Книга - Pietro Mascagni

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Pietro Mascagni
Giannotto Bastianelli




Giannotto Bastianelli

Pietro Mascagni





L'OPERA IN ITALIA





I.

L'opera in Italia – Suo carattere popolaresco


Ogni paese ha la sua lingua musicale, le cui peculiarità di concezione e di costruzione si formarono a poco a poco e furon tramandate più o meno fedelmente dai musicisti. Così, più o meno interrottamente ebbe ed ha tuttora una lingua musicale originale la Francia, così l'ebbe l'Italia e l'ha tuttora sebbene un poco modificata da veri e propri barbarismi, di cui la sorgente è o la musica francese o, se non sempre direttamente, la musica tedesca e, meglio, la musica wagneriana. E per linguaggio musicale moderno dell'Italia intendo di necessità il linguaggio del melodramma, poichè da quando comparvero i grandi compositori di musica strumentale in Germania, questo genere di musica in Italia divenne fatica di retori plagiari e pesanti. Abbiamo infatti noi dei quartettisti da mettere a paro con Haydn Mozart Beethoven? Può un sol quartetto del nostro accademico Bazzini sostenere il confronto d'un qualunque quartetto dei classici tedeschi? E di tutti gli scrittori di musica per pianoforte e di musica sinfonica non teatrale, chi è riuscito ancora a dire agli Italiani una parola sua, a farci scordare l'instante tirannia di Beethoven di Schumann di Liszt di Wagner? Non è, anzi, senza una ragione profonda il contegno indifferentissimo del pubblico italiano verso i così detti scrittori di musica seria. Infatti il buon pubblico innocente e ignorante sente istintivamente che sotto quelle dotte polifonie ben imitate da chi ne seppe più ed ebbe cuore più nuovo e più sensibile, c'è un silenzio inutile, c'è il triste vuoto di colui che non ha forza fantastica tale da plasmare spontaneamente una nuova forma sinfonica veramente latina.

Mancando dunque i grandi lirici personali, le grandi individualità musicali che si esprimano ciascuna con un glorioso linguaggio che sembri assorbire e contenere tutto il vocabolario musicale d'un'epoca o di un popolo, in Italia risponde moltissimo al gusto popolare l'opera. E non l'opera quale Wagner aveva concepita: altissima tragedia musicale, profonda di poesia e di pensiero; ma il semplice melodramma popolaresco, in cui il libretto, generalmente, invece di essere un'intuizione poetica del mondo quale la Dannazione di Faust, o il Tristano e Isotta, non ha altro ufficio che prestare al compositore dei personaggi senza articolazioni, forniti di ottima gola per cantare. Sicchè, sieno pure tali personaggi vivi, indovinati, oppure astrazioni irreali, cadaveri ambulanti per sola virtù di retorica, ciò non importa. L'essenziale è di situarli e d'aggrupparli in modo che essi possano cantare molte melodie. Chè di queste sono gravidi i compositori italiani, e di queste ghiotti gli ascoltatori italiani.

Tuttavia anche la melodia italiana ha subito delle trasformazioni sebbene esteriori. Non più l'accurata lasciva cantilena della scuola napoletana; non più i gai gargarizzi dell'opera buffa, fra i quali talora zampillava qualche larga monodia d'una dolcezza impreveduta. Verdi l'agitatore di popolo, come Garibaldi fu creatore di eroi, sembrò avere scosso l'inerzia molle e l'allegra indifferenza in cui amava esser cullata e illusa l'animula italiana. O meglio, era il popolo italiano che, risuscitato dai soffi primaverili del risorgimento, esigeva un'arte melodica nuova: la melodia della passione sfrenata e cieca, della passione che ricordasse la ribellione, che sapesse un po' di polvere e di sangue. Verdi fu la voce del nuovo bisogno. I libretti si popolarono di situazioni drammatiche irte di spasimo e di ferocia. E alle tenui cantilene, agli affetti leziosi e di poco palpito, subentrarono modi di canto dalla tessitura più audace, dalla struttura ritmica più marcata e violenta, e forti effetti corali e strumentali, e finali «allegro furioso» atti ad ubbriacare i loggioni avidi di commozioni rapide e brutali.

Se non che anche l'arte Verdiana rimase nella sostanza simile a quella dei predecessori; arte, cioè, sempre primitiva nel contenuto sebbene spesso perfetta nella forma, profondamente sensuale, di tinte accecanti, di un sentimentalismo un po' barocco, ma spesso franco e sincero; arte che, prossima forse ora al suo tramonto, non è destinata del tutto all'oblio, ma è meritevole di esser frammentata da una critica spassionata e rigorosa in una specie di florilegio contenente le più belle ispirazioni dei nostri ottocentisti, delle quali dobbiamo, e a ragione, esser gelosi, se non altro per non interrompere le più pure tradizioni del nostro linguaggio musicale[1 - Del resto certe selezioni si fanno talora senza aiuto della critica, ma quasi per una spontanea critica insita negli esecutori. Infatti dei molti melodrammi che in Italia sono stati composti da che la camerata del Conte de' Bardi ideò il genere dell'opera, che cosa è rimasto, se non qualche aria, staccata, senza danno reciproco, dall'opera a cui apparteneva, per esser cantata nei concerti?].

Ora, Pietro Mascagni appunto è un continuatore degli operisti popolari. Non ostante la preparazione più accurata, il possesso d'un'orchestra più ricca, più colorita e più flessibile, egli rimane un melodista fresco, facile, talvolta futile, ma quasi sempre trascinante per la esuberante ed ingenua passionalità. Egli, pur avendo una personalità diversissima da quella di Rossini e di Verdi e, come Rossini e Verdi, impersonando la nuova mediocrità mentale della terza Italia, non è che un continuatore in linea retta di Verdi e di Rossini; prezioso, ammirevole per questa sua bella italianità (che a dir vero non possiede molto Puccini forse meno ingenuo, ma d'una sentimentalità troppo infranciosata, sul tipo del buon Massenet); colpevole, come quelli, di essere così al disotto della vasta cultura e della profonda coscienza dello spirito umano che hanno avuto i grandi d'ogni tempo.




II.

