Книга - Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta
Massimo Azeglio






Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta





CAPITOLO PRIMO.




Al cadere d'una bella giornata d'aprile dell'anno 1503 la campana di San Domenico in Barletta sonava gli ultimi tocchi dell'avemaria. Sulla piazza vicina in riva al mare, luogo di ritrovo degli abitanti tranquilli che, nelle terricciuole dei climi meridionali specialmente, sogliono sulla sera essere insieme a barattar parole al sereno per riposarsi dalle faccende del giorno, stavano col fine medesimo dispersi in varj gruppi molti soldati spagnuoli ed italiani, alcuni passeggiando, altri fermi, o seduti, od appoggiati alle barche tirate a secco, delle quali era ingombra la spiaggia, e, com'è costume delle soldatesche d'ogni età e d'ogni nazione, il loro contegno era tale che pareva dire: il mondo è nostro. Di fatto, lasciato loro il campo migliore, si tenevano i terrazzani in disparte, dando così a questa loro burbanza tacita approvazione. Chi per figurarsi questo quadro si volesse rappresentare una simile radunata de' nostri soldati moderni nella loro misera uniforme, sarebbe lontano assai dall'averne una giusta immagine. L'esercito di Consalvo, le fanterie specialmente, quantunque le meglio in arnese, e le migliori di tutta cristianità, non conoscevano però, più di qualunque altra milizia del secolo XVI, la stretta disciplina moderna, che è giunta a render simili un soldato all'altro dalle scarpe al cappello. Qui invece, ogni uomo che facesse il mestier dell'arme a piede o a cavallo, poteva vestirsi, armarsi ed adornarsi come più gli piacesse; onde nasceva fra questa turba una mirabile varietà e vaghezza nelle fogge, ne' colori e nel portamento, dal quale si poteva facilmente conoscere[Pg 2] a qual nazione appartenesse ogni individuo. Gli Spagnuoli, per lo più serii, immobili, atteggiati da bravacci, ed avvolti (o com'essi dicono embozados) nella capa nazionale, dalla quale si vedeva uscir per di sotto la lunga e sottil lama di Toledo; gl'Italiani loquaci e pronti al gestire, in sajo od in farsetto colla daga pistolese appesa dietro le reni.

Al sonare della campana era cessato il susurro, e scomparendo la maggior parte de' cappelli, le teste eran rimaste scoperte, perchè in quel tempo anche i soldati credevano in Dio, e talvolta lo pregavano. Dopo piccola pausa tornarono a luogo i cappelli, ricominciò il bisbiglio; e benchè quella turba presa insieme avesse al primo aspetto un non so che di gajo e di vivace, si poteva tuttavia facilmente avvedersi, girando fra i diversi crocchi, esservi un motivo comune di tristezza e di scoramento, al quale erano volte le menti e le parole di tutti. Infatti il motivo era vero e possente. La fame cominciava a farsi sentire fra i soldati ed anche fra gli abitanti di Barletta, ove il gran Capitano, aspettando i tardi ajuti di Spagna, teneva chiuso l'esercito di troppo inferiore a quello dei Francesi perchè s'arrischiasse commetter la somma delle cose alla fortuna d'una giornata.

Tre lati della piazza erano chiusi da certe povere case di marinaj e pescatori, dalla chiesa e dall'osteria. Il quarto s'apriva alla marina, ingombro, com'è costume di tali luoghi, di barche, reti e di altri attrezzi pescherecci; ed all'ultima linea dell'orizzonte si vedeva sorgere dal seno delle acque la bruna forma del monte Gargano, sulla cui vetta andava morendo l'ultimo raggio del sole cadente.

Nello spazio frapposto, veleggiava chetamente un legno sottile; e si volgeva tratto tratto per cercare il vento che soffiava incostante in quel golfo, increspando qua e là a lunghe strisce la superficie del mare. La distanza tuttavia della nave e la dubbia luce del crepuscolo non lasciavano distinguere qual fosse la sua bandiera.

Uno Spagnuolo, che insieme con molti soldati era presso alla riva, la guardava fisso, aguzzando le ciglia, ed attorcigliandosi certi grandissimi baffi più bigi che neri.

– Che cosa guardi che sembri una statua, e non dai retta a chi discorre con te? —

Quest'apostrofe d'un soldato napoletano, che non avendo ottenuta risposta ad una prima domanda, se l'aveva per male, non mosse nè punto nè poco l'imperturbabile Spagnuolo. Alla fine con un sospiro che pareva uscire più da un mantice che dal petto d'un uomo, disse:

– Voto a Dios que nuestra segnora de Gaeta, che manda buon vento e buon cammino a tanti che la pregano in mare, potrebbe mandar ora questa fusta a noi che la preghiamo in terra, e non abbiamo da metter sotto i denti altro che il calcio dell'archibuso! Chi sa che non porti grano e provvisioni a quei descomulgados di Francesi che ci tengono stretti in questa gabbia per farci morir di fame… Y mala Pasqua me de Dios y sea la primera que viniere, si a su gracia el segnor Gonzalo Hernandez[1 - E Dio mi dia mala Pasqua, e sia la prima che verrà, ec.] quando ha ben pranzato e meglio cenato gl'importa di noi più che del cuero de sus zapatos[2 - Del cuojo delle sue scarpe.].

– Che cosa può far Consalvo? – rispose con istizza il Napoletano, contento di contraddire: – dovrà diventar pane per entrar in corpo ad una bestia come te? Quando ne avrà, ne darà; e le navi che il malanno loro ha portate nelle secche di Manfredonia, chi l'ha divorate? Consalvo, o voi altri? —

Lo Spagnuolo un po' mutato in viso mostrava di voler rispondere, ma fu interrotto da un altro del crocchio, il quale, battendogli sulla spalla, scuotendo la testa, ed abbassando la voce, come per dar maggior peso alle parole,

– Ricordati Nugno – gli disse – che il ferro della tua picca era a tre dita dal petto di Consalvo il giorno che in Taranto per esser pagati si fece quello strano scherzo…; e se v'è stata volta in cui abbia creduto che quel tuo collo nero dovesse far amicizia collo spago, è stata quella… Ti ricordi che si faceva schiamazzi da sbigottir un leone? Si muove là il torrione del castello? (ed additava la torre maggiore della rocca che mostrava il capo al disopra delle case) tanto si mosse Consalvo, e freddo freddo… mi par di vederlo… con quella sua mano pelosa scansò il ferro e ti disse: mira que sin querer no me hieras…[3 - Bada che senza volerlo non mi ferisca.]. —

A questo punto il volto bruno del vecchio soldato diventò più bruno la metà, e per rompere un discorso che poco gli garbava, tagliò la parola all'altro dicendo:

– Che cosa m'importa a me di Taranto, della picca, o di Gonzalo?

– Che t'importa? – ripigliò il primo sorridendo – Se vuoi dar retta a Ruy Perez, e serbar libero il passaggio al pane per quando Dios fuere servido di mandarcene, non parlar tant'alto che Consalvo ti senta e si ricordi di Taranto… Mezza parola è poco, e una è troppo, dice l'italiano; ed uomo avvisato, mezzo salvato. —

Nugno rispose con un certo garbuglio, al quale la sua mente non pareva avesse gran parte: l'avviso ricevuto lo metteva in pensiero suo malgrado; volse con dubbio l'occhio in giro per veder se l'idea di denunciare le sue poco misurate parole era nata in qualche cervello. Quest'indagine per fortuna fu o gli parve rassicurante.

La piazza intanto era rimasta quasi deserta: l'ora di notte sonava in castello, onde questo gruppo imitò gli altri che già s'erano andati sciogliendo, e si disperse fra le strette ed oscure vie della città.

– Diego Garcia tornerà stasera – diceva camminando Ruy Perez – le buone lance del suo terzo avran trovato da far caccia in campagna, e forse avremo domani un pranzo migliore della cena d'oggi. —

I pensieri suscitati da una tale speranza troncarono a tutti le parole, ed ognuno tornò in silenzio al proprio alloggiamento.

Nel tempo che si facevano questi discorsi, il legno che dapprima pareva passasse al suo viaggio, s'era piano piano venuto accostando. Pose in mare una barchetta nella quale scesero due uomini, che prestamente vogarono verso la spiaggia; ed appena scostati, il legno maggiore, spiegate tutte le vele, s'allontanò; nè più si rivide. Approdò il battello nella parte più oscura della piazza, ed i due rematori saltarono a terra. Il primo di questi stranieri, visto che in quel luogo non v'era persona, si fermò ad aspettare il compagno che rimaneva addietro occupato a caricarsi d'una valigia e di cert'altri impicci; fatta la qual cosa condusse la barca alla punta d'un picciol molo che serviva allo sbarco de' legni maggiori, quindi raggiunse quello che, per quanto accennava la presenza ed una cert'aria d'arrogante superiorità, non sembrava di condizione eguale alla sua, e che gli disse come conclusione de' discorsi fatti durante il tragitto:

– Michele, è tempo dunque d'essere accorto; sai chi sono, e più non ti dico. —

Michele intese benissimo la forza di queste poche sillabe; accennò col capo che farebbe, e s'avviarono all'osteria.

Davanti alla porta principale di questa, sei pilastri sottili di mattoni rozzi sostenevano un pergolato, sotto il quale erano parecchie tavole disposte all'uso degli avventori. L'oste (il cui nome era Baccio da Rieti, ma che per certi sospetti aveva dal popolo il soprannome di Veleno, e così veniva chiamato da tutti) avea fatto dipingere fra due finestre un gran Sole in rosso, al quale il pittore, secondo nozioni astronomiche che non sono perdute ancora, aveva attribuito occhi, naso e bocca, con certi raggi color d'oro, fatti a coda di rondine, che di giorno si vedevano un miglio lontano. L'interno della casa era diviso in due piani: uno stanzone terreno serviva di cucina e di camera da mangiare; per una scala di legno si saliva al secondo, ove l'oste abitava colla famiglia, e con qualche disgraziato quando capitava a passar ivi la malanotte. L'uso comune d'Italia era in quei tempi di cenare alle ventitrè: a quest'ora pertanto non si trovavano colà che pochi soldati o capisquadra seduti sulla porta al fresco, della compagnia del signor Prospero Colonna, che seguiva la fortuna di Spagna: tutti giovani arditi, che quivi cogli altri bravi dell'esercito avean costume di ripararsi. L'oste, che sapeva il suo mestiere, non lasciava mancar loro nè carte nè vino; ed essendo uomo sollazzevole e pieno di grilli, sempre piacevolmente ad ognuno diceva la sua; e così intrattenendoli spillava loro i danari. Stava appunto Veleno ritto sull'uscio, facendosi vento colla berretta, il grembiule alzato sul fianco; e le parole, le risa e il romore andavano alle stelle.

Giunsero i due forestieri, e per non parer tali camminavano passo passo, fermandosi spesso e cicalando fra loro; quando furono rimpetto all'uscio, e 'l chiarore del focolare di dentro percosse loro nel volto, apparvero vestiti nè più nè meno come ogni altro che fosse quivi. Poco badò loro la brigata quando entraron dentro; se non che uno, che era seduto più lontano, e stando all'oscuro aveva meglio veduto costoro, non potè far che non desse in un oh! di grandissima maraviglia, e dicesse mezzo rizzandosi: il duca!… Il suono col quale fu pronunziata questa parola mostrava dovesse esser seguita da un nome; ma un leggiero volger d'occhio di colui che entrava, bastò a rimandare questo nome in gola al soldato. Nessuno avea posto mente a questo suo sbigottimento: un solo compagno che gli era presso gli disse:

– Boscherino! Che duca ti vai sognando? Pure non t'ho visto bere oggi. Ti par egli luogo da duchi codesto? – Non parve vero a Boscherino di non trovar fede, e d'esser tenuto pazzo o briaco; e senza entrar in altro, volse destramente le parole, ritornando ai discorsi di prima.

Dietro i due entrati nell'osteria s'avviò Veleno colla sua rotonda e bisunta persona e con una cera olivastra, barbuta e maliziosa, nella quale si vedea un miscuglio che teneva del coviello e dell'assassino. Senza molto scomporsi fece l'atto di far di berretta, e disse:

– Comandate, signori. —

Quegli che già sappiamo chiamarsi Michele, fattosi avanti, disse:

– Si vorrebbe cenare. —

L'oste si scontorse, e rispose con tuono afflitto, che si sforzò di far apparire sincero, – Cenare? Vorrete dire mangiar un boccone alla meglio, se pure si potrà metter insieme… Dio sa che cosa v'è rimasto in casa in questa stretta d'assedio! Che prima un pane valeva un cortonese, ed ora sta mezzo fiorino, e tanto lo pago io al forno… A ogni modo per signori pari vostri si ripiegherà… m'ingegnerò… – E con quest'esordio destinato, secondo l'usanza degli osti, a far pagar dieci quel che val due, aperse un armadio, e trattone un tegame lo pose sul fornello; e coll'ajuto del vento fatto col grembiule, e che alzava la cenere sino al soffitto, fu presto riscaldato uno spezzato di capretto, che al dir dell'oste era la sola vivanda che fosse a quell'ora in Barletta, e dovea servir di cena ad un caporale che veniva per essa a momenti; ma signori pari loro non si potevano mandar a letto a digiuno.

Comunque ella fosse, la vivanda fu gradita, e venne recata in istoviglie di terra a fiori, insieme con un boccale dell'istessa materia a larga pancia, e con un mezzo cacio pecorino duro come un sasso, nel quale eran impressi i colpi di coltello degli avventori antecedenti che avean già fatte le loro prove contro di lui. Il desco al quale sedevano era in fondo alla sala, se si può dar un tal nome a questa spelonca affumicata. Al capo opposto un gran cammino, con una cappa da dodici persone, avea dalle due parti tre o quattro fornelli: davanti era la tavola del cuoco; e dal mezzo di questa, a guisa di un T, un tavolone stretto s'estendeva quant'era lungo il luogo, quasi fino al muro dirimpetto, ove i due stavano cenando. Dal trave maestro pendeva nel mezzo una lucerna d'ottone a quattro bocchini quasi spenta, bastante appunto perchè altri non si rompesse gli stinchi nelle panche e negli scabelli che attorniavano il desco.

L'oste, com'ebbe ammannita ogni cosa pel bisogno de' cenanti, fischiando, com'era suo costume, se ne tornò sull'uscio, in quella appunto che giungeva correndo sopra un muletto un uomo, il quale balzato a terra senza toccare staffa, gridava:

– Su, giovanotti, allegri e coraggio, chè c'è buona novella: e tu Veleno fatti in venti pezzi, e ci sarà da far per tutti. È tornato Diego Garcia, e scavalcato a casa; ed or ora sarà qui per cenare: saranno venti o venticinque buone spade, ed egli solo ne val quattro; onde fa di trovarti all'ordine, e presto… Ebbene che fai? Sei morto?.. Muoviti. —

L'oste era rimasto a bocca aperta. Quei bravi rizzatisi attorniavano e punzecchiavano il messo per sapere com'era andata la cavalcata.

– M'avrete morto – disse spingendoli e togliendosi loro di mezzo – e non saprete niente. Parlate voi, o parlo io?

– Di' su, di' su – gridarono tutti insieme – che nuove abbiamo?

– Abbiamo la nuova, che torniamo stracchi morti ora proprio, che siamo stati quattordici ore a cavallo senza un sorso d'acqua… (Ohè! Veleno, una mezzetta da tre, fresco… ho la gola asciutta com'un pezzo d'esca…) Ma quaranta capi di bestiame grosso, e settanta decine di minuto già stanno in Barletta; e tre uomini d'arme prigioni, che, se Dio vuole, sputeranno tanti bei ducati d'oro, come siamo cristiani battezzati, se voglion riveder l'uscio di casa loro. Vi so dire che c'è voluto del buono a scavalcarli ed averne le spade… (E questo vino lo porterai prima di cascar morto?..) Menavano a due mani come saette: uno, in ispecie, era in terra, e 'l cavallo ferito l'avea messo sotto, e se gli gridava tutti: renditi, o sei morto; egli dava imbroccate con un suo spadone, e se non gli si rompeva in un colpo che tirò al cavallo d'Inigo, e che invece colse l'arcione ferrato, o ci bisognava finirlo colle lance, o ci veniva ritolto. Pure al fine ha data a Diego Garcia la mezza spada che gli era rimasta. —

Veleno in questa giunse col vino e versò da bere al narratore, il quale gli disse: – Pur beato che sei venuto una volta!

– E come si chiama questo demonio? – domandò Boscherino.

– Non saprei… dicevano ch'è un gran barone franzese: un nome come la Crotte… la… la Motta. Ora mi ricordo, sì, La Motta: un pezzo di bestione, se vedi, che fa tremar la terra. Basta, la cosa è finita bene, e sguazzeremo se Dio vuole. – Voltando poi l'occhio all'interno dell'osteria: – E che fai? – gridava – traditore poltrone, che ancora non metti al fuoco; vuoi che ti misuri le spalle con questa zagaglia? —

Ed entrava difatti per eseguir la minaccia, ma si fermò vedendo che un gran pajuolo era già stato messo sopra una bracciata di quercioli, e la fiamma andava prendendo, e s'innalzava crepitando, mentre l'oste sudato e rosso, senza pensar più nè alla carestia nè all'assedio, e sapendo che con Paredes ed i suoi compagni non era da scherzare, correva per casa per dar ordine al tutto. In un lampo ebbe trovato quanto gli faceva mestieri, e scotennando un agnello, parte ne mise a bollire, e parte ne infilzò in due lunghi spiedi che pose a girare sugli uncini de' capifuochi. La faccenda prendeva buona piega.

