Книга - Storia d’Italia dal 1789 al 1814, tomo IV

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV
Carlo Botta




Carlo Botta

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV





LIBRO DECIMOQUARTO



SOMMARIO



Nuova confederazione in Europa contro la Francia. Spedizione d'Egitto. Presa di Malta. Buonaparte sbarca, e prende piede in Egitto. Battaglia navale di Aboukir. Accidenti di Napoli. Garat, ambasciadore di Francia presso al re Ferdinando. Suo discorso al re. Effetti prodotti nel regno dalla vittoria conseguita dagl'Inglesi ad Aboukir. Il re Ferdinando si risolve alla guerra contro la Francia: si muove contro lo stato Romano, e se ne rende padrone. Brutta condotta dei Napolitani a Roma. Accidenti in Cisalpina: trattato d'alleanza fra le due repubbliche. Trouvé, ambasciadore di Francia in Cisalpina. Suo discorso d'ingresso al direttorio Cisalpino; riforma violentemente la constituzione data da Buonaparte: mali umori prodotti da quest'operazione. Scritti pubblicati contro di Trouvé, e di Rivaud, che gli era succeduto. Sette, e congregazioni politiche nate in Italia pei cambiamenti fatti in Cisalpina.


Ma tempo è oramai, che ci alziamo a descrivere alcune maggiori cose, per cui mutossi inopinatamente lo stato d'Europa, quel dell'Africa turbossi, le Ottomane spade chiamaronsi ad insanguinar l'Italia, ed il dominio di questa combattuta parte d'Europa passò da Francia a coloro, che di nuovo la combatterono. Concluso il trattato di Campoformio, si riposava la Francia in pace con tutte le potenze del continente, ed oltre a ciò aveva per alleate la Spagna, il Piemonte, la Cisalpina e la Olanda. Le vittorie conseguite, il nome de' suoi generali, il valore e costanza dei suoi soldati, avevano dato timore a tutti i principi, massimamente all'imperatore d'Alemagna, che era stato battuto da più forti percosse, ed aveva sofferto maggiori danni. Per la qual cosa, quantunque tutti vedessero mal volontieri confermarsi in Francia, vale a dire nel centro dell'Europa, principj contrari alla natura dei governi loro, contenuti dal timore, nissuno ardiva di muoversi, ed aspettavano tempi migliori. Perciò la Francia, non avendo nissun sospetto vicino al continente, poteva voltar tutte le sue forze contro l'Inghilterra. A ciò fare ella si trovava molto ben provveduta. Abbondava di navi da guerra proprie, di capitani di mare, e di marinari eccellenti, e di più poteva aggiungere alla sua tutta la marinerìa della Spagna e dell'Olanda, sue alleate. Il pericolo dell'Inghilterra era gravissimo tra per questo, e per le cose tutte di Francia, d'Olanda, e di Spagna tanto vicine che si ritrovavano in potere del suo nemico; i porti d'Italia alla medesima signorìa obbedivano. I soldati di terra, ed i generali dell'esercito, che si potevano imbarcare per la fazione, erano per fama, e per valore egregi. Già si spargevano voci della spedizione contro l'Inghilterra, già si facevano concorrere le navi, sì grosse che spedite, nei porti più vicini, e già Pleville-Leplay, ministro di marina, e ammiraglio di Francia, andava sopravvedendo le coste, che prospettano l'Inghilterra. Era il governo di Francia desideroso di fare questa spedizione per tenere sempre più gli animi sospesi, e per impiegare generali, e soldati vittoriosi, usi alle guerre, e che non avrebbero mai quietato nella pace, e volentieri si sarebbero messi a tentar novità con pericolo dello stato: al che si sapeva, che fra tutti Buonaparte era inclinato; il direttorio aveva avuto sentore dei tentativi fatti presso al vincitore d'Italia dai confederati per rimettere i Borboni, e delle promesse, e delle speranze da lui date su di questo disegno. Nel che si vedeva, che o volesse attenere le promesse ai principi, o le volesse usare per se, era ugualmente pericoloso al direttorio.

In questa condizione di tempi i ministri d'Inghilterra, Pitt principalmente, guida allora, e indirizzatore dei consigli di quel reame, conobbero il pericolo, in cui erano, tra per le forze del nemico, ed ancora per esservi nell'Inghilterra medesima non pochi, che avendo accettato i principj della rivoluzione Francese, e desiderando di porgli in opera nella patria loro avrebbero potuto secondar i Francesi, e cooperare alla ruina, e sovvertimento dell'antico stato. Però avendo potentissima occasione di muoversi, si mettevano all'ordine per ovviare a tanto precipizio, tentando con ogni sforzo di accendere un novello incendio di guerra sul continente, con stimolar di nuovo le potenze alle cose di Francia. Ciò amavano meglio, che le speranze incerte e lontane di Buonaparte.

Per commovere adunque novellamente tutto il mondo, comandavano ai loro ambasciatori e ministri presso i potentati d'Europa, e massimamente a quello presso l'Austria, che con efficaci parole esponessero il pericolo, che sovrastava a tutti gli antichi governi, se la repubblica Francese mettesse ferme radici e si confermasse, se quei principj sovvertitori di ogni buon governo prevalessero; allegassero le rovine d'Italia e d'Olanda; rappresentassero la Svizzera recentemente contro ogni fede assalita, con crudeltà invasa, con avarizia spogliata; dimostrassero, già d'ogni intorno, ad onta della pace giurata, romoreggiare all'Austria le armi tiranniche, i principj perturbatori, le grida degli scapestrati libertini. A che dar tempo a chi previene il tempo? questo essere il momento d'insorgere, che le cose erano tenere; l'aspettare, essere eccidio manifesto: però rendersi necessario il fare senz'altro indugio ogni sforzo per ispegnere quei mostri, che minacciavano di voler tutto divorare. Quest'erano le esortazioni dei ministri d'Inghilterra: offerivano al tempo stesso denari, ed ajuti di genti.

A queste instigazioni rispondeva l'Austria, che troppo più che si convenisse, erano state debilitate le sue forze nell'ultima guerra, troppo più esauste le sue finanze, troppo più l'inimico si era fatto grosso, massime in Italia, perchè ella potesse subito, e sola sul continente venire ad un cimento tanto pericoloso colla Francia; che non ostante si offeriva ad insorgere di nuovo, ed a correre all'armi, se la Russia consentisse a voler anch'essa venire efficacemente a parte della contesa e la spalleggiasse con pronti ajuti. Aggiungeva che nell'opera della Russia consisteva tutta l'importanza del fatto.

La Russia tentata rispondeva, perchè ella, così come l'Austria, stimava miglior partito il farsi strada coll'armi proprie che lo stare alle speranze di Buonaparte, che s'accosterebbe volentieri alla lega, quando l'Inghilterra l'assicurasse della Turchìa: temeva, che muovendo le armi contro la Francia, la Porta Ottomana si muovesse contro di lei. Gl'Inglesi allora, ed a questo fine tentarono il governo Ottomano. Rispondeva il sultano, che per l'antica unione della Porta con quel paese non voleva muovere le armi contro la Francia, nè collegarsi con loro che le muovevano; perchè poco temevano gli Ottomani dei principj Francesi, e che poco loro importava, che la Francia vivesse in repubblica o monarchìa.

Non potendo adunque i ministri d'Inghilterra con questi stimoli, e promesse venir a capo dell'intento loro di seminar nuove discordie, ed importando alla salute dell'Inghilterra, che nascessero presto nuove turbazioni, si voltavano ad altre arti, sperando di ottenere dalla Francia stessa contro di se medesima quello, che non avevano potuto conseguire da' suoi nemici. A questo fine mandavano agenti a posta a Parigi con le mani piene d'oro, i quali dicevano al direttorio, ed a tutti che avevano autorità nelle cose, che per verità e' bisognava trovar nuove occupazioni ai soldati, acciocchè non se ne stessero oziosi con pericolo di novità nello stato; che e' bisognava trovar nuovo pascolo all'ambizione dei generali, massime di Buonaparte, che allora si viveva in Parigi con la mente volta a cose nuove; ma che la spedizione contro l'Inghilterra non era impresa da doversi fare, perchè un generale, e soldati, che acquistassero vittoria di un paese così importante, così ricco, e così vicino alla Francia, qual era l'Inghilterra, avrebbero poscia potuto facilmente farsi padroni del governo stesso di Francia; che perciò ponendo anche l'esito felice della spedizione d'Inghilterra, sovrastava un gran pericolo, anzi il più grande di tutti; che pertanto era d'uopo voltare i pensieri altrove, e verso paesi più lontani, ma però di molta importanza, perchè in questo caso la fama delle cose fatte sarebbe meno pregiudiziale, e ad ogni modo avrebbe il governo tempo di assicurarsi contro i tentativi di generali e soldati vittoriosi: pensassero bene, quanto già loro fosse molesta la fama, e la grandezza di Buonaparte per le vittorie d'Italia, e qual sospetto darebbe loro, se la potente Inghilterra vincesse. A queste cose astutamente soggiungevano, che pareva, che l'Egitto fosse paese, dove acconciamente si potesse mandare l'esercito, contrada ricca, poco dipendente dalla Porta, a cavallo tra l'Asia e l'Europa. Quai vantaggi pel commercio di Francia, quai progressi per la civiltà, quali speranze per le Indie, se a Francia accadesse di farsi padrona dell'Egitto? Speravano gli autori di queste insinuazioni, che l'assaltare la Francia l'Egitto avesse ad essere per lei cagione di nimicizia col sultano, la qual nimicizia era il fondamento principale di tutte queste nuove macchinazioni.

Questi discorsi andavano molto a versi del direttorio. Ma da un'altra parte i medesimi agenti andavano tentando l'animo di Buonaparte con dirgli, che l'impresa d'Inghilterra non era di così facile esecuzione, come forse si aveva concetto nell'animo, e come pareva a prima giunta, per gli ordini antichi, e tanto radicati in quel regno, per la forza del suo navilio, per l'altezza d'animo di tutta la nazione a non lasciarsi così di leggieri conquistare dai Francesi, nazione sua emola; pensasse al lagrimevole fine di Hoche; considerasse, che la conquista dell'Inghilterra ingelosirebbe il direttorio, e lo farebbe facilmente precipitare in partiti pericolosi, e funesti alla fama, ed all'essere suo; che sarebbe in paese più lontano assai meglio posto in propria balìa per operare con più libertà; che pure un tal paese s'appresentava alle menti loro, la cui conquista ecciterebbe tanto grido in Europa, e tanto lustro aggiungerebbe al suo nome, quanto veramente la conquista dell'Inghilterra, e che quest'era, a parer loro, l'Egitto.

Piacque la proposta al giovane capitano, il quale, sebbene fosse giusto e sagace estimatore degli uomini e delle cose in ogni altra faccenda, sentiva ciò non ostante un poco del romanzesco, quando si trattava di guerra, e di gloria militare. Aveva egli già in quel tempo voglia, e proposito di disfar il governo del direttorio, cioè quello degli avvocati, come diceva, e siccome impaziente e subito in tutte le sue azioni, gli pareva ogni momento mille anni, che non venisse all'esecuzione. Nondimeno la guerra d'Egitto gli gradiva molto a motivo del romanzo, ed a questa accomodava finalmente l'animo dicendo, che un governo, che pure aveva di fresco concluso una pace gloriosa, non poteva così facilmente essere distrutto. Sperava, che mentre egli conquistasse l'Egitto, e facesse vieppiù chiaro il suo nome per una impresa tanto straordinaria, sarebbe nata o qualche turbazione in Francia, o qualche guerra fuori, che avrebbe dato occasione ai popoli di desiderarlo, e che intanto la memoria di quel beneficio della pace data così recentemente dal direttorio si sarebbe debilitata.

Ma gli agenti d'Inghilterra, e quelli, che da loro si erano lasciati o sedurre o ingannare, persuadevano con efficaci parole al direttorio, che per l'occupazione dell'Egitto non si sarebbe la Porta tenuta offesa, nè la concordia fra i due stati interrotta. Adducevano, che poca era la dipendenza dell'Egitto dalla Porta; che i Mamalucchi, nemici irreconciliabili del governo Ottomano, ne erano i veri e reali signori; che contro di questi dovevano i Francesi protestare di voler voltar le armi; che si poteva far credere alla Porta, che l'occupazione dell'Egitto sarebbe momentanea, e necessitata solamente dalla guerra, che la Francia aveva con l'Inghilterra; che la provincia sarebbe di nuovo rimessa in potestà della Porta con molta maggior divozione di prima per la distruzione dei Mamalucchi, e che finalmente si potevano rappresentare ai ministri Ottomani molti vantaggi commerciali per la presenza dei Francesi in Egitto.

In tale forma accordate le cose s'incominciava a disporre gli animi in Francia ad un'impresa tanto straordinaria. Vi si parlava dell'Egitto, come di una terra promessa, della prosperità del commercio, della scoperta delle antichità, dei progressi della civiltà, del cacciamento degl'Inglesi dall'Indie, della padronanza di quelle ricche sponde del Gange. Allignavano facilmente questi pensieri in Francia: perchè la nazione, animosa per indole propria, era a quei tempi talmente accesa, che qualunque più alto e difficoltoso fatto le pareva di facile esecuzione, e la difficoltà stessa le era sprone e speranza. Taleyrand leggeva all'Instituto uno scritto composto con singolare eleganza e maestrìa, con cui dimostrava e l'importanza dell'Egitto, e l'utilità della sua possessione. Si dava voce, ch'egli stesso fosse per esser mandato ambasciatore straordinario presso alla Porta Ottomana per ispiegar bene a quel governo i pensieri della Francia rispetto alla spedizione d'Egitto, e per mantener tuttavia salva l'antica concordia fra i due stati. Furono anche spediti dispacci indirizzati a lui a Costantinopoli, come se già fosse partito, ed avviato a quella volta.

Intanto con grandissimo apparato si provvedevano le cose necessarie alla spedizione. Concorrevano sì da Francia che da Italia, uomini, navi, armi e provvisioni di ogni sorte a Tolone, dove si era condotto Buonaparte per soppravvedere e sollecitare. Era egli poco innanzi stato tratto membro dell'Instituto, e con tale qualità ne' suoi dispacci s'intitolava, volendo conciliarsi gli animi degli scienziati, e dei letterati di Francia, che aveano grande autorità nelle faccende, e si mostravano molto invidiosi del dominio militare. Voleva altresì, che gli uomini si persuadessero, che quantunque soldato, ed uso alle guerre, era non ostante protettore della civiltà, e di chi la fomenta. Ciò importava anche alla spedizione in un paese, antico fonte del sapere. Imbarcaronsi pel medesimo fine alla volta dell'Egitto molti scienziati di chiaro nome in Francia. Ma l'Inghilterra dall'un de' lati favoreggiando Buonaparte, e sollecitando le sue passioni più vive, dall'altro nutrendo gli smisurati desiderj, ed i sospetti del direttorio, aveva riuscito ad un fine molto utile per lei, quello di metter discordia tra Francia e Turchìa, d'abilitar la Russia ad unirsi coll'Austria, di aprir l'occasione all'ultima di levarsi a nuova guerra, di sviare da' proprj lidi una gran tempesta, di privar la Francia de' suoi migliori capitani e soldati, di avventurare in mari lontani il potente navilio Francese, ed insomma di fare in modo che l'Europa tutta si turbasse di nuovo con grandissimi movimenti. Questa fu una delle opere più memorabili di Guglielmo Pitt.

Salpava l'armata Francese, che portava con se tante sorti, avviandosi verso Levante. Pareva ai repubblicani, ed era veramente l'isola di Malta molto opportuna al dominio d'Africa e d'Europa. Massimamente poteva la sua possessione facilitare a chi l'avesse, la conservazione dell'Egitto, ed i traffichi del commercio del Levante, ai quali allora mirava, come a cosa di somma importanza, la Francia. Era oltre a ciò manifesto, che chi fosse padrone di Malta, ed avesse forze considerabili sul mare, poteva facilmente turbare Sicilia e Napoli. Grande fomento, e scala già davano a questo disegno l'essersi i repubblicani fatti padroni di Roma, ed il romoreggiare, che vi facevano con tanto strepito per mezzo di quei principj, coi quali si sforzavano di persuadere che i re fossero detestabili, le repubbliche desiderabili, le rivoluzioni felici.

Da Roma potevano facilmente sommovere con le parole, sovvertire con la forza gli stati di terraferma di Napoli, da Malta la Sicilia. Già fin dai tempi d'Italia aveva Buonaparte applicato l'animo alla conquista di Malta. I suoi agenti, fra i quali il primo in questa macchinazione, e il più principale fu Regnault di San Giovanni d'Angely, uomo d'ingegno vasto, di cuore astuto, e di parlatura molto spedita, l'avevano reso sicuro, che con seicento mila franchi si poteva aver l'isola. Nè è da passarsi sotto silenzio, che i cavalieri di Malta, in ciò molto degeneri dai loro antecessori, attendevano piuttosto al vivere agiatamente, usando le ricchezze loro in mezzo ai cristiani, che al combattere virilmente sulle navi contro i Turchi. Per la qual cosa, oltre l'efficacia del denaro, infame per chi lo dà e per chi lo riceve, si prevedeva, che l'isola non avrebbe fatto una forte resistenza a chi l'assaltasse. Così Buonaparte accostandosi a Malta, tanto forte propugnacolo, e che con tanto valore aveva retto contro tutte le forze di Solimano imperatore dei Turchi, andava ad una impresa certa; che senza dubbio in tanta pressa per la fazione d'Egitto, non si sarebbe, senza una tale sicurezza arrischiato a tentare un fatto, che gli poteva riuscire lungo e difficile.