Retorica nell'opera italiana


Poichè se ogni arte è condizionata nella libertà del suo contenuto, vi sono però artisti che nascono e si sviluppano quasi al di sopra della mentalità comune, violentando, se troppo angusti, i limiti della storia di cui sono figli, sebbene serbando profondamente conficcate le radici in quella storia stessa. L'operista italiano, invece, ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa, anzi sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così un'anima semplice, di quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari, che non appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile. Certo nell'arte non vi è progresso, ma vi è progresso nelle condizioni del suo contenuto. Ponendo il caso d'un uomo che da fanciullo abbia vissuto tra il popolo e abbia sentito com'esso sente, e che, dopo, esperienze diverse portarono a conoscere una vita più alta, più ignuda di pregiudizi e di debolezze, non ci meraviglierà che quest'uomo sorrida con commiserazione della sua infanzia. Infatti non c'è cosa più erronea del credere che l'anima popolare sia la più genuina che vi possa essere. La sua forza di sentire potrà essere, ed è spesso, più violenta della nostra, ma l'esattezza delle impressioni, la elevatezza del gusto, la chiarezza del pensiero, cresce in ragione che ci innalziamo e ci allontaniamo dallo stato confuso e bolso della vita popolare[2 - Avverto una volta per tutte che il popolo di cui parlo qui non è il popolo delle campagne e delle montagne, spesso puro e a suo modo profondo; ma parlo del popolo delle città e dei grossi borghi, al quale si attagliano benissimo le mie osservazioni.].

Ognuno di noi se proprio da fanciullo non sia stato figlio del popolo, può avere sperimentato, conoscendo qualche parrucchiere o qualche tappezziere o penetrando nell'intimità d'una famiglia del popolo, tutto il misto di grottescamente falso e di ingenuamente vero, che contengono i sentimenti del volgo e le loro estrinsecazioni. Ora sarà il baleno d'un concetto larghissimo, che l'ingenuo buon senso sfiora riempiendoci di stupore; ora sarà la vana ripetizione male a proposito d'un trito sofisma che ci urta e ci disgusta; ora sarà una intuizione splendida, quattro o cinque parole, un'osservazione psicologica, un'intonazione, un arabesco della voce d'uno che canta per i campi, che ci infondono un vero e proprio brivido estetico; ora sarà la deformazione di non so quale orribile verso d'uno dei tanti poetucoli italiani retorici e mentitori, per lo più a scopo di volgari sottintesi carnali, che ci farà voltare nauseati da un'altra parte.

L'arte popolare o di chi anche a traverso studi relativamente superiori, si può pur sempre chiamar popolo, presenta queste bellezze e questo grottesco, questa curiosa mistura di pura semplicità e nitidezza nella visione ed espressione, e di tronfiezza ridicola. Così assistendo, per es., ad un'opera di Giuseppe Verdi, è per noi una continua oscillazione tra l'aere sereno della bellezza e il tanfo opprimente della retorica. Ma intendiamoci bene sul carattere specialissimo di questa retorica. Essa è come una retorica iniziale, una retorica delle condizioni in cui s'è formato il contenuto. Quando tutto l'ambiente storico in cui un artista si sviluppa, commette un errore comune, è difficile che quell'artista, se non provvisto di un punto d'appoggio per giudicare, di richiami critici per verificare, possa eroicamente difendere il proprio contenuto da quella specie di morbo universale. Onde avviene che si formano certi schemi di arte, in cui la visione degli artisti vissuti nello stesso ambiente storico sembra avere un punctum caecum sempre allo stesso posto. Per esempio, v'è nell'opera italiana un luogo più comune delle così dette arie della pazzia, scena della maledizione, scena del riconoscimento, scena d'amore, scena della morte? Però, superata da noi la noia che c'infligge questa costante retorica di situazioni, talvolta niente è più bello della melodia che il compositore trovò per tale situazione trita e ritrita. Al modo stesso, nella musica religiosa di Bach, la condizione del contenuto essendo convenzionalissima, le cantate del maestro di Eisenach, eccettuati alcuni recitativi ed alcuni cori, consistevano sempre in arie e in duetti in cui il vanerello amore agghindato e incipriato e imparruccato dell'anima per il suo innamoratissimo padre, era espresso con sempre nuova eleganza sincera dal compositore, che non sospettava affatto quanto fosse indecoroso per l'anima e per Dio tenere quel contegno da Florindo e Rosaura. In questo caso, come nel caso delle situazioni melodrammatiche dell'opera italiana, noi non possiamo chiamare retorica la forma musicale (talvolta bellissima se staccata dal contesto col quale ha relazioni che noi non possiamo sopportare); ma retorica, le condizioni in cui è sorta tale musica; la quale anche ai contemporanei parve bellissima e fu da quelli medesimi ben distinta dalla musica veramente retorica, cioè la vecchia intuizione, il vecchio motivo, la volgare modulazione ripetuta ormai a sazietà.

E in che cosa, se non in questa sincerità e convenzionalità aventi ineluttabili ragioni storiche, va cercata la spiegazione di quel fatto che notava lo Hanslick, che nulla è più cedevole al tempo e alla moda (cioè alle mutevoli condizioni del superficiale sentimento popolare) delle forme della musica teatrale? I nostri nonni hanno infatti pianto alle settecentesche smanie della Vestale colpevole di Spontini, come i nostri bravi loggioni moderni palpitano e fremono all'eroismo da sartine e da commessi viaggiatori della Bohème o si commuovono all'apoteosi da giornale illustrato della mousmè Iris, cortigiana abortita per ignoranza. E, parimente, i nostri padri vibrarono dinanzi alle victorughiane idealizzazioni del buffone di corte Rigoletto, come i loro rispettivi bisnonni erano andati in solluchero alle graziette lascive e seducenti della Serva che non contenta del possesso carnale d'un vecchio padrone di provincia, ne vuol sancito il dominio con un bel matrimonio. Come si vede il fenomeno è vecchio e a forza di nonni e di bisnonni si potrebbe senza fatica risalire, seguendone le traccie, a Plauto e chissà quanto più su.




III.