– Or bene – disse l'ordinator della cena – buon per te Veleno. Se costoro giungevano, e non eri all'ordine, avresti provato quante libbre pesano le cinque dita di Diego Garcia. Vado, e te li mando qui di volo.

– Oh Ramazzotto, non verrai tu con esso loro? – disse uno de' caporali.

– Come potrei venire? La compagnia sta tuttora a cavallo. Mi conviene alloggiarla ed aver l'occhio al bottino, che è in piazza al castello; e di notte le mani lavorano, ben sai; nè fra queste squadre manca chi le sappia adoperare. Fieramosca, Miale Brancaleone e tutti i nostri son costì all'erta, ed a noi è commesso che non nascano scandali; agli Spagnuoli un'altra volta. A chi tocca, tocca.

– S'ell'è come tu di' – riprese Boscherino – ne verremo teco ed ajuteremoti. – Su, di buona voglia, compagni; quest'uom dabbene ha più miglia in corpo che non abbiam noi, e si vuole soccorrerlo. – Così usciti dall'osteria s'avviarono parlando delle brighe del giorno verso il luogo ove la compagnia di Ramazzotto lo stava aspettando. Questi tirandosi dietro per la briglia la sua cavalcatura, se ne veniva attorniato, narrando e rispondendo, e Boscherino seguiva tutto inteso a ciò ch'egli sapeva dire; quando si sentì tirare per la cappa, e volgendosi vide nell'ombra un uomo, che riconobbe per uno di que' due che avea lasciati cenando nell'osteria.

– Boscherino – gli disse sottovoce fermandolo, mentre gli altri seguivano la loro via – il duca ti vuol parlare: non ti sbigottire, chè non vuol farti un male al mondo. Però sta sull'avviso, e sii accorto. Andiamo. —

A Boscherino si mise la febbre addosso udendo queste parole, e disse che appena si poteva udire: – Siete voi D. Michele?

– Sì, son io: taci, e portati da quel valent'uomo che sei. —

Boscherino era stato caposquadra del signor Gio. Pagolo Baglioni, e di altri signori italiani, e nelle guerre del tempo s'era sempre portato da valoroso; nè v'era uomo che curasse meno di lui mettersi ad ogni sbaraglio, tanto che facendosi la compagnia di 500 fanti e 100 archibusieri per ordine del signor Prospero, onde condursi in ajuto di Consalvo, era stato fermato con soldo ragguardevole, e si faceva di lui grandissimo conto.

Ma l'animo suo, quantunque sicuro, nol potè regger tanto che le parole udite da D. Michele, e 'l dover ritornare, sapendo a chi fra momenti si sarebbe trovato innanzi, non gli facesse tremar le ginocchia; e se avesse potuto scegliere, avrebbe tolto di scagliarsi piuttosto contra dieci spade che andare dov'egli andava. Ripensando alle cose passate poco prima, ben s'appose al vero, e disse fra se:

– Troppo son certo ch'egli m'ha udito quando dissi il duca… Il diavolo dell'inferno mi mosse la lingua… eppure era discosto, e non mi pare d'aver alzato tanto la voce. Ma dove non giungerebbe quell'anima dannata… Ed ora che malanno sarà venuto a far qui? —

Con questi pensieri furono all'osteria. La sola gente di casa era in cucina. Il duca s'era fatto condurre nella camera ove dovea dormire, che era sopra il camerone della cena; e le tavole del soffitto essendo mal connesse, lasciavano tanto di spazio che si poteva vedere ed udire ogni cosa di sotto.

All'oste era bensì passato un sospetto pel capo che costui non fosse quello che si mostrava; ma stretti dal nemico soltanto dalla banda di terra, capitavano quivi per via di mare ogni qualità d'uomini; nè si faceva gran caso d'un viso che non fosse appuntino degli ordinarj.

Salirono la scala D. Michele e Boscherino, e vennero alla camera dov'era il duca. Un letto ricoperto di sargia bigia, un piccol desco, e pochi sgabelli erano il solo mobile della stanza. La lucerna, che si veniva smorzando, col vento che fece la porta aprendosi, si spense; e Boscherino, mentre D. Michele andò per altro lume, si trovò quivi allo scuro col duca. Rimase immobile dov'era, rannicchiandosi al muro, non osando far parola e nemmeno quasi fiatare, e stupiva di ritrovarsi così dappoco, egli che non stimava persona al mondo. Ma il sapere d'essere alla presenza di quel maraviglioso e terribile uomo, il sentirselo tanto vicino, che, nel silenzio in cui stavano amendue, poteva udirne il respiro frequente, tutto ciò suo malgrado gli metteva tal brivido, ch'egli si dolea d'esser vivo. Tornò D. Michele col lume e fu visto il duca seduto sulla sponda del letto. La sua presenza era d'uomo che non ha saputo mai che cosa sia riposo nè di mente nè di corpo. Ben complesso ed asciutto di membra, di statura poco più dell'ordinaria, aveva in ogni sua mossa un non so che di tremolo che non si potrebbe descrivere. Vestiva una cappa scura con maniche a larghe strisce ed a riprese. Una daga sottile in cintura, e la spada era sulla tavola con un cappello adorno d'una sola penna nera. Teneva i guanti alle mani, ed alle gambe stivali grossi da viaggio. Volse ai due venuti un viso pallido, colle guance infossate e sparse di macchie livide, con baffi e barba rossetta, piuttosto lunga, che scendeva sul petto in due liste. Al suo sguardo poi sarebbe impossibile trovare al mondo nulla di somigliante. A voglia sua, ora più saettante di quello d'una vipera, ora dolce come l'occhio d'un bambino, ora terribile come la pupilla sanguigna della jena.

Guardò Boscherino che s'era fatto la metà, e stava sempre nello stesso luogo, come se avesse aspettato la sentenza del capo; e lo guardò in modo da torgli ogni timore: ma Boscherino sapeva chi egli era, nè si rassicurò punto.

– M'hai riconosciuto Boscherino – gli disse – e l'ho caro; sempre ti tenni per uomo di fede e dabbene; e se non mi venivi innanzi t'avrei cerco. Ben sapevo che eri qui. Non far parola con persona che m'abbi veduto. Sai che posso rimunerarti de' tuoi servigi; nè il farmi dispiacere ti gioverebbe gran fatto. —

Il caposquadra troppo sapeva ch'egli diceva il vero, onde rispose:

– V. E. Illustrissima può far di me ogni sua voglia, e le sarò come le fui sempre fedel servitore. Nè la mia vita passata credo le possa dare indizio contrario. Solo prego l'E. V. mi faccia degno di dirle due parole con libertà. —

Avendogli il duca accennato che dicesse, riprese:

– Voi aveste la mia fede, glorioso signore, nè vi verrà meno mai in eterno. Ma qualcuno può avervi veduto. Se la cosa si divulgasse, ed io uscissi di qua, potrebbe venirmene dato carico, senza ch'io ci abbia una colpa al mondo. Ond'è che non vedo strada d'uscirne coll'onor mio.

– Va – rispose il duca – sta di buona voglia, ed attendi ad esser uomo dabbene, nè ti darò carico che non meriti. Al fatto mio accade lo star nascosto soltanto per poche ore; passate queste, sappia ognuno e dica ciò che vuole, però non esca mai dalla tua bocca, per quanto stimi la grazia mia. —

Boscherino non rispose a queste parole; soltanto abbassò il capo in atto riverente, facendo il viso di chi si vuol mostrar pronto ad obbedire, e non ha altro timore che di non esser creduto obbediente abbastanza. Tolse licenza, e camminando all'indietro con molti inchini, uscì della camera, e gli parve mille anni d'essere in istrada. Dopo alcuni minuti venne fuori anche D. Michele; trovò la camera che gli era destinata, vi si chiuse; ed il piano superiore dell'osteria per quella sera rimase tranquillo come se fosse disabitato.




CAPITOLO SECONDO.




La brigata per la quale era allestita la cena, giunse a casa di Veleno verso le due ore di notte, ed empiè in un momento lo stanzone terreno ov'era apparecchiato. L'oste per farsi onore s'era ingegnato d'imbandir con tovaglie di bucato la tavola, sulla quale oltre i piattelli e le posate di stagno e d'ottone che spiccavano meglio del solito per essere state strofinate[Pg 13] con maggior diligenza, v'erano qua e là foglie di vite sparse ad uso di piattini per porvi su i boccali ed i bicchieri, sui quali scintillavano al chiarore di molti lumi, infinite goccie d'acqua, rendendo testimonianza ch'eran stati risciacquati di fresco. Diego Garcia di Paredes entrò il primo e dietro lui i baroni francesi prigioni. Jacques de Guignes, Giraut de Forses, e La Motta. Lo Spagnuolo, l'uomo più audace e di maggiori forze di tutto l'esercito, e forse di tutta Europa, pareva formato apposta dalla natura pel mestiere dell'arme, pel quale tanto meglio si poteva riuscire quanto maggiore era la robustezza e la forza muscolare. La sua statura superava di non poco quella de' suoi compagni, e l'affaticarsi di continuo in un temperamento qual'era il suo, togliendo alle membra la pinguedine, avea dato tal grossezza ad ogni muscolo, che appariva nel petto, nelle spalle, e nell'altre parti somigliante ai colossi dell'antica scultura, di forme atletiche e bellissime nell'istesso tempo. Il collo grosso come quello del toro reggeva una testa piccoletta, ricciuta, coi capelli piantati alti nella collottola, ed un volto virile e sicuro, senz'ombra però d'arroganza. L'aspetto di Don Garcia non mancava d'una certa grazia; e gli si leggeva in viso l'animo semplice, leale e pieno d'onore. Avea già deposta l'armatura, ed era rimasto in giustacore e brache di pelle strette alla carne, in guisa che ad ogni suo moto si vedevano i muscoli sorgere e guizzare come fossero scoperti: un mantello corto alla foggia spagnuola gettato su una spalla compiva tale schietto vestire.

– Signori baroni – disse mettendo dentro con cavalleresca cortesia i prigionieri – noi Spagnuoli diciamo: —Duelos con pan son menos[4 - I guai, con pane, son più soffribili.]. La fortuna oggi v'ha trattati male; domani forse toccherà a noi: in tanto qui siamo amici: ceniamo, che por Dios Santo, credo in questo saremo tutti d'accordo: più d'una lancia è andata in pezzi, e per oggi basta: non ci potranno rimproverar certamente di lasciar rodere le armature dalla ruggine. State di buon animo, e domani si ragionerà della taglia, e vedrete che D. Garcia sa come si trattano cavalieri pari vostri. —

Il contegno di La Motta a queste parole era quello di chi avendo la stizza non la vuol mostrare. Valoroso, buon soldato e molto fiero coll'arme in mano, nè d'aspetto inferiore all'esser suo, era però superbissimo quant'uomo del mondo, e non poteva patire d'aver a ricever cortesia da chi l'avea fatto prigione. Tuttavolta conoscendo quanta villania sarebbe stata il mostrarsi acerbo, rispose più lietamente che potè:

– Se la vostra mano è leggiera nel porre una taglia come nel calare un fendente, il re cristianissimo pagherà della sua borsa se ci vuol riavere, o vi terrò compagnia il resto de' miei giorni.

– Inigo – disse Paredes volgendosi ad un bel giovine di venticinque anni che, aspettando la cena, avea già posto mano al pane – se vogliamo parlare di colpi di spada, domanderemo al tuo cavallo, che sapore hanno le stoccate di questo barone. —

Poi dirigendo il discorso a La Motta:

– M'accorgo un po' tardi che siete disarmato: eccovi la mia spada (e scingendola, la pose al fianco del suo prigione) sarebbe gran torto se un braccio come il vostro non trovasse un'elsa dove appoggiarsi. Terrete Barletta per prigione sino a cambio o riscatto. La vostra parola, Cavaliere? —

La Motta stese la destra a Paredes, che la prese e soggiunse:

– Pei vostri compagni sia lo stesso patto. Non è vero? – E ciò disse volto a Correa e ad Azevedo, due uomini d'arme che avean fatti prigioni i compagni di La Motta. Risposero che eran contenti, ed ambedue colla medesima cortesia toltesi d'accanto le spade le cinsero ai baroni francesi.

– In tavola signori – gridò in quella Veleno, ponendo in mezzo al desco un grave catino, ove giaceva la metà dell'agnello attorniato da cipolle e legumi, e due gran piatti alle estremità pieni d'insalata; e l'apparire della vivanda non fu meno possente della voce dell'oste a chiamare a sè l'affamata adunanza. Tutti con gran premura, spostando e rimettendo le panche, in un momento furono seduti, e all'opera; e per alcuni minuti non s'udì parola, ma solo uno strepito di piattelli, bicchieri e posate percosse.

Solo, in capo tavola, sedeva Diego Garcia, e da' suoi lati avea fatto porre La Motta e de Guignes. Scalcando con una gran daga, in un lampo ebbe fatto in pezzi quell'animale, e divisolo fra i convitati. Il suo stomaco di ferro, servito ottimamente da due file di denti bianchissimi e forti da non temer paragone, si trovò dopo alcuni minuti racquetato se non satollo. Non gli rimase un sol osso sul piattello, poichè nessun mastino potea dirla seco per stritolarli e ridurli in polvere. Finita la pietanza, empiè i bicchieri de' suoi vicini ed il suo. Com'ebbe bevuto, e passata un poco quella prima furia di fame, s'avviarono a poco a poco i discorsi, mescolandosi le domande, le risposte ed i frizzi, che si raggiravano per lo più sui casi della guerra, sui cavalli, sui colpi dati o toccati, e sui varj accidenti del giorno. Nella parte inferiore del desco ove s'eran seduti i venti o ventitrè Spagnuoli, lasciando per cortesia al loro capo ed ai prigioni francesi ciò che essi chiamano la cabecera, ossia il sommo della tavola, si scorgeva negli atti e nelle parole quell'amorevole fratellanza che suol produrre il trovarsi avvolti insieme ogni giorno in grandissimi pericoli, ove si conosce quanto pregio abbia l'esser pronti ad ajutarsi l'un l'altro nell'occasione.

Le facce ruvide e cotte dal sole di questi uomini d'arme, che il moto, la recente fatica ed il calor del cibo rendevano rosse ed infocate, producevano, al chiaror dei lumi che le percoteva dall'alto, un effetto di chiaro-scuro degno del pennello di Gherardo delle Notti.

Avvicinandosi il termine della cena, il conversare, secondo il solito, era divenuto più generale, e le risa e il romore cresciuti in gente che avea riportato onore e profitto dalle guerresche fatiche del giorno. La fronte d'Inigo era la sola che più durava fatica a rasserenarsi. Stava egli col gomito appoggiato alla tavola, e si guardava d'intorno, poco o nulla rispondendo alle ciarle de' suoi compagni.

– Inigo – gli disse, stendendo verso di lui la mano Azevedo, che aveva forse votato un bicchiere più del solito, ed essendo uomo sollazzevole, mal soffriva di veder uno della brigata star sopra di se malinconico – Inigo, si direbbe che sei innamorato, se le donne di Barletta meritassero le occhiate di un bel giovane par tuo. Ma qui, viva Dio, siamo al sicuro. Non vorrei che avessi lasciato il cuore in Ispagna, o a Napoli.

– Non penso a donne, Azevedo – rispose il giovane – ma penso al buon cavallo che quel barone m'ha quasi ammazzato seguitando a menar le mani da pazzo, quando già vedeva di non poterci fuggire. Povero Castagno! la sua spalla è perduta; ho paura, e non penso d'averne mai più sotto un altro che lo valga. Ti ricordi a Taranto che cosa seppe fare questo demonio? e quando si guazzò quel fiume… non mi ricordo il nome… là dove fu ammazzato Quignones… che l'acqua era più alta che non si pensava; chi arrivò il primo alla riva? E dopo tante prove e tanti pericoli doveva finire alle mani di questo nemico di Dio!

– Non alzar tanto la voce – disse Correa – quel che è stato è stato a buona guerra: e non si deve dar carico ai prigionieri, nè conviene che odano questi discorsi.

– Ed io ti giuro – rispose Inigo – che vorrei essere in terra con una buona ferita, e veder sano il mio povero Castagno: e perdonerei al Francese se avesse rotto la spada sul capo a me, invece di pigliarla col cavallo. All'uomo si tira: almeno chi sa tener la spada in mano fa così; e non di qua, di là, all'impazzata. Maledetto! pareva che si cacciasse le mosche.