S'appresentava sul principiar di giugno in cospetto della contaminata Malta la repubblicana armata. Portava forti armi, e corruttele ancor più forti. Aveva Buonaparte condotto con se alcuni antichi cavalieri, che abbandonata l'isola, si erano poco innanzi condotti ai soldi dei repubblicani, e loro ajutavano all'eccidio della loro antica compagnìa. Avevano pratica col cavaliere Bosredon di Ransijat, segretario del tesoro dell'ordine, tocco dalle nuove opinioni. Chiedeva il generale repubblicano l'entrata sotto pretesto di far acqua: gli fu risposto, entrasse, ma con due navi solamente. Finse di averla per male, e sbarcato nella cala San Giorgio, servendogli di guida i fuorusciti Maltesi, assaltava le opere esteriori delle fortificazioni. Fu debolissima la difesa; nè i cannoni entro i luoghi loro, nè le munizioni piene, nè i soldati confidenti; che anzi essendo stata fra di loro seminata discordia da coloro, che s'intendevano coi Francesi, combatterono debolmente e scompigliatamente, temendo di essere traditi. La Valletta poteva ancor tenersi per la fortezza del luogo, ancorchè le difese non fossero apprestate; ma da una parte le corruttele operavano, dall'altra le femmine, i fanciulli, i fuggitivi di ogni grado e di ogni condizione, che dalle campagne si erano ricoverati in città all'apparire del nemico, facevano un gran terrore. Convocava Ferdinando Hompesch, gran maestro, la dieta dei cavalieri, ma non piena, perchè nè i più vecchi furono chiamati, senza dei quali nissuna deliberazione d'importanza, secondo gli statuti dell'ordine, si poteva fare, nè i più valorosi, nè i più fedeli; perchè nè il balìo di Tigny, nè Gurgeo, nè Clugny, nè Tillet, nè Bellemont, nè Loras, nè La Torre San Quintino, nè La Torre del Pino con altri di più chiaro nome, comparvero, non avendo avuto invito dal gran maestro. Indotti i più, piuttosto dalle speranze che dai timori, deliberavano di domandar tregua; poi giunto presso il gran maestro Marmont, si risolvevano del tutto alla dedizione sotto la mediazione di Spagna. Convennero le due parti nei seguenti capitoli; i quali chi vorrà considerare, facilmente si persuaderà, che se fu ignobile la resa per le sue cagioni, non fu meno brutta la capitolazione pei premj, che vi si stipularono. Rimettessero i cavalieri dell'ordine di San Giovanni Gerosolomitano ai Francesi la città ed i forti di Malta, rinunziando in favore della repubblica di Francia alla proprietà, ed alla sovranità ch'essi avevano su quell'isola, e su quelle di Gozo e di Comino; usasse la repubblica la sua autorità presso il congresso di Rastadt, perchè il gran maestro, sua vita durante, conseguisse un principato almeno uguale a quello ch'ei perdeva, e di più essa repubblica si obbligasse a dargli per sostentazione della sua vita, una pensione di trecentomila franchi annui, e due anni anticipati della pensione per compenso del suo mobile; avessero i cavalieri Francesi dalla repubblica una pensione di settecento franchi, i sessagenari di mille; facesse la repubblica ufficio presso la Ligure, la Cisalpina, la Romana, e l'Elvetica, perchè i cavalieri Liguri, Cisalpini, Romani, e Svizzeri ottenessero la medesima provvigione; conservassero i beni propri in Malta; procurasse la repubblica presso tutti i potentati d'Europa, che i beni dell'ordine fossero conservati ai cavalieri di ciascuna lingua; la religione si serbasse salva, ed intatta.

Il dì dodici giugno furono posti in poter dei Francesi i forti Emanuele, e Tigny, il castello Sant'Angelo, le opere della Bormola, della Cottonara, e della città vittoriosa. Il tredici, i nuovi signori presero possessione del forte Ricasoli, del castello Sant'Elmo, delle opere della Valetta, e di Floriano. Trovarono due navi da guerra, quattro galere, dodici centinaja di cannoni, munizioni in copia. Fecero il gran priorato di Malta, ed altri cavalieri dell'ordine adunati in Pietroburgo una solenne protesta contro la dedizione, tacciando Hompesch d'improvvidenza, di viltà, e di perfidia, e ritirandosi dall'obbrobrio, in cui affermavano essere meritamente incorsi Hompesch medesimo, Ransijat, San Tropez, ed altri dei loro compagni.

Venuto Buonaparte in possessione di un'isola tanto importante, vi creava un governo temporaneo, di cui fe' capo Bosredon di Ransijat. Poi veniva agli esilj ed alle espilazioni. Bandiva i cavalieri dall'isola, e fra di loro Hompesch, che se n'andò in Germania a vivere una vita ignorata, poichè onorata non la poteva più vivere. Ordinava Buonaparte, usando in questo l'opera del chimico Berthollet, che s'involassero gli ori, gli argenti, e le pietre preziose, che si trovavano nella chiesa di San Giovanni, ed in altri luoghi dipendenti dall'ordine di Malta, eccettuati solo quelli, che fossero necessari alla celebrazione dei riti, e così le argenterìe degli alberghi, e quella del gran maestro; gli ori, e gli argenti si convertissero in verghe, ed ogni cosa si serbasse pei servigi dell'esercito.

Quasi al tempo stesso l'isola di Gozo s'arrendeva al generale Reynier, mandatovi a posta da Buonaparte. Poscia il generalissimo, partendo dall'espilata isola con tutta l'armata, si avviava ai suoi destini d'Egitto. Lasciava Malta al governo di Vaubois, tanto onorato uomo, quanto valoroso soldato. Vi lasciava anche quel Regnault ambidestro, tanto favellatore egregio, quanto amministratore superbo. La più rara suppellettile, e fra questa la spada del gran mastro, e le bandiere dell'ordine, poste sulla fregata la Sensibile, s'incamminavano alla volta di Francia. Ma incontrata la nave dagl'Inglesi, fu presa, e le preziose conquiste condotte in Inghilterra. Erano sulla fregata Baraguey d'Hilliers, ed Arnault: accusò Arnault della perdita della nave la viltà dei forestieri. Nel che è da sapersi, che questi forestieri altro non erano, che galeotti napolitani liberati da Buonaparte dalle galere di Malta, e posti da lui, non so con qual decoro, a governar la Sensibile. La conquista di Malta, tanto conforme alle sorti fino allora continuate della repubblica di Francia e di Buonaparte, empiè di maraviglia l'Europa, di timore l'Austria, di spavento Napoli. Solo gl'Inglesi, che avevano il navilio intero, e d'invitta fama, non se ne sgomentarono; anzi dimostrando animo maggiore, quanto più grave era il pericolo, si preparavano al gran contrasto.

Giunto Buonaparte sui lidi Egiziani, e con tutta felicità sbarcatovi, s'impadroniva di Alessandria: poscia con pari felicità procedendo s'insignoriva dei luoghi più importanti e più forti di quella contrada. Non è disegno nostro il descrivere l'Egiziana guerra, siccome quella, che troppo è lontana dalle cose d'Italia. Solo ci piace raccontare, poichè per lei si cambiò lo stato d'Italia, e fu avvenimento tanto grave per tutta Europa, la battaglia navale di Aboukir.

Avevano gl'Inglesi, come abbiam narrato, notizia anticipata della spedizione d'Egitto, ed avuto anche presto avviso della partenza dell'armata da Tolone, siccome quelli che stavano molto all'erta, con tanta celerità la seguitarono, che arrivarono alle bocche del Nilo prima dei Francesi; nè avendogli trovati, si erano andati aggirando pel Mediterraneo con isperanza d'incontrargli, e di combattergli. Nè ciò venendo loro fatto, tanto sicura notizia avevano dell'intento dei Francesi, di nuovo voltavano le vele verso le egiziane spiaggie. Correva il giorno primo d'agosto destinato dai cieli ad una delle più aspre, e più terminative battaglie, che il furore degli uomini abbia mai fatto commettere, e di cui vi sia memoria nei ricordi delle storie, pieni per altro di tanti spaventevoli accidenti. Viaggiava con l'armata Britannica il vice ammiraglio Nelson, al quale dall'ammiraglio San Vincenzo era stato commesso il carico di cercare, e di combattere l'armata Francese, ed a piene vele solcava il mare verso Alessandria d'Egitto, quando tra le una e mezzo, e le due ore meriggiane del sopraddetto giorno scopriva l'armata di Francia sorta in sull'ancore nella cala d'Aboukir, ed ordinata alla battaglia. Scoversero al tempo medesimo i Francesi la vegnente armata nemica, e questa e quella sollevando gli animi all'importanza del fatto, che stavano per commettere a difesa e gloria delle patrie loro, si preparavano al cimento. Noveravansi nell'armata Inglese tredici navi, ciascuna di settantaquattro cannoni, ed erano quest'esse: la Vanguardia, nave capitana, su cui sorgeva Nelson, l'Orione, il Culloden, il Bellerofonte, il Golia, il Zelante, il Minotauro, la Difesa, l'Audace, il Maestoso, il Presto, ed il Teseo. A questi si trovavano congiunti il Leandro di cinquanta cannoni, e la fregata la Mutina di trentasei: insomma mila e quarantotto cannoni. Tutto questo navilio governavano meglio di ottomila eletti marinari.

Erano nell'armata di Francia una nave grossissima, stanza dell'almirante, nominata l'Oriente, tre di ottantaquattro, il Franclino, il Tonante, il Guglielmo Tell, nove di settantaquattro, il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, il Felice, il Timoleone, il Mercurio, il Generoso, con la Diana, fregata di quarantotto, la Giustizia, fregata di quarantaquattro, l'Artemisia, e la Seria, ambedue di trentasei: insomma mila e novanta cannoni per armi, circa diecimila e novecento marinari per governo; imperciocchè i Francesi sono sempre soliti ad empiere le loro navi di maggior numero di gente. Aveva il supremo governo di tutto questo fiorito navilio l'ammiraglio Brueys, capitano delle faccende navali espertissimo, e d'animo non minore della sua perizia. Si era egli, dopo di avere svernato con parte delle suddette navi nel porto di Corfù, condotto a Tolone per alla fazione d'Egitto, avendo Buonaparte in lui preso somma confidenza. Ma la condizione delle due armate era l'una dall'altra molto diversa. Veleggiava per l'alto mare la Inglese, mentre la Francese sorta sull'ancore sprolungava il lido da maestro a scirocco. Accresceva la sua sicurezza l'isoletta di Aboukir, ma però un po' troppo lontana, per potere con molta efficacia difendere il passo; era posta a capo della fila, e munita di artiglierìe. Alcune più piccole navi provvedute di bombarde, e che fra le altre erano fatte stanziare, davano maggior nervo all'armata. Questo modo di combattere aveva eletto l'ammiraglio della repubblica per non privarsi del tutto degli ajuti di terra, e perchè prevaleva per la grossezza delle navi, e pel numero dei combattenti. Le quali condizioni essendo per lui migliori, non voleva esporsi al pericolo, che in una battaglia a vele, ed in tutto navale, nel qual modo di combattere tra armata ed armata sogliono gl'Inglesi, per la precisione e prestezza delle mosse, avere il vantaggio, si pareggiassero. Poi, usando i Francesi di trarre con le artiglierìe loro nel corpo delle navi nemiche, era manifesto che i tiri meglio sarebbero aggiustati, e maggior colpo farebbero, scagliati da navi sull'ancore, che da navi sulle vele. Così egli si prometteva una probabile vittoria, poichè i suoi soldati essendo animosissimi, non aveva, in tale modo combattendo, cagione di temere che il coraggio loro venisse sopraffatto dalla maggior perizia degl'Inglesi. Spirava il vento da maestro, volgendosi un poco verso tramontana-maestro. Non così tosto l'ammiraglio Inglese scoverse l'armata Francese, che diè il segnale della battaglia, ordinando alle navi, che s'accostassero tutte al nemico, chi più presto, il meglio. Dalla parte sua Brueys fe' salire incontanente i marinari delle navi minori sulle maggiori, e sprofondava un'ancora di più, acciocchè le sue navi fossero più ferme, e i suoi si persuadessero, che quello era il luogo, in cui per loro abbisognava o vincere o morire. Egli poscia si pose co' suoi migliori ufficiali a velettare sulla gabbia dell'Oriente, sito pericolosissimo, perchè gl'Inglesi usano di tirare in alto nelle vele, e nel sartiame. Si scagliavano gl'Inglesi con impeto grandissimo contro l'antiguardo, e contro il mezzo dell'armata nemica, i quali con tutte le artiglierìe di poggia fulminando, ferocemente gli ributtarono, non senza aver loro recato danni gravissimi. In questo primo incontro le artiglierìe dell'isoletta ajutarono non poco l'opera delle navi. Tornarono gl'Inglesi all'urto un'altra volta, e sarebbe stata la battaglia più lunga e più pericolosa per loro, poichè Nelson si ostinava in voler dar dentro al petto dell'armata nemica, che se gli scopriva per poggia, se al capitano Foley del Golìa non fosse avvenuto l'audacissimo pensiero di ficcarsi, girando attorno alla punta dell'antiguardo Francese, tra il lido e l'armata nemica, donde ne avveniva, che i Francesi, perdendo il vantaggio di poter essere assaliti solamente da una parte, cioè da poggia, potevano, fra due tempeste di fuoco e di palle trovandosi, essere fulminati da ambe le parti, cioè da poggia, e da orza. Pensollo, e fecelo anche con ardire, e perizia inestimabile Foley. Consideratasi dagli altri l'importanza di questa mossa, che tanto vantaggiava le sorti degl'Inglesi, il Golìa fu prestamente seguitato dal Zelante, dall'Orione, dal Teseo, dall'Audace, e finalmente dalla Vanguardia, vascello almirante. Nè così tosto erano per tal modo trapassati a orza dei repubblicani, che, gettate le ancore, incominciavano a trarre con una furia incredibile.

Al tempo stesso le altre navi Inglesi, poichè non potevano esser molestate dalle navi del mezzo e del retroguardo nemico, che sull'ancore più dietro erano sorte, si arringavano a poggia delle Francesi, e con furiosi tiri le tempestavano. Così tutto l'antiguardo Francese, e parte della mezza fila, che erano il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, e l'Aquilone, combattuti da ambi i lati travagliavano grandemente, quantunque sulle prime con molto valore si difendessero. Ma sopraffatti da quella prepotente forza, rotti, fracassati, disalberati, ed incapaci di muoversi a volontà, non che mareggiare con disegno, si arrenderono. Il vento in questo, che continuava a soffiare da maestro, sospingeva il fumo di tante artiglierìe sulla mezza schiera, e sul retroguardo Francese, e tutto, qual foltissima nebbia, l'ingombrava, nebbia, che solo era rotta dai foschi lumi delle tiranti artiglierìe. Era lo spettacolo orrendo; i Francesi, che si trovavano in terraferma, ansj del fine, che tanto grave era per la patria loro, ascesi sui luoghi più alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così la specola, e le torri d'Alessandria, così i terrazzi, e le logge di Rosetta, e la torre di Abul-Maradur, distante un tiro di cannone da questa città, erano piene di repubblicani, paventosi a quello che vedevano, ed a quello che udivano. Al tempo stesso gli Arabi si erano sparsi sul lido, condotti parte dalla contentezza di vedere i repubblicani, cui molto odiavano, in sì grave pericolo, parte dalla speranza di avergli a svaligiare, quando cercassero di ricoverarsi a terra. Pareva, che non si potesse aggiungere terrore ad uno spettacolo già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e sì grosse artiglierìe. Eppure una nuova scena si scoverse piena ancora di maggiore spavento. S'era fatto notte; il Bellerofonte s'attaccava con l'Oriente. Ma questa enorme mole con un fracasso orribile lo teneva lontano, e tanto lo conquassava, che poco più sarebbe andato a fondo. Sopraggiungeva in questo mentre l'Alessandro, che trovatosi più vicino ad Alessandria aveva tardato ad arrivare, e si metteva tosto a bersagliare ancor esso l'Oriente. Il Leandro, che era stato compagno all'Alessandro, giuntosi col medesimo, assaltava il Popolo sovrano, ed il Franclino. Poi altre navi Inglesi si avvicinavano ai vascelli Francesi, che tuttavia combattevano, poichè, vinta la vanguardia, era fatto loro facoltà di girsene ad assaltare le navi della fila mezzana. Così l'Oriente, ed i suoi due vicini il Franclino ed il Tonante, si trovarono ad un tempo stesso bersagliati da tutte parti. L'ammiraglio Brueys, che in tanto estremo accidente aveva compito tutte le parti di esperto ed animoso capitano di mare, ferito prima nel capo e nella mano, fu finalmente da una palla diviso in due a mezzo il corpo. Casabianca, capitano dell'Oriente, ferito gravemente ancor egli, era stato costretto a lasciare l'ufficio. In mezzo a quel tumulto ecco gridarsi sull'Oriente, ch'egli ardeva. Nè v'era modo a spegnere; le trombe rotte, le secchie fracassate, gli uomini fuor di mente toglievano ogni speranza. La scheggia, e le palle Inglesi continuavano a tempestare. Ardeva l'Oriente, tanto bella e tanto potente nave, ed ardendo spargeva fra quelle tenebre tutto all'intorno un funesto chiarore. Davano opera gl'Inglesi ad allontanarsi, perchè nella finale ruina di quella mole smisurata temevano l'ultimo sterminio. Infatti verso le dieci della sera con un rimbombo, che parve più che di grossissimo tuono, e con un incendio, come quando il cielo di nottetempo pare tutto acceso da non interrotte folgori, scoppiò. Successe a tanto caso, per lo spavento e per lo stupore, per ben dieci minuti un subito ed alto silenzio. Le navi così vicine come lontane, ravviluppate da fumo, da tizzoni, da rottami d'ogni sorte, non si vedevano, nè senza fatica poterono preservarsi dalle circondanti fiamme. Poi le artiglierìe rincominciarono lo strazio, massime dal canto degl'Inglesi, che non volevano, che l'opera della distruzione della flotta Francese restasse imperfetta. Continuossi per tal modo a trarre sino alle tre del seguente giorno, momento, in cui fu forza far tregua, perchè la stanchezza prevalse al furore.

