Книга - Non resta che scappare

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Non resta che scappare
Blake Pierce


Un thriller di Adele Sharp #2
“Quando pensi che la vita non potrebbe andare meglio di così, Blake Pierce arriva con un altro capolavoro del thriller e del mistero! Questo libro è pieno di svolte e il finale porta una sorprendente rivelazione. Lo raccomando fortemente per la biblioteca permanente di ogni lettore che ami i thriller davvero ben scritti.”

–-Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il Killer della Rosa)



NON RESTA CHE SCAPPARE è il libro #1 di una nuova serie thriller sull’FBI realizzata dall’autore statunitense campione d’incassi Blake Pierce, il cui bestseller numero #1 Il Killer della Rosa (Libro #1) (scaricabile gratuitamente) ha ricevuto oltre 1.000 recensioni da cinque stelle.



Un serial killer sta facendo man bassa nella comunità di espatriati Americani a Parigi, con omicidi che ricordano Jack lo Squartatore. Per l’agente speciale dell’FBI Adele Sharp, si tratta di una corsa folle contro il tempo per entrare nella sua mente e salvare la vittima successiva. Fino a che non scopre un segreto più oscuro di quanto chiunque potrebbe mai immaginare.



Perseguitata dall’omicidio della sua stessa madre, Adele si getta nel caso, immergendosi nel ventre rivoltante di una città che una volta chiamava casa.



Riuscirà Adele a fermare l’assassino prima che sia troppo tardi?



Una serie thriller piena zeppa di azione con intrighi internazionali e suspense che tiene incollati alle pagine, NON RESTA CHE SCAPPARE vi costringerà a leggere fino a notte inoltrata.



Il terzo #3 libro della seria di THRILLER DI ADELE SHARP è ora disponibile per pre-ordinazioni.





Blake Pierce

NON RESTA CHE SCAPPARE




N O N   R E S T A


C H E


S C A P P A R E




(Un thriller di Adele Sharp—Libro Due)




B L A K E   P I E R C E




Edizione italiana a cura di




ANNALISA LOVAT



Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore statunitense oggi campione d’incassi della serie thriller RILEY PAGE, che include diciassette. Blake Pierce è anche l’autore della serie mistery MACKENZIE WHITE che comprende quattordici libri; della serie mistery AVERY BLACK che comprende sei libri;  della serie mistery KERI LOCKE che comprende cinque libri; della serie mistery GLI INIZI DI RILEY PAIGE che comprende cinque libri; della serie mistery KATE WISE che comprende sette libri; dell’emozionante mistery psicologico CHLOE FINE che comprende sei libri; dell’emozionante serie thriller psicologico JESSE HUNT che comprende sette libri (e altri in arrivo); della seria thriller psicologico RAGAZZA ALLA PARI, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della serie mistery ZOE PRIME, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della nuova seria thriller ADELE SHARP e della nuova serio di gialli VIAGGIO IN EUROPA.



Un avido lettore e da sempre amante dei generi mistery e thriller, Blake ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.blakepierceauthor.com (http://www.blakepierceauthor.com/) per saperne di più e restare informati.








Copyright © 2020 di Blake Pierce. Tutti i diritti riservati. A eccezione di quanto consentito dall’U.S. Copyright Act del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuitao trasmessa in alcuna forma o in alcun modo, o archiviata in un database o in un sistema di raccolta, senza previa autorizzazione dell’autore. Questo ebook è concesso in licenza esclusivamente ad uso ludico personale. Questo ebook non può essere rivenduto né ceduto ad altre persone. Se desidera condividere questo libro con un'altra persona, la preghiamo di acquistare una copia aggiuntiva per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro e non l’ha acquistato, o non è stato acquistato esclusivamente per il suo personale uso, la preghiamo di restituirlo e di acquistare la sua copia personale. La ringraziamo per il suo rispetto verso il duro lavoro svolto da questo autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, imprese, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto della fantasia dell’autore o sono usati romanzescamente. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. Immagine di copertina Copyright JakubD, utilizzata sotto licenza da Shutterstock.com.



LIBRI DI BLAKE PIERCE

LA SERIE THRILLER DI ADELE SHARP

NON RESTA CHE MORIRE (Libro #1)

NON RESTA CHE SCAPPARE (Libro #2)

NON RESTA CHE NASCONDERSI (Libro #3)



THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Volume#1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Volume #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Volume #3)



LA RAGAZZA ALLA PARI

QUASI SCOMPARSA (Libro #1)

QUASI PERDUTA (Libro #2)

QUASI MORTA (Libro #3)



THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Libro #1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Libro #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Libro #3)



I THRILLER PSICOLOGICI DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)

LA BUGIA PERFETTA (Libro #5)

IL LOOK PERFETTO (Libro #6)



I GIALLI PSICOLOGICI DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

UN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)

RITORNA A CASA (Libro #5)

FINESTRE OSCURATE (Libro #6)



I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)

SE LEI SI NASCONDESSE (Libro #4)

SE FOSSE FUGGITA (Libro #5)

SE LEI TEMESSE (Libro #6)