– Hai ragione, perdio – gridò Segredo, vecchio soldato con baffi e barba che mostravano aver veduto più d'una zuffa. – Quand'ero giovane pensavo come te: vedi la mia fronte (e battendo sovr'essa leggermente con una mano incallita dal guanto di ferro, indicava una cicatrice che orizzontalmente gli tagliava il sopracciglio) questa me l'ha fatta el Rey Chico per amor d'un cavallo, il più bel bajo che vi fosse in campo. Quello si chiamava cavallo! Quando fra uomini d'arme si veniva alle spade, bastava scuotergli così un poco la briglia, e un'ombra di sperone; che volevate vedere! S'alzava sulle zampe, e poi volate e sparate avanti, chè a non volere uscir per gli orecchi, vi dico io, mi toccava a stringer le cosce: quando ricadeva venivo giù insieme col mio colpo di spada, che pareva la saetta di Dio, e in questa maniera più d'un Moro è andato a cena con Satanas. E la siesta! Dormivo fra le sue gambe all'ombra, povero zamoreno de mi alma, che nemmeno ardiva cacciarsi le mosche, per non disturbarmi. All'assedio di Cartagena dove pochi di voi si son potuti trovare, e dove cominciò a farsi conoscere il gran Capitano… e vi dice Segredo che era un bel far la guerra allora: un po'meglio d'adesso: sotto gli occhi del re Don Fernando e della regina Isabella, che era una bellezza, e di tutta la corte, ben pagati e mantenuti noi e i cavalli, come in casa d'un principe… ma per dir del mio cavallo, in una sortita dove el Rey Chico alla testa de' suoi combatteva come un leone (ed era un uomo che m'arrivava al petto, ma aveva un braccio che dove toccava lasciava il segno) quel povero animale ebbe passato il collo fuor fuori da una zagaglia moresca, e la prima volta in vita sua cadde sulle ginocchia. Mi gettai a terra e vidi che non c'era rimedio. Pure speravo di ricondurlo al campo a mano, chè per tutto il mondo non avrei voluto abbandonarlo: mi seguitava che appena poteva reggersi, e non ho vergogna a dirlo, le lagrime calde calde mi scendevano per la gorgiera dell'elmo, e mi bagnavano il collo: io che non sapevo che cos'era piangere! In quella tornò addietro una furia di Mori stretta da molti uomini di arme, e quel re era obbligato a fuggire, e veniva mugghiando come un toro. Io preso in mezzo da questi, solo, a piedi mi vidi morto. Tenni lontano più d'uno girando la spada; ma mi cadde sul capo quella del re che m'aperse l'elmo e rimasi per morto un pezzo. Quando mi riscossi e mi potetti alzar da terra, mi trovai il povero Zamoreno steso morto accanto. —

I casi del cavallo di Segredo erano stati uditi con affetto da tutta la tavola, ed il vecchio soldato al fine del suo racconto non avea potuto a meno di non mostrare sul viso solcato dall'età e dai travagli, che la memoria dell'antico compagno gli durava molto viva nel cuore. Qui ebbe vergogna di farlo troppo scorgere, e si versò da bere per distrarre gli sguardi che ancora lo fissavano.

Jacques de Guignes che, non meno degli altri prigioni, era andato riprendendo animo a misura che s'era pieno lo stomaco, udita la storia di Zamoreno cominciò:

– Chez-nous, messer cavaliere, questo non vi sarebbe accaduto tanto facilmente (quantunque è pur troppo vero che les bonnes coutumes de chevalerie si vanno perdendo ogni giorno). Pure un uomo d'arme si crederebbe disonorato se ad armi e a numero pari la sua spada cadesse sul cavallo del nemico. Ma dai Mori, come tutti sanno, non si può aspettare questa cortesia.

– Eppure – disse Inigo, rispondendo ad una proposta che non gli era diretta – si potrebbe provare che non è usanza solamente de' Mori l'ammazzar cavalli. Lo sanno le pianure sotto Benevento, e lo seppe il povero Manfredi. E Carlo d'Angiò, che ne diede l'ordine, non era più Moro di voi e di me. —

La stoccata era diritta, ed il Francese si scontorse sulla sedia.

– Questo si dice; forse sarà vero: ma Charles d'Anjou combatteva per un reame, e poi aveva a fare con uno scomunicato nemico della Chiesa.

– Ed egli non lo era della roba altrui? – interruppe Inigo con un sorriso amaro.

– Credo che saprete – prese la parola La Motta – che il reame di Napoli è feudo della S. Sede, e che Charles n'ebbe l'investitura: e poi il diritto d'una buona spada vale qualche cosa.

– E poi, e poi… Diciamo la cosa com'è – riprese Inigo – le barbute tedesche di Manfredi, ed i mille cavalieri italiani che guidati dal conte Giordano combattevan contra i Francesi s'erano mostrati tali dal principio della battaglia, che Carlo d'Angiò non istimò inutile, volendosi far re di Napoli, di ricorrere a questo espediente a malgrado les bonnes coutumes de chevalerie, in vigore a quei tempi.

– Vi concederò se volete – rispose La Motta – che i Tedeschi valgano qualche cosa sotto la corazza, ed avranno forse potuto far testa qualche momento alla gendarmeria francese, nella giornata di Benevento; ma quanto ai vostri mille Italiani, veramente! Se erano dugento anni fa, quel che sono al dì d'oggi, non faceva bisogno che per metterli in rotta i Francesi perdessero il tempo a storpiare i loro poveri cavalli. Da cinque anni che scorro l'Italia, ho imparato a conoscerli, ho seguitato il re Carlo nella compagnia del prode Louis d'Ars, e v'assicuro che le frodi degl'Italiani ci hanno dato a fare più delle loro spade. La sola guerra che essi conoscano è la sola che ignori la lealtà francese. —

Queste gonfie parole poco piacquero a tutti, e niente affatto ad Inigo, che aveva coltura ed ingegno più che mediocre: era amico di molti Italiani militanti sotto le bandiere di Spagna, e conosceva com'erano andate le cose nella calata di Carlo in Italia. Sapeva, per dirne una, che, a malgrado la lealtà francese, ai Fiorentini non era stato tenuto l'accordo, ed erasi loro fatta ribellar Pisa; nè le fortezze che l'imprudenza di Pietro de' Medici avea poste in mano loro, erano, secondo la fede data, state restituite al tempo stabilito. Tutto ciò corse al pensiero d'Inigo, e le parole di La Motta gli movevan la stizza, mal sofferendo che i poveri Italiani, traditi e malmenati dai Francesi, fossero da questi medesimi trattati da traditori e coperti di vituperj. Stava perciò in procinto di dirgli il fatto suo; ma quegli accorgendosi che le sue parole non erano favorevolmente accolte, aggiunse:

– Voi venite di Spagna da poco tempo, signori, e non sapete ancora che razza di canaglia sieno gl'Italiani; voi non avete avuto a far nè col duca Lodovico, nè col papa, nè col Valentino, che prima ci ricevevano a braccia aperte, e poi cercavano di piantarci il pugnale nelle reni. Ma a Fornovo si sono accorti che cosa può fare un pugno di brava gente contra un nuvolo di traditori: ed il Moro il primo è stato preso nelle sue reti. Scellerato! se non avesse altro delitto che quello della morte di suo nipote, non basterebbe forse questo solo a farlo il più infame degli assassini?

– Ma – disse Correa – suo nipote era infermiccio e di poco senno, e si vuole sia morto naturalmente.

– Naturalmente, come tutti coloro ai quali vien dato un veleno. De Forses e De Guignes lo sanno, che erano anch'essi alloggiati come me nel castello di Pavia. Il re andò a visitare la povera famiglia di Galeazzo (e tutto questo lo tengo dalla bocca di Filippo de Comines al quale fu raccontato dal re stesso). Il Moro lo condusse per certi passaggi oscuri, in due camere basse ed umide che guardavano le fosse del castello; trovò il duca di Milano colla moglie Isabella ed i figli. Questa si gettò ai piedi del re pregandolo per suo padre, ed avrebbe voluto pregarlo anche per sè e pel marito, ma quel traditore del Moro era presente: il povero Galeazzo pallido ed estenuato poco disse, e pareva sbalordito dall'enormità della sua disgrazia: già aveva nelle vene il veleno che lo ammazzò… E Cesare Borgia, per dirne un altro: dove trovate una coppia come questa? Abbiamo viste di lui cose che se si raccontano non son credute. Poi, già molte delle sue imprese sono conosciute quanto basta. Tutto il mondo sa che ha ammazzato il fratello per averne gli onori e la roba; tutto il mondo sa come ha fatto per diventar padrone della Romagna; tutto il mondo sa che ha ucciso il cognato, avvelenato cardinali, vescovi e tanti altri che gli davano ombra. —

Volgendosi poi ai suoi compagni francesi col viso di chi ricorda un fatto noto e degno di compassione: – E la povera Ginevra di Monreale? La più bella, la più virtuosa, la più amabile donna ch'io m'abbia mai conosciuta! Questi miei amici se ne ricordano: fu da noi veduta al nostro passaggio in Roma del 92. Ma la sua mala sorte la fece anche conoscere al duca Valentino allora cardinale: era costei divenuta moglie di un nostro soldato ch'ella aveva sposato più per ubbidienza a suo padre che per altro. Fu presa da un male che nessuno seppe conoscere; si provarono tutti i rimedii; tutto fu inutile: dovette morire. Ma un accidente singolare mi fece scoprire un segreto d'inferno, che pochi hanno saputo. La sua malattia non era stata altro che un veleno datole dal Valentino per punirla della sua onestà. Povera infelice! Non son cose queste da chiamare i fulmini dal cielo? —

Qui il Francese si fermò pensando, e pareva cercasse ricordarsi qualche circostanza che il tempo gli avesse annebbiata nella memoria.

– Ma sì, non m'inganno: oggi fra i vostri uomini d'arme, nel venire a Barletta, ne ho veduto uno del quale per verità non mi sovviene il nome, ma che mi ricordo benissimo d'avere incontrato più volte per Roma in quel tempo; ed ha una statura ed un viso che non si dimenticano facilmente: si diceva da tutti fosse l'amante nascosto della Ginevra, e dopo la morte di lei sparì, nè mai più si seppe nulla de' fatti suoi (Mais oui, je suis sûr que c'est le même, disse volto ai compagni). Ad un miglio della città quando ci siamo fermati alla fontana per aspettare i fanti, quel giovane pallido, coi capelli castagni, e non penso d'aver mai veduto un viso d'uomo più bello nè più malinconico del suo… sì, sì, è lui sicuramente; ma il nome non me lo domandate. —

Gli Spagnuoli si guardavano in viso studiando di chi volesse parlare.

– Era Italiano? – domandò uno.

– Sì; Italiano. È vero che non ha aperto bocca; ma un compagno che era sceso da cavallo, e gli porgeva da bere, gli parlò italiano.

– E le sue armi?

– Mi pare avesse una corazza liscia con una cotta di maglia; e, se non isbaglio, una penna ed una sciarpa azzurra. —

Inigo il primo gridò: – Ettore Fieramosca.

– Fieramosca appunto – rispose La Motta – ora mi ricordo, Fieramosca. Ebbene, questo Fieramosca era innamorato di Ginevra (almeno così si diceva), e molti non vedendolo più comparir dopo la morte di lei credevano si fosse ucciso. —

A queste parole sorridendo gli Spagnuoli dicevan fra loro non esser oramai da stupirsi se sempre era malinconico, e se menava una vita tanto da sè, e diversa da quella de' giovani pari suoi. Tutti però d'accordo lodavano la sua buona natura, il suo valore, la sua cortesia; dal che si poteva conoscere quanto fosse amato e tenuto in pregio da tutto l'esercito. Inigo poi, sopra tutti, che gli era amico, e come ogni animo non volgare ammirando senza gelosia le belle doti del guerriero italiano, quanto lo conosceva da più di sè, tanto maggiormente lo amava, prese la parola in sua lode, con tutto il caldo che può aver l'amicizia in un cuore spagnuolo.

– A voi piace il suo viso, ed a chi non piacerebbe? ma cos'è per un uomo la bellezza? Se conosceste l'anima di quel giovane! la nobiltà, la grandezza di quel cuore! ciò che egli ha osato coll'armi in mano con quell'arrischiato valore che nei più va unito ad una certa ebbrezza, ma in lui all'opposto fra i maggiori pericoli è sempre congiunto a freddo consiglio!.. In vita mia ne ho conosciuti dei bravi giovani, e alla corte di Spagna e in Francia; ma vi dico da uomo d'onore, un insieme come quell'Italiano, che, perdio, riunisce tutto, non l'ho trovato, e non penso di trovarlo più. —

Il favore che il Fieramosca godeva nell'esercito fece sì che ognuno volle dir la sua, mostrando premura per questi suoi casi, nè il vecchio Segredo si mostrò duro più degli altri, e disse:

– Quantunque non abbia avuto mai tempo da perder con donne, e non abbia mai capito come un petto coperto di maglia possa tormentarsi per loro, non ostante quel bravo giovane, a vederlo sempre tristo, con quel viso sbattuto, mi muove un certo sentimento, che nemmeno io posso ben capire, e por Dios santo, darei il migliore de' miei cavalli (purchè non fosse il Pardo) per vederlo una volta far un pajo di risate di cuore.

– Lo dicevo io che era mal d'amore! – disse Azevedo. – Quando si vede un giovane pallido, di poche parole, che cerca la solitudine, non si sbaglia, è affare di gonnella. È vero però (disse sorridendo) che alle volte un pajo di partite alla zecchinetta che vadano a rovescio, vi metton l'amaro in bocca e vi fanno diventar pallido e malinconico per dieci gonnelle;… ma non importa: è un'altra cosa, e poi dura meno. E quanto a Fieramosca non c'è questo pericolo; non l'ho mai veduto con le carte in mano… Ora capisco il motivo de' suoi viaggi notturni. Sapete che le mie finestre guardano il molo. Più d'una volta l'ho visto sul tardi entrare in un battello solo, allontanarsi e girare dietro il castello. Buon viaggio, dicevo io mettendomi a letto, ognuno ha i suoi gusti: e pensavo che cercasse fortune d'amore; ma non mi sarei mai sognato si cacciasse in mare per piangere chi sta all'altro mondo. Pare impossibile; un soldato par suo lasciarsi vincere da questa pazzia!

– Ciò mostra – rispose Inigo con calore – che un cuore buono ed amorevole può star nel petto d'un uomo ardito in faccia al nemico; e, viva Dio! che in questo s'ha a render giustizia a Fieramosca, come a tutti gl'Italiani che i fratelli Colonna hanno sotto la loro bandiera: nessuno di quanti portano una spada accanto ed una lancia in pugno, può vantarsi di portarla più degnamente o d'esser da più di loro. —

A questa lode espressa col fuoco d'un animo schietto ed amante del vero, gli Spagnuoli diedero coi cenni e colle parole un'approvazione che non potevano negare essendo giornalmente testimoni del valore degli uomini d'arme Italiani. Ma i tre prigionieri caldi dalle parole e dal vino, e La Motta più degli altri, avendola con Inigo, che sempre durante la cena lo era andato pungendo, non potè mancare alla sua superba natura di stimar tutti nulla in paragone suo e de' suoi; onde alle parole dello Spagnuolo rispose con un riso studiato ed un guardo di compassione che fece montar la stizza fino ai capelli al giovine, e gli s'accrebbe la metà quando La Motta seguì dicendo:

– Quanto a questo, messer cavaliere, nè io nè i miei compagni non siamo del vostro avviso. Da molt'anni facciamo la guerra in Italia; e, come già v'ho detto, abbiamo molto più veduto adoprar pugnali e veleni che lance e spade, e vi prego di crederlo; un gendarme francese (e fece un viso grosso) si vergognerebbe d'aver per ragazzi di stalla uomini che non valessero meglio di questi poltroni d'Italiani: giudicate se si può immaginare di paragonarli con noi.

– Sentite, cavaliere, ed aprite bene gli orecchi – rispose Inigo che non potè più reggere alla passione di sentir costui dir tanta villania de' suoi amici, e non gli parve vero di sfogarsi contra chi gli avea storpiato il suo cavallo – se qualcuno de' nostri Italiani fosse qui, e Fieramosca il primo, e voi foste libero, come siete prigione di Diego Garcia, potreste imparare, prima d'andar a letto, che un uomo d'arme francese può aver a fare a due mani per difender la sua pelle contra un Italiano; ma poichè voi siete prigione, e qui non sono che Spagnuoli, io che sono amico di Fieramosca e degl'Italiani, dico in loro nome, che voi e chiunque dirà aver essi timore coll'armi in mano di chicchessia, ed esser, come dite, poltroni e traditori, mente per la gola, e son pronti a starne al paragone con tutto il mondo, a piedi, a cavallo, con tutte l'armi o con la sola spada, dove, e quando, e sempre che vi piacerà. —

La Motta ed i compagni, i quali al cominciar di quelle parole s'erano rivolti con atto superbo verso chi le diceva, mutandosi gradatamente in volto, fra l'adirato e l'attonito, ne stavano attendendo la fine. Come accade in una brigata, allorchè in mezzo allo schiamazzo e alle risa, si sente sorger una voce e dir parole di ferro e di sangue, che ognuno tace e si volge sospeso a chiarire il fatto, cessato il bisbiglio, ogni Spagnuolo stette ad orecchie tese, aspettando che cosa potesse nascere da questa prima rottura.