Quando poi incominciò a raggiornare, quanto si scoperse diverso l'aspetto delle cose da quello, ch'era stato prima che la battaglia incominciasse! Due flotte per lo innanzi fioritissime, acconce, preste, piene di gente allegra ed intera, risuonanti di grida liete, e festose, ora rotte, lacere, tarde, sanguinose, arse, piene di morti, di moribondi, di gemiti spaventosi e compassionevoli. Nissuna reliquia dell'arso Oriente; la fregata la Seria gita a fondo mostrava solo la cima degl'infranti alberi; le navi Francesi, il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, ed il Franclino disalberate, ed in poter d'Inghilterra; il Felice, ed il Mercurio dato di fianco negli scogli; il Tonante privo di tutti i suoi alberi, l'Artemisia in fiamme, il Timoleone gito di traverso. Solo intere si osservavano le due navi del retroguardo il Guglielmo Tell ed il Generoso, con le due fregate la Diana e la Giustizia. Degl'Inglesi il Bellerofonte casso di tutti i suoi alberi, un altro in pari stato, uno col solo artimone, tutti laceri e fracassati, ma non tanto che non potessero ed armeggiare, e mareggiare. Si scagliavano contro il Felice, il Mercurio, il Tonante, ed il Timoleone naufraghi, e se gli prendevano. Poi facevano forza d'impadronirsi del Guglielmo Tell, del Generoso, e delle due fregate superstiti; ma tutte queste navi, spiegate prestamente le vele, e preso dell'alto, andarono a salvamento, la prima governata da Villeneuve, capitano che era stato della fregata la Giustizia, a Malta, la seconda a Corfù. Quest'ultima, strada facendo, si prese il Cavallo marino, grossa nave d'Inghilterra, e lo condusse con se nel porto dell'isola. Era il Generoso al governo di la Joailles, capitano, se mai alcuno fu al mondo, di estremo valore, e le cose che fece con quel suo Generoso sono piuttosto incredibili, che maravigliose. Pure era di cortese tratto, e di facile e mansuetissima natura. La Giustizia, fregata la più veloce corridora di tutto il navilio Francese e forse del mondo, si salvò facilmente; la Diana, più tarda, difficilmente. Non poterono gl'Inglesi seguitare le fuggenti navi, perchè avevano le proprie rotte, e sdruscite dalla battaglia. Dei Francesi, chi fu raccolto dagl'Inglesi, chi fuggì verso Alessandria sui leggieri palischermi. Ma quelli che si gittarono al lido, venuti in mano degli Arabi, furono con ogni strazio condotti a morte: quegli scogli strani grondavano Francese sangue. Dei Francesi mancarono in questa battaglia tra morti, feriti e prigionieri circa ottomila, fra i quali i morti sommarono a quindici centinaja. Furono i feriti e i prigionieri dall'ammiraglio Inglese, sotto fede di non guerreggiare contro l'Inghilterra fino agli scambi, liberati, e mandati in Alessandria. Perdettero gl'Inglesi fra feriti ed uccisi circa novecento soldati, fra i quali molto desiderarono un Wescott, capitano del Maestoso. Fu accagionato Brueys, come si usa nelle disgrazie, anche da Buonaparte, dello avere stanziato troppo più lungamente che si convenisse su per quelle spiagge infedeli. Scrisse anzi il generalissimo, che questo soprastamento aveva fatto l'ammiraglio contro i suoi ordini, poichè, come allegò, gli aveva comandato, che si ritirasse tosto a Corfù. Altri al contrario scrivono, avere voluto Brueys, che conosceva il pericolo, partirsene per Corfù, ed essere stato impedito da Buonaparte, che gl'impose di restare, perchè non voleva privarsi del sussidio della trasportatrice armata innanzi che avesse fermato con vittorie di momento il piede in Egitto. Ciò non mi ardirò di affermare, non avendone alcuna testimonianza certa. Bene non si può scusare Brueys dello aver lasciato l'adito aperto, perchè gl'Inglesi si potessero recare a ridosso della sua armata; poichè, quando a lui si scoperse il nemico, o doveva, salpando tostamente, e dando le vele al vento, condursi a combattere in alto mare, o se fermo sull'ancore voleva combattere, esplorar bene le acque frammesse tra la sua vanguardia e il lido, e trovatele profonde a dar passo a navi grosse da guerra, mettersi in altro sito, o serrarle con altri avvisamenti; poichè si vede, che l'esser passati per quello stretto ad orza dell'armata Francese, diè del tutto agl'Inglesi vinta una battaglia, che altrimenti sarebbe stata per loro assai pericolosa e dubbia. Dall'esito di lei nacquero altre sorti in Europa.

La rivoluzione di Roma, e la presa di Malta, per cui i repubblicani si erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli, avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di Francia avesse fatto pensieri sinistri anche contro quella estrema parte d'Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e di spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova, Milano, Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello stato Romano. Ciò non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo aveva timore, che il re di Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa contro di lui. Pertanto, siccome quello che voleva temporeggiare per vedere quale via fosse per pigliare la spedizione d'Egitto, e qual effetto partorirebbe sui principi d'Europa, e sul governo Ottomano, aveva mandato ambasciatore a Napoli Garat, letterato di molto grido in Francia, per rendere il re persuaso, che l'amicizia della Francia, verso di lui era sincera e cordiale. Ma il fatto stesso era contrario alle parole, perchè sebbene Garat fosse di dolce e pacifica natura, aveva ciò non ostante molto capriccio sulle rivoluzioni di quei tempi, parendogli, che all'ultimo avessero a produrre qualche gran benefizio all'umanità. Era anche in questo un altro particolare, per cui il direttorio, se avesse avuto animo più civile, o Garat mente meno illusa, avrebbero dovuto, quello non dare, questo non accettare il carico di Napoli, dove regnava Carolina d'Austria. Certo è bene, che il suo arrivo dispiacque grandemente alla regina; e da un altro lato i novatori molto si confortavano nei pensieri loro di mutar lo stato, perchè egli aveva nome di essersi mescolato nella rivoluzione di Francia. Favellava Garat nel suo ingresso al re parole di pace, di filosofia, di umanità. Favellava per verità molto tersamente, siccome accademico.

Disse, che era mandato per conservar la pace fra i due stati; che il direttorio della repubblica Francese così trattava con le altre nazioni d'Europa, come reggeva i Francesi; cioè con la giustizia, e che gli alti fatti, di cui suonava l'Europa, ciò dimostravano. Continuava, avere la repubblica Francese, allorchè più era potente e più gloriosa, dato la pace a' suoi nemici, quando già vinti ed inermi offerivano, non più ostacoli, ma frutti; l'independenza, e la libertà (queste cose io rapporto per dimostrare ai posteri o la semplicità, o la illusione di Garat) essere state recate a nazioni tra folgori, che parevano avere a recar loro il giogo della conquista, trattati essere stati fatti con potenze nemiche del nome repubblicano; essere questa tolleranza politica il segno di pace per le attuali generazioni d'Europa; mostrarlo la moderazione nella forza, di quella forza, che di per se stessa s'arresta, dove non è più che una giustizia invincibile, che pianta avanti a se termini, che niuna cosa che al mondo sia, potrebbe opporgli. Poscia l'ambasciadore chiamava il re virtuoso e buono, l'Inghilterra schiava dentro, tiranna fuori, la Francia libera, clemente e felice, la repubblica onnipotente per la libertà, savia per le disgrazie: per tutte queste cose rappresentare averlo mandato il direttorio. Finalmente parlava al re di filosofia, di volcani, di lave, di globi sconquassati in questi termini: «Non già perchè io mi sia andato ravvolgendo sotto i portici, dove si usa la ambizione e si cerca il favore, il direttorio mi ha inviato con mandato straordinario presso di voi; che anzi piuttosto io non vissi mai, che nelle silenziose campagne, ne' licei, e sotto i portici della filosofia; e quando le rivoluzioni, ed una repubblica a voi mi mandano con comandamenti, che possono tornare in pro di molti popoli, la fantasia mi rappresenta quei tempi antichi, in cui dal grembo delle repubbliche della Grecia partendo filosofi, che solo un nome si avevano acquistato, perchè avevano imparato a pensare, su questi medesimi lidi, su questo continente stesso, su queste isole erano venuti recando i desiderj loro per la felicità degli uomini: fecervi parecchi del bene, tutti vollero farvene: nè voti, e desiderj disformi da questi io avere posso, nè il direttorio della Francese repubblica m'intimava. Debbono questi voti, e questi desiderj inspirati essere a tutte le potenze da tutte le voci, che hanno efficacia negli uomini, debbonlo in nome del cielo, debbonlo in nome della natura; e parmi, o re, che in questi luoghi, dove voi regnate, fra gli accidenti più stupendi del cielo e della terra, su questo suolo, ammasso magnifico di reliquie dalle rivoluzioni del globo conservate, vicine a questi volcani, le cui bocche sempre aperte, e sempre fumanti rammentano quelle lave ardenti che buttate hanno, e di nuovo butteranno, parmi, dico, o Sire, che, o che in repubblica si viva, o sotto l'obbedienza di un re, l'uomo dee, più che in altro luogo, amare di raccomandare ai posteri per qualche beneficio fatto agli uomini una vita tanto fugace, e tanto incerta».

Questo così solenne e squisito parlare teneva l'ambasciadore Garat ad un re, che secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che di pesca, di caccia, e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di queste squisitezze accademiche, stava come attonito, e non sapeva come uscirgli di sotto.

Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il nove di maggio, l'ambasciatore a complir con la regina, favellandole dei desiderj di pace del direttorio, dei pensieri buoni, e delle virtù di Giuseppe, e di Leopoldo, suoi fratelli, come se le riforme fatte nello stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli ammaestramenti pieni di umanità, e di dolcezza dati alle genti dai filosofi Francesi, che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di Francia a quel tempo.

Queste cose sapeva, e queste sentiva Garat, perchè nissuno più di lui ebbe i desiderj volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide, migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in un deserto, che comparire, qual messo di tiranni. Intanto si passava dai complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda; perchè, contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati, nissuna voleva la pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per correre all'armi: nè il direttorio voleva lasciare quelle Napolitane prede, nè il re di Napoli poteva tollerare, che la democrazìa sfrenata romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio, che il re si era molto sdegnato, dappoichè Berthier, e l'incaricato d'affari a Napoli l'avevano richiesto con insolente imperio, che cacciasse da' suoi regni tutti i fuorusciti Corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo, che volevano occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa, il solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora, dei soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte, solo consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio, volendo mitigare l'amarezza, e lo sdegno concetto da Ferdinando per le insolenze de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciar la cosa. Perlochè si venne ad un accordo, pel quale si stipulò, che i Francesi ritirerebbero parte delle loro genti dai confini Napolitani, che la repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che Benevento e Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in mano del re: ma il re, non si fidando delle dimostrazioni d'amicizia più sforzate che spontanee, di coloro che contro la fede data o conquistavano per forza, o sovvertivano per inganno, aveva con ogni più efficace modo armato il suo reame. Ordinava, che di cinque regnicoli uno andasse soldato; che ogni cinque frati o monache dessero, vestissero, ed armassero un soldato; che ogni chierico provvisto d'un beneficio di mila ducati d'entrata parimente fornisse un soldato; richiedeva finalmente i baroni del regno, perchè levassero al modo stesso, ed assoldassero un grosso corpo di cavallerìa. Queste provvisioni recate ad effetto non senza qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero il numero dell'esercito sino in ottanta mila soldati. E siccome il dispendio per mantenere un'oste sì numerosa era gravissimo, così il governo aveva posto mano nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto certi dazi, e perfino raccolto le argenterìe delle chiese non del tutto necessarie alla celebrazione dei riti religiosi. Già le truppe si avviavano ai confini, e un gran corredo di artiglierìe si era mandato a guernire le fortezze, principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque poi l'ambasciatore Garat non cessasse d'inculcare al direttorio, che i soldati Napolitani, per bene armati e bene vestiti che fossero, sembravano piuttosto gabellieri o frodatori, che buoni soldati, non se ne stava il direttorio senza apprensione, trovandosi privo in Italia de' suoi migliori soldati, e del suo miglior capitano, e non sapendo a qual partito sarebbe per appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava minacciosa e renitente. Garat, o che solo volesse scoprire le vere intenzioni del re, o che credesse intimorirlo, siccome quegli che aveva la mente molto accesa sulla potenza della sua repubblica, gl'intimava, non senza le solite parole superbe, che disarmasse, e riducesse l'esercito allo stato di pace. Confidava, che Ferdinando sarebbe calato a condiscendere, perchè reggeva allora, fra gli altri ministri, lo stato il marchese del Gallo, che aveva indole propensa pei Francesi, e siccome uno dei negoziatori del trattato di Campoformio, si conghietturava, che avesse pensieri favorevoli alla pace. Dispiacquero e la domanda, e la forma di lei: se ne dolse il Napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo di Garat. Aggiunse, o vero si fosse o supposto, che egli si era mescolato coi novatori, dando loro promesse, o stimoli troppo poco convenienti alla qualità di ambasciadore. Attribuiva verisimile colore alle allegazioni la domanda fatta dall'ambasciadore, perchè si liberassero i carcerati per delitti di stato.

Il direttorio, che non era ancora ben sicuro delle cose d'Egitto e d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe San Michel, repubblicano assai vivo, ma più cupo, e non tanto favellatore, quanto il suo antecessore. Era il suo mandato, che temporeggiasse ed accarezzasse; poi quando fosse venuto il tempo, fortemente insistesse, perchè Napoli cessasse da ogni preparamento ostile, e si rimettesse nuovamente nella condizione di pace. Dal canto suo il re, che non vedeva fra tante cupidigie e tante fraudi altra salute per lui, che le armi, non solo non cessava da loro, ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo avute le novelle d'Egitto, tanto più volentieri, e più pertinacemente si risolveva, quanto più gli era ignoto, che la Francia era contro di lui molto sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla fama della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Aboukir. Parve, che Napoli tutta, e tutto il regno in quel trionfo Inglese trionfassero, tanti furono i rallegramenti e le feste. La nappa stessa Inglese in tanto ardore fu inalberata da quei popoli comunemente, e tutti esclamavano, essere giunto il tempo della vendetta Napolitana, e della rovina Francese. Ferdinando stesso era andato ad incontrar sul mare Nelson vittorioso, quando se ne venne a Napoli per racconciar le navi rotte nella battaglia, ed il condusse al suo palazzo a guisa di trionfatore fra l'accolta moltitudine, che non cessava di gridare, viva Nelson, viva l'Inghilterra! Poi gli fece copia, a racconcio delle navi, delle sue armerìe ed arsenali. Come queste cose sentisse la Francia repubblicana, ciascuno sel può pensare. Pure se ne stava aspettando, serbando l'ira e la vendetta a tempi più favorevoli; ed anche l'infortunio di Aboukir l'aveva se non intimorita, fatta più cauta. Così era in Napoli volontà di guerra, ed era anche in Parigi, ma più coperta.