Ciò che simboleggia Pietro Mascagni nell'opera moderna italiana


Pietro Mascagni, ho detto, è un discendente in linea retta degli operisti italiani. Al pari di loro, egli non mira che a destare i tumultuosi fremiti salienti dalle platee, ruinanti come uragano dai loggioni, con delle scene che afferrino l'attenzione del pubblico alla prima audizione, con dei finali coronati di quelle folgori degli ottoni, senza delle quali il volgo non crede all'esistenza del miracolo. Nelle sue opere scorrono, ondeggiano dal principio alla fine, fiumane di melodia che inebriano le anime di ebbrezze facili e passeggere. Un motivo di Beethoven o di Wagner difficilmente diventerà possesso comune, il contenuto di cui è riempito essendo soltanto parzialmente accessibile al pubblico, il quale non ama le conquiste faticose. La profondità e la fedeltà dell'amore non son molto comuni tra le persone volgari e le opere dei classici (ossia dei grandi) non trovano nel popolo la pazienza vigile che esigono per esser comprese, la qual pazienza di comprensione è già essa quasi una genialità, educata a lungo e sviluppata con rigore di cultura.

Il canto in Mascagni è sottolineato da un'orchestrazione, a cui la ricchezza coloristica dei timbri non toglie un carattere di semplicità affatto contrario alla complessità tematica delle grandi creazioni sinfoniche. Per i nostri vecchi le opere di Pietro Mascagni possono significare ai loro cuori e cervelli conclusi nel loro ormai giovanile passato, un intedescamento della musica. Ma questa è un'illusione. È vero bensì che anche l'opera mascagnana ha risentito del decadimento del bel canto, e del sopravvento su questo dell'orchestra a commentatrice del dramma. Ma, nella realtà, la melodia, sia pur trasmigrata dalle fresche gole umane nei numerosi strumenti dell'orchestra, è rimasta la vecchia melodia italiana dalle forme regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenza finale coronata da una nota tenuta per far piacere alla voce dei cantanti e all'orecchio del pubblico, che ama i cantanti un po' simili a lottatori di molta resistenza. E gli intermezzi mascagnani, i preludi, e i famosi commenti orchestrali alla fine o d'un'aria o di un duetto (commenti che sono poi stati imitati da tutti i mediocri compositori moderni italiani, compresovi uno non mediocre, Lorenzo Perosi), che altro sono se non sempre, melodia, vecchia melodia italiana, meglio vestita, più sonoramente versata negli orecchi degli uditori, più argutamente organizzata? E non se ne sentono infatti intuonar gli echi per le strade insieme coi motivi più amati di Rossini, di Bellini, di Donizzetti, di Verdi? Oh! non temano i nostri vecchi! non sarà Mascagni che intedescherà l'opera italiana! Egli ha ereditato una delle nature più italiane (nel senso popolare) che ci sieno mai state. Se i vecchi non lo capiscono, è che alla retorica dei cori di guerrieri medioevali, di sacerdoti romani, di schiave orientali, etc., etc., è succeduta una retorica più nuova, la retorica delle lavandaie giapponesi, dei ladroni scozzesi, dei contadini alpigiani, e più di tutto, la ormai non più recente retorica dell'enfasi strumentale «che dall'orchestra prorompe». Tutte cose che se non son consentanee ai gusti dei fedeli del Prati, di Victor Hugo e del Guerrazzi, non vogliono precisamente dire che Pietro Mascagni non appaia nella sostanza italiano quanto Verdi agli italiani d'oggidì.

Certo profondamente diversa è la sua personalità da quelle dei maestri italiani della vecchia scuola. Al periodo epico del risorgimento di cui fu interprete fedele il romantico Verdi, è successo un periodo in cui l'Italia sembra ritornata per un lato quasi ai tempi di Rossini, per un altro ha acquistato una qualità dolorosa, che allora non aveva, un dolore cioè di passione che fa soffrire, un rifiorimento più agitato della malinconia erotica dei Paisiello e dei Pergolese. E Mascagni è il cantore delle sensazioni fresche, della carne giovanile, della cieca salute, del riso gaio della folla nei giorni di festa, e del dolore della carne tradita per un'altra carne. Certo a lungo andare questo trionfo di carne, di riso, di allegria, di dolore che non piange che per amore, per amore, per amore, è monocorde, è monotono, e stanca. Ma quali melodie sane non spicciano fuori da questa vena limpidissima! Che orgia di canto! che gaiezza rimbalzante di suoni, nitidi, tinnuli, sgargianti come i colori che si vedono in una fiera! Certo, e in un senso è bene, si può essere ostili all'autore della Monferrina dell'Amica. Ma anche i più ostili, coloro che più si sono allontanati da questa arte così angusta d'orizzonte, per essere stati bruciati da ben altri spiriti, profondi come abissi solcanti fino alle viscere l'umana natura, non possono fare a meno di ridere a scrosci, di urlar di gioia e di dolore bestiale con questo mago che al posto del cuore ci ha un nido, donde balzano alate le più fresche canzoni d'un popolo.




IV.

Mascagni nella musica europea


Forse in nessun tempo la tenuità d'un compositore italiano non profondo, ma sincero, non sapiente, ma astuto, fu più discussa, anzi talvolta neppure onorata della discussione – molti critici si arrestano dinanzi alla volgarità di Mascagni e non osano progredire più in là – , come oggi accade per Mascagni. E se ne comprende facilmente il perchè. Ai tempi di Rossini, per es., nonostante che il grandissimo e allora ignoto (o quasi) Beethoven impersonasse e superasse le grandi correnti letterarie e umane del romanticismo, l'Europa era solcata da larghi soffi di leggerezza un po' scettica, e, sebbene l'opera buffa e l'opera seria avessero trovato dei compositori molto più eletti e, a loro modo, più profondi di Rossini (ad es.: Cherubini), fu però Rossini che con il fuoco indiavolato del suo brio di gaudente li superò tutti, vellicando in modo insuperabile quella voglia matta di divertirsi, e creando un capolavoro magnifico d'opera comica, il Barbiere di Siviglia, e un capolavoro altrettanto magnifico d'opera seria, il Guglielmo Tell. Se non che erano dei capolavori sì, ma dei capolavori relativi alla superficialità del tempo. Tempo nel quale pareva quasi che la vera grandezza fosse riserbata ai poeti e ai filosofi, i quali accettavano la piccolezza dell'opera musicale, dandole chissà quale interpretazione fantastica. Così Schopenhauer, complessa natura di pensatore d'artista e di viveur, s'estasiava davanti alla volontà di vivere del ridente Rossini, al modo stesso che il suo figlio spirituale Nietzsche perdeva la testa davanti alla musica «dai piè leggeri come il vento» della Carmen, la quale per lui simboleggiava nientemeno, che l'astutissima flessibile adorabile musica mediterranea. E si sa quanto oro, quanto tepore, quanto profumo meridionale contenesse per il poeta del Riso questo vocabolo di «mediterraneo».