– Siamo prigioni – rispose La Motta con orgogliosa modestia – e non potremmo accettare disfide; però, coll'approvazione degli uomini d'arme che hanno avute le nostre spade, e che, ben inteso, avranno da noi un giusto riscatto, a nome mio, de' miei compagni e di tutta la gente d'arme francese, rispondo e ripeto quello che ho già detto una volta, e che dirò sempre, gl'Italiani valer solo ad ordir tradimenti e non alla guerra, ed esser la più trista gente d'arme che abbia mai tenuto piede in istaffa e vestita corazza. E chi dice che io abbia mentito, mente, e glielo manterrò coll'armi in mano. —

Poi cercatosi in petto ne trasse una croce d'oro, e dopo averla baciata la depose sulla tavola. – E possa io non avere speranza in questo segno della nostra salute quando sarà la mia ultim'ora, esser tenuto cavalier disleale, ed indegno di calzar speroni d'oro, se non rispondo io ed i miei compagni alla disfida che gl'Italiani mi mandano per bocca vostra, e colla grazia di Dio, di nostra Signora e di san Dionigi, che ajuteranno la nostra ragione, mostreremo a tutto il mondo qual differenza vi sia fra la gente d'arme francese e questa canaglia italiana che voi proteggete.

– E sia col nome di Dio – rispose Inigo: quindi esso pure apertosi davanti il giubbone si trasse dal collo un'immagine della Madonna di Monserrato, colla quale si fece il segno di croce e la depose vicino alla croce d'oro di La Motta: e quantunque provasse un leggier senso d'umiliazione di non potere per la sua povertà offrire un pegno di battaglia di valore eguale a quello di La Motta, pure scossa quella vergogna, disse francamente:

– Ecco il mio pegno. Diego Garcia li prenda ambedue in nome di Consalvo, che non ricuserà campo franco ai nostri nobili amici, nè ai cavalieri francesi che verranno a combatterli.

– Non per certo – rispose Garcia, prendendo i pegni della sfida – Consalvo non impedirà mai questa brava gente di misurarsi le spade e fare il dovere di buoni cavalieri. Ma voi, messer barone (parlando a La Motta) avrete sotto i denti un osso da rodere più duro che non pensate.

– C'est notre affaire– rispose il Francese scuotendo il capo e sorridendo. – Nè io nè i miei compagni terremo per il più pericoloso e per il più splendido fatto della nostra vita, quello nel quale potremo mostrare a questo bravo Spagnuolo il suo errore, facendo votar la sella a quattro Italiani. —

Diego Garcia, che non si sentiva veramente vivo se non quando stava o nel calor d'una mischia o parlando di menar le mani, non capiva in sè dall'allegrezza nel sentir questi preliminari d'una sfida, che sarebbe senza dubbio stata combattuta e contrastata con tutto l'accanimento che può inspirare l'onor nazionale; ed alzando il capo e la voce, e battendo insieme due mani che sarebbero state bene al braccio di Sansone, gridò:

– Le vostre parole, cavalieri, sono degne d'uomini d'onore, e di soldati pari vostri, e son sicuro che i fatti non saranno inferiori. Vivano sempre i bravi di tutte le nazioni! Ed in così dire, imitato dagli altri, alzò il bicchiere, e tutti con grande allegrezza lo votarono più d'una volta in onore de' futuri vincitori. Calmato un poco il romore, Inigo soggiunse:

– L'ingiuria che voi fate al valore italiano, messer cavaliere, non è cosa che i miei amici vorranno passar così di leggieri, nè terminar col rompere d'una lancia, come se si trattasse di aver il pregio d'una giostra. Non parlo per ora del numero de' combattenti: questo si fisserà d'accordo fra le due parti; ma qualunque sia per essere, offro a voi ed ai vostri battaglia a tutte armi ed a tutto sangue, finchè ogni uomo sia morto, o preso, o costretto ad uscir del campo. Accettate voi questi patti?

– Gli accetto. —

Fermato così l'accordo, nè rimanendo per allora altro da aggiungere, le fatiche del giorno e l'ora tarda consigliarono ad ognuno il riposo. La brigata si alzò da tavola di comune consenso; ed uscita dall'osteria, s'andò sciogliendo a mano a mano, riducendosi ciascuno al proprio alloggiamento. I baroni francesi furono onorevolmente trattati, ed ebbero stanza dagli uomini d'arme che gli avean fatti prigioni. Crediamo di poter asserire, che malgrado le bravate colle quali aveano mostrato tener gli Italiani in sì poco conto, un intimo senso, ed in molti l'esperienza gli avvertiva, che a voler uscir ad onore da quest'impegno, bisognavano però più fatti che parole. Inigo anch'egli, benchè fosse più che certo del valore de' suoi amici, e che per la gloria delle armi italiane sarebbero venuti a paragone con tutto il mondo, riflettendo che gli avversarj erano pur gente da guerra di grandissimo conto, e le migliori spade dell'esercito francese, non poteva non istare in pensiero del fine che avrebbe avuta quest'importante faccenda. Infatti La Motta ed i suoi compagni erano uomini da star a fronte di chicchessia. Le loro prodezze nell'armi erano conosciute da tutte le soldatesche d'allora; e nelle squadre francesi v'erano moltissimi altri non inferiori nè in coraggio nè in perizia, ed il famoso Bajardo, per dirne uno, bastava solo ad aggiungere gran peso nella bilancia.

A malgrado di queste riflessioni l'altero Spagnuolo non si pentì un momento d'averla presa per gl'Italiani, e pensò che avrebbe troppo mancato sopportando che l'insolente prigione dicesse tanti vituperj di coloro che non li meritando erano poi suoi amici ed assenti: e come, disse fra sè, potrebbe esser vinto chi combatte per l'onor della patria? Così rinfrancato l'animo, si dispose la mattina seguente a conferire di ciò con Fieramosca, ed usare ogni cura onde la cosa riuscisse ad onore della parte che avea tolto a proteggere; e pieno di questi onorati pensieri, stette, senza molto dormire, aspettando l'ora di metter mano all'impresa.




CAPITOLO TERZO.




La rocca di Barletta occupata da Consalvo e da parecchi capi di quell'esercito era posta fra la piazza maggiore della terra ed il mare. Nelle case all'intorno eransi allogati a mano a mano tutti gli ufficiali spagnuoli ed italiani col loro seguito; e fra questi, in una delle migliori abitazioni, i fratelli Prospero e Fabrizio Colonna facevan dimora col sontuoso traino di scudieri, famigli e cavalli, che ad una tanta casa si conveniva. Ettore Fieramosca era loro carissimo sovra ogni altro per mille suoi pregi, e se lo tenevano qual figlio, avendolo accomodato d'una casetta che era presso la marina, attigua alle loro stanze, la quale agiatamente poteva contener lui ed i servi coi cavalli e le bagaglie. La camera più alta della casa, ove solea dormire, avea le finestre volte a levante.

Era l'indomani della cena: il primo chiarore dell'alba faceva appena all'orizzonte distinguere dal cielo la bruna linea del mare, quando il giovane Fieramosca, lasciato il letto ove non sempre trovava sonni tranquilli, uscì su un terrazzo, a' piedi del quale venivano a batter l'onde leggermente agitate dal fresco venticello della mattina.

Poveri abitanti del settentrione! Non sapete quanto valga quest'ora sotto un bel cielo del mezzogiorno, in riva al mare mentre la natura è ancora tutta nel sonno, e questo silenzio viene appena interrotto dal sordo gorgoglìo dell'onda, che al pari del pensiero, non ebbe mai riposo dal dì che fu creata, nè l'avrà finchè più non sia. Chi non s'è trovato solo a quest'ora, chi non ha sentito sventolarsi presso il viso l'ultimo batter d'ala della nottola matutina nel principiar del caldo sulle belle coste del regno, non sa sin dove giunga la divina bellezza delle cose create.

Lungo il muro del terrazzo cresceva una palma. Seduto sul parapetto, le spalle appoggiate al tronco, e colle mani intrecciate reggendosi un ginocchio, il nostro giovine soldato stava godendo momenti di quiete, e l'aria pura che precede l'aurora.

La natura gli aveva concesso il prezioso dono d'esser per indole propria spinto a quanto v'ha di bello, di buono e di grande. Un solo difetto si poteva apporgli, se difetto si può chiamare, una soverchia bontà. Ma nudrito da' primi anni fra l'armi, presto conobbe gli uomini e le cose; la sua mente retta nel giudicare imparò qual limite si debba porre alla bontà stessa onde non degeneri in debolezza; e la rigidità che acquista sovente chi si trova fra continui pericoli, in un cuore quale era il suo, divenne una giusta fermezza, degna e preziosa dote d'un petto virile.

Il padre di Fieramosca, gentiluomo capuano della scuola di Braccio da Montone, invecchiato nelle guerre che lacerarono l'Italia durante il secolo XV non potè dare ad Ettore altro che una spada, e questi da giovanetto credette il mestier dell'arme il solo degno di sè, nè potè per molti anni aver pensieri superiori ai tempi in cui viveva, nei quali la forza dell'armi non s'impegnava che ad accrescere la riputazione e l'avere.

Ma crebbe il senno col crescer dell'età; e ne' brevi momenti che si restava dal guerreggiare, invece di spender l'ozio in cacce, in giostre ed in altri giovanili piaceri, ebbe cari gli studi e le lettere; e conosciuti gli antichi autori, e gli onorati fatti di coloro che avevano sparso il sangue in pro della patria e non in vantaggio di chi meglio li poteva pagare, comprese quanto scellerata cosa fosse per sè stesso il mestier dell'arme, se a guisa di masnadiere si faccia col solo fine d'arricchirsi delle spoglie dei deboli, e non per la virtuosa cagione di difendere sè ed i suoi dalle straniere aggressioni.

Nella sua prima adolescenza avea dovuto seguire il padre, che importanti affari chiamavano in Napoli. Alla corte di Alfonso conobbe il celebre Pontano, il quale, colpito dall'ingegno del fanciullo e dalla bella disposizione del suo corpo, gli pose grandissimo amore; ed accoltolo nell'accademia che, quantunque fondata dal Panormita, ha però il nome di Pontaniana, prese ad ammaestrarlo con grandissimo studio, e riportò, in contraccambio, dal giovane quel culto affettuoso che produce la gratitudine unita all'ammirazione.

L'amore per le cose patrie e per la gloria italiana risvegliato dalle eloquenti parole del suo maestro, non poteva rimaner tepido in un cuore qual era il suo, e crebbe al punto di giungere al furore. Combattè spada a spada con un gentiluomo francese, giovane maggior di lui d'anni e di forze, perchè sparlava degl'Italiani, lo ferì e gli fece confessare il suo torto, presente il re e la corte. Lasciata Napoli, dopo varie vicende, incontrò i casi d'amore dei quali avemmo un cenno dal prigioniere francese.

Ma allorchè da Carlo VIII fu messa sossopra l'Italia, e che l'armi francesi la tenevano tutta in ceppi od in timore, si risvegliò in lui più caldo l'amor patrio, vedendo quegli invasori voler farla da padroni in Italia. Si rodeva udendo narrare le loro insolenze nell'attraversare la Lombardia, la Toscana e gli altri Stati italiani. Quando si sparse la fama della fiera risposta di Pier Capponi al re, e che questi aveva ceduto, sfavillava per l'allegrezza portando alle stelle il valoroso Fiorentino.

Caddero i reali di Napoli. Parve allora a Fieramosca di seguir la parte di Spagna, per opporsi in qualche modo all'altra di troppo crescente potenza, e perchè l'orgoglio spagnuolo gli sembrava meno insoffribile della vana jattanza francese: poi un nemico che non poteva venire se non per mare, gli parea da tenersi in minor conto; e stimava quando colle sue armi fossero cacciati i Francesi, impresa meno malagevole stabilire un buono Stato in Italia.

Al chiarore che si diffondeva dall'oriente svanivano a poco a poco e si perdevano l'ultime stelle. Già il sole illuminava le più alte cime del Gargano tingendole d'un roseo che si mutava in pavonazzo ne' seni ombrosi dei monte, mentre il lido sottoposto, che girava a guisa di mezza luna, congiungendosi al littorale ov'è posta Barletta, mostrava col giorno crescente un ameno e diverso intreccio di valli e di colli che scendevano a bagnarsi nel mare. I folti castagneti che sulle vette già venivano indorati dal sole, diradandosi verso le falde eran interrotti ora da prati verdissimi, ora da qualche pezzo coltivato. Qua una frana lasciava biancheggiar il macigno, là il fianco d'un giogo si tigneva di colori gialli, rossicci, secondo la natura del suolo. Il mare ceruleo pareva immobile; se non che ribollendo sotto le rupi ne cingeva il piede con una striscia di spume candidissime.

Nella parte più interna del golfo sopra un'isoletta che era congiunta alla terra da un ponte lungo e stretto, sorgeva fra le palme e i cipressi un monastero con una chiesuola ed un campanile, munito all'intorno di torricelle e mura merlate, onde salvarlo da un primo assalto di corsari e di Saracini.

Ettore mostrava guardarlo con passione grandissima, aguzzando le ciglia, perocchè la nebbia, che a quell'ora copre le terre più basse, gli permetteva appena distinguere i contorni dell'edifizio. Coll'orecchio teso coglieva il debol suono della campana che annunciava l'avemaria del giorno, ed era tanto attento che non udì la voce d'Inigo, dal quale era chiamato in cortile: questi non ottenendo risposta, salì.

– Dopo una giornata come quella di ieri – disse entrando sul terrazzo – non ti avrei creduto alzato prima del sole. —

Chi ebbe mai pieno il cuore d'un solo pensiero grande e bollente, sa quanto potè esser grato a Fieramosca il venir colto in quello e costretto a lasciarlo. Si volse con un viso che non celava l'animo suo interamente, e quasi Inigo s'avvedea d'esser giunto importuno. Ma l'animo d'Ettore era troppo giusto ed amorevole per accagionare il suo amico di questo disturbo involontario. Senza dar risposta precisa, se gli fece incontro, gli strinse la mano, ed alla fine ritornando in sè del tutto disse piacevolmente:

– Che buon vento mi ti conduce a quest'ora?

– Ottimo vento; e ti reco tal nuova che m'avrai da dar la mancia. Perciò appena ho aspettato il giorno, ed eccomi a portartela. Sempre ho avuto invidia alla tua virtù: oggi debbo averla alla tua fortuna. Beato te, Ettore mio! T'è serbata dal cielo tal impresa d'onore che l'avresti comprata, son certo, ad alto prezzo. Ebbene ti capita innanzi senza nè spesa nè fatica. Sei proprio nato vestito! —

Fieramosca condusse in casa il suo amico, e fattoselo sedere in faccia stava aspettando che gli annunziasse questa gran fortuna. Fu da lui brevemente informato di quanto era occorso la sera innanzi, del modo col quale egli avea preso le parti degl'Italiani, e della sfida proposta. Quando venne a riferire le insolenti parole di La Motta, e benissimo le seppe dire, balzò in piedi l'animoso Italiano, percotendo su una tavola col pugno chiuso e cogli occhi scintillanti di fierissima allegrezza.

– Non è – gridò – giunta a tanto ancora la miseria nostra che manchino braccia e spade per ricacciare in gola a questo ladrone francese, quanto in malora sua gli è fuggito di bocca! E Dio ti benedica la lingua, Inigo, fratel mio (e stretto lo teneva abbracciato), e t'avrò obbligo eterno della cura che avesti dell'onor nostro, nè in vita nè in morte me ne terrò sciolto mai. – E le carezze per una parte, come le profferte per l'altra, non avean fine. Quietato un poco questo primo calore:

– Qui – disse Fieramosca – è tempo non di parlare, ma d'operare. – E chiamato un servo, mentre l'ajutava vestirsi, veniva nominando i compagni che si sarebber potuti sceglier a quest'impresa, pensando far grossa compagnia più che potesse.

– Molti – diceva – sono i buoni fra noi, ma la cosa troppo importa; scegliamo i migliori: Brancaleone. E uno. Non vi sarà lancia francese che lo pieghi d'un dito, con quel pajo di spalle che ha ai suoi comandi. Capoccio e Giovenale tutti e tre Romani: e ti so dire che gli Orazi non tenevano la spada in pugno meglio di loro. E tre. Andiamo avanti: Fanfulla da Lodi, quel matto spiritato, lo conosci? (Inigo alzò il viso aggrottando un poco le ciglia, e stringendo le labbra, come fa chi vuoi ridarsi a mente qualche cosa.) Oh lo conosci senz'altro! Quel Lombardo, lancia spezzata del signor Fabrizio… quello che l'altro giorno galoppava sulla grossezza del muro del bastione alla porta a San Bacolo…

– Oh sì sì! – rispose Inigo – ora mi ricordo.