In questo mezzo tempo le macchinazioni Inglesi avevano sortito l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni delle corti Europee presso al Divano avevano per modo operato, che la Porta Ottomana si era scoperta nemica alla Francia, e le aveva intimato la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la Francia. Erano l'esercito Italico, ed il suo capitano, l'uno e l'altro tanto formidabili, in paese lontano senza speranza di poter tornare a soccorrere la patria loro nei campi di Europa. La guerra di Turchìa con Francia toglieva il timore, che la prima potesse adoperarsi in favore della seconda ed apriva l'adito sicuro alla Russia di correre in aiuto dell'Austria. Stipulavasi anche per le medesime cagioni, e per maggiore sicurezza della Russia, un trattato di pace, e d'alleanza tra lei e la Turchìa. Già le schiere Moscovite s'incamminavano alla volta di Germania: Paolo imperatore si versava con tutto l'empito suo contro Francia. Si sapeva oltre a ciò, che gl'Italiani erano sdegnati per le esorbitanze dei repubblicani; che gli Svizzeri erano molto più, e si sperava, che lo sdegno di questi popoli fosse per riuscire di non poco aiuto alla guerra. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore aveva fondato, cessato il terrore, s'accostava alla sua ruina.

Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre a questo, che tutte le genti Francesi, che allora erano in Italia raccolte insieme, non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che i repubblicani già inferiori di numero, erano dispersi quà e là nei presidj della Cisalpina, dello stato Veneto, del Piemonte, e della Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter far la guerra da se con frutto contro la Francia, senza aspettare il tempo, in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria e la Russia, avrebbero potuto venire in suo soccorso. Aveva anche udito le novelle, che per la lega fatta tra la Russia e la Turchìa, le flotte confederate, passati i Dardanelli, arrivavano alle fazioni dell'Jonio contro gli occupatori delle isole Veneziane poste in questo mare. Gli pareva altresì da non doversi lasciar raffreddare la fama della vittoria d'Aboukir, e la presenza del vincitore Nelson, che col suo consiglio, e con la sua forza si dimostrava pronto ad aiutar l'impresa, grandemente il confortava a cominciarla. Accrebbero questi desiderj le novelle, che gl'isolani di Malta si erano ribellati ai Francesi, e tolto loro l'uso della campagna, gli avevano sforzati a ritirarsi alle fortezze. Alla risoluzione medesima inclinava Napoli pensando, che se facesse da se, coglierebbe maggiori frutti della vittoria, perchè la cupidigia di aver Fermo con alcune altre terre della Marca, e la speranza di aversi a liberare dalle pretese della santa sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma, non gli erano ancora uscite di mente. Finalmente aveva testè udito, che i Francesi, che si erano accorti dei moti di Napoli, e dei nuovi pensieri dei principi contro di loro, erano venuti nell'antica deliberazione del direttorio di farsi signori della Toscana, e di porre anche le mani addosso al gran duca, se a tale estremo gli accidenti gli sforzassero. Nè si dubitava, che i repubblicani assaliti quasi all'improvviso, e innanzi che avessero tempo di provvedersi, avessero presto a cedere del tutto le terre Italiane.

Il re risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Francesi quello, a che sapeva che ei non potevano consentire, e questo fu, che sgombrassero da tutti gli stati pontifici, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente, non poter consentire alle domande, giudicando benissimo, che l'inchinarsi a tali condizioni era peggio che perdere tre battaglie campali. Per la qual cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi sdegnato per la occupazione dello stato Romano e di Malta, bandiva al mondo, aver preso le armi per allontanare dai suoi dominj ogni danno e pericolo, per restituire il patrimonio della chiesa al suo vero e legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla sicurezza, ed all'onore della religione; lui stesso, diceva, essere venuto co' suoi invitti soldati a così santa opera, proteggerebbe i buoni ed i virtuosi, accorrebbe con affetto paterno i traviati che si volessero ridurre al buon sentiero, ed a penitenza; dimenticassero, inculcava, ogni ingiuria, spegnessero ogni desiderio di vendetta, imitassero la reale comportazione, solo intenta a far fiorire nuovamente la religione, la quiete, e la giusta libertà di tutti. Esortava finalmente i capi d'ogni esercito estero a ritirarsi incontanente dal territorio Romano, ed a non ingerirsi più oltre negli accidenti di questo stato, la cui sorte per ragione di vicinanza, e per altri legittimi motivi principalmente interessava la sua regia potestà.

Dalle parole trapassava tosto ai fatti: partito l'esercito in tre parti marciava alla volta delle Romane terre. Era venuto per consigliare il re sulle faccende di guerra il generale Austriaco Mack, mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Fu suo disegno in questa mossa, sapendo che i Francesi erano dispersi in alloggiamenti lontani fra di loro, e sperando che i popoli tumultuerebbero in favor dei Napolitani, di occupare un gran tratto di paese. Confidava, che gli avversarj sarebbero stati circondati, e presi senza molto sangue. Perlocchè aveva Mack in tale modo ordinato l'assalto, che la più grossa schiera condotta da lui medesimo, avendo con se il principe ereditario di Napoli, per la strada degli Abruzzi, se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era stata mandata a rinforzare Corfù minacciato dalle armi Ottomane e Russe. Era suo intento, che questa schiera tagliasse il ritorno ai Francesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata dal re, che aveva con se per moderatore Colli, aveva carico di far impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo di Ferdinando. Ma pensiero di colui, che aveva ordito tutta questa macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Francesi per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i comandamenti del generale Naselli: la parte più grossa di lei posta su navi Inglesi e Portoghesi governate da Nelson s'incamminava ad occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti che accennavano a Roma, si era dato opera, che la minor parte, che obbediva al conte Ruggiero di Damas, fuoruscito Francese, radendo i lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della Toscana, che portano il nome di Presidj. Per tal modo ordinato il disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle parti, aveva con se poca gente, nè certamente bastevole a far fronte a tanta moltitudine, se i soldati Napolitani fossero stati pari a' suoi per perizia e per valore; conciossiachè non avesse con lui, che cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni, due compagnie di artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila soldati. Erano per verità con lui alcuni reggimenti Italiani, ma ei faceva sopra di loro poco fondamento.

Il dì ventitrè novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane, che le si pararono avanti, s'avvicinava a Terni. Mandava Championnet domandando a Mack, qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra contro Francia. Rispondeva con troppo maggior alterigia che se gli convenisse, che l'esercito di sua maestà Siciliana occupava il territorio Romano sovvertito, ed usurpato dalla Francia contro la fede dei capitoli di Campoformio; che il nuovo stato di Roma non era consentito nè dal re, nè dall'imperatore, suo alleato; però andrebbe avanti, non commetterebbe ostilità, se non se gli resistesse; se sì, commetterebbele contro chiunque, e qual fosse il nome che si avesse. Replicava modestamente Championnet, la repubblica Romana essere sotto la tutela della Francese, e difenderebbela. Intanto non vedendosi, pel piccol numero de' suoi soldati sparsi in luoghi lontani, pari al resistere a tanta piena, nè a custodire tanta larghezza di paese, raccoglieva i suoi e gli mandava, lasciando un sufficiente presidio in Castel Sant'Angelo, a far capo grosso a Civita-Castellana. Ma udendo, che i Napolitani erano stati ricevuti in Livorno, sebbene con protesta della neutralità violata per parte dei magistrati del gran duca, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero di Damas arrivava sui confini fra lo stato ecclesiastico e la Toscana, soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente, e non senza grossa strage dei regj combattuto dal generale Lemoyne, si era impadronito di Fermo, e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in su per le rive del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia, perchè temeva, che il generale Napolitano gli tagliasse le strade dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti, e vi trasferiva anche il governo Romano, che aveva abbandonato, per la forza di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda dei regj. Trovarono qualche aderenza di popoli nello stato pontificio, come era succeduto a Viterbo, ed a Civitavecchia. Ma generalmente poco si muovevano, o tepidezza verso l'antico governo del papa, o odio innato contro i Napolitani, o non cessata paura delle armi repubblicane, che sel facessero. Che anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono virilmente in favor dei Francesi, e diedero loro campo di ridursi a salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì ventinove di novembre. Il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita cupidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità, che dall'amore, gli fece feste, e rallegramenti di ogni sorte: le Romane e le Napolitane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Si rallegravano dell'essere liberati da quel vivere tirannico e soldatesco, e si auguravano, certo molto leggermente, tempi migliori; perciocchè non andò gran pezza, che si accorsero come si può cambiar di signore, e non di servitù. S'incominciava intanto a trascorrere in vituperj ed in fatti peggiori dei vituperj, contro coloro che avevano seguitato il governo nuovo, chiamandogli il popolo, o mosso da se, od incitato da altri, Atei e Giacobini. I vituperj poi, ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i Giacobini per odio pubblico, i non Giacobini per odj privati. Non parlo dell'atterramento degli alberi della libertà, e della ruina a furia di popolo del monumento eretto in Campidoglio all'ucciso Duphot; perciocchè avesse pur voluto Dio, che a queste opere piuttosto oziose che dannose si fossero rimasti, ma s'incominciava a far sangue, e a demolir case. S'interpose Ferdinando, e fe' cessare i tumulti, creando una milizia urbana, e confidandola ad un cavaliere Gennaro Valentino. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli, il marchese Massimi, ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il Romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza.

Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i Napolitani che i Francesi, quantunque gli uni e gli altri si chiamassero col nome di liberatori. Portarono le logge del Vaticano dipinte da Raffaello, risparmiate, ed anche rispettate dai Francesi, lungo tempo le vestigia della barbarie delle soldatesche Napolitane. Nè i quadri si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti sfuggiti alla rapacità degli agenti del direttorio. Da tante enormità nacque, che il popolo cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti fra i partigiani del papa diventavano partigiani Francesi. Tali furono le opere Napolitane in Roma; ma poco durarono, perchè era fatale, che in quella nobile, e sventurata Roma, un dominio insolente in brevissimo giro di tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti saranno per noi raccontati nel progresso di queste storie.

Era costume del direttorio di Francia, per sovvertire i paesi, di accarezzare e fomentare i desiderosi di novità, o che tali fossero per fin di bene, o per fin di male; ma conseguita la mutazione, i suoi agenti più accarezzavano i cattivi che i buoni, perchè trovavano i primi più arrendevoli, e meglio inclinati a servire ai desiderj loro. Tanto più poi vezzeggiavano i cattivi, e trasandavano i buoni, quanto più erano lontani i pericoli. Ma quando sovrastava un tempo forte, tosto si davano a far le chiamate ai buoni, perchè questi per la virtù loro avevano volti in lor favore gli animi dei popoli, il che era fondamento di potenza. Da un'altra parte gli amatori veri di libertà tanto più vivi si dimostravano, quanto più il paese loro aveva sembianza d'indipendente, perchè il resistere alla tirannide pareva loro vano, ed il non servire alla indipendenza, vile. Questi adunque sorgevano, quando era data al loro paese, se non in fatti, almeno in parole, la indipendenza, sperando di trovar modo di acquistarla vera e reale. Quindi i dominatori, mettendosi in sospetto, usavano di ritrarre lo stato dalle mani loro, ponendolo in balìa di coloro, che, o più vili o più prudenti essendo, si accomodavano facilmente alle voglie dei forestieri. Quindi nasceva, che assai più dei partigiani della potestà regia, assai più dei fautori dell'aristocrazìa, e della oligarchìa stessa, che per altro abborrivano, o fingevano di abborrire, gli agenti del direttorio, odiavano gli amatori dell'indipendenza. Queste cose si vedevano manifestamente in Cisalpina, dove essi allontanandosi dagl'indipendenti, si accostavano ai novatori avidi di denaro e di dominio, ed anche agli aristocrati, perchè sapevano che a questi, purchè e' siano guarentiti, ed abbiano sicurezza contro gl'impeti e le insolenze popolari, poco importa chi abbia il reggimento supremo in mano. Per bene intendere queste cose, e' bisognerà incominciarle dal loro primo principio. Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria, ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza, condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano, perchè quella comporta per se ogni cosa, questa dovrebbe avere moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì ventinove di marzo, per forza dall'ambasciatore ordinario di Cisalpina Visconti, volentieri dall'ambasciatore straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche, Francese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che la repubblica Francese riconosceva come potenza libera e indipendente la Cisalpina, e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza, e l'abolizione di ogni governo anteriore a quello, che attualmente la reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse, così per le difese come per le offese, a favore della Francia; che la Cisalpina avendo domandato alla Francese un corpo, che fosse bastante a conservare la sua libertà, indipendenza, e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, che la Francese manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non fosse altrimenti convenuto, ventiduemila fanti, duemila cinquecento cavalli, cinquecento artiglieri sì da piè che da cavallo, e che per questo la Cisalpina pagasse alla Francese ogni anno diciotto milioni di franchi, ogni mese un milione cinquecentomila franchi; che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina ai generali Francesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quelli a cui pareva, che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che alleanza ed indipendenza, non gli voleva consentire. Ma ebbe ad udire dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica Francese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla, se volesse. Il che era verissimo, ma certamente nè generoso, nè consentaneo alle belle parole, nè conducente a indipendenza. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse il trattato.

Arrivato quest'accordo in Cisalpina, vi sorse uno sdegno grandissimo: i consigli legislativi nol volevano ratificare. Scriveva pubblicamente Berthier, che da Roma se n'era venuto a Genova per andarsene alla spedizione d'Egitto, che quel trattato era la salute della Cisalpina, se ella il ratificasse. Altri sottomano insinuavano, che se ratificasse, sarebbe ingrandita, se ricusasse, spenta.

Queste promesse e queste minacce operarono di modo che i consigli ratificarono, non senza però molti discorsi contrari, e molta discordia. Gli amatori dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella repubblica. S'aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi, e nove dei consigli legislativi, che più vivamente degli altri si erano versati al trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia. Di più si fe' dire e stampare, che fossero fautori dell'Austria, e nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire, che è dubbio, se siano o più ridicole, o più false. Ma la persecuzione non si rimase alle parole; perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori.

In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina mandato dal direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvé, giovane di spirito, e che faceva professione di amare la libertà. Si sollevarono gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta un ministro di Francia presso quello stato nuovo, ed ognuno si stava ansiosamente aspettando, che cosa portasse. Gl'indipendenti ne auguravano bene pel fatto stesso; gli aristocrati quieti si rallegravano ancor essi, perchè speravano, che un reggimento più regolato gli preserverebbe dalle improntitudini dei libertini. Fu l'ingresso di Trouvé al direttorio Cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della Francia magnificamente, della Cisalpina amorevolmente. Piacque soprattutto agl'indipendenti il principio del suo favellare, che fu con queste parole: che veniva in nome della grande nazione a salutare l'indipendenza della repubblica Cisalpina. Poi continuando affermava, che era venuto per adempire presso a lei un carico onorevole, e caro all'anima sua, quello cioè di giungere all'ammirazione verso gli eroici fatti, l'amore che inspira la pratica delle virtù; che tal era il desiderio, tale il bisogno del governo Francese, che a questo generoso fine per comandamento di lui, ed in adempimento della sua tenerezza paterna indirizzerebbe egli tutti gli sforzi, tutti i pensieri suoi. Allontanassero pertanto da loro, come egli allontanava da se, le dimostrazioni vane di un'astuta politica, che adula per corrompere, che accarezza per uccidere: allontanassero le sottigliezze, allontanassero le ingannatrici promesse, le seduzioni, la duplicità; animi aperti e leali, confidenza vicendevole, giustizia sincera, probità incorrotta, unione inalterabile fra i magistrati le due repubbliche congiungessero; congiunzione, continuava vieppiù nella sua poesia infuocandosi il giovane ambasciatore, congiunzione gloriosa e toccante; congiunzione giurata sull'ara della patria per difendere i principj della ragione, e per dilatare il culto della libertà. Queste belle poesie, che coprivano brutti fatti, giravano a quei tempi. Rispondeva all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorj, e lingua Italiana sucidissima il presidente del direttorio Constabili: il linguaggio stesso disvelava la debolezza degli animi, la servitù dello stato.

Scriveva sulle prime, cioè il dì trenta maggio, Trouvé a Birago, ministro degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che il governo Cisalpino facesse risoluzioni vigorose contro i fuorusciti Francesi, che si erano ricoverati sul territorio Cisalpino: gli mandava indizi sopra alcuni di loro: voleva, che a termine del capitolo decimoquinto del trattato d'alleanza fra le due repubbliche, essi fuorusciti fossero arrestati, onde il direttorio di Francia gli potesse bandire, e confinar ne' luoghi, che stimerebbe; accusava, quelli di aver combattuto contro la loro patria nelle legioni parricide, come le chiamava, di Condè, questi, di spandere fra i Cisalpini novellamente liberi le dottrine della schiavitù, di calunniare i repubblicani Francesi, e di far sorgere contro di loro il fanatismo, il pregiudizio, e tutti gli odj possibili: voleva finalmente, che il ministro della Cisalpina pubblicasse la sua lettera, affinchè tutti i fuorusciti sapessero, che la legazione Francese dichiarava loro una guerra, la quale non avrebbe termine, se non quando i medesimi cessassero di contaminare la terra della libertà. Rispose il Cisalpino ministro all'ambasciadore di Francia, che il direttorio Cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali, come gli qualificava, contaminati, ed ipocriti. Brutto principio di legazione era certamente quello, che s'annunziava con un'opera inumana, e brutto principio ancora di governo libero era quello che la secondava.

Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciadore nella sua mente e per se, e per comandamento di chi il mandava. Aveva il direttorio osservato, che la vivezza dei libertini era stata cagione, che i popoli Cisalpini, che sono generalmente di natura quieta e savia, si fossero messi in mal umore. I medesimi libertini, siccome quelli, dico i sinceri, che senza freno parlando accusavano continuamente di prepotenza e di ladroneccio gli agenti del direttorio di Francia, operavano, che l'odio contro i Francesi moltiplicasse ogni giorno. Tenevano nei due consigli, massimamente in quello dei giovani, il predominio, e le proposte che vi si facevano, ed i decreti che vi si pigliavano, indicavano molta ardenza negli animi. Già insospettiva la Francia, che sapeva, che la smoderatezza può dare contro ogni cosa, ed ella non voleva che si desse contro di lei. L'opposizione tanto gagliarda, che era sorta nei consigli contro il trattato d'alleanza, accresceva ancora maggior colore a questi pensieri e sospetti, dimodochè divenne certo pel direttorio, che se non domava quei partigiani tanto risentiti di libertà e d'independenza, la sua superiorità in Cisalpina sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Infatti si vedeva, che il medesimo spirito d'opposizione, che nei consigli ed in una parte del direttorio si era manifestato, si radicava anche nei magistrati subalterni, ed ognuno gridava libertà ed independenza, con tali grida accennando non più ai Tedeschi, che ai Francesi. Parve, che fosse arrivato il tempo per Francia di aggravar la mano e di porre il freno, perchè per la pace fatta con l'imperatore d'Austria essendo passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava, che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si appartenesse di farsene un appoggio, introducendovi un vivere più quieto, e che più piacesse ai più ricchi, e notabili cittadini. Per la qual cosa Trouvé, usando così i cattivi, come i buoni, sì veramente che favorissero i suoi disegni, fece in sua casa un'adunanza segreta, in cui si esaminarono i cambiamenti da farsi nella costituzione Cisalpina. Ajutavano questo moto principalmente Sopransi, antico ministro di polizia, per vendicarsi del direttorio che l'aveva licenziato, Adelasio quinqueviro, e Luosi, ministro della giustizia. A loro si accostavano Aldini di Bologna, Beccalozzi di Brescia, Villa di Milano, Martinelli, ed Alborghetti di Bergamo, uomini meno odiati dall'Austria, che amati dai Francesi. Era il progetto di ridurre la constituzione a forma più aristocratica con diminuire il numero dei membri dei consigli, e così ancora quello dei dipartimenti, e dei membri dei magistrati distrettuali. Si voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza ragione osservato, ch'egli si trovava nella constituzione molto impari ai due consigli, e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare la libertà della stampa, e serrare i ritrovi politici, per la quale e pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i cattivi peggiori per l'impeto.

Certamente questa riforma era da lodarsi, e sarebbe piaciuta ai buoni, se al tempo medesimo si fosse data la independenza alla Cisalpina; ma con la servitù ogni legge è cattiva, e le peggiori sono le buone, perchè portano con se la menzogna, e fan credere che vi sia ciò che non v'è. Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi rappresentante, che chiamato alle congreghe segrete, nè appruovandole, aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il romore fu grande; le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle gazzette non ancora frenate, furono in gran numero. Grande impressione massimamente fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto di Marco Ferri, fu composta, data secretamente alle stampe, e sparsa copiosissimamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane Piacentino, che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca lode. Grave, e forte orazione era questa: «E donde in te, uomo da nulla (sclamava rivoltosi al giovane Trouvé il giovane Piacentino) donde in te, piccolo straniero, barbaro per l'Italia, la podestà di tante e sì gravi cose a dispetto nostro operare nella nostra repubblica? Dal tuo direttorio? Ma come mai il direttorio Francese munito ti avrebbe di così tirannica autorità, di una autorità, che in nessun tempo, in nessun caso mai non fu delegata ad ambasciadore presso popolo amico? Come potrebb'ei contraddire a se stesso, e detestare nella Cisalpina quello statuto, cui con tanto fervore, con tanta severità protegge, e difende nell'ampio recinto di sua giurisdizione? Come vorrebbe rapire in un istante a repubblica sorella l'independenza, che, pochi mesi sono, le ha guarentita con solenne trattato, e che tu, pochi dì fa, con sue patenti lettere, e in apparato quasi trionfale a salutar sei venuto? Chi oserà mai accagionare quei gravissimi quinqueviri dell'atroce e vile perfidia d'avere occultamente preparata la violazione di un trattato nell'atto medesimo, che di adempirlo fan pubblica testimonianza; di un trattato, che ottenuto avendo la sanzione dei legislatori di Francia, non può senza il loro consenso essere alterato, come non senza il previo concerto coi direttori Cisalpini? Chi potrà mai credere, che quel tuo governo, il quale non ha ricevuto che la delegazione di eseguire le leggi in terra Francese, e sopra cittadini Francesi, usurpar voglia in paese straniero, ed alleato l'autorità elettorale, legislativa, esecutiva, tutta insomma la sovranità nazionale? Li Cisalpini sono troppo giusti per recare a que' supremi governanti sì grave ingiuria. No, non è vero, che fidata abbianti la missione di rovesciar lo statuto, per cui esistono eglino medesimi: l'hanno difeso contro Europa tutta: come nol faran trionfare di pochi oscuri oligarchi?

«Sei tu, novello Lisandro (benchè solo in male, e peggio a te s'attagli siffatto nome) che vuoi poterti dar vanto di avere ricostituita una repubblica in estranio paese, tu, che nel tuo proprio non meritasti mai di sedere fra i settecento cinquanta, che le ordinarie leggi sanzionano. Che altro infatti dimostra il giro tortuoso de' tuoi clandestini maneggi? Per riverire, qual inviato di Francia, l'independenza Cisalpina, ti recasti con pubblica magnifica pompa al palagio nostro direttoriale, e il dì venti pratile andrà chiaro nei fasti della nostra repubblica; per colpire oggi di morte questa independenza, ti rintani nella più secreta parte del tuo alloggiamento; vi chiami un ambizioso, e ribelle congedato ministro, un deputato adolescente, e tal altri da te compro o ingannato; e con questi soli tenti, e disponi il tenebroso lavoro. Nè sa nulla il supremo governo, nulla li ministri, nulla il senato legislatore, nulla il popolo. Ma la patria vigilanza s'adombra e bisbiglia, va in traccia dell'ambasciadore, e il cospiratore ritrova.

«Questa è dunque la fede, l'amicizia, la fraternità, che di Francia ne apporti? questi li modi e le forme, onde la prima ambascerìa Francese presso la novella repubblica condisci, ed onori? Questa la libertà, la prosperità, che in Italia pretendi? Qual vasta materia di dire per que', che mai non posero ne' tuoi fidanza! Diranno, che voi non prometteste libertà agli Italiani, che per più agevolmente dominargli e spogliargli; che oggi sotto pretesto di riforma, gli caricate di nuove catene, onde viemmeglio continuare ad ismungergli, a dissanguargli; che l'oro, non la libertà, è l'unico idolo vostro; che quella, d'ogni virtù maestra e fonte, non è fatta per voi, nè voi per ella; infine, che la libertà Francese sta tutta nelle parole, e negli scritti, negli ululati di furibondi tribuni, e nelle declamazioni di perversi impudenti sofisti. Ma v'è di più. Quei cangiamenti, che di tua despotica possanza, e con tanta leggerezza effettuare intendi nello stato politico della Cisalpina, saranno l'infallibil segnale della caduta della stessa repubblica. Questo primo funesto esempio ne trarrà altri dopo di se. Ciò sta in principio, ma sta molto più, se si badi al carattere dei dominatori di una nazione. Nulla è durevole in Francia, dove signoreggiano soltanto foga di novità, ambizione di dominio, furore di parti, disorbitanze. Offeso in tal guisa l'Italiano nell'opposto suo carattere, insultato così, ed isvilito, non avendo potuto ancora riconoscersi, ordinarsi come a lui si conviene, sviluppare il suo genio, e le sue forze, non potrà che abbandonarsi al primo conquistatore, che si parrà a lui d'innanzi. Non è nei modi, che tu, di frivoli maestri più frivolo allievo, apparasti sulla Senna, che le antiche repubbliche Italiane stabilite, ed assodate si sono. Giudicane, se capace ne sei, dalla loro durata a traverso dei secoli. Più di quattordici ne contava la Veneta. Che è ella divenuta in due giorni nelle mani de' tuoi? Ti vanta adunque di poter tu fortificare la repubblica Cisalpina…! Per indole natìa, per l'esempio de' tuoi, per la forza pretoriana onde sei cinto, forse potrai distruggere; edificare, consolidare non mai: non si consolida distruggendo».

Sentì molto gravemente Trouvé il fatto, e condottosi in pompa al direttorio, il richiedeva con parole aspre ed imperiose dell'arresto dell'autore dell'orazione, per avere, come diceva, insultato la repubblica di Francia. Gli fu risposto, non trovarsi in Milano i caratteri di tale stampa, esser venuta di fuori; cercherebbero, farebbero, non dubitasse: ma se la passarono con parole, perchè il direttorio non ancora riformato amava il moto dell'oratore. Intanto rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il direttorio, mandando anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio espressamente il generale Brune, che era succeduto a Berthier, per rimostrare, perchè gli piacevano i governi più popolari, e faceva professione di amatore ardente di libertà.

Tutto fu indarno; Trouvé, al quale il direttorio, massimamente Lareveillere-Lepeaux, per cui passavano principalmente le faccende d'Italia portavano molta affezione, mandava ad effetto le accordate deliberazioni. La notte dei trenta agosto chiamava in sua casa centodieci rappresentanti, che non erano la metà di tutti: leggeva la nuova constituzione, e le nuove leggi. Le appruovarono, chi per amore, chi per forza, perchè aveva intimato loro, che tale era risolutamente la volontà del direttorio di Francia, e che se non l'accettassero di buon grado, l'avrebbe eseguita per forza. Nonostante alcuni ricusarono, e sdegnati si ritirarono. Il giorno seguente l'opera si recava ad esecuzione. Le soldatesche circondavano la sede dei consigli, ributtavano con le bajonette i rappresentanti non eletti dalla riforma; cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi; vi surrogavano Sopransi e Luosi: i rappresentanti renitenti scacciati dai consigli; Fantoni, Custodi, Borghi, amatori vivissimi di libertà, e capi degli altri, posti in carcere. La forza predominava. Fece Trouvé la nuova constituzione, e finalmente dichiarò, parendogli di avere operato abbastanza, e bene solidato l'imperio Francese in Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità legislativa nei consigli. In tale guisa venne fatta una riforma negli ordini della Cisalpina, buona in se, viziosa pel modo. Ed ecco una scena: una gran turba seguitava Ranza gridando, che vuol Ranza, che scartafaccio è quello? Lo scartafaccio era la constituzione disfatta da Trouvé, che Ranza vestito a lutto andava a seppellire nel campo del Lazzaretto.

Brune, che era tornato a Milano, si mostrava scontento. Il direttorio, che lo voleva mitigare, richiamava Trouvé, dandogli scambio con Fouché. Attribuiva anche facoltà al generale di far mutazioni, non negli ordini stabiliti dall'ambasciatore, ma nelle persone impiegate. Rimetteva in carica i democrati più vivi; fora lungo e fastidioso il raccontare come e quali. Le assemblee popolari, che chiamavano i comizi, accettavano la constituzione di Trouvé. I democrati non se ne potevano dar pace. Ma tra l'accettare e il non accettare non era differenza, la forza forestiera reggeva lo stato. Non piacquero al direttorio nè Fouché nè Brune, l'uno e l'altro, come credeva, troppo ardenti in quelle bisogne, e già si vedeva apparire la nuova confederazione contro Francia. Mandava a Milano Joubert in vece di Brune, Rivaud in vece di Fouché, strano inviluppo d'uomini e di leggi tante volte mutate in pochi mesi da chi reggeva il mondo con la forza, e la forza col capriccio. Non si mescolava Joubert nelle riforme; perchè da uomo generoso e magnanimo com'egli era, rispettava la independenza altrui, ed aveva grandi pensieri sopra l'Italia. Rincominciava Rivaud l'opera di Trouvé. La notte dei sette dicembre cingeva con soldatesche il corpo legislativo, che stava deliberando sulle macchinazioni che si ordivano. Poi la mattina le bajonette straniere cacciavano a forza i legislatori eletti da Brune, rimettevano in carica di direttorio Adelasio, Luosi, e Sopransi cacciati da lui. Fu imprigionato Visconti, frenata la stampa, serrati i ritrovi: minacciaronsi i fuorusciti Napolitani di espulsione, i democrati Cisalpini di carcere, se non moderassero le lingue, e gli scritti. Divenne Rivaud padrone della Cisalpina. I democrati lo volevano ammazzare, e pingevano sui loro scritti contro di lui non so che coltello di Bruto; ma e' non fu nulla. In questa guisa la Cisalpina tra la rabbia dei democrati, le speranze degli aristocrati, la prepotenza delle soldatesche forestiere, il timore di tutti, se ne stava aspettando i nuovi assalti dell'Austria.

Delle raccontate mutazioni fatte in Cisalpina per modo sì violento levarono un grandissimo romore in Francia coloro, che o sedendo nei consigli legislativi, o con le stampe addottrinando il pubblico, contrastavano al direttorio. Luciano Buonaparte, fratello del generale, servendosi dei principali pensieri dell'orazione di Marco Ferri, ne fece una al consiglio dei cinquecento, la tirannide del direttorio, e la violenza da lui usata in Cisalpina con gravissime parole detestando. Questi discorsi si tenevano dagli opponenti piuttosto per odio del direttorio che per amore della libertà, per la maggior parte di loro, e fra tutti il primo Luciano, macchinavano già fin d'allora di mutare lo stato, cambiar la constituzione, spegnere il direttorio, e chiamare alla somma delle cose il generale Buonaparte. Così costoro, che per amore della libertà, come dicevano, odiavano e laceravano di continuo gli avvocati sedenti in direttorio, non avevano poi paura di un soldato arbitrario e vittorioso, al quale tanto volentieri concorrevano tutti i soldati di Francia.

Rispondevano per parte del direttorio Merlin, e Lareveillere-Lepeaux a fine di giustificare le sue opere in Cisalpina, che la Cisalpina non aveva mai avuto una constituzione legittima, perchè quella, che le aveva dato Buonaparte, non era mai stata accettata dal popolo; ch'ella era solamente un'ordinanza militare, non una vera e legittima constituzione; che i Cisalpini si dovevano solamente riputare magistrati militari instituiti col solo fine di governar il paese a tempo, e fino agli ordini definitivi; che del rimanente la Francia aveva conquistato col suo sangue la Cisalpina, e però aveva il diritto di farne il piacer suo. Erano certamente queste risposte vere, ma sarebbero state più sincere, e non meno oltraggiose per la Cisalpina, se fossero state confessate prima, e quando la necessità non stringeva; perchè se la Cisalpina era mera conquista, governata solamente alla soldatesca, e sottoposta ad un espresso dominio militare dalla parte della Francia, non si vede che cosa volessero significare le voci d'independente, che le si davano dal direttorio, i saluti fatti alla independenza Cisalpina dall'ambasciatore Trouvé, quel mandare e ricevere ambasciatori a quasi tutti, e da quasi tutti i potentati d'Europa, come la Cisalpina faceva, e quel lamentarsi del medesimo direttorio Francese, che l'Austria non l'avesse voluta riconoscere, nè da lei accettato, nè a lei mandato ambasciatori.

I cambiamenti fatti per forza di soldatesche nella repubblica cisalpina ai tempi del supremo dominio di Trouvé, di Brune e di Rivaud, così comandando il Direttorio di Francia, diedero molto a pensare ai Cisalpini e generalmente a tutti gl'Italiani. Si persuasero facilmente che la Francia tutt'altra cosa voleva piuttostochè l'independenza loro, e che dalle parole in fuori, che erano veramente magnifiche, essi erano destinati a servitù o d'Austria o di Francia. Allora s'accorsero che era per loro diventato necessario, seppure liberi e independenti volevano essere, il camminare con le proprie gambe, e por mano essi stessi a quello che per opera dei forestieri non potevano sperar di acquistare. Surse in quel punto principalmente una setta la quale, contraria del pari ai Francesi che ai Tedeschi, dagli uni e dagli altri voleva liberare l'Italia, col fine di darle un essere proprio e independente. Perlochè si unirono i capi in Milano, i principali dei quali erano i generali Lahoz, Pino e Teuillet, e con questi Birago di Cremona, con alcuni altri sì di Cisalpina che di altre parti d'Italia. Restarono d'accordo che a questo scopo s'indirizzassero tutti i pensieri. Deliberarono che le voci d'independenza si spargessero fra i popoli, che si tirassero nell'unione quanti corpi di genti assoldate si potessero; che a questo medesimo fine si facesse una intelligenza coi Romani e coi Napolitani, e che ad ogni caso si formasse un'accolta di genti in Romagna, perchè quindi, o nei circonvicini e piani paesi si spargesse, o sul dorso degli Appennini si ritirasse, secondochè gli accidenti richiederebbero. Per nutrire il disegno, ordinarono adunanze segrete, che fra di loro corrispondevano, e la cui sede principale era in Bologna; e siccome da Bologna, come da centro, queste adunanze si spandevano, a guisa di raggi, tutto all'intorno negli altri paesi d'Italia, così chiamarono questa loro intelligenza Società dei Raggi.