Comunque, era sempre la poesia (o la critica poetica: se più piace) che dava un'arbitraria grandezza alla musica. La vera grandezza, ripeto, era riserbata soltanto ai poeti e ai filosofi.

Il grazioso e un po' affettato Mozart, il gaio adolescente settecentesco, dal sorriso malizioso e dai languori affettuosi e delicati, aveva creato un'opera buffa imperitura, figlia e nipote dei gloriosi modelli italiani, e il cui tipo aveva incontrato le grazie di tutti i compositori italiani. Più che a tutti piacque a Rossini, che soleva chiamar Mozart il «Dio della musica»; la quale opinione perdura ancora nella coscienza di alcuni, tanto che, se non erro, in un manuale di musica moderno, ebbi a leggere con un certo stupore, come Mozart fosse il più gran genio che della musica sia mai esistito, un uomo così sbalorditivamente musicista che trasformava in musica tutto quello che toccava. Non so la paternità di questa frase, ma se la sapessi, domanderei a chi la disse per il primo, che cosa faceva Wagner di quello che toccava: forse dei tromboni? Ad ogni modo Mozart è un caro fanciullo gaio e sereno, ma niente più di questo. Alcuni, tra i quali un grande conoscitore di musica, Romain Rolland, vogliono trovare in lui una saggezza profonda. Ma io sarei più propenso a credere che, intessuta d'una più delicata e gentile sentimentalità tedesca, anche in Mozart sia la consueta leggera retorica settecentesca del mite Metastasio, e di tutti i suoi fratelli letterati, amanti dei grandi nomi eroici e degli intrecci da teatro di burattini.

Beethoven fu il primo che rialzò la musica all'altezza della grande poesia; e potendo, anzi forse dovendo dire della grande arte, dico volentieri della poesia, pensando a Goethe, del quale Beethoven fu l'unico fratello, da alcuni creduto anche maggiore. Con Beethoven la musica potè aspirare ai più alti destini. Anche Bach, Händel, Palestrina, Orlando di Lasso, Monteverdi, etc., furono grandi; ma nessuno di loro è degno di esser messo tra i più alti spiriti intuitivi, la cui apparizione segna come una nuova tappa nel lungo cammino dell'umanità. Poichè con Beethoven per la prima volta la musica passa dal valore di arte decorativa, di arte di abbellimento, di «inclita arte a raddolcir la vita», al valore di arte intima, quasi direi di arte di coscienza, rispecchiante tutto un momento storico dello spirito umano in tutti i suoi meandri, in tutte le sue contradizioni, in tutte le sue aspirazioni più significative. Beethoven è il primo musicista universale; la civiltà ellenica ebbe Fidia, la civiltà medioevale ebbe Dante, la civiltà del rinascimento ebbe Shakespeare, la civiltà modernissima, che è ancora la nostra, ha Beethoven. Con lui anche i musicisti sentirono con orgoglio che a loro non toccava più d'imbandire con le briciole cadute dal banchetto dei grandi il loro modesto banchetto di servitori. Così si ebbe una nuova musica di nuovi musicisti, nuovi d'anima d'arte di valore storico; Wagner, Berlioz, Schumann, Chopin, con diversa fortuna e con diversa bontà d'intendimenti, furono i veri poeti dell'Europa nell'800. Come dice Romain Rolland nella sua splendida prefazione ai Musiciens d'autrefois: «la lumiére (dell'arte) ne cesse pas de brûler; seulement elle se déplace, elle va d'un art à l'autre, comme d'un peuple à l'autre.» Dopo Goethe, grandissimi poeti dovemmo aspettar molto ad averne. Ma quali musicisti non fiorirono, profondissimi poeti del loro tempo che è, in gran parte, sempre il nostro! La musica divenne un linguaggio meravigliosamente eloquente, pieghevole, policromo, atto a rendere tutte le più mutevoli sfumature della psiche, la quale sembrava fino ad allora ribelle alle forme troppo dure e incerte dell'armonia, simili quasi all'intirizzimento delle statue prefidiache. Beethoven, sopratutti, poi Wagner Berlioz Schumann Chopin empirono la storia di opere d'arte in cui i suoni raggiunsero la potenza espressiva della lingua multisecolare della poesia. Soltanto forse nella Grecia armoniosa, nel trecento eroico dell'Italia, s'incontra un periodo d'arte da paragonare a questa immensa ricchezza musicale dell'800.

Ma, ohimè, quell'immenso fremito d'armonia oggi si è spento. L'arte no, non si è spenta, chè è riapparsa per es., in Italia sotto le spoglie gloriose della poesia. Nessuno forse infatti ha mai pensato a scoprire le infinite somiglianze che i musicisti dell'800 collegano con i nostri poeti del 900. L'arte di Riccardo Wagner e l'arte di Gabriele d'Annunzio hanno delle relazioni che nessuno s'è mai ancora proposto d'indagare. Ma la musica è moribonda. A Riccardo I è succeduto Riccardo II, lo Strauss, il musicista che nonostante il suo contenuto decadente, e il suo stile barocco, mostra per certa sua robustezza, di esser sempre d'una gloriosissima razza di musicisti. A Berlioz, è succeduto (sebbene non spiritualmente) il piccolo Debussy wagneriano a rovescio, che tenta d'imbastardire la grande musica francese obbedendo a dei falsi canoni estetici (il discorso continuo, la guerra alla cadenza come simbolo della rotondità perfetta della forma musicale, il crepuscolo armonico, e finalmente l'impressionismo rubato alla pittura), e con dei gusti letterarii ormai stantii (Mallarmé, Verlaine, Baudelaire, etc).

Ora queste anime raffinatissime, malate di dilettantismo estetico e di un infecondo criticismo, se con i loro sforzi, impotenti ancora a generare una grande êra musicale, conservano accesa la lampada semispenta della grande musica e accumulano le faticose e talvolta oziose esperienze che serviranno a far più possente il futuro linguaggio della musica[3 - Se gli increduli volessero per prova di ciò che affermo un'analogia nella storia della musica, pensino alle costruzioni architettonico-contrappuntistiche dei sec. XIII e XIV, dalle cui aberrazioni armoniche doveva nascere la moderna armonia.]; esagerano però la posizione di dispregio che verso la popolaresca opera italiana tennero i loro grandi padri. Ma quanto più melanconica è questa loro posizione di quella d'un Wagner verso, per es. un Giuseppe Verdi! Il popolo ha sempre tradito i grandi. Ma se oggi il pubblico diserta i teatri ove si eseguisca Strauss o Debussy, per andare ad ascoltare L'Amico Fritz o la Cavalleria Rusticana, la critica non può dar assolutamente torto al pubblico.