– Bene. E quattro. Costui finchè avrà le mani le saprà menare. Io sarò il quinto; e coll'ajuto di Dio farò il dovere. Masuccio – gridò chiamando un famiglio – bada che ieri si ruppe la guiggia dello scudo, falla aggiustare, e tosto; senti: alla spada grande ed alla daga pistolese sia rifatto il filo, e… che volevo dirti?.. ah! L'arnese mio di Spagna è in punto? – Il servo accennò di sì.

Sorridendo Inigo a questa furia disse: – Non ti mancherà tempo a metterti in ordine, che la battaglia non sarà nè oggi nè domani. —

A questo non pensava Fieramosca che si sentiva la febbre addosso, nè avrebbe voluto tardare a trovarsi alle mani; e poco badando a quanto dicea lo Spagnuolo, veniva rintracciando altri compagni, chè cinque gli parea un numero scarso. E disse con gran voce:

– E dove lasciamo Romanello da Forlì? E sei. Lodovico Benavoli. Sette. Questi li conosci, Inigo: gli hai veduti a lavorare.

– Masuccio, Masuccio! —

Ed il servo che era sceso risalì di volo.

– Il mio cavallo da battaglia, Airone, quello che m'ha donato il signor Prospero, abbia paglia ed orzo quanto ne vuole; e prima che entri il caldo lo farai trottare alla volta un'ora, e vedi come gli stiano i ferri. —

Nel dare questi ordini si stava vestendo; il servo gli porse la cappa, e messasi l'arme accanto ed in testa un cappello con una penna azzurra, disse ad Inigo:

– Son teco. Prima d'ogni altra cosa si vuol ragionare col signor Prospero, poi si farà motto a Consalvo pel salvocondotto. —

Così avviatisi per istrada seguiva nominando or l'uno or l'altro degli uomini d'arme che potessero fare al caso. Nè si soddisfaceva d'alcuno così alla prima: di tutti esaminava minutamente lo stato, le forze, il valore, la vita passata, onde non venissero a sì gran fatto se non uomini provati. Di Brancaleone romano teneva gran conto sopra ogni altro, perchè lo conosceva molto uomo dabbene, di gran core e di maravigliosa gagliardia; gli piaceva il suo fare serio ed alieno dall'allegria spensierata degli altri compagni, e sentiva per lui un'amicizia, che molte volte l'aveva condotto al punto di svelargli i suoi casi colla Ginevra: ma un certo ritegno, e forse la mancanza di occasione a proposito, l'avean impedito. La sua famiglia e gli antichi suoi essendo stati ghibellini avevano a Roma tenuta sempre la parte colonnese, ed ora nella compagnia del signor Fabrizio egli era capo di certe lance spezzate, e molto bene attendeva a questa come ad ogni altra bisogna di guerra. Era costui di mezzana statura, largo di spalle e di petto, di poche parole, e solo intento al suo uffizio: tenace ed ostinato nel seguire ogni suo divisamento, e non avendo al mondo altro pensiero che quello d'ajutare e far vittoriosa la sua parte colonnese, a petto della quale tutto a lui pareva nulla; per sostener questo come ogni altro impegno si sarebbe fatto tagliare a pezzi mille volte.

Ettore ed Inigo doveano passar davanti all'uscio suo per andare dai Colonna: lo trovarono appunto fermo che dava ordine a certi suoi cavalli, e colla spada scinta, avvolta la cintura all'elsa accennava ai famigli ed ai ragazzi di stalla, facendosi intendere colla minore spesa di fiato che fosse possibile. Fieramosca l'invitò seco per ordinare tal faccenda, che, espressa con parole caldissime, fu ascoltata da Brancaleone senza scomporsi, nè mutar viso. Disse solo brevemente avviandosi cogli altri due:

– La prova fa credere i ciechi. Quattro stoccate a modo mio e poi ci riparleremo. —

E questa fiducia non era braveria: chè più volte già s'era trovato chiuso in campo franco, e sempre n'era uscito ad onore.




CAPITOLO QUARTO.




Le ingiuriose parole di La Motta e la disfida che n'era stata la conseguenza, corsa in presenza di più di venti persone, non poteva esser rimasta segreta, e n'era oramai sparsa la fama per tutto l'esercito e per la città. Inigo, coi due Italiani, presentandosi alla casa di Prospero Colonna, trovarono che quivi non era altro discorso; e già cominciava a comparire il fiore della gioventù italiana, che a lui concorreva come a suo capo, per intendere in che modo s'avessero a governare. Vennero ad uno ad uno tutti quelli che avea nominati Fieramosca, e molti altri; sicchè in breve spazio di tempo furono una cinquantina. Le parole erano molte e grandi, ed ognuno mostrava negli atti e nel volto quanto gli cuocesse l'ingiuria ricevuta. Parecchi fra gli Spagnuoli che la sera innanzi s'eran trovati a cena, e che avean fatto motto ai loro amici italiani, si erano qui condotti, e si mescolavano fra loro ripetendo or questa or quella delle parole tanto d'Inigo quanto dei prigionieri, e facendo osservazioni, proponendo partiti, o citando esempj, attizzavano un fuoco che già troppo bene ardeva per sè medesimo.

Questa brigata stava, parte per la soglia del portone e dispersa nel cortile, parte in una sala terrena, ove i fratelli Colonna solevano dar retta ai loro uomini quando bisognava, e sbrigare gli affari della compagnia. Vi splendeano appese al muro le loro armature messe d'oro molto riccamente, con finissimi intagli, forbite e lustranti come specchi. Si guardava in questo luogo la bandiera della compagnia sulla quale era ricamata la colonna in campo rosso, col motto Columna flecti nescio, la quale pure si vedeva dipinta sugli scudi, che coll'altr'arme disposte convenevolmente all'intorno occupavano quasi tutte le pareti. In fondo due cavalletti grossi di legno sostenevano l'intere armature de' cavalli con loro selle e gualdrappe di bel velluto cremesi, fregiate dell'impresa di loro casato, e le ricche briglie tutte ornate di ricami d'oro, degne di tanto onorati signori.

Sei falconi incappellati e legati ad una catenella d'argento eran posati sopra una stanga in traverso ad una finestra, con un monte di attrezzi da caccia, della quale era frequente l'uso fra la nobiltà, e si teneva proprio spasso dei signori e de' gentiluomini.

Dopo alcuni momenti comparve sulla porta il signor Prospero Colonna, al quale ognuno fece luogo e riverenza; ed egli venuto avanti e salutando con nobil contegno, s'adagiò sopra un seggiolone di cuojo rosso a bracciuoli, in capo ad una tavola che era nel mezzo, dove tenea lo scrittojo, ed accennò cortesemente a ciascuno di sedere.

Era vestito d'una cappa di sciamito nero rabescato, con una grossa catena d'oro al collo, dalla quale pendeva sul petto un medaglione dell'istesso metallo, lavorato sottilmente a cesello. Portava una daghetta in cintura d'acciajo nero martellato; ed in questo schietto vestire, la sua mirabil presenza, il volto d'una tinta pallida ed un po' brunetta, con alta fronte che mostrava esser sede di fortezza e di senno non ordinarj, inspiravan quella riverenza che si tributa più alle doti dell'animo, che ai favori della fortuna e della nascita. Aveva ciglia folte, barbetta alla spagnuola, ed un mover d'occhio tardo e risguardato, che lo dava a conoscere autorevole e potente signore.

L'occasione presente pareva ed era a lui di grandissima importanza, non solo perchè ne andava l'onore dell'armi italiane, ma perchè l'esito di questa fazione, nelle attuali circostanze ove fra due re potenti con incerta fortuna si combatteva, potea produrre gravi conseguenze per lui, per la sua casa e per la parte colonnese. Il vincere una disfida che avrebbe certamente fatto gran romore, dava molta riputazione agli uomini suoi ed alla sua bandiera; perciò, dei capitani spagnuoli e francesi qualunque restasse vittorioso, avrebbe alla conclusione avuto maggior riguardo ad offenderlo e maggior interesse a tenerselo amico.

A tutti è noto inoltre, quanto in terra di Roma fosse ostinato il contrasto fra la parte colonnese ed orsina, che malcondotte entrambe dalla forza e dalle frodi d'Alessandro VI e di Cesare Borgia potevano, o coi soccorsi stranieri o col proprio valore, ajutate da qualche felice occasione, pensare a rifarsi; onde se v'era mai stato tempo da dover tenere l'invito della fortuna ed afferrarla pe' capelli, era questo sicuramente.

Conosceva il sagace condottiere gli spiriti bollenti di Fieramosca, e quanto potesse in lui sete di gloria ed amor di patria: vedeva che da' suoi discorsi erano spesso infiammati gli animi de' compagni a mostrarsi Italiani, e sentì quanto poteva a quest'ora ajutare coll'esempio, e coi detti accendere vieppiù quel divino ardore che rende l'uomo pari alle grandi imprese.

A lui dunque si volse cominciando a parlare: disse già in parte conoscere l'accaduto, ma voler ora udirlo più distesamente, onde si potesse prender subito un partito. Ettore espose il fatto magnificando le parole d'Inigo dette in favore della nazione italiana: quand'ebbe finito, il signor Prospero alzandosi in piedi, parlò così:

– Illustri signori! Se voi non foste quelli che siete, ed io per la compagnia avuta con esso voi in tante battaglie non avessi esperienza dell'alto valor vostro, crederei fosse mestieri rammentarvi, come i nostri avi per le loro virtuose operazioni fecero salir tant'alto la gloria della patria che l'universo ne restò abbagliato; nè poterono le tenebre e le sventure di dieci secoli spegner gli ultimi raggi di tanta luce. Come costoro che d'oltremonti ora vengono a bersi il sangue italiano, e non contenti, aggiungono lo scherno all'offesa, tremavano allora al solo nome romano. Vi direi che tant'oltre è giunta omai questa loro sfacciata insolenza, che dopo d'avere strappato, e con quali arti sallo Iddio, la gloriosa corona che faceva Italia regina dei popoli, ed era stata compra con tanti sudori e tanto sangue, par loro non aver fatto nulla finchè ci vedono una spada in mano ed una corazza sul petto, e vorrebbero torci perfino di poter combattere e morire in salvazione dell'onor nostro. Vi direi: Su dunque: andiamo, corriamo tutti; si piombi su questi ingordi ladroni sprezzatori d'ogni diritto; e ben veggo nei vostri sguardi che le mie parole sarebber tarde a fronte delle spade italiane… Ma invece… l'ufficio di condottiero, duro pur troppo in così grave occasione, mi comanda di porre un freno al vostro valore, e m'è forza il dirvi che tutti non potrete combattere, e converrà concedere a poche spade la gloria della nostra vendetta. Il magnifico Consalvo, dovendo con forze minori sostenere i diritti del re cattolico, non consentirebbe che il sangue de' suoi soldati si spargesse per altre cagioni. Per dieci uomini d'arme otterrò, spero, salvocondotto e campo franco. Senza metter tempo in mezzo, vado, ed ottenuto che l'abbia, ritorno. Intanto ognuno di voi scriva su un foglio un nome: a Consalvo la scelta. Ma prima dovete giurare di stare a quanto verrà da lui stabilito. —

Il discorso fu accolto con un bisbiglio d'approvazione, e tutti giurarono. Furono scritti i nomi e dati al signor Prospero, il quale alzatosi da sedere, venne alla porta, ove due famigli gli tenevano apparecchiata una mula: vi salì, ed accompagnato da que' soli due s'avviò alla rocca.

Dopo una mezz'ora, che parve un secolo all'impaziente ansietà di que' giovani, ritornò; e scavalcato, entrò nella sala terrena rimettendosi ciascuno al luogo di prima: il silenzio e l'espressione degli occhi fissati tutti sul barone romano, mostravano quanto fosse la smania di conoscer la scelta, e la speranza d'ognuno d'averla favorevole.

– Il magnifico Consalvo – disse alla fine il signor Prospero, cavandosi di seno le carte e deponendole sulla tavola – si chiama grandemente soddisfatto del virtuoso proposito vostro: è certo che al vostro valore sarà questa facile impresa: concede salvocondotto e campo franco per dieci uomini d'arme; e non è stato piccol travaglio condurlo a questo numero: solo vi si piega per l'importanza del fatto. —

Spiegato allora il foglio che conteneva i nomi degli eletti, lesse i seguenti:

– Ettore Fieramosca. – Questi, vedendosi nominato il primo, strinse con allegrezza il braccio di Brancaleone che gli sedeva accanto, mentre gli occhi di tutti si volsero a lui mostrando che nessuno credeva potergli contendere il primo posto. —



Romanello, da Forlì.

Ettore Giovenale, romano.

Marco Carellario, napoletano.

Guglielmo Albimonte, siciliano.

Miale, da Troja.

Riccio, da Parma.

Francesco Salamone, siciliano.

Brancaleone, romano.

Fanfulla, da Lodi.


Chi si fosse trovato presente, senza conoscere nessuno di persona, avrebbe facilmente potuto distinguere dal viso contento coloro che la sorte destinava alla nobile impresa. Il volto sempre pallido di Fieramosca si tinse d'un bel vermiglio, e nel parlar che faceva ai compagni, i baffi castagni che gli vestivano il labbro tremavano, e facean conoscere quanto fosse forte la commozione interna che provava. I suoi pensieri più cari trovavano alla fine occasione di produrre opere degne di loro. Finalmente, diceva in cuor suo, potrà una volta il sangue italiano scorrere a miglior fine che a sempre difendere gli stranieri invasori. Se alcuno gli avesse detto allora «vinceranno i tuoi, ma tu vi morrai» si sarebbe chiamato contento mille volte: ma v'era pure speranza, e quasi certezza di vincere, e goder la vittoria; e pensava, dopo questa, come sarebbe stato il ritorno pieno di gloria, di feste e d'allegrezze (quanto è raro che l'uomo preveda il vero!): immaginava le lodi, l'onore eterno che ne verrebbe all'Italia ed al suo nome, e quanto i suoi più cari andrebbero orgogliosi per cagion sua. A questo punto un pensiero che gli sorse dal profondo del cuore, passò come una nube, ed oscurò un momento la gioja che gli splendeva sul volto: forse sventure passate fecero sentire al suo cuore l'acuta spina di funeste rimembranze: ma durò un momento. Poteva egli allora aver altra cura maggiore di quella della battaglia?

Prospero Colonna era stato scelto da Consalvo a maestro del campo, il che gl'imponeva l'obbligo di mandare il cartello della disfida, di metter a cavallo i suoi, di vedere che nulla mancasse loro di ciò che potea procurare la vittoria, d'aver l'occhio finalmente che si combattesse dalle due parti a buona e giusta guerra.

Si parlò prima di tutto del giorno e del luogo da fissarsi. Erano i primi del mese: fu stabilito si combatterebbe dopo la metà, onde rimanesse tempo largo ad allestirsi. Quanto al luogo, si sarebbe mandato uomini esperti a scegliere il più conveniente.

Dopo di ciò si stese il cartello, che fu scritto in francese, e consegnato a Fieramosca ed a Brancaleone onde lo portassero al campo nemico quell'istesso giorno. Disposte così le cose, si volse il signor Prospero ai dieci eletti, e disse loro:

– L'onor nostro, cavalieri, è sul filo delle vostre spade, e non saprei immaginare qual più degno e sicuro luogo si potesse trovargli. Ma per questo appunto conviene che giuriate di non entrare da oggi al dì della battaglia in alcun'altra impresa, onde non porvi a rischio di riportar ferite, o d'incontrare impedimento che potesse quel giorno togliervi d'essere a cavallo: e ben vedete, se ciò accadesse, non importa per qual cagione, quanto la nostra parte ne rimarrebbe vituperata. – Parve ad ognuno troppo ragionevole questa antiveggenza, nè vi fu chi negasse accettar sopra la sua fede la condizione proposta.

Intanto la maggior parte di quelli che vedevano con rammarico non aver ivi più nulla che fare, s'era andata dileguando alla sfilata. I soli dieci erano rimasti. Anch'essi, quando fu consegnato il cartello a Fieramosca, sgombrarono la sala; e questi accompagnato da Brancaleone s'avviò a casa per esser presto a cavallo e condursi al campo francese.

S'armarono ambedue così alla leggiera con giaco e maniche ed una cuffia di ferro, e preso con loro un trombetta si avviarono alla porta a San Bacolo, che rispondeva verso il nemico. Alzata la saracinesca ed abbassato il ponte, uscirono in un borgo che, abbandonato in quel trambusto dagli abitanti, era stato mezzo distrutto ed arso dalla licenza delle soldatesche d'ambe le parti. Di qui la strada prendeva per certi orti, poi usciva all'aperto, e per giungere al campo era qualche ora di cammino. Nel passare pel borgo, Ettore s'abbattè in certe povere donne, mezzo coperte di cenci, che traendosi dietro per mano, o recandosi in collo i loro bambini cascanti dalla fame, andavano frugando per quelle case abbandonate, se mai fosse sfuggita qualche cosa all'ingorda avarizia de' soldati che le avean messe a sacco. Il cuore del giovane faceva sangue a questo spettacolo, e non potendo dar loro ajuto non poteva nemmeno sostenerne la vista, onde punse il cavallo, e di trotto si dilungò sin fuori all'aperto.