SE LEI UDISSE (Libro #7)



GLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)

PERSECUZIONE (Libro #5)



I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)

OMICIDI CASUALI (Libro #16)

IL KILLER DI HALLOWEEN (Libro #17)



UN RACCONTO BREVE DI RILEY PAIGE

UNA LEZIONE TORMENTATA



I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)

PRIMA CHE INSEGUA (Libro #13)



I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)



I MISTERI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)




CAPITOLO UNO


Sotto a un cielo serale che ancora trasudava i riflessi degli ultimi raggi di sole, Adele guardava le mani tremanti dell’agente Masse. Il suo labbro superiore era madido di sudore e il pomo d’Adamo saliva e scendeva ritmicamente, mentre teneva gli occhi fissi sulla sua pistola di servizio. Notando la sua attenzione, il nuovo partner di Adele le rivolse un sorriso imbarazzato, seguito da un rapido pollice ruotato all’insù. Per fare quel gesto, Mosse dovette lasciare momentaneamente l’arma con una mano, ma subito la riafferrò, stringendola con dita insicure.

Adele resistette all’impulso di aggrottare la fronte. Socchiuse gli occhi fissando la propria pistola, che teneva saldamente puntata verso il corridoio aperto del secondo piano del motel. Alla loro destra, una sottile ringhiera bianca e sgangherata – mezza ruggine e mezza acciaio – forniva una precaria barriera tra il corridoio e il cortile sottostante. I rinforzi erano in ritardo: qualcosa che aveva a che fare con un uomo armato di pistola a un distributore, per cui la maggior parte dei veicoli avevano deviato da quella parte. Ma loro non potevano aspettare. Hernandez si era già rivelato sfuggente in passato. Per ora, tutto ciò che Adele aveva a disposizione era Masse, oltre a un proprio personale senso di inquietudine.

Guardò oltre la ringhiera, verso la piscina rettangolare: l’acqua, di un blu innaturale, rifletteva i residui della luce della sera in lampi cristallini che si muovevano leggermente. Un trampolino dalla parte opposta occupava lo spazio accanto alla scaletta di metallo per l’accesso all’acqua. Il pesante odore di cloro impregnava l’aria, mescolandosi con il costante ronzio del traffico della strada adiacente. Attraverso gli spazi vuoti tra le diverse ali del motel, si potevano vedere alcune auto ferme.

“All’occhio,” mormorò Adele sommessamente.

Teneva la schiena premuta contro l’intonaco bitorzoluto a effetto popcorn del vecchio motel. Sentì della polvere caderle dietro al collo, ma mantenne i movimenti regolari mentre avanzava, scivolando lungo la parete. Una donna stava guardando fuori dalla finestra, scrutando con occhi da gufo l’avanzata degli agenti dell’FBI.

Adele la scorse e scosse leggermente la testa. La tenutaria del motel scomparve alla vista dietro alla finestra segnata da ditate di unto e aloni di fiato condensato.

L’agente Masse andò a sbattere contro Adele, richiamando momentaneamente la sua attenzione, tutta puntata sulla stanza A7. Lei gli lanciò un’occhiataccia. “Fai attenzione,” mormorò in un sussurro appena udibile.

Masse alzò una mano in segno di scusa, lasciando ancora una volta la presa sulla sua arma di servizio. Dentro di sé Adele represse un gemito di frustrazione. Per quanto fosse scontroso, una cosa si doveva riconoscere a John Renee: non aveva niente a che vedere con i dilettanti. Ora, tornata a San Francisco, Adele scopriva di sentire la mancanza dell’alto agente con la cicatrice sul collo.

Una mancanza puramente professionale, ovviamente. Ovviamente. John era un tiratore eccellente, affidabile in situazioni di pericolo e – cosa più importante – non avrebbe continuato ad andarle a sbattere addosso, fuori dalla stanza di motel dell’assassino.

“Puoi finirla, per favore?” sussurrò Adele dopo la terza volta che l’uomo le urtava la gamba con il suo ginocchio mentre percorrevano il corridoio scoperto.

“Scusa,” disse l’agente Masse con voce un po’ troppo alta.

Adele si irrigidì. Dall’interno dell’A7 le parve di sentire del movimento. Fissò la porta, il battito del cuore fisso nelle orecchie. Poi calò il silenzio.

Adele aspettò, inumidendosi il bordo delle labbra, le orecchie tese, gli occhi fissi sulla maniglia argentata della porta, sotto alla fessura per la lettura della chiave.

Jason Hernandez. Sospettato di due barbari omicidi. Adele aveva passato le due settimane precedenti ad analizzare i rapporti tossicologici. Jason aveva iniettato una bella dose di metanfetamine alle sue vittime prima di randellarle a morte nel salotto di casa loro.

Presumibilmente, pensò tra sé e sé. Le si presentarono delle immagini nella mente. Adele si figurò le macchie color cremisi sul tappeto turco elegantemente decorato. Ricordò le espressioni inorridite del personale delle pulizie che aveva trovato il lavoro di Jason. E ovviamente i crimini erano accaduti sulle Hills. Coppia ricca e famosa assassinata? Fatti da parte, omicidio. Salve, FBI.