Poichè, è vero, Riccardo Strauss e Claudio Debussy e i loro minori compagni, sopra il nostro Mascagni hanno una superiorità di cultura di pensiero di nobiltà d'aspirazioni. Ma si può poi dire che essi cantino all'Europa un contenuto nuovo e necessario? La nuova generazione che vien su ora, o che deve necessariamente venir su ora, non travolgerà essi pure nella sua ribellione contro tutti i sofismi moralistici e tutte le falsificazioni del sentimento dei Verlaine, dei Wilde, dei D'Annunzio? Chi è Salomè od Elettra se non una Basiliola e una Fedra più che mai inferocite nella loro libidine monotona dal macabro ritmo d'una musica di barbaro degenerato? E che cosa significa la coppia bamboleggiante di Pelléas e Melisanda se non un tentativo della stanca anima europea a ritornare a una semplicità sublime che essa non sa più concepire (avendone da tempo perduta la strada), che come una adolescenza di bambini tardivi? No; la musica europea è in decadenza. I suoi rappresentanti maggiori si esauriscono in sforzi formali vuoti di contenuto, o pieni d'un sì ridicolo contenuto, che il buon popolo sano e ribelle alle corruzioni senili delle così dette classi superiori, quando non sia sbalordito dal fragore, o dal terrore del silenzio, disapprova ed irride del suo meglio.

E davanti allo Strauss e al Debussy il piccolo Mascagni, a cui la musica scoppia nel cuore come una polla irruente, a volte un po' torba, ma spesso tersa, pulita e chiara, è quasi l'incarnazione, per chi sa leggere l'infinito linguaggio della storia e trovarvi la rivelazione di quella storia metafisica su cui essa eternamente corre e ricorre, d'una profonda verità estetica. È vero che è il valore del contenuto che fa grande l'arte; ma esso è soltanto relativo, e non fa che piccola o immensa l'opera d'arte, insignificante o luminosa nei secoli la visione dell'artista. Ciò che fa davvero che l'arte sia arte, è la forma; senza di questa il contenuto (o il desiderio, il presentimento del contenuto) non raggiunge l'esistenza estetica, ed è inutile che se ne parli come di arte. Che importa se Debussy è uno spirito più eletto più colto più sottile più profondo di Pietro Mascagni? La sua forma è per ora uno sforzo, un atto volontario, non spontaneo del suo spirito; mentre la musica di Mascagni spesso raggiunge nel suo piccolo la perfezione; anzi, talvolta, come negli intermezzi della Cavalleria e dell'Amico Fritz, nella romanza dell'Iris, nella Monferrina dell'Amica sembra rievocare più cosciente e più profonda, la candida melanconia d'un Paisiello o d'un Pergolesi e quel loro gaio sorriso così calmo e così refrigerante.

Certo è triste dover rassegnarsi a cercare la musica; non la preparazione alla musica futura, ma la musica veramente viva, nei piccoli. Ma meglio dei grandi che non esistono i piccoli che esistono. Nè voglio dire che, tra i piccoli, Pietro Mascagni sia solo; voglio soltanto dire che, dinanzi alla terribile crisi che fa agonizzare la grande musica europea, l'Italia trova in Mascagni un puro rappresentante della sua vecchia opera popolaresca[4 - Non è accennato in questo mio rapido quadro delle condizioni della musica europea disegnato a scopo di inquadrarvi Mascagni, alla musica russa. Giacchè essa nella sua forma più genuina (cioè non nelle sue imitazioni italiane del 700 e tedesche dell'800) ha un cammino e uno spirito assolutamente diversi dallo spirito e dal cammino della musica europea. Oserei quasi dire che essa è quasi una musica asiatica. Lo stesso Chopin non è fratello ai nostri compositori.].




L'OPERA DI PIETRO MASCAGNI





I.

Cavalleria rusticana


Cavalleria rusticana, il bel dramma musicale in un atto, che il Mascagni scrisse tra i 25 e i 27 anni, e che fu la sua prima opera rappresentata in pubblico, è forse, per ora, l'opera più completa che ci abbia dato il compositore livornese. Non che nelle opere posteriori egli, come molti pensano, non abbia più dato alla nostra musica dei brani di bellezza paragonabile a questa freschissima Cavalleria. Però, oltre al fatto che il maestro, dopo quest'opera curata in tutte le sue parti, ha pur egli ripreso il vecchio andazzo dagli operisti italiani di abborracciar spartiti ammassando alla rinfusa bellezze e sciatterie, lampi di genio e volgarità inaudite; a impedire al Mascagni di ridarci un'altra opera interamente bella – se dalla condanna si eccettui in parte l'ispiratissima Iris – sta l'altro fatto che egli non ha saputo svolgere in sè alcun germe fecondo di coltura. La qual cosa gli ha fatto accettare, come musicabili, libretti o difettosi o affatto incompatibili con la sua natura musicale. Giacchè coltura non vuol dire aver letto, sia pure con accesa passione, altissimi scrittori, come, ad es. aveva fatto indubbiamente Giuseppe Verdi. Che quest'ultimo non avesse capito Shakespeare – che pare egli avesse letto assai estesamente – ce lo dicono quelle cattive riduzioni melodrammatiche vittorughiane dei due capolavori shakespeariani: il Macbeth e l'Otello. Del quale Otello, musicalmente non solo superiore al Macbeth, ma a quasi tutta l'opera verdiana, il Boito e il Verdi compierono una vera e propria traduzione ad uso dei vanagloriosi cantanti del barocco teatro melodrammatico; sicchè il disgraziato eroe orientale, nel testo inglese gentiluomo nobilissimo qual s'addiceva essere a un figlio della razza più squisitamente signorile che esista, la razza moresca, diventa nell'opera verdiana un villano tenore che non sa esprimere la propria ira che urlando come un ossesso. Non parlo poi di quello che diventa Iago, la creatura ambigua tortuosa oscura dell'immenso poeta del cinquecento.