L'insolita allegrezza che l'aveva ravvivato pensando alla prossima battaglia, fu per questo, in apparenza lieve accidente, ritornata in altrettanta mestizia, risorsero più forti i pensieri delle miserie d'Italia, e lo sdegno contro i Francesi che n'erano autori. Non potè nascondere a Brancaleone, che gli cavalcava accanto, la pietà che gli destavano i mali di quelle meschine; e quegli che in fondo era buono e caritatevole uomo, quantunque paresse ruvido pel continuo trovarsi in mezzo ai rischi e al sangue, le compativa e si dolea dei loro affanni insieme con lui.

Vistolo Fieramosca in questa disposizione d'animo, gli diceva crollando il capo:

– Ecco i bei presenti che ci recano questi Francesi; ecco il buono stato che ci portano!.. Ma se posso una volta veder questa razza di là dall'Alpi… – E voleva dire: faremo in modo di sbrigarci anche dagli Spagnuoli; ma si ricordò che era al loro servigio, e, rompendo a mezzo la frase, finì con un sospiro.

Brancaleone pensava più alla parte colonnese che al bene della sua patria, e non poteva entrar pienamente nei sentimenti del suo amico; ai quali però partecipando in qualche guisa, ed a suo modo, rispose:

– Se quest'esercito si potesse metter in rotta, non passerebbe forse molto tempo che avremmo ad assaggiare il vino del signor Virginio Orsino; e le cantine del castello di Bracciano vedrebbero una volta come son fatte le facce de' cristiani: e Palestrina, Marino e Valmontona, non vedrebbero più il fumo del campo di que' suoi ribaldi; nè sarebbero più desti a ogni tratto da quel maledetto grido, Orso! Orso! ma… non si paga ogni sabato! – Da questa risposta conoscendo Ettore che se Brancaleone s'univa a' suoi desiderii, era però ben lontano dal concordare interamente con lui quanto ai motivi, tacque; e camminarono per buon tratto di strada senza che il silenzio venisse rotto da nessun dei due.

Il trombetta li precedeva d'un'arcata.

Non avrà il lettore scordati i cenni del prigioniere francese circa gli amori di Fieramosca. I suoi compagni che ne udivan parlare per la prima volta, si dolevano di questi suoi dispiaceri, e per l'affetto che gli portavano, e perchè in una brigata di giovani si soffre malvolentieri chi non mette del suo per mantenere ed accrescere il buon umore. Ora mentre in quella mattina si trattava l'affare della disfida a casa del signor Prospero, si bisbigliò di questi suoi casi, che vennero anche all'orecchio di Brancaleone. Era questi pochissimo curioso de' fatti altrui; non di meno, dopo aver cavalcato un pezzo così in silenzio, vedendo il suo compagno tanto sopraffatto dalla malinconia, gliene seppe male, e vincendo la natura sua si dispose tentarlo onde gli s'aprisse; e con parole di amica sollecitudine, venne al proposito di pregarlo volesse narrargli que' casi che gli eran cagione di tanta tristezza. E seppe così ben fare che ottenne il suo intento. Fieramosca d'altronde sapeva potersi fidare di lui, ed i termini in cui si trovava pure gli scioglievan la lingua, poichè da un cuore agitato da forte passione sfugge facilmente il segreto. Alzatigli così un poco gli occhi in viso, disse:

– Brancaleone, mi domandi cosa che non ho mai detto ad anima viva: e neppur a te la direi (non te l'aver per male) se non pensassi che potrei rimaner morto nella zuffa… e allora?.. che ne sarebbe di…; sì, sì, tu mi sei vero amico, sei uomo dabbene, hai da saper tutto. Non ti dispiaccia ascoltarmi a lungo, che non potrei farti capace in poche parole di tanti e così strani accidenti. —

Brancaleone con gli atti del volto gli accennava quanto avea caro che dicesse, onde Fieramosca con un risoluto sospiro incominciò:

Quando sorsero i primi romori di guerra per parte del re cristianissimo, che minacciava scendere all'impresa del reame, ben sai ch'io mi trovava giovinetto di sedici anni ai servigi del Moro. Tolsi licenza, e mi parve dovere metter la vita in difesa de' reali di Raona che da tant'anni ci governavano. Venni a Capua; si mettevano in ordine le genti d'arme, e dal conte Bosio di Monreale che avea il carico del presidio, fui condotto e comandato alle difese della città. Le munizioni erano tutte in pronto, e per allora, non essendovi altro da fare, attendevamo a darci buon tempo. La sera si faceva la veglia in casa del conte, il quale, amico già di mio padre, mi teneva come figliuolo. Già prima d'andarmene col duca di Milano, spesso gli capitavo per casa. Ivi conobbi una sua figlioletta, e così fanciulli senza saperne più in là, ci portavamo maraviglioso amore. Il giorno ch'io mi mossi per andare in Lombardia, furono i pianti e le dipartenze inestimabili: io, mi ricordo, cavalcava un giannetto, il migliore che fosse mai, e nell'andarmene passai sotto le finestre di lei, che si domandava Ginevra, e benissimo atteggiavo il cavallo nel dirle addio colla mano; ella mi gettò di nascosto del padre e d'ognuno, perchè appena faceva giorno, una fascia azzurra che non ho mai lasciata d'allora in poi.

Ma queste erano cose da scherzo. In un anno ch'io stetti fuori mi s'era assai freddato questo primo amore. Tornato come ti dico, e riveduta Ginevra, che avendo messa persona era divenuta la più bella giovane del reame, aveva assai buone lettere, e cantava sul liuto che non avresti voluto sentir altro, non potei tanto schermirmi ch'io non ricadessi l'un cento più nel maggiore e più forsennato amore che s'udisse mai. Colei che si ricordava dei primi anni, e mi rivedeva onorato e con qualche nome nell'arme, quantunque come onesta non lo volesse mostrare, ben m'avvedevo che aveva caro udirmi quando narravo di quelle terre di Lombardia, delle guerre che avevo vedute, e delle corti ed usanze di colà; e s'ella amava ascoltarmi, io molto più amavo d'intrattenerla; e tanto andò la cosa innanzi che non potevamo vivere discosti un dito l'un dall'altro.

Io che in parte m'avvedevo come la s'avviasse, venivo riflettendo a quanti affanni andavamo incontro ambedue. A momenti cominciava la guerra: tristo chi in tale congiuntura si trova avvolto in legami d'amore. E dove prima cercavo ogni modo d'esser con lei, dopo, divisando ciò che meglio ci conveniva, e conosciuto che il nostro amore era altro che da motteggi, mi rimaneva tanto di forza che pur mi studiavo di mostrarlo meno, e cavarmelo dal cuore. La cosa andò così avanti un pezzo. Ma quel combattimento invece di scemare il mio amore l'accrebbe; e volendolo raffrenare di fuori, quello mi lavorava dentro, e quasi mi conducea pel mal cammino. Già m'ero fatto scuro in viso, e la notte per istracco che fossi non potevo prender sonno, e sempre coll'immaginazione fissa in lei, sentivo calarmi per le gote le lagrime calde calde sul guanciale, e stupivo di me medesimo.

Passarono così più settimane, e m'ero ridotto di qualità che bisognava pur risolversi a qualche partito. Tu già indovini a quale m'appigliai: un giorno sulle ventitrè ore la trovai sola in un suo giardino, e come volle la mia sorte, le dissi il gran bene ch'io le volevo, ed ella arrossendo, senza risponder parola si scostò lasciandomi afflitto e peggio contento che mai; e da quell'ora in poi parea cercasse tenermi discosto e quasi mai, quando v'erano altre persone, volgeva a me le parole: ond'io per disperato, nè potendo sopportare quell'inestimabile amore, risolsi in tutto andarmi con Dio, e cercar la morte ove allora già si combatteva. E passando appunto la compagnia del duca di San Nicandro, che andava alla volta di Roma, a raggiungere il duca di Calabria, mi misi in ordine per andarmene con essoloro. E senza dirle il mio proposito, un giorno volli ritentar la prova, ed alla stette salda; onde mi dovetti persuadere che quell'amore ch'io credevo scorgere in lei, era stato un sogno della mia immaginazione: e risoluto affatto (era la sera, ed alloggiava quella notte in Capua la compagnia del duca per partir la mattina) misi in ordine ogni cosa per esser a cavallo l'indomani. Me n'andai, come il solito, a veglia in casa del padre di Ginevra: eravamo soli noi tre intorno un tavoliere, e si giocava a tavola reale; quando mi venne in acconcio, dissi a lui, come avevo fisso di partire la mattina vegnente, che essendomi venuto a noja quell'ozio, volevo andar a combattere, perciò fosse contento darmi licenza. Il conte lodò il mio proposito, ed io colla coda dell'occhio pur guardavo, non privo affatto di speranza, che viso facesse Ginevra. Pensa quale diventai vistole mutar il color del volto, e farlesi rosse le palpebre? Di furto mi saettò un'occhiata che troppo mi diceva. Stetti infra due di non farne altro, ma conobbi che oramai non potevo ritrarmi coll'onor mio; e mi fu forza, quando mi trovavo il più contento e felice uomo del mondo, eseguire la mia malaugurata partenza: di qui nacque ogni mia sciagura.

Dio volesse che quando misi il piede alla staffa fossi caduto morto; sarebbe stato men male per lei e per me.

Mi condussi a Roma sempre maledicendo la mia fortuna, e giunsi in quella, che per una parte entrava re Carlo, e per l'altra i nostri si ritraevano a furia. Vi fu qualche leggiero scontro, ed io tanto mi spinsi avanti fra certi Svizzeri, che fui lasciato per morto con due roncolate nel capo, onde penai gran tempo a guarire.

Queste ferite le toccai presso Velletri: portato nella terra e medicato, ebbi a star quivi due mesi, senza saper più nulla di Ginevra nè del padre, e solo udivo d'ora in ora le triste novelle del reame che vi giungevano, ed eran fatte dalla gente di casa sempre maggiori, e con tante favole tra mezzo che non potevo in esse distinguere cosa buona.

Pure alla fine ritornato gagliardo, e volendo uscire di tanto travaglio, montai una mattina a cavallo e me ne venni a Roma. Ivi era un disordine grandissimo; e papa Alessandro che al passaggio del re poco gli s'era mostrato amico, vedendo ora spacciate le cose del reame, e che già della lega fra il Moro ed i Veneziani si bisbigliava, onde ai Francesi conveniva dar volta, stava in sospetto grandissimo ed il meglio che poteva s'armava ed afforzava Roma e 'l castello. Appena scavalcato andai a far riverenza a monsignor Capece, che molto m'accarezzò, e volle in tutti i conti levarmi d'in sull'osteria.

Intanto cresceva il romore in Roma, ed aspettandosi a giorni la vanguardia del re, composta di Svizzeri, molto si temeva da tutti, ed ognuno pensava a' fatti suoi.

Comparve alla fine l'esercito. Il papa col Valentino s'era fuggito a Orvieto. Le genti francesi parte s'alloggiarono in città, parte fuori in Prati[5 - Vien così chiamato un tratto di campagna presso Castel Sant'Angelo, fra il Tevere e Monte Mario.]; e si comportavano assai bene co' cittadini, tantochè ognuno si veniva rassicurando. Dopo pochi giorni il re andò alla volta di Toscana: pure per Roma passavano tuttavia or l'uno or l'altro di quei capi, conducendosi alla spicciolata, onde fosse minore il disagio delle vettovaglie. Erano oramai quietati i timori, ed ognuno attendeva come il solito alle faccende. Io che sempre dal pensiero di Ginevra era travagliato, appena potei coll'onor mio, mi spiccai da monsignor Capece per tornare a casa, e saper notizie certe di là; chè in tutto questo tempo non m'era venuto fatto di parlare con chi n'avesse contezza.

Una mattina di buon'ora mi posi in cammino, disposto di cavalcare quel giorno sino a Citerna, e da strada Julia ove stava monsignore, presi per piazza Farnese, drizzandomi verso porta San Giovanni. Sotto il Coliseo mi si fece incontro una truppa di Francesi con bagaglie; e come furon presso, vidi che venivano con una lettiga ove giaceva mal condotto uno de' loro capitani, e dalle fasce che avea attorno alle tempie si capiva che doveva esser ferito nel capo. Mentre scansato il cavallo, m'era soffermato un poco per guardar costui, fui desto da un acuto grido, e, volgendomi a quello vidi Ginevra a cavallo, che dall'altra parte veniva in compagnia con essoloro. Ma oh Dio, quant'era cambiata! Fu un miracolo s'io non caddi in terra: il petto mi scoppiava sotto la corazza: pure avvisando ciò che poteva essere, finsi seguire il mio cammino; poi, voltato il cavallo, senza mai li perder di vista, e pensando al peggio, tenni loro dietro sino all'alloggiamento.

Ben puoi credere ch'io non fui ardito farmi rivedere a monsignore, che mi credeva già lungi di molte miglia, e tanto meno presentarmi a Ginevra, temendo, s'io le parlavo, udir da lei ciò che mai non avrei sofferto ascoltare; e bramoso pure di chiarire la cosa non sapevo che risolvere. Portato dal cavallo che tendeva a ritornare alle stalle di monsignore, mi trovai in Banchi alla chiavica, presso alla bottega di un tal Franciotto, detto dalla Barca, perchè la professione sua era levar le mercanzie da Ostia per portarle a Ripa grande. Era costui mio amicissimo, e fattomisi incontro, scavalcai, e trattolo da parte, gli dissi che per alcuni rispetti m'ero partito da monsignore, e mi conveniva tenermi celato; perch'egli m'offerse una sua casetta che aveva in borgo, e tosto mi vi condusse. Io presi partito di dirgli: che avevo veduto una donzella della quale conoscevo il casato, con certi Francesi; ed avrei voluto sapere com'era quivi capitata, per porgerle ajuto se fosse stato mestieri: ed insegnatogli il luogo ov'era andata a smontare, lo pregai s'ingegnasse parlare con alcuno de' famigli, e farmi trovare in parte, ove, senza scoprirmi, potessi ottenere il mio desiderio. Egli ch'era di sottile ingegno benissimo seppe contentarmi. Verso mezz'ora di notte venne per me, e mi condusse ad un'osteria, ove trovammo un suo giovane che aveva già uccellato uno degli scudieri di quel barone francese, e fattolo bere, l'avea messo in sul raccontare, ed appunto giungemmo quand'era tempo.

Franciotto in poche parole lo condusse a dire ciò che mai non avrei voluto sapere: e sul fatto della donna ci narrò che giungendo essi a Capua, e quei di dentro facendo resistenza grandissima, entrarono a forza, e quasi la terra andò a sacco: che il suo padrone Claudio Grajano d'Asti (così ci disse chiamarsi) entrato con molti soldati in casa il conte di Monreale, che ferito nell'assalto, era stato ivi portato e più non poteva difendersi, giunse alla stanza ove giaceva, e la figlia buttandosi in ginocchio, raccomandava sè e 'l padre. Grajano stava in cagnesco, e piuttosto volto al male; onde il conte alzandosi sul gomito il meglio che potè, gli disse: quanto possiedo al mondo sia vostro, ed abbiate in isposa questa mia figlia; ma sia salva l'onestà sua dalle mani di costoro. E Ginevra tremando per la vita del padre e per sè stessa, non si seppe opporre. Due giorni dipoi il conte morì.

Io mi morsi le mani pensando che se mi fossi trovato colà, forse non cadeva in balìa di questo ribaldo; ma non vi era rimedio. Mi tolsi di quivi, e tutta la notte andai vagando per le strade come forsennato; e più volte fui per finirmi. Per vera virtù di Dio pure mi rattenni. Il dolore, lo struggimento di cuore ch'io provavo era tanto, che le parole non ne saprebbero dire la millesima parte, con certe strette al petto che mi levavan l'anelito, e mi pareva ogni tratto di soffocare: nè potendo sopportar più una vita tanto dolorosa e travagliata formavo i più strani consigli, le più pazze risoluzioni del mondo. Ora divisavo di ammazzare il marito, ora d'incontrar la morte in qualche strano modo, onde mostrare a Ginevra che ero stato condotto a quel passo per amor suo, e mi confortava l'idea del rammarico che n'avrebbe provato; e d'una in un'altra di queste immaginazioni quasi uscivo di cervello. Stato così più giorni, una sera volli tentar la fortuna. Involto nella cappa, ottenebrata la vista, e colla capperuccia che mi scendeva sugli occhi, andai alla porta di lei e bussai. Si fece alla finestra una fante, e domandò chi volevo. – Dite a madonna, risposi, che le vuol parlare uno che vien da Napoli e le porta nuove de' suoi. – Fui messo dentro e lasciato in una saletta terrena con un lumicino che mandava appena un poco d'albore. A me pareva di stare ora presso la porta del paradiso, ora più giù dell'inferno, ed era tanto il contrasto, che mi sentii mancar le ginocchia, e mi convenne lasciarmi andare su una sedia. Aspettai pochi minuti, che a me parvero mill'anni. Quando sentii giù per la scala lo stropiccìo de' piedi e della gonna di Ginevra, quasi mi lasciò affatto ogni virtù vitale. Entrò ella e rimase così un poco discosta guardandomi; ed io, lo crederai? non potei nè parlare, nè muovermi, nè formare una voce: ma appena m'ebbe riconosciuto, gettò un grido, e cadeva in terra svenuta; se non ch'io la raccolsi in braccio, e, slacciandola, m'ingegnai soccorrerla tutto spaventato dall'importanza del caso, e dal timore d'esser quivi trovato: e coll'acqua d'un infrescatojo che era presso, le spruzzavo la fronte. Ma le lagrime bollenti che mi piovevano dagli occhi e le inondavano il volto, furono più possenti e la richiamarono in vita. Io non seppi far altro che prenderle una mano e premervi su le labbra con tal passione, ch'io credetti che l'anima mia passasse in quel punto. Così stemmo un poco: alfine tutta tremante si spiccò da me, e con voce che appena la potevo udire, mi disse: Ettore, se sapessi i miei casi!.. Li so, risposi, li so pur troppo, ed altro non domando, altro non voglio che poterti morir vicino e vederti qualche volta finchè son vivo.