Questo tentativo era contrastato da coloro fra gli amatori della libertà e dell'independenza, i quali, memori dei servigi fatti loro dai Francesi che gli avevano liberati, alcuni dal carcere, altri dall'esilio, ed altri anche da peggio, e persuasi che senza l'aiuto di Francia era impossibile resistere ad un tempo stesso alla parte che in Italia desiderava l'antico stato ed all'armi austriache, mal volentieri sopportavano che, per acquistare un'independenza dubbia, si volesse non solamente scostarsi dai Francesi medesimi, verso i quali protestavano gratitudine, ma anche voltar l'armi contro di loro, ove le occorrenze dei tempi il volessero. Fra questi ultimi più di tutti insisteva Cesare Paribelli, il quale era stato mandato da Milano in Romagna ed a Napoli per consultare su di queste faccende coi novatori del paese. Pure, essendosi col tempo viepiù scoperto che il Direttorio di Francia aveva l'animo troppo contrario alla libertà ed all'independenza d'Italia, questi medesimi, e Paribelli principalmente, erano venuti a volere l'independenza contro e a dispetto di tutti. Queste cose si tramavano, e già i semi se ne spargevano; ma vennero poco dopo i tempi grossi e le rotte dei Francesi, per le quali, soprabbondando una estrema forza di genti settentrionali, tutti questi intendimenti diventarono vani. Nondimeno le operazioni di Lahoz, che in progresso si racconteranno, furono come immediato effetto, così piccola parte di questa vasta macchinazione. A questo modo, independenti misti con servili, novatori con perseveranti, repubblicani forestieri, che desolavano le terre italiane, uomini boreali, che s'apprestavano a desolarle, componevano a questo tempo i dolori ed i terrori della miseranda Italia.




LIBRO DECIMOQUINTO



SOMMARIO



Infelice condizione del re di Sardegna. Ginguené ambasciadore di Francia a Torino. Suo discorso al re; sua opinione sul governo regio del Piemonte. Gli amatori della repubblica si adunano sui confini, e tentano di far rivoluzione. Generosi lamenti di Priocca, ministro del re, sui casi presenti. Battaglia di Ornavasso, in cui i repubblicani Piemontesi sono vinti dalle truppe regie. Guerra tra Genova ed il Piemonte. Brune e Ginguené sforzano Carlo Emanuele a dar loro la cittadella di Torino. Indulto del re a favor degl'insorti. Fatto lagrimevole della Fraschea. Schifosa mascherata fatta da alcuni Francesi in Torino, e grave pericolo che ne nasce. Ginguené richiamato: sue qualità. Il direttorio di Francia, non si fidando del re di Sardegna, si risolve a torgli lo stato, e manda a questo fine il generale Joubert. I Francesi s'impadroniscono del Piemonte, sforzano il re a lasciarlo, e vi creano un governo provvisorio. Atto d'abdicazione del re. Sua continenza mirabile nell'andarsene. Lodi del ministro Priocca. Manifesto di guerra del direttorio contro il re. Generosa protesta di Carlo Emanuele, data in cospetto di Cagliari di Sardegna.


Io sono nel presente libro per raccontare il martirio del re di Sardegna. Nella quale narrazione si vedrà, quanto possa l'abuso della forza contro il debole, e come non abbia incresciuto al più potente, non solo di usare la forza soverchia, ma ancora di aggiungervi la fraude, colorandola con le dolci parole di lealtà, e di santa osservanza dei patti. Si vedrà, come uomini, per ogni altra parte di dottrina e di virtù compiti, si siano fatti, per le illusioni dei tempi, stromenti di sì condannabili eccessi. Racconterò dall'altro lato uomini ridotti all'ultimo caso mostrare più animo, e maggiore virtù, che non quelli ai quali obbedivano quasi tutte le forze d'Europa; e se qualche contentezza si pruova nello scrivere storie, questa è di poter purgare dalle calunnie di tempi perversi gli uomini eccellenti.

Il re di Sardegna serrato da ogni parte dalle armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della sua fede verso il direttorio, non che nel più interno dell'animo non desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami il suo male, ma vedeva, che era del tutto in potestà dell'oppressore il sovvertire i suoi stati, prima solo che l'Austria il sapesse. Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla repubblica, quantunque altri desiderj avesse. Reggeva il Piemonte il re Carlo Emanuele quarto, principe religiosissimo, e di pacata natura, ma che trasportando i precetti della religione nelle faccende di stato, era poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto, e sregolato.

Sedevano appresso ai potentati d'Italia, come ambasciatori o ministri della repubblica Francese, Ginguené a Torino, Trouvé a Milano, Garat a Napoli, Sottin a Genova. Erano Ginguené e Garat avversi ai governi, presso a cui erano mandati, e desideravano la mutazione, ma non la procuravano apertamente, mentre Sottin non s'infingeva contro il sovrano del Piemonte da quel suo nido di Genova. Principale secondatore di mutazioni si mostrava Brune, a questo tempo generale dei Francesi in Italia, sì per se, e sì per gli stimoli dei fuorusciti Piemontesi, che gli stavano assiduamente ai fianchi. Questi, non contraddicendo i repubblicani di Francia, padroni del paese, fulminavano senza posa sì dalla Liguria, che dalla Cisalpina contro il re Carlo Emanuele; il che giunto ai mali umori, che già erano gonfiati in Piemonte, partoriva effetti tanto più forti, quanto più parevano essere aiutati dai Francesi. Oltre a questo l'ambasciador Cisalpino Cicognara, che sedeva in Torino, giovane di singolare ingegno, e di natura generosa, vedeva molto volentieri coloro che desideravano la mutazione, e dirizzava le cose secondo le opinioni dei tempi, in pro sì della Cisalpina particolarmente, che dell'Italia universalmente; onde i novatori prendevano novelli spiriti. Consultavano coll'ambasciator Cisalpino massimamente coloro, che volevano cambiare gli ordini politici in Piemonte per unirlo alla Cisalpina, o che si volesse fare di tutta l'Italia una sola repubblica, come alcuni bramavano, o che si preferisse di farne due, dell'una delle quali sarebbe capo Milano, dell'altra Roma; imperciocchè questi pensieri appunto cadevano negli animi dei novatori Italiani.

In mezzo a tutti questi umori era arrivato l'ambasciatore Ginguené in Torino. Era Ginguené uomo di tutte virtù, ma molto incapriccito in su quelle repubbliche, non vedendo bene alcuno se non negli stati repubblicani. La filosofia l'aveva allettato, e la forza straordinaria di quella sua repubblica gli faceva una sembianza di felicità e di libertà, come se la felicità e la libertà potessero vivere negli stati disordinati e soldateschi. Ma l'orgoglio che nasce dalla potenza, massime negl'ingegni vivi, fa di queste illusioni, ed anche delle peggiori. La paura ancora operava qualche cosa in una fantasia tanto vivace; imperciocchè, siccome Ginguené si era molto nodrito degli scrittori Italiani, e specialmente di Machiavelli, così egli si era dato a credere, che l'Italia fosse piena di Machiavelli e di Borgia, ed aveva continuamente la fantasia spaventata da immagini di tradimenti, di fraudi, di congiure, di assassinj, di stiletti, e di veleni. Stimava, che la sincerità, e la lealtà fossero solo in Francia; nè le insidie, ed i tradimenti di Buonaparte, e del direttorio in Italia, quantunque fossero tanto manifesti, l'avevano potuto guarire. Con questi spaventi in capo, veduto prima il ministro Priocca, in cui scoverse, come diceva, non so che di perfido al ridere, faceva il suo primo ingresso al re. Solito alle accademie, solito ai discorsi al direttorio, e del direttorio, poichè l'età fu ciarliera oltre ogni credere, si aveva Ginguené apparecchiato un bello e magnifico discorso, non considerando, che quello non era uso di corte in Torino, e che se gli apparati di lei sono magnifici, il re se ne vive con molta modestia. Traversate le stanze piene di soldati bene armati, e di cortigiani pomposi, entrava Ginguené in abito solenne e con una sciabola a tracollo, nella camera d'udienza, dove si trovò solo col principe. Stupì l'ambasciator repubblicano in vedendo tanta semplicità nel sovrano del Piemonte. Avrebbe dovuto, siccome pare, deporre il pensiero di recitare il discorso, perchè e le adulazioni, ed i rimproveri erano ugualmente, non che intempestivi, inconvenienti. Pure, ripreso animo, così favellava al re. «Sire, il direttorio esecutivo della repubblica Francese, desiderando nodrire la buona amicizia testè introdotta tra la Francia ed il governo Piemontese, mi manda a vostra maestà. Porto con me da parte del direttorio fede, lealtà, rispetto ai trattati, rispetto all'ordine pubblico, rispetto al diritto delle genti. Spero trovare nei ministri, ed in tutti gli agenti di vostra maestà i medesimi sentimenti. Un operare sincero ed aperto solo conviensi ai governi veri. La nazione, che per le sue vittorie acquistò il nome di grande, non ne conosce alcuno diverso da questo. Ella fa della doppiezza e dell'astuzia nei negoziati la medesima stima, che della viltà nelle battaglie. Ella lascia con disprezzo i gabbamenti, e le machiavelliane fraudi a quei vili governi corrotti, e corrompitori, che da sei anni turbano l'Europa con le loro macchinazioni, e comprano a peso d'oro l'umano sangue. Quali frutti raccolto hanno dai perfidi consigli le docili potenze? Io non sono già, o Sire, per irritar quelle ferite, che il tempo solo, la pace, e la concordia possono saldare. Solo ho intento di dire, parlando a vostra maestà, a tutti i governi, che, come ella, sonsi ricondotti a consigli pacifici, che la prosperità loro, che la loro gloria, nella costanza e nella sincerità loro verso la Francese repubblica sono massimamente ed unicamente riposte. Piacemi sperare, o Sire, che quanto io dico, sia conforme all'animo di vostra maestà. Sarà per me gran ventura, se la mia condotta, ed i miei principj conosciuti nelle tempeste che turbarono la mia patria, potranno anticipatamente darvi buon concetto di me, se la elezione del direttorio nel mandarmi a vostra maestà le parrà segno delle sue intenzioni verso di lei, e se finalmente nel corso di questa mia tanto onorevole missione, io riuscirommi a dimostrare, che bene ha il direttorio esecutivo posto la sua fede in me, e che non indarno io ho sperato meritare la stima di vostra maestà».

Questo discorso, che ritraggo di maggior semplicità, ed è molto più purgato di quello tanto astruso, e tanto lambiccato di Garat al re di Napoli, non sarebbe, se non da lodarsi, se non fossero quelle punture date al governo del re; perchè, salve le precauzioni oratorie, esso niun'altra cosa voleva significare se non questa, che il governo Piemontese non era nè sincero, nè amico della repubblica di Francia, nè scevro dalle corruttele Inglesi. Le quali cose certamente credeva Ginguené, ed ebbele volute dire. Da un'altra parte quale sincerità fosse nelle parole di Ginguené, è facile giudicare. Portava egli opinione, e lo scrisse anche al suo governo, che un governo regio qual era quello di Piemonte, non poteva più lungamente sussistere, essendo posto fra tre repubbliche incitatrici, e che perciò era d'uopo operarvi buonamente una rivoluzione, la quale avrebbe potuto essere senza sangue; che se al contrario si aspettava ch'ella da se medesima nascesse, sarebbe violenta e sanguinosa: pareva a Ginguené, che il re dovesse restar contento della Sardegna. Ora qual fede, e qual lealtà verso il re vi fosse nel voler fare una rivoluzione ne' suoi stati, e cacciarlo dal Piemonte, ciascuno sel vede. Così chi poneva le cagioni, voleva anche gli effetti; e dalla necessità delle cagioni argomentava poi alla giustizia degli effetti. Certamente non era colpa del re di Sardegna, se si era creata una repubblica incitatrice in Francia, e simili, ed ancor peggiori repubbliche avevano i repubblicani Francesi creato in Lombardia, ed in Liguria.

Al discorso tanto squisito del repubblicano non rispose il re, non essendo accademico. Bensì venne sull'interrogare del buon viaggio, e della buona salute dell'ambasciatore: poi toccò delle infermità proprie, della consolazione che trovava nella moglie, che era sorella di Luigi decimosesto re di Francia. A questo tratto ripigliando Ginguené le parole, disse, ch'ella aveva lasciato in Francia memorie di bontà e di virtù. Si rallegrava a queste lodi della regina il Piemontese principe, e mettendosi ancor egli sul lodarla, molto affettuosamente spaziò nel favellare delle virtù e della bontà di lei, degli obblighi che le aveva, dei difetti di cui ella l'aveva corretto, massime di quelli della ostinazione e della violenza, della confidenza intiera che aveva in lei, e della pace, e del buon accordo, che, mercè le sue virtù, regnavano in tutta la famiglia. Poi seguitando, addomandava all'ambasciadore, se avesse figliuoli. Rispose del no. Al che il principe, tutto su l'orbezza propria intenerito, rispose, nè anch'io ne ho, ma mi consolo per la virtuosa donna. Queste cose io ho voluto raccontare, perchè mi parvero fare un dolce e consolatorio suono in mezzo alle stragi ed ai tradimenti del secolo. Ritirossi dalla reale udienza l'ambasciador di Francia, e sebbene fosse molto acceso sulle opinioni repubblicane di quei tempi, si sentì non pertanto assai commosso ed intenerito a tanta bontà, semplicità, e modestia del sovrano del Piemonte. Pure questo fu il principe, che divenne bersaglio di tanti oltraggi, di tanti furori, e di tante disgrazie.

Frequentavano la casa dell'ambasciator di Francia i desiderosi di novità in Piemonte, principalmente quelli, che volendo due repubbliche in Italia, portavano opinione, che il Piemonte dovesse essere unito colla Francia. Nella quale opinione concordavano alcuni nobili delle principali famiglie, o per amore di libertà, o per invidia di potenza verso la casa reale. Stando costoro continuamente ai fianchi di Ginguené, gli rapportavano le più smoderate cose del mondo, mescolando il vero col falso sulle condizioni del Piemonte, e sulla facilità di operarvi la rivoluzione; e siccome questi rapporti andavano a versi delle sue opinioni, così ei se gli credeva molto facilmente. Per la qual cosa sentiva egli sempre sinistramente del governo, e volendo tagliarvi i nervi, insisteva con istanza presso il direttorio, acciocchè sforzasse il re a licenziare i sei reggimenti Svizzeri, che tuttavia conservava a' suoi soldi.

Mentre da una parte l'ambasciator di Francia dava animo ai novatori, vedendogli volentieri, e dando facile ascolto ai rapportamenti loro e dall'altra voleva che si disarmasse il re con licenziare gli Svizzeri, i mali semi producevano in Piemonte frutti a se medesimi conformi. Sorgevano in diverse parti moti pericolosi suscitati da gente audace con intendimento di rivoltar lo stato. Il più principale pel numero e pel luogo, ed il più pericoloso si mostrava in Carrosio, terra di qualche importanza, che obbediva al Piemonte, quantunque situata dentro al dominio Genovese, e cinta da ogni parte delle terre della repubblica Ligure. Quivi erano concorsi oltre un migliaio i fuorusciti Piemontesi, sì quelli, che per iscampo loro e per essersi mescolati nelle congiure precedenti, erano stati obbligati a spatriarsi, come quelli che per opinione abborrendo la potestà regia, si erano volontariamente condotti in paesi forestieri. Avevano fatto elezione di questo luogo, parte perchè per lui potevano facilmente insinuarsi nei siti montagnosi del Tortonese e delle Langhe, parte perchè non credevano che il re s'ardisse andar ad assaltargli, stantechè era per lui necessario passare pel territorio Ligure, e parte finalmente perchè i capi loro avevano forti aderenze nel Genovesato, massimamente in Genova. Nè le speranze riuscivano senza effetto: circa due mila soldati Liguri, partitisi improvvisamente dai soldi della repubblica, ed usciti da Genova senza ostacolo, andarono ad ingrossare a Carrosio la squadra dei Piemontesi. Nè dubbio alcuno vi poteva essere sugli incitatori; perchè ed uscirono sotto condotta di un ufficiale Ligure, che poi se ne tornò sicuramente a Genova, ed erano ottimamente forniti di denaro. Al tempo stesso si recitava sulle scene Genovesi una commedia intitolata Furbo per furbo, piena di molti strazi e villanìe contro il re, e ad ogni tratto gridavano gli spettatori, viva la libertà, morte al tiranno Piemontese. L'inviato che quivi si trovava presente, per lo men reo partito elesse di ritirarsi. Le Gazzette poi di Genova, anche quelle che si pubblicavano sotto l'autorità del governo, continuamente laceravano il re, chiamandolo con ogni più obbrobrioso nome, ed innalzando fino al cielo l'impresa dei fuorusciti di Carrosio. Promettevano altresì, che quello che si tentava dalla parte della Liguria, si sarebbe anche tentato dalla parte della Cisalpina, e con parole infiammatissime pronosticavano la prossima ruina di Carlo Emanuele. Capi principali del moto di Carrosio erano uno Spinola, nobile, Pelisseri, e Trombetta popolani, gente oltre ogni modo ardita, ed intenta a novità. Un Guillaume, ed un Colignon Francesi erano con loro. Nissuno pensi, che uomini incitatissimi abbiano mai pubblicato cose più immoderate contro i re di quelle, che costoro mandarono fuori contro quel di Sardegna. Poi per dar maggior terrore, e per far credere che non si consigliassero con fondamenti falsi, spargevano ad arte voci, che la repubblica Francese loro dava favore, e che appunto coll'intento di far sorgere la rivoluzione in Piemonte, il direttorio aveva scambiato il suo legato, mandando in vece di Miot, uomo, come dicevano, di pochi pensieri e repubblicano tiepido, Ginguené, amatore vivo di repubblica, e d'animo svegliato e forte.