Ora, a dire il vero, io non so la quantità e la qualità delle letture con le quali è supponibile abbia adornato il proprio spirito il nostro Mascagni. So però con certezza che se esiste, la sua coltura è ben lontana dal raggiungere quel grado di ricchezza, armonia, solidità e signorilità, che permetteva al Wagner di emulare in questo i più grandi poeti e di permettersi il lusso di ricreare con tanto sapore storico e con tanta precisione di particolari scenici poetici e musicali l'ambiente della barocca e gentile Norimberga della metà del cinquecento. Se un nostro compositore tentasse di risuscitare, p. es., la Firenze del 400 o la Roma del 600 o la Venezia del 700, chissà a quali orribili gare di cattivo gusto e d'incredibile ignoranza ci toccherebbe ad assistere!

Comunque, il caso offrì al Mascagni un ottimo libretto nella Cavalleria Rusticana dei sigg. Targioni-Tozzetti e Menasci, breve poema drammatico tolto dalla omonima notissima novella di Giovanni Verga. Io non pretendo dire che l'aggiunta del fallo di Santa (Santuzza nel libretto) col fidanzato Turiddu e la trasformazione dei «vicini» in un coro assai melodrammaticamente risibile, abbiano abbellito la primitiva concezione del Verga. Questo nostro grande novelliere-poeta, non accennando ad alcun fallo di Santuzza accresce, a parer mio, la naturalezza del suo racconto, naturalezza così impreveduta nella nostra quasi sempre inverosimile novellistica, per altre ragioni che la possibilità dell'azione, pregevole. Certo però, questo fallo di Santuzza se sciupa un po' la semplicità della concezione drammatica, porse al Mascagni, acuendo la ferocia dell'azione fulminea, una ragione di più per impiegare le tinte più calde dello sua violenta tavolozza musicale. È vero altresì che rimproverare ai librettisti di aver falsata la concezione verghiana, è dimenticarsi che la Cavalleria di Mascagni non ha ormai più alcun legame estetico con la Cavalleria del Verga, trattandosi di due intuizioni diverse.

Il Mascagni trovò dunque nel disegno offertogli dai due librettisti, tutti gli stimoli necessari per esplicare la sua personalità. Difficilmente nella storia delle arti troviamo un fatto simile. Il Mascagni delle opere successive non ha aggiunto nulla di veramente nuovo al mondo espresso nella Cavalleria, se se ne eccettua il rinnovamento puramente tecnico dell'Iris, che può essere anche una presa di possesso più chiara e più audace della propria personalità. E non perchè egli dopo non si sia più svolto, come troppo leggermente si dice; sibbene perchè una fortunatissima concordanza di fattori storici ed estetici condussero il Mascagni a raggiungere nella Cavalleria, che è come una prefazione fremente di entusiasmo e di fede a tutta l'opera futura, l'intera sua capacità. Chè se egli in essa si fosse esaurito, com'è opinione di molti, non avrebbe potuto empire le opere posteriori di bellezze che, se per una parte riescono vane, non essendo nate a formare un organismo compatto, per un'altra attestano che la fantasia di quest'uomo non s'è spenta, ma aspetta solo di non essere contrariata da soggetti che le sono alieni e indifferenti per espandersi nell'armonia d'un capolavoro.

Analizziamo dunque questa bella e fresca prefazione.

La Cavalleria, a differenza delle opere successive del Mascagni nelle quali viene usato, almeno nell'intenzione, un sistema analogo a quello wagneriano della melodia continua; – dico analogo, giacchè, se il discorso musicale del Mascagni è, come dicono oggi, continuo, la sua concezione è per sua intima natura, opposta alla volubile fluenza del polifonismo wagneriano – è divisa in tanti pezzi staccati secondo l'antico sistema prewagneriano. E questo sistema dei pezzi formanti un tutto da loro stessi, è un vero peccato sia poi stato abbandonato dal Mascagni. Il genio latino, generalmente, non ha potente in sè, come il tedesco, il senso dello svolgimento ininterrotto della Storia, del divenire inarrestabile e irrivertibile delle cose. Egli ha ereditato dal mondo ellenico la classica oggettività, il bisogno del ciclo simmetrico della strofe, invece della prosa flessibile e asimmetrica. Così al posto degli interminabili svolgimenti aritmici e simili al pesante e indeterminato flusso della materia, così cari a Riccardo Wagner e ai seguaci Riccardo Strauss e Claudio Debussy[5 - Sebbene il recitativo debussysta non sia più maestoso come quello wagneriano, nè di Wagner il presente dittatore della musica francese accetti il sistema polifonico, Debussy è forse più wagneriano dello stesso Strauss. Il perchè della mia affermazione non potrei dire in due parole. Su ciò vedi, nel giornale La Voce di Firenze, i miei tre articoli: Claude Debussy, Impressionismo musicale, Ciò che ci può insegnar Beethoven.], egli ama le brevi forme nitide, i contenuti ben serrati dai solidi argini del ritmo. Così le cadenze che chiudono ogni pezzo mascagnano, sieno pure abilmente mascherate e dissimulate, generano in noi il senso della perfezione, poichè quei motivi e quelle melodie, che si avvolgono e si svolgono in periodi regolari come strofi della lirica greca o degli inni sillabici del canto gregoriano, non son fatte per essere contorte e concatenate secondo i dogmi, a loro estranei, del sistema wagneriano o dei sistemi da quello nati. La guerra alle cadenze che oggi infierisce nella musica, è errata per Mascagni e starei per dire per la musica italiana; sarebbe come fare in nome del verso aritmico dei verslibristes una guerra alla rima nella nostra poesia rimasta tuttavia a strofa ritmicamente obbligata. E il Mascagni laddove tenta di obbedire ai canoni del discorso libero o simile alla prosa del romanzo e della commedia in prosa, non ha fatto che generare un malinteso puramente grafico, malinteso che si dissipa all'audizione, se pure l'intento non sia stato davvero raggiunto a scapito della musica stessa.