In questa s'udì rumore al piano di sopra, mi corse un gelo per l'ossa, dubitando d'essere scoperto, e che a lei s'accrescessero i guai. Preso commiato cogli atti più che colle parole, sollecitai a levarmi di quivi, ed uscii un poco meno afflitto e sconsolato.

Intanto la ferita del marito non guariva, e molti Francesi, gentiluomini e prelati, ogni giorno lo venivan visitando. Benchè il maraviglioso viso di Ginevra mostrasse l'affanno interno che la travagliava, nondimanco la sua bellezza, con un certo languido pallore, aveva pure un tal che d'appassionato, che non si poteva mirarla e non restarne vinto: e fra quei signori la sua giovinezza, il costume e l'angeliche sembianze ogni dì più destavano maraviglia, nè si potevano saziare di magnificarla e lodarla da per tutto, a tale che la fama ne corse all'orecchio del Valentino. Molto si susurrava allora in Roma sul conto di costui. Il duca di Candia suo fratello era stato morto per le strade la notte, ancora non faceva il mese; e non senza suo carico: ond'egli tosto, deposta la porpora, s'era buttato all'armi del tutto, e si dicevano di lui tante gran cose che non si sapea che pensare. Forte dubitai fin d'allora che la Ginevra fosse vagheggiata da costui: e pur troppo mi toccò udirne fra popoli molte sconce parole, ch'io non poteva raffrenare per rispetto di essa, e consumavo dentro la rabbia per non far atto che palesasse la condizion mia.

Intanto, sotto colore ora d'una, ora d'un'altra cosa, m'era pur venuto fatto d'andarle per casa ad affiatarmi con quel suo marito; e se il vederlo mi dava passione indicibile, soffrivo volentieri ed avrei sofferto ogni gran cosa purchè potessi a quando a quando veder lei, colla quale, dalla prima volta in fuori, non ebbi mai parole d'amore, e già sapevo che sarebbe stato un buttare il fiato, perocchè troppo bene la conoscevo.

Questo Grajano d'Asti era di que' tali che ne vanno dieci per uscio, nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo; assai buon soldato bensì, ma che avrebbe servito il Turco se meglio lo avesse pagato. Le sostanze di Ginevra lo facevano ricco assai bene: e tanto valutava lei quanto si valuta un podere, per la rendita e non per altro.

Passarono più settimane. La sera potevo veder la Ginevra, chè il marito non aveva nessun sospetto di me; e travagliato dalla sua ferita che molto penava a chiudersi, nè sapendone molto in fatto d'amore, aveva tutt'altri pensieri pel capo; così mi trovavo con lei più spesso di prima.

Il Valentino frattanto, volendo metter genti insieme per l'impresa di Romagna, fece capitale di Grajano d'Asti che oggimai si trovava presso a poter risalire a cavallo. Seppi come aveva attaccata questa pratica, ed alla prima furono d'accordo. Si fermò tra loro una condotta di venticinque lance, ed al marito di Ginevra parve avere buonissimi patti.

Una sera venne il duca alla casa di Grajano per istipulare l'accordo, e fu fatto un poco di cenetta, alla quale si trovarono certi prelati francesi ed alcune lance che stavano a spasso, ed intendevano appiccarsi con costui, che accettava ognuno in quel tempo.

Io parte pensavo offerire i miei servigi per seguire la fortuna di Ginevra con quella di Grajano; pure, non saprei dirti perchè non mi mossi, nè mi trovai con loro quella sera. Andai, ch'era già fatto notte, vagando ne' luoghi più deserti di Roma sempre martellandomi il cervello con mille sospetti, e non potevo liberarmi da certi pensieri, i più strani che avessi mai. Da molti giorni trovavo la Ginevra più sbattuta: e mi pareva tratto tratto di vederle balenar sulla fronte un non so che d'arcano, che studiasse tener celato nel cuore. Passai pure quella notte, Dio sa con che smania. Senti se alle volte il cuore non parla.

L'indomani vado da lei sulle ventitrè. Quando son presso all'uscio, odo in casa un bisbiglio insolito: usciva un frate d'Araceli col Bambino,[6 - Il bambino d'Araceli creduto miracoloso si porta ai moribondi.] ed un torchietto davanti. Salto in casa (sudavo freddo!) e la fante mi dice: Madonna sta in termine di morte.

La sera innanzi, dopo cena, era stata colta da uno sfinimento, ma non pareva male d'importanza. Posta a letto e confortata con panni caldi, si quietò, e così rimase sino alla mattina. Il sole era già alto e non si sentiva. Venne un tal maestro Jacopo da Montebuono che s'impacciava di medicina, e la trovò quasi fredda. Quello sciagurato, invece di por mano a tutti gli argomenti più gagliardi, se la passò con qualche parola dicendo fosse lasciata in riposo. Tornato poi sul tardi, si sbigottì, e gridando ch'era spacciata, fe' correr pel prete, e senza trovar strada a soccorrerla nè a vincere questo suo inesplicabile male, poco dopo l'avemaria, la sconsolata famiglia udì dalla bocca stessa del medico che era passata.

Gli alloggiamenti di Francia comparvero in questa, ed Ettore dovette interrompere il suo racconto. Si fece avanti il trombetta sonando, e gli uscì incontro un soldato a cavallo per intendere che cosa cercasse.

Saputo il motivo della loro venuta, ne avvertì l'ufficiale di guardia in quel luogo, il quale, poich'ebbe vista la lettera che da Consalvo si scriveva al duca di Nemours capitano di quell'esercito, impose a Brancaleone ed a Fieramosca di aspettare che spedisse al duca ad ottener licenza che entrassero in campo.

Offerì loro intanto una trabacca ove si alloggiava la guardia della porta: ma i due amici, udendo che la stanza del capitano era ancor molto lontana, risolvettero d'aspettar quivi, tanto che il messo fosse tornato con la risposta.

Ivi presso sorgeva un gruppo di querce, con molt'erba fresca, che protetta dall'ombra offeriva in quell'ore bruciate del mezzo giorno un bellissimo stare. Vi si condussero i due guerrieri, e legati i cavalli agli alberi, si disarmaron la fronte e sedettero uno accanto all'altro appoggiando le spalle a quei tronchi. Una leggiera brezza marina rinfrescava loro il viso; onde l'uno riprese a parlare con nuovo animo, ed all'altro crebbe la voglia di ascoltarlo.




CAPITOLO QUINTO.




Fieramosca seguitò il suo racconto con queste parole:

Perduta Ginevra, il mondo fu finito per me. Uscii di casa cogli occhi stupiditi che non davano una lagrima; e dove andassi, o che cosa fosse di me in quei primi momenti, appena lo potrei dire se non me l'avesser fatto conoscere le cose che accaddero dipoi. Andavo come una cosa balorda, o come succede talvolta, ben sai, quando una mazza ferrata ti percuote sull'elmetto a due mani, che per un poco ti zufolan gli orecchi, e pare che ogni cosa dia volta innanzi agli occhi. Così non sapendo quasi che cosa mi fosse accaduto, passai ponte (la casa della Ginevra era presso Torre di Nona) e su per borgo me ne venni in piazza di San Pietro.

Quel mio amorevolissimo Franciotto, saputa in parte la mia sventura, mi venne cercando, e mi trovò buttato in terra appiè d'una colonna: in qual modo mi vi trovassi, non lo saprei dire. Sentii due braccia che entrandomi di dietro sotto le ascelle, mi sollevarono e mi posero a sedere. Allora mi riscossi e me lo vidi accanto. Cominciò a confortarmi con amorose parole, e così a poco a poco ritornavo in me. M'ajutò alzarmi, e con gran fatica mi ricondusse a casa; mi spogliò, e fattomi entrar in letto, si pose seduto al capezzale, e se ne stava senza darmi noja di parole o di conforti che troppo sarebbero stati fuor di tempo.

Passammo così quella notte senza aprir bocca. Mi s'era messa una febbre gagliarda che a momenti mi levava di cervello, e la fantasia alterata mi faceva parere tratto tratto d'avere un'enorme figura tutta carica d'armature, accovacciata sul petto, e mi sentivo affogare.

Finalmente l'afflitta natura fu soccorsa dal pianto. Sonavano dieci ore in castello, e la prim'alba entrava pel fesso della finestra. Avevo sul capo appiccata al muro la spada e l'altre arme: alzando gli occhi mi venne veduta la tracolla azzurra, che molt'anni prima m'avea dato Ginevra. Quella vista, a guisa di una balestra che scocca, m'aperse la strada alle lagrime, che cominciarono ad uscirmi a torrenti; e questo, sollevandomi il petto, fu cagione ch'io rimanessi in vita. Dopo ch'io ebbi pianto un'ora buona senza mai fermarmi, mi parve d'esser rinato, e potei ascoltare e parlare; e col soccorso del buon Franciotto, venni passando quella giornata, e verso sera mi volli alzare.

A mano a mano che ritornavo in me, consideravo qual partito dovessi pigliare in tanta calamità: e d'un pensiero in un altro, disperatomi affatto di poter rimanere in vita, e considerando, se mi lasciavo consumar dal dolore oncia a oncia, quanto fosse per riuscirmi insopportabile una tal qualità di morte, risolsi di morire allora per volar dietro a quell'anima benedetta. E così deliberato con me medesimo, mi parve aver fatto un grandissimo guadagno, e mi sentii mezzo racquetato.

Franciotto, che era stato meco dalla sera innanzi, uscì per veder un momento la bottega, e mi promise di tornar tosto. Io, posto mano alla daga (che è questa appunto ch'io ho accanto) volli far quell'effetto allora allora. Poi ripensato meglio che in quella sera si dovea far la sepoltura alla Ginevra, volli rivederla ancora una volta, e morirle vicino. Vestito così a bardosso, cintomi la spada, e preso l'ultimo mio bene, quella tracolla azzurra, uscii.

Passato ponte, m'abbattei nel mortorio. Venivano i frati della Regola a due a due, e più compagnie di fratelli cantando il Miserere, prendevano per via Julia e Ponte Sisto, colla bara coperta d'un gran drappo di velluto nero.

Io, se t'avessi a dire, a questa vista non mi smarrii punto; ma pensando che, se non in vita, in morte almeno saremmo uniti, che eravamo avviati all'istesso viaggio, e che una stessa stanza era per accoglierci ambedue, seguii pieno di funesta gioja e già tutto nel mondo di là, lasciandomi condurre senza badare ove s'andasse. Passato Ponte Sisto per Trastevere, entrammo in Santa Cecilia.

Deposta la bara in quella sagrestia ov'è l'avello del figlio di Santa Francesca romana, io mi tenni da canto appoggiato al muro, mentre dai frati si cantavano l'ultime esequie. Alla fine sonò sotto la volta il Requiescat in pace.

Tutti uscirono in silenzio ed io rimasi solo quasi allo scuro; non v'era altro lume che la lampada della Madonna. Udii alla lontana il bisbiglio ed i passi del popolo che usciva. In quella scoccò l'ora di notte, e camminava per la chiesa il sagrestano scuotendo il mazzo delle chiavi, e disponendosi a chiudere.

Nel passarmi, vicino, si accorse di me e mi disse – si chiude. – Io gli risposi – ed io rimango. —

Egli guardatomi, e facendo l'atto di chi riconosce taluno, disse:

– Sei l'uomo del duca? Troppo fosti sollecito… La porta rimarrà socchiusa; e poichè sei qui tu, io me ne vo pe' fatti miei. – E senza udir altro se n'andò.

Io poco li davo retta; pure quelle parole mi fecero risentire, e non sapevo se egli od io sognavamo. Che duca? che porta socchiusa? Che vuol dire questo sciagurato? pensavo fra me.

Pure lontano le mille miglia dal vero, nè essendo capace di molto ragionare in quei momenti, tornai presto nella prima risoluzione, e dopo breve spazio (tutto intorno era cheto) me ne venni col brivido della morte alla bara.

Tolto il drappo che la copriva, e, tratta la daga che era forte ed acuta, mi posi a sconficcar la cassa, e durai gran fatica con quel solo ajuto ad alzar le capocchie de' chiodi; ma tanto feci che n'ebbi levato il coperchio.

Il bel corpo stava avvolto in un lenzuolo vestito di panni bianchissimi. Io prima di morire volevo veder quell'angelo in viso ancora una volta. Mi posi ginocchioni, e andavo svolgendo i veli che mi toglievano quell'ultimo conforto. Alzai l'ultimo lembo, e apparve il volto di Ginevra: pareva una statua di cera. Tutto tremante calai la mia fronte sulla sua, ed alla sfuggita, che mi sembrò delitto, non potei fare di non baciarle le labbra. Le labbra diedero un piccolo tremito. Ebbi a cader morto. Può far tanto, dissi, Dio onnipotente, la tua misericordia! E le tenevo le mani ai polsi. Il batticuore mi toglieva il respiro. I polsi davano segno. Ginevra era viva!

Ma pensa com'io mi smarrii trovandomi solo a quel modo. S'ella si risente, dicevo, e si trova in questo luogo, lo spavento basta a darle la morte. Non sapevo che mi fare, e smaniavo. Mi volsi colle braccia stese a quella Madonna, e la pregavo: O vera Madre di Dio! fa ch'io possa salvarla, e giuro pel tuo divin Figliuolo, che sono volti solo al bene i miei pensieri. Ed in cuore feci voto solenne di non cercar mai da lei cosa che fosse contro l'onestà, s'io riuscivo a tornarla in vita, e cancellare in tutto e sempre ogni pensiero di dar morte al marito; la qual cosa sin allora avevo avuta fissa nell'animo, e deliberato prima o poi di porla ad esecuzione.

A questa preghiera fatta tanto di vero cuore non mancò il pietoso ajuto divino.

Il mio Franciotto che era uscito di casa, come ti dissi, nel tornare m'avea veduto andar verso ponte, e parte immaginandosi il vero, e temendo sempre, come mi disse dipoi, ch'io non prendessi partito disperato, m'era venuto dietro. Ma, come discreto, si studiava di parlarmi o darmi disturbo meno che poteva in quei momenti, ben conoscendo che il caso mio non era da consigli, ma solo da ajuti quando venisse il bisogno. Entrò cogli altri in chiesa, e vi rimase nascosto in un angolo oscuro: e mi ha detto più volte in appresso che vistomi por mano all'arme, fu per saltarmi in sulle braccia, e stava sull'ale, per non arrivar tardi: vedendo poi che m'affannavo soltanto ad aprir la cassa, stette saldo, e solo a questo punto, conosciuta la necessità, mi si scoperse. Sentii le sue pedate, quando appena finivo la preghiera; mi volsi e me lo trovai vicino. Così da terra gli abbracciai le ginocchia come colui che mi dava due vite ad un punto, e come un angelo che mi scendesse dal cielo: rizzatomi poi consideravo come senza disagio e pianamente si potesse levar di quivi la donna. Alla fine prendemmo la coltre di velluto che copriva la bara, e volta al rovescio, onde se si risentiva non s'avesse ad accorgere su qual lugubre panno si ritrovasse, ed accomodate le lenzuola che ravvolgevano, in modo di farle il miglior letto possibile, con gran diligenza la sollevammo dalla cassa, e piano piano la posammo su quest'involti.

La povera Ginevra non avea aperti gli occhi, ma le usciva dal petto qualche tronco sospiro. Franciotto cercando per gli armadj, trovò per buona sorte le ampolle delle messe, e ci venne fatto, mettendole quel becco sottile fra le labbra farle scendere qualche stilla nello stomaco a riconfortarla: poco tuttavia e solo per dare un leggiero ajuto agli spiriti; che non avremmo voluto fosse tornata in sè in cotesto luogo. Dipoi con gran cura, io da capo e Franciotto da piedi, presi i lembi della coltre, l'alzammo, e senza accidente come volle la Vergine Santissima la portammo fuori di chiesa, e per San Michele venimmo a Ripa, dove sono le barche. Fra queste ve n'era una di Franciotto. Non sapevamo così su due piedi trovar luogo nè migliore nè più sicuro. Vi portammo la Ginevra; ed accomodatole un poco di letto sotto coverta, ajutati da due o tre uomini che guardavano la barca, me le posi accanto, e Franciotto corse per un barbiere amico suo, uomo di fede e dabbene, onde venisse ad ajutarla, e trarle sangue se bisognava.

