca di essere solo con me, sola, all'infuori di tutto ciò che gli uomini hanno detto e fatto e inventato per avvelenare questo attimo divino. La mia libertà e il mio amore non soffrono leggi; sono come il vento della steppa. E tu prendimi perchè io voglio essere tutta quanta tua; prendimi e macerami e fammi soffrire nel tuo amore maschio. Io sono arrivata dall'ignoto per amarti e per farti il dono di tutta me stessa ma non promettermi niente e non chiedermi di più!.. – Io ti dissi questo, allora, e tu non mi volesti capire. Tu eri e sei troppo schiavo del tuo misero mondo e delle sue convenzioni meschine. Tu vivi troppo «PER GLI ALTRI» e il mio amore non può vivere che nella più selvaggia libertà, per morire e dileguare quando la sua ora sia giunta come per tutte le cose del mondo…»

E la voce di Giacometta si spense. Il sole discendeva fra le nuvole dell'aprile attardandosi nel gorgo del cielo, come innamorato.

E che stava accadendo mai nella mia anima di sognatore? Giacometta mi aveva affascinato con la sua voce e col suo singolare racconto tanto che mi pareva di essere ad un tempo presente ed assente in una immensità di mistero. Sprofondavo nell'impensato con la velocità di un bolide. Io, Francesco Balduino, creatura senza alcun valore, come avevo potuto mai entrare in un mondo tanto strano e impadronirmi di un cuore così moltiplicato nell'inverosimile? Perchè mi aveva prescelto Giacometta? Che poteva vedere e trovare in me, nipote della signora Adalgisa?

Poi ella riprese a parlare, un po' stanca e disciolta in una perduta dolcezza.

– Così incominciai a conoscere il cuore di nonna Tatiana. D'improvviso tutto il buio si diradava e mi vedevo dinnanzi quella che non mi aveva sorriso se non dai grandi ritratti e mi spiegavo la luce perdutamente triste e fiera di quei grandi occhi celesti dietro una lontananza infinita.

«Ormai ti racconto tutto, Franzi mio. Prima di arrivare al particolare per il quale sono risalita nelle mie memorie, voglio tu sappia chi sono, da chi discendo, come ho vissuto perchè un giorno tu mi possa perdonare. Io non ti conosco bene eppure un istinto mi guida. Io sento che tu non sei come gli altri…»

E, per la prima volta, la sua mano lieve mi sfiorò il volto in una carezza.

Signore mie, allora avevo diciannove anni e non vi meraviglierete se due lacrime mi scesero per la faccia ruzzolando precipitosamente. Avevo diciannove anni, signore mie, e un cuore che non conosceva la volgarità e mi commovevo e mi entusiasmavo perchè mi piaceva di regalare me stesso, non avendo proprio niente altro da regalare. Pensate a questo, prima di giudicarmi severamente, perchè, se piansi allora, vi giuro che avevo ragione. Forse potrete rimproverarmi la facilità con la quale prendevo tutto troppo sul serio; ma che ci potevo fare io se, in quel punto, Giacometta era sincera? Perchè Giacometta era sempre sincera e sempre al di là del bene e del male e se non aveva una linea continuativa, se non voleva essere e non poteva addimostrarsi eterna nelle cose sue, come piacerebbe alla vostra sentimentalità, care signore, ebbene la colpa non era nè sua nè mia.

– Pensa adunque, Franzi, in quale orgasmo io vivessi. Guarda, è la prima volta che ne parlo… tu sei il primo al quale confido il segreto della mia fanciullezza ed ora che, per parlarti, mi costringo a rivivere le sensazioni di quei giorni, mi sento avvincere dallo stesso fascino, tanto che non so più se tutto ciò sia avvenuto nei pochi anni di questa mia vita o in un punto indeterminato nelle lontananze del tempo, quando non ero quella che oggi sono, qui, in quest'ora di aprile… accanto a te che mi vuoi bene.

«Siccome in un giorno solo non potevo vedere e saper tutto quanto era racchiuso nei cassetti del vecchio canterale, presi l'abitudine di chiudere a chiave la stanza di nonna Tatiana e di non abbandonare detta chiave neppure nel sonno. Ogni giorno ritornavo nel mio sacrario e mi vi rinserravo. Così potei scorrere tutte le lettere scambiate fra nonna Tatiana e nonno Felice e così mi capitò sottomano un libriccino rilegato, nel quale la nonna scriveva il suo diario. Capii che Tatiana si era negata a nonno Felice fino al giorno delle nozze, ma nonno Felice non aveva saputo o voluto prenderla. Ciò che piaceva alla giovinetta selvaggia non entrava nella mente dell'uomo abituato a vivere nel fondo di una quieta provincia dove tutto si cristallizza, nei secoli, in dogmi ferrei e la mente, cresciuta sotto il peso di tali dogmi, perde l'elasticità, la bellezza creativa, il senso della libertà e della gioia. L'amore di nonno Felice era grande ma vestiva il costume del suo tempo, povero amore! E nonna Tatiana, fin dai suoi primi anni, aveva imparato a crear la sua libera vita fra i pericoli, fra gli ardimenti, sola col suo istinto, la sua fierezza e la sua giovine forza dominatrice. Fra i due c'era, in realtà, un abisso. Così all'una sarebbe piaciuto di esser subitamente ghermita da un bell'uomo predace, simile allo sparviero, mentre all'altro piaceva la santità dell'imene.

«Ritornando al diario di nonna Tatiana, il punto che più può interessarti, ora che ti ho raccontato tutto, è quello che precede di qualche giorno la celebrazione del matrimonio. Io so a memoria il piccolo diario. Ora in una pagina che porta la data del 20 maggio 1820 è scritto: – Fra quattro giorni crederanno di aver fatto di me una povera cosa nel ritmo della loro pallida vita; fra quattro giorni crederanno di avermi vincolata per sempre. E perchè? Quale parte mia potranno vincolare che io non voglia? Chi è questa gente? Quando mai mi è stata VICINA? Ho detto a Felice: «Perchè vuoi questo? Non ti accontenti del mio amore? Non hai paura di ucciderlo facendolo passare fra la polvere di queste strade?» Ma Felice non mi ha intesa. Egli non vede che per gli occhi dei suoi; non agisce che per mantenersi ligio agli usi de' suoi borghigiani.





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