L'opera è preceduta da un preludio di carattere più lirico che descrittivo sebbene d'una certa descrittività. A un breve episodio religioso che ci avverte di essere in un giorno festivo (la Pasqua), tracciando così un poco la cornice del quadro passionale che a poco a poco ci vedremo svolgere dinanzi, segue un motivo che potrebbe chiamarsi: il pianto di Santuzza; chè, infatti, esso e gli incisi che lo seguono, son tratti dal duetto tra Santuzza e Turiddu. A questo episodio, che subito c'immerge in quell'atmosfera di calda sensualità disperata, caratteristica vibrante dell'anima del Mascagni, succede una cadenza delle arpe preludiante alla Siciliana – una canzone cantata a sipario calato da Turiddu sotto le finestre di Lola. Ecco così che i personaggi sono già evocati tutti e quasi lineati dal preludio. La Siciliana è una melodia bellissima, serena sebbene languida di passione. È come una stasi intima e profonda nel terribile dramma che ha già cominciato a scatenarsi. Non è detto se sia una mattinata o una serenata; ma noi sentiamo in essa quella indefinibile aspirazione quasi a superare i limiti dei corpi e gli argini delle azioni, che trema nelle popolari canzoni d'amore, cantate nei due crepuscoli, in alcune nostre provincie, a cui la civiltà s'è appena avvicinata. Non so se la musica della Siciliana sia originale oppur ripresa da un vero e proprio motivo popolare. Il fatto è che Mascagni ha qui avuto una stupenda intuizione del sentimento che doveva avere una canzone popolare.

Ma improvvisamente l'incanto vien spezzato dal dramma feroce che prorompe di nuovo e con maggior foga. Il fascino lascivo della canzone vien come affogato nell'onda furiosa dell'orchestra, dove nuovi impeti di passione balzano alternati da murmuri sordi come di collera e da echi lontani di melodie umili come di preghiera. Finchè comincia a svolgersi maestoso e doloroso il motivo esprimente l'urto tragico tra l'amor vano di Santa per Turiddu e la noncuranza satura di rimorsi di quest'ultimo, motivo a cui, dopo un fortissimo spasimante, s'attacca il pianto di Santuzza, così pieno di disperazione rassegnata. E il preludio si chiude con una lunga cadenza sacra che riprende e compie la cornice sacra con cui esso si era aperto.

A proposito della descrittività di questo preludio mi si potrebbe obbiettare che il significato che io dò ad esso può anche dipendere da una retroproiezione del significato del dramma su di esso. In altre parole: se questo preludio fosse eseguito separatamente, esso non potrebbe parlarci di Santuzza e del suo dolore. Ma la questione è che questo preludio non dev'essere eseguito separatamente, per la semplice ragione che esso è stato concepito insiem col dramma. Nè, parimente, è vero che tutte le parti d'un'opera debbano, se staccate da essa, dirci da loro sole a qual causa, per dir così, sono votate. Se la Cappella Sistina fosse per ipotesi scancellata dal tempo di sul muro dov'è dipinta e dalla memoria umana, colui che ne venisse a scoprire un frammento, ad es: una delle Sibille, si troverebbe, credo, ben'imbrogliato a ricostruire il tutto, risalendo ad esso da quella parte frammentaria. Lo stesso si dica di uno dei frammenti scampati al naufragio del teatro greco. Una frase, un motivo, una figura prendono il loro significato dal testo al quale sono concreate. È il tutto che dà il valore delle parti, o, meglio, è l'intuizione, per dir così, centrale, che s'è espanta armoniosamente nelle più estreme ramificazioni del tutto. Le parole, le frasi, i periodi; le note, gli accordi, i motivi, gli svolgimenti, etc. etc., non sono che forme del linguaggio, il quale è composto di simboli vuoti e, per dir così, non solo empibili di sempre mutevole contenuto, ma trasportabili in quella di tutte le posizioni rispetto al tutto, che possa contribuire maggiormente a raggiungere l'intuizione madre, a esprimerne la vita, almeno approssimativamente. L'essere scettici riguardo alla descrittività della musica, o meglio al suo valore determinativo, è essere scettici del potere rappresentativo del linguaggio umano; e se tale scetticismo spesso non ha luogo di esercitarsi sul linguaggio parlato, ciò dipende dalla lunga abitudine, che ha soffocato lo stupore del miracolo.

Il sipario si alza davanti alla piazzetta d'un paese in festa. È mattina. Le campane suonano e dal loro ritmo vien generato, con un'intuizione geniale, il motivo gaio e esuberante di trilli di colore e di squilli di luce, che descrive la pasqua. Son frasi gaie, lanciate con un brio rossiniano di danza, alle quali si unisce a poco a poco il doppio coro, quello femminile cantante una fresca e delicata melodia primaverile, quello maschile, rude, un po' sgarbato nella sua allegria contadinesca. La scena è indovinatissima. Potrà forse sembrare triviale a certi critici di palato ipersensibile, ma chi conosce bene le pasque gioconde delle nostre città italiane col loro bel sole d'aprile, con quel brulichio d'abiti femminili dai colori accesi che formano colle luci e con le ombre accordi policromi sempre cangianti; chi ha provato quel senso tutto caratteristico di allegria spensierata e di facile felicità che effondono lo scampanio incessante e il clamore della folla, diverso, non so perchè, da quello delle altre domeniche, riconoscerà che Pietro Mascagni ha mirabilmente rappresentato in questa scena introduttiva il mattino della pasqua popolare italiana.

E il dramma comincia.

Un motivo tortuoso e cupo, il motivo della gelosia di Santa, apre il recitativo di questa con mamma Lucia. Fermiamoci un istante su questo tipo di recitativo. Esso non è il vecchio recitativo monotono dell'opera buffa, o il recitativo eroico e starei per dire marmoreo delle opere wagneriane della prima e seconda maniera. Neppur si riattacca al melanconico e sentimentale recitativo del 500-600. Deriva, se mai, dal recitativo bizettiano (da quello per es., dell'ultima scena della Carmen, chè i veri recitativi secchi di quest'opera non furono scritti dal Bizet, come ognun sa, ma dal suo amico Guiraud), recitativo drammatico, duttile, pieghevole a esprimere con naturalezza i più diversi sentimenti. Ma, in realtà, è una specie di recitativo nuovo, anzi più un canto libero ogni tanto solcato da esclamazioni liriche dell'orchestra, che un vero e proprio recitativo. In opere posteriori il Mascagni ha pur troppo tentato di abbandonare questo suo bel tipo di recitativo per riprendere anch'egli il recitativo svenevole e civettuolo della scuola massenettiana. Ma non avendo il Mascagni le pessime doti di leggerezza melliflua che ci vogliono per parlar musicalmente con tale leziosaggine melensa, ne è venuto fuori un linguaggio ibrido, che non contenta nessuno con la sua goffaggine provinciale, che vuol sembrare disinvoltura da viveur.