Dovea ripassare per Santa Cecilia. Giuntovi s'avvide d'una compagnia d'uomini armati che era ferma davanti la porta, e sulle prime credette fosse la corte. S'andò accostando pianamente muro muro, finchè giunto ad appiattarsi vicino a loro s'accorse che non era la corte altrimenti. Erano da trenta pezzi d'arme tra picche e spadoni a due mani. In disparte una lettiga vuota portata da due uomini. E quello che pareva lor guida stava guardando verso la chiesa, serrato nel mantello, e si mutava or s'un piede or s'un altro in atto d'impazienza. Poco stante uscirono due come famigli, ed accostandosegli dissero: Eccellenza, la cassa è sconfitta e vuota!..

Fu tanta la potenza di queste parole, che scioltosi colui dal mantello percosse con una lanterna, che tenera sotto, sul capo del servo, e se lo fe' cadere ai piedi; e l'altro, a non essersi cacciato a correre, avrebbe avuto di peggio, che già colui aveva posto mano alla spada. Dopo molto tempestare gli convenne partirsi scornato.

Franciotto avea notato fra quegli armati uno in cappa e mantello alla curiale, ed al lume di certi torchi che avean con loro, riconosciutolo per quel ribaldaccio di maestro Jacopo da Montebuono. La presenza di costui in tal luogo, ed in tal compagnia, gli fece nascer di strani sospetti.

Quando si furono avviati, tenne loro dietro alla lontana, e invece d'andar pel barbiere, fece disegno sul sopradetto maestro Jacopo. Solo dubitava non si facesse accompagnare sino all'uscio da alquanti di costoro. Ma, come a Dio piacque, abitando al principio della Longara, quando fu a Ponte Sisto, per esser così breve tragitto, lasciò andar gli altri che passarono il ponte; ed egli s'avviò a casa sua. Franciotto lo raggiunse sotto l'arco, e dettogli non temesse di nulla, lo pregò venisse insino a Ripa grande per una giovane che stava col mal di morte; e tante gliene seppe dire che lo condusse da noi.

Come fu entrato sotto coverta, tosto riconobbe me e la Ginevra, e s'accorse ch'egli aveva dato in un trabocchetto. Franciotto, trattomi da parte, mi narrò ciò che aveva veduto avanti a Santa Cecilia e le parole udite, tantochè principiai a riflettere: mi si squarciò il velo, e capii come doveva essere andata la cosa. E stringendo maestro Jacopo, e minacciandolo, chè era il più pauroso uomo del mondo, lo feci cantare, e mi disse che per ordine del Valentino avea dato alla donna la sera della cena un vino medicato, per virtù del quale era rimasta assopita, ed ajutando esso l'inganno, l'avea dichiarata morta, onde, portata in chiesa, il duca avesse agio a venirsela a prender la notte.

Era un vero miracolo che una trama tanto bene ordita fosse andata a vuoto: e pensa quanto ne ringraziai Iddio.

Allora volto a maestro Jacopo, gli dissi: Ascoltatemi, maestro Jacopo. Io potrei farvi cascar morto con questa daga, ma vi voglio conceder la vita col patto che sia salva quella di costei: onde adoperate i vostri argomenti se volete tornar sano alle vostre brigate. Se poi direte ad anima viva come sia finito questo fatto, io v'ammazzerò come un cane ad ogni modo.

Il maestro spaventato mi promise tutto ciò che volli, e con gran premura si mise attorno alla donna; onde io consigliatomi con Franciotto feci scioglier la barca, e tutti insieme pel fiume ne venimmo alla Magliana, che di poco eran suonate le cinque ore.

Il buon maestro non disse mai nulla di questo.

Ginevra frattanto s'era risentita, ed avendo aperti gli occhi, li girava intorno attonita. Io, fatto oramai sicuro d'averla viva, e parendomi d'aver operato un miracolo, attendevo di tutto cuore a ringraziar Dio, posto ginocchioni al capezzale di lei, che avevamo allogata in una cameretta del vignajuolo.

Dopo un poco d'ora, tenendole io una mano, sulla quale appoggiavo la fronte e talvolta le labbra, la ritrasse e m'alzava i capelli che mi cadevan sugli occhi, guardandomi fisso. Alla fine mi diceva: Oh non sei tu Ettore mio?.. Ma come qui?.. Dove siamo?.. Non mi par la mia camera… sono in altro letto… Oh Dio, che cos'è stato?

In questa, Franciotto, che s'affacciava ogni tanto per vedere come andasse la cosa, comparve sull'uscio. Ginevra diede un grido, e gettandomisi addosso tutta tremante diceva: – Ajutami, Ettore; eccolo, eccolo! Vergine Santissima, ajutatemi! – Io mi sforzavo rassicurarla il meglio che potevo, ma tutto era niente, e mostrava aver tanto spavento del buon Franciotto che pareva gli occhi le volessero schizzar fuori dalla fronte. M'avvidi dello scambio e le dicevo: Ginevra, sta di buona voglia; non è il duca costui, ma un mio carissimo amico, e ti vuole quanto bene egli ha.

L'avresti veduta a queste parole deporre ogni timore, e volgersi piacevolmente a Franciotto quasi in atto di chieder perdono. Pensa come in cuor mio maledivo quello scellerato!

Ginevra allora cominciò a domandarmi che le spiegassi in qual modo si trovasse quivi, ed io la pregavo fosse contenta per allora aver fede in me, ed attendere solo alla salute, che voleva riposo; e tanto le dissi, che mi riuscì di quietarla; e, verso la mattina, fattole prender un cordiale, s'addormentò.

Ma non dormivo io. Ben conoscevo ch'era pazzia lo sperare volesse indursi a rimanere meco; e che a mio e forse a suo malgrado, pure avrebbe voluto tornarsene col marito, appena le sue forze gliel'avesser concesso. Onde spedii velocemente a Roma Franciotto ad informarsi in che termini si stesse colà, e come vi fosse intesa la cosa.

Tornò verso sera, recando la nuova che il Valentino s'era levato colle sue genti, ed avviato verso Romagna, ed avea menato con sè Grajano e la compagnia. Non si sapeva quale impresa fosse per fare dapprima.

Ne feci motto alla Ginevra, la quale, udito da me alla fine quanto le fosse occorso, ondeggiava in varj pensieri senza sapere a che risolversi. Con molte parole le mostrai che in modo nessuno le conveniva tornarsene a Roma, ove il Valentino avrebbe con facilità potuto trovarla, ed emendare il primo colpo fallito: che suo marito, avvolto nelle faccende della guerra, e tutto cosa del duca, difficilmente avrebbe potuto, anche volendo, servirle di difensore: e poi come, dove rintracciarlo? La pregavo, con affetto grandissimo, non volesse andar contro ad una quasi divina disposizione, che per istrade tanto fuor delle ordinarie ci aveva riuniti, togliendola da una condizione piena d'insidie e di pericoli: pensasse che levandoci di qui, potevamo per la supposta morte condurci senza sospetti in parte ove libera e tranquilla potrebbe almeno aspettare e vedere dove andasse a parare la sua fortuna e quella di suo marito; ed alzando la fede, le dissi queste formate parole:

– Ginevra! io giuro alla Vergine Santissima che sarai meco, non altrimenti che se fossi con tua madre. – Franciotto ancor esso ajutava; tantochè la buona Ginevra alla fine con molti sospiri, nè potendo affatto vincere un cotal rimorso che la rodeva mi disse: – Ettore, tu sarai mia guida, a te sta il mostrare che il Cielo, e non altri mi t'ha mandato.

Entrato in questa risoluzione feci al maestro un'altra orazioncina colla mano sulla daga, poi lo rimandai a Roma in compagnia di Franciotto, dal quale mi divisi con grandissimo dolore. Montati in barca colle nostre poche robe ci levammo di quivi e giù per fiume giunti ad Ostia ci drizzammo terra terra verso Gaeta. Il reame era tuttora in mano de' Francesi; ed essendo loro amico il Valentino, non mi pareva esserne sicuro finchè non mi trovavo mille miglia lontano da loro. Per la qual cosa, più che potevo, senza troppo affaticar la Ginevra, col continuo viaggiare sollecitavo ad allontanarmi da quelle coste; e come a Dio piacque ci trovammo una sera a salvamento in Messina; e ringraziai di tutto cuore Iddio di averci tratti da tanti pericoli.

Giunto Fieramosca a questo punto, vide che dal campo si movevano molti uomini a cavallo i quali venivan per loro, e soggiunse:

Troppe cose mi resterebbero a narrarti; costoro vengono, e mi manca il tempo. Ma per conchiudere: passammo circa due anni in codesta città. Ginevra si ritirò in un monastero, ed io, che m'ero dato per suo fratello, la visitavo più sovente che potevo.

Passato questo tempo s'era accesa la guerra fra Spagnuoli e Francesi. La vita ch'io menavo mi parve alla fine troppo indegna di un soldato e d'un Italiano.

Legato com'ero dal voto fatto in Santa Cecilia non potevo sperare al nostro amore virtuoso fine.

Tutt'Italia era in arme: i Francesi parevano i più forti; ed oltre l'amor di patria che mi spingeva a combattere il nimico più pericoloso, avevo una vecchia ruggine co' Francesi e colle loro insolenze. Scorgevo ancora, ti dico il vero, più sicurezza per la Ginevra all'ombra delle bandiere di Spagna, ove non poteva giungerla il Valentino.

Queste ragioni conosciute vere dall'animosa Ginevra, che non ostante il suo amore per me non poteva patire ch'io rimanessi addietro, mentre si combatteva per la fortuna d'Italia, ci risolvettero in tutto; e, scritto al signor Prospero Colonna che metteva genti insieme per Consalvo, mi posi sotto la sua bandiera.

In quel tempo si trovava colla compagnia a Manfredonia; onde noi, lasciata Messina, per mare ci drizzammo a quella volta. In quel viaggio ci accadde uno strano accidente.

Eravamo sorti a Taranto; e quivi riposatici, uscimmo dal porto una mattina per andar a Manfredonia. Era una nebbia folta del mese di maggio, e la nostra barca a due vele latine e dodici remi, volava sul mare piano come una tavola. A mezzo giorno ci si scopersero addosso quattro navi ad un trar d'archibugio, e ci chiamarono all'ubbidienza. Volevo fuggirle, ed avremmo potuto, che stavamo a sopravvento; ma considerato che coll'artiglierie potevano fare qualche mala opera, presi partito d'andare a loro.

Erano legni viniziani che venivano di Cipri, e conducevano a Vinegia Caterina Cornaro, regina di quell'isola. Saputo l'esser nostro, non ci detter noja, e dietro loro seguivamo il viaggio.

Era già fatta notte: la nebbia cresceva, ed io stimavo gran ventura aver trovato costoro che ci aiutavano a non ismarrir la strada in quell'oscurità.

Presso la mezzanotte, Ginevra dormiva, e solo due uomini stavano in piedi per regolar la vela e diriger la barca; ma anch'essi tratto tratto andavano dormicchiando. Io seduto a prora vegliavo, fisso in mille pensieri. Tutto era cheto. Mi parve udire sulla coverta della nave della regina, che ci precedeva di mezz'arcata, i passi d'alcuni uomini; gli udivo parlar sommesso, ma parole concitate e piene d'ira; tesi l'orecchio; una voce di donna si mescolava all'altre, e pareva chiedesse mercede: seguiva un pianto, e s'udiva a riprese, quasi costoro tentassero soffocarlo. Alla fine sentii un tonfo nel mare, come d'un corpo cadutovi. Io dubitando forte mi rizzai, e stringendo le ciglia, mi parve vedere non so che bianco agitarsi a fior d'acqua: mi buttai a mare ed in quattro sbracciate mi vi trovai accosto, afferrai un lembo di veste, e presolo coi denti tornai alla barca traendomi appresso un corpo. Gli uomini miei s'erano risentiti allo strepito; m'ajutarono risalire, e tirar su chi era meco. Trovammo una donzella in sola camicia, legate le mani con una villana corda, e non dava segno di vita. A forza d'ajuti tuttavia si riebbe alla fine. Facemmo di rimaner addietro ai Viniziani che seguirono il lor viaggio, nè si curarono di noi. Calammo la vela ed aspettammo fermi che aggiornasse. Uscito il sole si allargò il tempo, ed in poche ore fummo a Manfredonia, ov'io trovai il signor Prospero, e Ginevra cogli altri allogai all'osteria.

Tu ora vorrai sapere chi fosse codesta donzella campata dal mare, ma non posso soddisfarti, perchè nemmen io lo so. Non è mai riuscito nè a me nè alla Ginevra di strapparle una parola sui suoi casi, o sull'esser suo. Ell'è nata in Levante, è Saracina certamente, e più diritta e leale ed amorevole che donna del mondo; nel tempo stesso fiera ed ardita che non la sbigottiscono nè il sangue, nè l'armi, ed in faccia al pericolo è più uomo che donna. Da quel giorno in qua è rimasta sempre con Ginevra: ed io feci in modo che la badessa di Sant'Orsola le ricevesse entrambe nel suo monastero, ove per la vicinanza (ora che la guerra ci tiene chiusi in Barletta) posso venirle visitando più spesso.




CAPITOLO SESTO.




In questa giunsero i Francesi che dovevano condurli al campo: i due amici s'alzarono, e presi i cavalli s'avviarono con loro.

Attraversarono per mezzo lunghe file di tende e di trabacche, mirando l'assetto di quelle genti che correvano sulla loro via per sapere a che venissero; ed in mezzo ad una folla di soldati sboccarono su una piazza formata da molti padiglioni disposti in giro, nel centro dei quali, sotto una gran quercia, era teso quello del capitano. Vi s'era radunato il fiore dei caporali dell'esercito; scavalcarono, e furono messi dentro. Dopo cortesi ma brevi accoglienze, vennero portati due sgabelli, sui quali sederono volgendo le spalle alla porta.

La tenda parata d'un drappo azzurro sparso di gigli d'oro era in forma d'un quadrilungo, diviso in due quadrati uguali, da quattro colonne sottili di legno a strisce celesti e d'oro. In fondo era il letto coperto d'una pelle di pardo, sotto il quale dormivano sdrajati due gran levrieri. Poco distante una tavola ingombra confusamente d'un monte d'ampolle, di spazzole, di collane, di giojelli, e sopra la quale era appeso uno specchio poligono chiuso in una cornice d'argento lavorata a cesello, mostrava che il gentil duca non isdegnava la cura dell'attillarsi: ed un elegante moderno avrebbe bensì cercato invano su questa toilette l'indispensabile acqua di Colonia, ma poteva trovar però un compenso in due gran vasi di argento dorato sui quali era scritto Eau de Citrebon, ed Eau Dorée. Più fogge d'armature eran appiccate alle colonne a guisa di trofei, ed in traverso posate sovra arpioni, lance e zagaglie.

Sotto queste, nel mezzo, sedeva Luigi d'Armagnac duca di Nemours, vicerè di Napoli, eletto dal re Luigi XII a capitano della guerra. Era vestito d'una cappa azzurra foderata di zibellino, e le sue nobili fattezze splendevano di gioventù, d'ardire e di cortesia cavalleresca. D'Aubignì, Ivo d'Alegre, Bajardo, Mgr. de la Palisse, Chandenier erano a' suoi lati, ed intorno intorno altri baroni e cavalieri di minor conto gli facevan corona formando un circolo nel quale venivano a trovarsi rinchiusi Ettore e Brancaleone.

Quest'ultimo s'intendeva più di menar le mani che d'arringare, onde lasciò a Fieramosca il carico d'esporre l'ambasciata.

Rizzossi il giovane e volse agli astanti in giro uno sguardo rapido, nel quale balenava un ardire senza insolenza qual s'addiceva al luogo, agli ascoltanti, ed a ciò che era per esporre. Narrò l'insulto di La Motta, propose la sfida, e per adempiere alla formalità d'uso, spiegato il cartello, lesse ad alta voce la formola seguente:


Haut et puissant Seigneur Louis d'Armagnac ducde Nemours



Ayant apprins que Guy de La Mothe en présence de D. Ynigo Lopez de Ayala a dit que les gens d'armes Italiens étoient pauvres gens de guerre; sur quoi, avec vostre bon plaisir, nous respondons qu'il a meschamment menti, et mentira toutes fois et quant qu'il dira telle chose. Et pour ce, demandons qu'il vous plaise nous octroyer le champ à toute outrance pour nous et les nostres, contre lui et les siens, à nombre egal, dix contre dix.






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notes



1


E Dio mi dia mala Pasqua, e sia la prima che verrà, ec.




2


Del cuojo delle sue scarpe.




3


Bada che senza volerlo non mi ferisca.




4


I guai, con pane, son più soffribili.




5


Vien così chiamato un tratto di campagna presso Castel Sant'Angelo, fra il Tevere e Monte Mario.




6


Il bambino d'Araceli creduto miracoloso si porta ai moribondi.



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