Intanto dalle parole passavano ai fatti, e con infinita insolenza procedendo, svaligiavano i corrieri del re con tor loro i dispacci, bruttissimo preludio di libertà. Fatti poscia più audaci dal numero loro, che ogni giorno andava crescendo, marciarono armatamano contro Serravalle, la quale combattuta vanamente, ed assaliti gagliardamente dalle genti regie, se ne tornarono con la peggio. Parecchj altri assalti diedero alla medesima fortezza con esito ora prospero, ed ora avverso. Così la guerra civile ardeva sulle frontiere del Piemonte.

Si moltiplicava continuamente il dispiacere, che riceveva il re dalle sommosse democratiche: infatti il prenunzio di romori di verso Cisalpina non riuscì vano: un corpo assai grosso di repubblicani Piemontesi, non senza intesa del governo Cisalpino, e del generale Brune, in Pallanza sul lago Maggiore adunatosi, minacciava d'invasione l'alto Novarese, e faceva le viste di volersi calare, se trovasse l'adito facile, e la fortuna propizia, fino a Vercelli. Reggevano, come capi principali, questo moto, Seras, originario di Piemonte, ma ai soldi di Francia, ed ajutante di Brune, ed un Léotaud Francese con un Lions Francese ancor esso, ajutante di Léotaud. Noveravansi in questa schiera meglio di seicento combattenti, bene armati, e partiti assai regolarmente in compagnìe. Risplendevano fra di loro non pochi giovani ingenui, e di natali onesti. Si scopriva la fortuna favorevole ai primi loro conati; conciossiachè avendo udito, che i regj giunti prima in Arona, poi già arrivati a Stresa, si apparecchiavano a combattergli, si deliberarono di prevenire i loro assalti con impadronirsi della fortezza di Domodossola; nella quale effettualmente, fatto un impeto improvviso, entrarono, non aspettando i regj una così repentina fazione, nè la fortezza essendo all'ordine per resistere. Vi trovarono i repubblicani alcuni cannoni, opportuno sussidio per loro, e se gli menarono per servirsene contro le truppe della parte contraria. Una terza testa di repubblicani armati era discesa da Abriez nelle valli dei Valdesi, e già aveva occupato Bobbio, ed il Villard, moto molto pericoloso perchè accennava a Pinerolo, terra aperta, e poco lontana dalla città capitale di Torino. Trovavasi il governo regio travagliato da tutte le parti, e temeva che il cuore stesso del Piemonte, che tuttavìa perseverava sano, avesse a fare qualche movimento contrario. Amico nissuno aveva, se non lontano, ed inabile ad ajutarlo; i vicini, cioè la Francia, la Cisalpina e la Liguria, sotto specie di amicizia, ordivano la sua ruina. Pure intendeva all'onore, se alla salute più non poteva, e faceva elezione, giacchè si vedeva giunto al fine, di perir piuttosto per forza altrui, che per viltà propria. Pubblicava il re in mezzo a sì rovinosi accidenti un editto, in cui mostrando fermezza d'animo uguale al pericolo, diè a vedere, che maggior virtù risplende in chi serba costanza a difender se stesso nell'avversità, che in chi assalta altrui con impeto nella prosperità. Andava in primo luogo rammentando quanto aveva operato, dalla sua assunzione in poi, pel sollievo dei popoli; si lamentava, che a malgrado di tante sue cure, e di tanta sollecitudine, spiriti sediziosi e perversi avessero il precedente anno volto a ribellione una moltitudine di persone, parte ree, parte imprudenti, le quali avevano empiuto il Piemonte di confusione, di terrore e di rapina; raccontava, che mercè della divina provvidenza, e coll'ajuto dei sudditi fedeli erano stati frenati i turbatori ed interrotto il corso alle indegne opere loro; che non ostante avevano trovato ricovero in grembo alle potenze vicine, donde avendo raccolto nuovi partigiani, novellamente s'attentavano di correre le province conterminali; che egli aveva mandato contro di loro truppe a sufficienza; ma perchè meglio i sudditi fossero tutelati, voleva, che tutte le città, che tutti i comuni, di concerto coi giudici regj, e sotto guida dei governatori, e dei comandanti delle piazze ponessero le armi in mano a tutti gli uomini dabbene ed affezionati, acciocchè, ove d'uopo ne fosse, potessero congiungersi con le genti regie, e correre insieme alla difesa comune; che sapeva altresì, e di certa scienza novellamente affermava, che ogni giorno riceveva tanto da parte dei generali, quanto da quella degli agenti del governo Francese, dimostrazioni non dubbie di buona amicizia; che finalmente con la sua reale sopportazione consigliandosi, offeriva perdono a chi pentito de' suoi errori se ne volesse tornare al suo grembo paterno.

Non ignorava il re, che la rabbia e la ostinazione delle opinioni politiche non lasciano luogo alle persuasioni. E però facendo maggior fondamento sulle armi, che sulle parole, aveva mandato sul lago Maggiore parecchj reggimenti di buona e fedele gente, affinchè combattessero i novatori dell'alto Novarese, e ritogliendo dalle loro mani Domodossola la restituissero al dominio consueto. Medesimamente mandava truppe sufficienti per difendere le frontiere verso la Liguria contro gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo si empiva di soldati, per frenare e spegnere l'incendio sorto nelle valli dei Valdesi.

Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo, in cui la repubblica di Francia sentirebbe tutte queste Piemontesi sommosse; perchè, se ella le fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse, qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo Francese. Ragionava egli, e certamente con molto fondato discorso, che importava al re, che il direttorio si risolvesse sulle sorti Piemontesi; poter bene, allegava, resistere a questi nuovi insulti, ma non potere più lungamente sussistere nella condizione in cui era; rendersi perciò necessario, o che la Francia gli desse mezzi d'esistenza, o che a modo suo ne disponesse: «Se è destinato dai cieli, diceva, che noi abbiamo a cessar di essere una potenza, se il corso delle cose, se la forza degli umani accidenti a ciò portano, che noi abbiamo ad essere spenti, noi preferiamo, noi anzi domandiamo, che una nazione grande, potente, e nostra alleata sia quella, che giudichi il destin nostro, ed eseguisca essa stessa quello, che abbia giudicato, piuttostochè vederci minacciati dai nostri stessi sudditi, che è indegnità insopportabile, piuttostochè vederci consumare appoco appoco, e languire in uno stato tale, che la morte non è peggiore».

Questi estremi lamenti della cadente monarchìa Piemontese non sono certamente segni di animo doppio, e non sincero; che anzi la sincerità è tale, che non solamente induce persuasione nella mente, ma ancora muove vivamente il cuore.

Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma del direttorio: che il governo Francese a modo nissuno fomentava quei movimenti; che l'animo suo verso il re era sempre il medesimo; ch'ei voleva adempire lealmente le condizioni dei trattati; che se un nemico esterno assaltasse il re potrebbe egli far capitale delle bajonette Francesi, ma che nel presente caso si vedevano sudditi volere la distruzione del suo trono; che per verità i suoi soldati avevano prevalso nei primi assalti; che sei mila fuorusciti Piemontesi, a cui stava a cuore la libertà, e che bramavano la vendetta, privi di ogni cosa necessaria al vivere, si aggiravano sull'estreme frontiere del regno; che si adunavano in grembo di nazioni libere; che quivi si accordavano ai disegni loro, e che coll'armi in mano assaltavano il re. Conviensi forse alla Francia implicarsi in tale faccenda? Certamente non conviensi. Ha la Francia armi potenti in Lombardìa, ed in Liguria: se in queste due repubbliche nascessero moti contrari al governo, se questo di per se non fosse abile al resistere, e richiedesse di ajuto la repubblica Francese, accorrerebbe ella certamente in soccorso di lui, e dissiperebbe i ribelli. Ma quando Piemontesi amatori di libertà si adunano per conquistarla, e per far la loro patria libera, volere che i Cisalpini, i Liguri, od i Francesi a loro si oppongano, è cosa del tutto sconveniente e vana. A questo dire aggiungeva Ginguenè rimprocci sul modo, con cui il governo Piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze, del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni. Concludeva, che i moti di sedizione non portavano con se alcun pericolo, se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito felice alla impresa dei sollevati: che però, esortava, preoccupassero il passo, e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo tutto quello, che si prometteva dalla rivoluzione. I rimproveri dell'ambasciadore sul mal governo del Piemonte erano, come di forestiero, inconvenienti; che la Francia poi non fosse obbligata a mantenere lo stato quieto al re, era falso, perciocchè a questo si era solennemente obbligata nel trattato d'alleanza.

In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguené, come se desiderasse torgli non solo la forza, ma ancora la mente ed il tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare, parte i comandamenti del direttorio, parte i propri spaventi. Chiedeva perciò, ed instantemente ricercava Priocca, operasse, che il re cacciasse da' suoi stati i fuorusciti Francesi, ed ancora proibisse, sotto pena di morte, gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re, se nol facesse, che disperdesse i Barbetti, che infestavano le strade, ed assassinavano i Francesi. Alle due prime richieste rispondeva Priocca, che quanto ai fuorusciti Francesi, desiderava sapere, se la Francia, e l'ambasciador suo intendessero, ch'e' fossero perseguitati, o che la qualità loro di fuorusciti fosse certificata in giustizia, o ch'ella avesse nissun fondamento legale, e solo fosse effetto dell'odio personale, dell'invidia e delle fraudi; desiderava sapere, se volessero parlare di una emigrazione di fatto, o di una emigrazione di dritto. Se di fatto, e' bisognava che l'ambasciadore si risolvesse a rendersi complice di tutti gli atti d'ingiustizia e di violenza commessi da agenti subalterni per interesse o per vendetta contro un numero infinito di Savoiardi e di Nizzardi. Non di tutti parlerebbe il ministro; solo rammenterebbe il conte Selmatoris, nato in Cherasco di Piemonte, impiegato ai servigi militari, ed in corte del re da più di trent'anni, il quale stato solo in tutto il tempo della sua vita quindici giorni nello stato di Nizza, era stato scritto nella lista dei fuorusciti di quel paese. Rammenterebbe altresì il cavaliere di Camerano, il quale, chiuso dall'ottantaquattro in poi nell'ospedal dei matti di Torino, era stato ancor esso nella lista fatale notato. Osservava oltre a ciò Priocca, che il trattato di pace, lasciando al re la facoltà di conservare a' suoi servigi i Savoiardi ed i Nizzardi, aveva riservato alla repubblica Francese il diritto di addomandar l'allontanamento di coloro, che si rendessero sospetti. Ora vorrebbesi forse, insisteva, che tali stipulazioni guardassero indietro, o statuire il principio, che ogni qualunque denunzia senza pruove faccia un uomo sospetto? E potrebbe ella forse, questa valorosa e virtuosa nazione, imputare a delitto ad un ufficiale del re l'aver guidato contro di lei soldati, che poco dopo ella credè potere far compagni delle sue fatiche e delle sue vittorie? Finalmente, concludeva, la giustizia è il primo dovere delle grandi nazioni; ella è anzi bisogno, non che dovere, se esse non vogliono rimanersi alla triste gloria di dominar con la forza, e col terrore. Ora la giustizia domanda, anzi comanda, che non s'incrudelisca contro persona per accuse meramente date da chi è mosso da brama detestabile di vendetta, o da sete vile d'interesse.

Rispetto agli stiletti ed alle coltella, affermava Priocca, non potersi i portatori di tali armi pel solo fatto del portarle punire colla pena di morte, senza una considerabile alterazione nel corpo delle leggi, e che nè la giustizia, nè la umanità permettevano, che per solo termine di polizia e di prudenza, si usasse il mezzo estremo della morte. Se si punisce di morte colui che portava un'arme, qual pena si darebbe ad un omicida? Bene si maravigliava Priocca, che queste atroci dottrine si professassero, e l'uso loro anche con minacce s'inculcasse da coloro, che continuamente avevano in bocca parole di filosofia e di umanità. Certamente non erano queste le dottrine di Beccaria.

Quanto agli assassini dei Francesi, allegava il ministro, che se gli autori ne fossero conosciuti, sarebbero incontanente castigati, e che a questo fine si era ordinato a tutti i magistrati sì civili che militari, che la sicurezza e la vita dei Francesi diligentemente preservassero; ma che sapeva bene l'ambasciatore, ed era anche vero, che intieramente non si potevano impedire gli effetti dei risentimenti particolari suscitati dagl'insulti, e dalla cattiva condotta dei Francesi; che il mutare la natura degli uomini, ed il fare che non si risentano alle ingiurie, è cosa del tutto impossibile.

Così affermava Priocca, che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto vigilante a render sicuri i Francesi in Piemonte, e quello che diceva, anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno, che secondo gli umori, od alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai democrati, che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare, anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Agitavasi la causa di un Richini, detto per soprannome Contino, capo di Barbetti, il quale accusato di grassazione contro un commissario Francese, che viaggiava da Torino a Susa, era stato arrestato per ordine regio, e tuttavia era sostenuto nelle carceri del senato a Torino. A costui fu suggerito da alcuni democrati, che se ne stavano carcerati con lui, un bel tratto, e questo fu, che affermando cose orribili ordite per suo mezzo dal governo regio contro i Francesi, l'avrebbero eglino scampato dal pericolo. Nè fu la risoluzione sua diversa dal consiglio; perchè testimoniò per iscritto, che il re defunto Vittorio Amedeo, il principe reale di Piemonte stato, dopo la morte di Vittorio, assunto al trono, ed il duca d'Aosta, figliuol secondogenito di Vittorio, gli avevano comandato, che se ne andasse nel contado di Nizza e nella riviera di Genova, e quivi avvelenasse tutti i fonti, ai quali necessariamente andassero ad abbeverarsi i Francesi; che quello, che gli era stato imposto, aveva mandato ad effetto; che per questo era sorta una grande mortalità così nei Francesi, come nelle bestie loro. Aggiunse questo Contino, che se n'era andato parecchie volte, per ordine espresso dei tre principi, ad arrestar i corrieri sulle strade, e che aveva da essi principi avuto la facoltà più ampia di ordinare sul colle di Tenda bande d'uomini armati col fine di assassinare i Francesi; ma che i principi medesimi per far vedere, che non l'avevano mosso a tutte queste enormità, l'avevano fatto carcerare, ed ordinato che se gli facesse, come affermava, un processo simulato. Io mi sento muovere a grandissima maraviglia, pensando che un ambasciatore di Francia, uomo del rimanente civile e buono, soffocata in lui la prudenza dall'illusione, non abbia abborrito dall'udire, credere, e rapportare, come fece, al suo governo calunnie tali contro principi religiosi e pii. Certo un deplorabile fantasma era quello, che gli occupava la mente. Il seguito fu, che Ginguené a nome del direttorio richiese solennemente il re, che gli desse Contino, ed il re gli satisfece dell'effetto, dandogli incontanente, e senza difficoltà l'uomo accusato d'assassinio di un Francese: vergognosa vittoria per un governo, ed un ambasciatore di Francia.

I terrori di Ginguené erano anche fomentati dalle esorbitanze dei democrati più ardenti, i quali, veduto che i Francesi a tutt'altro pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler camminare da se, ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandogli di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, prese occasione di un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri, che si trovavano alle stanze di Torino, si misero a dire le cose più smodate, che uomo immaginar si possa. Nè contenti alle parole, mandarono attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguené. Egli era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente patriotti, ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i dritti degli uomini in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno, che a loro voleva opporsi; ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso tutte le forze dei confederati d'Europa, che erano accorsi in suo ajuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti, perchè ha trovato dappertutto uomini, che e conoscevano la giustizia della sua causa, e non esitarono a dichiararsi per lei contro la tirannide. Si era la Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti i popoli, e promettendo di ajutar quelli, che, com'ella, portassero odio ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo ch'ella si è proposto, è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra del trionfo dei dispoti. Gli agenti, che manda presso a loro per compiacere al loro orgoglio, e per istringere gli empj nodi della loro amicizia, in vece di vestirsi a lutto per la morte degli amici per la libertà, celebrano feste scandalose, e bevono nelle medesime coppe dei tiranni. Il sangue di coloro, che amici della libertà si protestano, scorre a rivi, e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarla. Gli splendori del trono gli rendono spettatori insensibili dell'orribile ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi, che l'oro dei tiranni corrompe! Popoli della terra, ascoltate le voci di un uomo, che è spettatore di tante sceleragini, e che ne pruova un dolore orribile. Ardete le dichiarazioni frodolente dei diritti dell'uomo, ch'eglino vi hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce, che risplende dal tempio della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro, abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non atterra più troni; essa gli difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto fatto alla tirannìa: con una mano opprime i popoli, ai quali per suo proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni, che divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni e ruine».

Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato, e principalmente diretto contro Ginguené, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto la mente inferma, del cammino, a cui si andava con quegli amatori di libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse aspettare. Intanto tutta l'ambascerìa di Francia n'era mossa a romore. Ginguené prese contegno con Cicognara, a cui si era sempre dimostrato amico, ed egli a lui. Poi parendogli cosa d'importanza, ne scriveva al direttorio, con molta instanza pregandolo, operasse efficacemente col direttorio Cisalpino, affinchè Cicognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in ciò andarvi la salute di Francia.

L'ecatombe mentovata nello scritto fu questa. Eransi, come già abbiam narrato, i Piemontesi nemici al nome reale adunati sotto la guida di Seras e di Léotaud sulle rive del lago Maggiore, e già condottisi fin oltre Gravelona, marciavano contro i regj che loro venivano incontro. Erano stati armati, e forniti d'abiti, d'armi e di munizioni con secrete provvisioni del governo Cisalpino. Si noveravano nell'esercito regio circa quattro mila soldati descritti sotto le insegne dei reggimenti di Savoja, della Marina, di Peyer-Im-Off, di Zimmerman, e di Bacman. Le due parti si preparavano alla battaglia. Si combattè tra Gravelona ed Ornavasso. L'ala sinistra dei repubblicani, donde poteva venire il più grave pericolo, pareva fatta sicura dal fiume Toce, insino al quale ella si distendeva; ma siccome tutta l'importanza del fatto dipendeva dal vietare il passo del fiume ai regj, vi aveva Léotaud, per maggior sicurezza, collocato una compagnia di gente eletta, granatieri massimamente. Cominciavano i feritori alla leggiera una battaglia sparsa; poi le genti più grosse l'ingaggiarono per modo, che a mezzo giorno tutte le schiere menavano molto valorosamente le mani. La rabbia era uguale da ambe le parti, siccome di guerra civile, ma l'impeto maggiore da quella dei repubblicani. Questo era cagione, che i regj, quantunque fortemente resistessero, perdevano del campo, e pareva la fortuna inclinare del tutto a favore dei loro avversarj. Tanto bene ordinato era questo moto, sebbene avesse in se qualche cosa di tumultuario, e tanto era l'ardore, che animava a cose nuove quei giovani repubblicani! Mentre in questo modo si mostrava la fortuna favorevole agli sforzi dei novatori, ecco levarsi il grido, che i regj, aspramente urtata e rotta la compagnia guardatrice della Toce, avevano varcato il fiume, ed assaltavano, fremendo, le squadre repubblicane alle spalle. Nè era senza verità il grido spaventevole; imperciochè sei compagnìe di granatieri dei reggimenti di Savoja, e della Marina, con gagliardìa estrema combattendo, avevano e sbaraglialo i guardatori del varco, e passato il fiume, e già assaltavano alle terga i repubblicani. Questa mossa fe' del tutto prevalere i regj; i repubblicani assaliti da fronte e da dietro, e sopraffatti dal numero soprabbondante degli avversari che su quel forte punto si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta; nè fu più possibile ai capi di rannodargli, ancorchè Léotaud in questa bisogna virilmente si adoperasse. Cencinquanta repubblicani perirono nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la battaglia, in poter dei regj. Perì, fra gli altri, Angelo Paroletti, giovane di costume angelico, e d'ingegno maraviglioso. I superstiti furono condotti nel castello di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue condannati a morte.

In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi. Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi, che si accagionassero dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di essere loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguené con instanti parole descritto al suo governo i supplizj del Piemonte. Il direttorio, che poteva meramente intromettersi per umanità, amò meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì diciotto maggio Taleyrand a Ginguené, che i moti d'Italia, quelli sopratutto, che erano sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva; che sapeva il direttorio di certa scienza, che si era ordita una congiura col fine di far assassinare tutti i Francesi in Italia; che sapeva ugualmente, che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in ogni parte, acciocchè soccorsi di Francesi essendo addomandati al tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione s'indebolissero, e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini di uccidergli. Sapeva finalmente, che non contenti al dare compimento a sì scelerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro, che si credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti, faceva Taleyrand sapere a Ginguené ciò, che il direttorio aveva risoluto per salvare e l'Italia e i Francesi e gli amici della repubblica, dai mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto, che si appresentasse al governo del re, della orribile conspirazione favellando tanto evidentemente tramata dalle potenze straniere, e nemiche della Francia, e dimostrasse, volere il governo francese risolutamente, ch'ella e per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere, che prima di tutto, offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a tutti i sollevati, sì veramente che le armi deponessero, ed alle case loro ritornassero; volere, che il re adoprasse le sue forze contro i Barbetti, che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti i mezzi per fare, che le strade tra Francia ed Italia fossero libere e sicure. A queste condizioni, e per allontanar il timore che le repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete. Ordinerebbe anzi a Brune, che apertamente, ed espressamente comandasse ai sediziosi, che dissolvessero le bande loro e si ricomponessero nel riposo. Caso importante, ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizj arbitrarj, tanti supplizj crudeli contro uomini ragguardevoli per virtù e per dottrina, e che solo parevano essere stati condotti all'ora estrema, perchè erano amatori della repubblica Francese, non permettevano che si frapponesse indugio. Se il governo Sardo non accettasse le condizioni offerte, si renderebbe manifesto, essere lui, non più vittima, ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto, fingendo di temerle in palese. Del rimanente badasse bene Ginguené a non chiamare mai i sediziosi, patriotti, ma sì sempre amici della Francia. Nel che io non saprei giudicare, se vi sia derisione o fraude; perchè se i sediziosi erano incitati dall'Austria e dall'Inghilterra, come si dava sospetto, non si vede come si potessero chiamare amici della Francia; e da un'altra parte, se veramente era la Francia amica del re di Sardegna, come tutte le parole espresse suonavano, non si comprende, come ella chiamasse suoi amici i ribelli, che con le armi in mano apertamente combattevano l'autorità e la potenza del re.

Fece Ginguené molto efficacemente il dì ventiquattro di maggio l'ufficio. Vi aggiunse di per se parecchie parti, che furono quest'esse; che si cacciassero i fuorusciti, che attivamente si punissero gli uccisori dei Francesi, che con pena di morte si proibissero le coltella e gli stiletti, che si castigassero quei preti, che seminavano odj contro una nazione amica.

Ma parendo all'ambasciatore, che lo sforzare il re a perdonare ai ribelli, ed il chiamare amici di Francia coloro, che macchinavano contro il suo stato, fors'anche contro la sua vita, non bastassero a constituirlo in compiuta servitù, voleva, ed instava presso al direttorio, che la Francia dovea avere piena ed assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva sforzare il re a cambiare tutti i suoi ministri, ed a richiamare il conte Balbo da Parigi. Su questo punto principalmente insisteva l'ambasciatore: affermava, essere il conte l'agente di tutta la confederazione d'Europa in Parigi, spargervi, e spandervi denari in copia, seminarvi corruttele in ogni parte, rendere co' suoi dispacci il re sicuro, scrivere a Torino, che badassero a stare coll'animo riposato, che i rigori usati e da usarsi sarebbero approvati a Parigi, che gli agenti di Londra, e di Vienna, benchè fossero d'infimo grado, si adoperavano efficacemente contro Francia, e che del rimanente la repubblica rovinerebbe prima del Piemonte. Per tutti questi motivi richiedeva Ginguené, che si rivocasse il conte da Parigi, e che in oltre si eleggesse a sua scelta il successore.

Il governo Piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi minacce, ordinava il dì venticinque di maggio, che si sospendessero sino a nuovo ordine i processi dei non condannati, e si soprassedesse alle pene dei Francesi, che si fossero mescolati nelle ribellioni.

Intanto il dì ventisei di maggio alle ore quattro della mattina i fossi di Casale grondavano sangue. Léotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions ajutante di Léotaud, ambidue francesi di nascita, ma non di servizio, con otto altri parte forestieri, parte Piemontesi, che per aver combattuto nella battaglia di Ornavasso, erano stati dannati a morte, soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo Piemontese, per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente a pensare l'ora insolita dei supplizj, e la tardità della staffetta apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove ore in Trino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle, ed accelerato i supplizj, affinchè la salute arrivasse, quando già morte spaziava. Adunque il sangue, adunque l'ecatombe di Domodossola non bastavano? Bene ciò io debbo dire ai posteri, che questa crudeltà, degna di eterna riprensione, non fu opera di Priocca, ma bensì di chi in queste faccende camminava con più ferocia di lui. Si avvide il ministro in quale taccia incorresse, e perciò scriveva all'ambasciator di Francia, mostrando dolore dell'accidente, accusando il messo di tardanza, e giustificandone il governo. La uccisione massimamente dei due Francesi il travagliava: temeva di qualche subito sdegno di Francia. Per la qual cosa scrivendo a Ginguené spiegava, come il dritto pubblico, ed il dritto naturale avevano sempre voluto, che il giudice naturale di un delitto sia quello del luogo, in cui è il delitto commesso, e che come un Piemontese, che commettesse in Francia un delitto, dovrebbe essere giudicato da giudici Francesi, così un Francese, che commettesse un delitto in Piemonte, doveva esser giudicato da giudici Piemontesi. Levò Ginguené pei due Francesi morti gravissime querele, minacciò il governo Piemontese, scrisse a Parigi, che era oggimai tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso, che si faceva, ch'ella tollerasse le carnificine dei Francesi e degli amici loro, per forza dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo. Poscia le proposizioni del Piemontese ministro riprendendo circa il diritto pubblico e naturale, affermava, esser vere nei casi ordinari, ma non negli straordinari, e che quello era caso straordinario, da qualificarsi in realtà dritto di conquista, e quasi di guerra aperta sotto nome di pace e d'alleanza: parole verissime, che se giustificavano quello, che la Francia faceva contro il re, giustificavano del pari quello, che si supponeva che il re facesse contro la Francia. Adunque quello era tempo da cannoni, non da discorsi, da manifesti di guerra, non da proteste di amicizia.

Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria di Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più molesti; poichè crescendo di numero e d'ardire, sboccavano sovente a far correrìe sui territorj regj, dando loro facile adito i comandanti Liguri per le terre della repubblica. Fra le altre ci fecero una spedizione piena di molta audacia contro Pozzuolo, terra estrema verso le frontiere Liguri, e custodita da un forte presidio. Partiti con una squadra di circa quattrocento soldati al tramontar del sole del dì ventisei d'aprile, e viaggiato tutta la notte, arrivarono il giorno seguente improvvisi sopra Pozzuolo, ed investita la terra, dopo breve battaglia, la recarono in poter loro, con aver fatto prigioni circa quattrocento soldati. Portaronsi i Carrosiani molto lodevolmente in Pozzuolo, e non fecero ingiuria ai soldati cattivi. Poi se ne tornarono a Carrosio, donde di nuovo uscivano spesso a travagliare i confini.

Non ignorava il governo Piemontese, che i moti di Carrosio avevano più alte radici, che quelle dei repubblicani Piemontesi, perchè Brune e Sottin, segretamente e palesemente gli fomentavano. Tuttavia, non volendo mancare al debito della conservazione degli stati, si era deliberato a mostrar il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza traversare il territorio Ligure per arrivarvi, aveva rappresentato al governo Ligure, che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano liberamente per venir ad invadere il territorio Piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica, come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio i nemici di sua maestà, che ne abusavano per offenderla, tanto meno dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o dissipargli essa medesima, o dare alle genti regie quel passaggio stesso, ch'ella dava a' suoi nemici.

Rispose la repubblica, che non consentirebbe mai a dare il passo; solo prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio Ligure per andar ad assaltare i regj, ed intraprendevano le vettovaglie, che per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e svaligiavano i corrieri. Nel che non la perdonarono nemmeno al corriero Ligure, a cui tolsero i pieghi diretti ai ministri regj, ed aprirono quelli dei ministri di altre potenze.

Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza qualche perizia militare. Avvertinne il governo Ligure, avvertinne l'ambasciator di Francia, avvisando, che solo fine della spedizione era di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo dominio, di dar quiete a' suoi stati.

Sentì sdegnosamente l'ambasciadore questa mossa d'armi, e rescrivendo al ministro Priocca, intimava, facesse incontanente, se ancor fosse tempo, fermar le genti, che marciavano contro Carrosio, perciocchè non fosse possibile di assaltar questa terra senza violare il territorio Ligure; la quale violazione non poteva non portar con se gravi, e pericolosi accidenti. A questo modo l'ambasciatore presso ad una potenza, non solamente amica, ma ancora alleata, sofferiva pazientemente, che i ribelli di lei passassero pei territorj Liguri per andarla ad assaltare, e non tollerava, anzi si sdegnava, se essa potenza per riacquistare il suo toltole violentemente dai ribelli, attraversasse i medesimi territorj pei quali non avendo altra strada, le era necessità di passare.

Il re, stretto da tanti nemici, ed oppresso da chi doveva l'aiutare, non si perdeva d'animo, volendo, che il suo fine fosse, se non felice, almeno generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione avesse che fare nel dominio della forza. Spiegava il regio ministro, che a norma dei principj del diritto pubblico, quando un principe è impossibilitato per impedimenti naturali a pervenire ad un territorio che gli appartiene, e che gli è stato tolto, se non col passare per quello, che da ogni parte il circonda, non vi poteva essere dubbio sulla legittimità del passo; e poichè la repubblica Ligure non aveva voluto nè rimuovere le cagioni, nè dare il passo, siccome dell'una e dell'altra cosa era stata richiesta, così a lei, non al re la violazione del territorio doveva imputarsi. I soldati regj, attraversato il territorio Ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio, e si facevano padroni della terra. Poscia, per maggior sicurezza, munirono di guardie tutte le alture circostanti.

A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano si risentirono gravemente; le cose che scrissero, sono piuttosto pazze che stravaganti. Un Francesco Serra, figliuolo che fu di Giacomo, avanzò ogni altro con una scrittura tanto esorbitante, ed eccedente ogni modo di procedere civile, che se sola passasse ai posteri, non so con qual nome chiamerebbero l'età nostra. Ma Sottin non si ristava alle parole, anzi accesamente appresso al direttorio Ligure instando, operò di modo che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nemico della repubblica, e ad intimargli la guerra. Brune si rallegrava, che le cose gli andassero a seconda, ed aprissero l'adito a' suoi disegni ulteriori. Non dubitava, che quanto più il re fosse stretto da difficoltà, e quanto più bassa la sua fortuna, tanto meno sarebbe renitente al consentire alla Francia quello, ch'egli aveva in animo di domandargli, e che era piuttosto di estrema, che di somma importanza; proponendosi in tale modo il generale della repubblica di tirare a benefizio di lei la guerra, che fomentava egli medesimo sottomano contro Carlo Emanuele.

Mentre Sottin spingeva la repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguené voleva impedire, che egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di questa discordia. Al che il ministro rispondeva proponendo, a fine di prevenire il sangue, e di mostrar desiderio di pace, che Carrosio si sgombrasse dalle genti regie, e si depositasse in mano dei Francesi. Solo domandava, che la repubblica Ligure cessasse le ostilità, e non desse più ricetto a masse armate contro il Piemonte. Non dispiacque all'ambasciadore la proposta, e mandava il suo segretario a Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo Piemontese, non aspettate le intenzioni di Brune, volendo, o per amore di concordia, o per timore di Francia gratificare all'ambasciadore, aveva operato, che le truppe si ritirassero da Carrosio, e ritornassero nei dominj Piemontesi oltre i confini Liguri. Per la ritirata dei regj non cessavano le ostilità; anzi i Liguri venuti avanti coi novatori Piemontesi sotto la condotta del generale Siri s'impadronirono, dopo un violento contrasto, della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti si erano fatti signori di Loano. I soldati Piemontesi presi in questo fatto furono condotti dai vincitori a guisa di trionfo nel gran cortile del palazzo nazionale di Genova, dove sedevano i consigli legislativi. Sorsero molte allegrezze. Le solite imprecazioni contro i re, massime contro quel di Sardegna, montarono al colmo.

Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per far calare il re a quello, che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille spaventi. Già Ginguené parlando con Priocca aveva tentato per ogni modo di spaventarlo. Affermava, che in ogni parte apparivano segni di una feroce congiura contro i Francesi in Italia; che già Napoli armava; che già l'imperatore empiva gli stati Veneti di soldati; che in ogni parte si fomentavano sedizioni; che in ogni parte con infiammative predicazioni si stimolavano i popoli contro i Francesi; che questo fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica Francese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato d'affari d'Inghilterra? che essi potevano dar denari al re, dei quali quale uso egli facesse, ben si sapeva; che i fuorusciti Francesi, che le macchinazioni dei preti, che la parzialità dei magistrati, che il parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Francesi della gente in ufficio non lasciava luogo a dubitare, che qualche gran macchina si ordisse contro Francia.





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