La canzone di Alfio, che segue l'incontro delle due donne, è uno dei pezzi più scadenti dell'opera. In esso appare, la prima volta in Mascagni, il vizio dell'enfatica eloquenza inutile, vizio inoculato nella musica moderna dal dittatore a vita di essa musica: Riccardo Wagner. Lo spunto della canzone, un triviale motivuccio da operetta, è scelto arbitrariamente dall'autore a reggere un grandioso edificio corale e strumentale di nessun valore musicale, salvo che musica non diventi sinonimo di fragore. L'origine di questo vizio va ricercata, come ho detto, nello smodato fervore con cui finora è stato studiato il sistema d'orchestrazione wagneriano. Il Wagner, scopritore di meravigliosi e impreveduti impasti strumentali, lasciò pur troppo una specie di ricetta, usando la quale i musicisti sono pressochè sicuri di ottenere un frenetico applauso. Comunque questo pezzo, che sembra descriva il fragore di rotolanti carri guerreschi e non l'umile treppichio dei poveri barrocci siciliani, ha pur nel disegno errato qualcosa di fresco e di giovanile che fa pensare a certi selvaggi e un po' triviali ritmi tschaikowskyani. Quasi a fare il pendant a questo coro segue l'inno popolare della resurrezione. Anche questo pezzo è condotto con un po' di tronfiezza ed esagerazione. Ma la spontaneità della melodia, l'impeto delle modulazioni, alcuni effetti irresistibili di sonorità, vibranti quasi d'un empito di gioventù e di passione, finiscono per far perdonare il fragore, pur questa volta sproporzionato a un'azione che esigerebbe maggior semplicità e forse un tono tra l'agreste e il pastorale; insomma un canto più umile e meno meyerbeeriano nella condotta.

Ma ecco due scene in cui il Mascagni può abbandonarsi tutto al suo frenetico lirismo erotico. Il racconto che Santuzza fa del tradimento di Turiddu, e il duetto tra questi e Santuzza, interrotto per un istante da una breve entrata di Lola, un po' curiosa a dire il vero. Giacchè donne che vadano alla messa per una piazza pubblica cantando a squarciagola stornelli d'amore, sono, anche sul teatro melodrammatico, e con buona pace dei librettisti, inverosimili. Infatti i librettisti italiani sembrano un po' troppo convinti che l'arte, sia lirica, sia drammatica, è immagine, sì del reale, ma del reale trasformazione fantastica. In fondo in fondo, sotto la libertà dell'arte, si trova – la schiavitù della scena. E questo mi si conceda che è alquanto ridicolo trattandosi specialmente di un dramma… veristico. O la bella e schietta verisimiglianza della novella del Verga! Ad ogni modo queste due scene sono tra le parti più belle dell'opera; onde occupiamoci sopratutto del carattere personalissimo di questa musica. Ho già detto altrove che il Mascagni sente più di ogni altro sentimento l'amor sensuale e un po' brutale del popolo; questi due pezzi ne sono una conferma lampante. Il primo di essi, la romanza di Santuzza, narra il dolore della giovinetta tradita, il ribrezzo della sua carne martoriata dalle immagini del desiderio e della gelosia, sempre rinascenti come un incubo infaticabile. La musica si colora mirabilmente delle immagini poetiche espresse dalle parole, anzi sembra essere di queste immagini narrative-verbali quella confusa frangia di nuove immagini e sentimenti che suole circondare come un alone sfumato e inafferrabile l'immagine centrale di una poesia. Già l'introduzione orchestrale simile alle iniziali miniate, con cui, nei libri antichi, si preludiava pittoricamente alla narrazione di poi scritta, ci fa entrare nella pienezza della situazione. Il pudore e lo spasimo carnale, che impediscono alla giovinetta di parlare; la rassegnazione al destino, sotto la quale però cova l'odio mortale alla donna che ha sedotto Turiddu, per invidia a lei, Santuzza, non per vero amore a Turiddu; tutte queste fluttuazioni di passioni tra di loro intrecciate e contrastanti, e di cui la potenza sta per prorompere nella povera fanciulla con un'intensità tutta propria dell'anime popolari più istintive che riflessive; sono bene espresse in quei due versi





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notes



1


Del resto certe selezioni si fanno talora senza aiuto della critica, ma quasi per una spontanea critica insita negli esecutori. Infatti dei molti melodrammi che in Italia sono stati composti da che la camerata del Conte de' Bardi ideò il genere dell'opera, che cosa è rimasto, se non qualche aria, staccata, senza danno reciproco, dall'opera a cui apparteneva, per esser cantata nei concerti?




2


Avverto una volta per tutte che il popolo di cui parlo qui non è il popolo delle campagne e delle montagne, spesso puro e a suo modo profondo; ma parlo del popolo delle città e dei grossi borghi, al quale si attagliano benissimo le mie osservazioni.




3


Se gli increduli volessero per prova di ciò che affermo un'analogia nella storia della musica, pensino alle costruzioni architettonico-contrappuntistiche dei sec. XIII e XIV, dalle cui aberrazioni armoniche doveva nascere la moderna armonia.




4


Non è accennato in questo mio rapido quadro delle condizioni della musica europea disegnato a scopo di inquadrarvi Mascagni, alla musica russa. Giacchè essa nella sua forma più genuina (cioè non nelle sue imitazioni italiane del 700 e tedesche dell'800) ha un cammino e uno spirito assolutamente diversi dallo spirito e dal cammino della musica europea. Oserei quasi dire che essa è quasi una musica asiatica. Lo stesso Chopin non è fratello ai nostri compositori.




5


Sebbene il recitativo debussysta non sia più maestoso come quello wagneriano, nè di Wagner il presente dittatore della musica francese accetti il sistema polifonico, Debussy è forse più wagneriano dello stesso Strauss. Il perchè della mia affermazione non potrei dire in due parole. Su ciò vedi, nel giornale La Voce di Firenze, i miei tre articoli: Claude Debussy, Impressionismo musicale, Ciò che ci può insegnar Beethoven.



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