Adele indicò la porta con un cenno del capo, tenendo la pistola puntata. Il suo nuovo partner esitò.

Lei tentò di non ruotare gli occhi, ma con un rude sussurro disse: “La chiave. Sbrigati!”

L’agente Masse si irrigidì come un cervo abbagliato dai fari di un’auto. Il giovane agente puntò gli occhi sul volto di Adele per qualche istante prima di registrare le sue parole. Muovendosi ora troppo velocemente, come a voler recuperare il tempo perso, le passò davanti frettolosamente, strusciando contro la ringhiera bianca arrugginita che si affacciava sulla piscina. La mano destra sfrecciò verso la tasca destra del suo giubbotto, dove si mise a trafficare per liberare l’asola dal bottone.

Adele lo fissò incredula.

Le guance di Masse si imporporarono e lui le rivolse un silenzioso Scusa scandito solo con il movimento delle labbra, mentre ancora combatteva con il bottone. Sembrava non riuscire a liberarlo. Facendo una smorfia, Masse mise la pistola nella fondina e, ora con entrambe le mani, sbottonò la tasca. Alla fine, la pistola ancora riposta nella fondina, tirò fuori la key-card che l’impiegato del motel aveva dato loro. Con mano ancora tremante, il giovane agente inserì la carta nella fessura della porta. Una lucetta verde lampeggiò sopra a una maniglia a forma di L.

Masse fece un passo indietro, i suoi giovani occhi fissi su Adele.

Lei indicò con un cenno il suo fianco.

Di nuovo, sguardo vuoto.

“La tua pistola,” gli disse a denti stretti.

Masse sgranò gli occhi e prese rapidamente l’arma, puntandola verso la porta. Le finestre dell’A7 erano chiuse e le tende non lasciavano filtrare la luce.

“È armato e pericoloso,” disse Adele sottovoce. Di solito la seconda parte di quella frase sembrava un’inutile ripetizione, ma con Masse non poteva esserne certa. “Se vedi un’arma, non lasciargli nessuna possibilità. Capito?”

L’agente Masse la fissò, fermo sul posto e tremante, ma annuì. Adele deglutì, cercando di calmare il proprio nervosismo. Strinse con maggiore fermezza la pistola, sentendo l’impugnatura fredda dell’arma contro i palmi delle mani. Si sforzò di non tradire il proprio disagio: le armi da fuoco e tutto ciò che le riguardava erano sempre stata la parte che lei meno preferiva in quel lavoro.

Masse prese posizione dalla parte opposta della porta. Le rivolse un’occhiata d’intesa e allungò la mano destra, la sinistra sempre con la pistola in mano, afferrando la maniglia della porta, e poi…

La porta si aprì di schianto. Un grido selvaggio risuonò dall’interno e qualcuno andò a sbattere contro il finto legno dall’altra parte, spingendo Masse indietro.

L’agente sparò una volta, due volte. Senza mirare. Cadde a terra, spinto dal battente spalancato. I proiettili colpirono il soffitto. Qualcosa in frenetico movimento uscì dalla stanza del motel, lanciandosi nel corridoio. La figura teneva in mano qualcosa di metallo, luccicante.

Un’arma?

No. Troppo piccola. La persona non si girò né a destra né a sinistra, ma si lanciò invece, con un grido, oltre la ringhiera, tuffandosi nella piscina sottostante. L’imprecazione di Adele fece coro con il forte splash!

Adele puntò la sua pistola e fece due rapidi passi laterali verso la ringhiera. I suoi occhi si fissarono sulla piscina blu, poi sui cerchi che si allargavano sull’acqua. Puntò l’arma contro la forma in fuga sotto la superficie…

… e lo riconobbe subito per la testa rasata e ricoperta dal contorto tatuaggio di due serpenti che facevano un giro attorno alle sue orecchie e si attorcigliavano poi alla base del collo. Le lingue dei serpenti si intrecciavano, formando un nodo tra le scapole. Jason Hernandez non aveva addosso una maglietta. Aveva la pancia un po’ prominente e i pantaloni zuppi d’acqua ora gli stavano aderenti addosso, senza però impedirgli di triarsi fuori dalla piscina, sbuffando, rotolando poi oltre il bordo. Si rialzò e, gocciolante e ansimante, cercò di saltare la siepe di delimitazione. Finì con l’inciampare e spezzare dei rami, atterrando tra il fogliame. Poi, sputando e imprecando in spagnolo, si rimise in piedi e corse verso l’apertura che c’era tra le due ali del motel, in direzione della strada trafficata.

Adele premette contro il grilletto e strinse i denti.

“Fermo!” gridò.

L’uomo non la ascoltò. Di nuovo Adele scorse qualcosa di metallico nella sua mano destra. Un coltello?

Uno sparo diretto. Lo aveva perfettamente davanti a sé. Ma no, era disarmato. La maggior parte degli assassini non avevano bisogno di armi, però. Presunto assassino, ricordò a se stessa. Adele abbassò l’arma e passò oltre il suo partner, che ancora stava tentando di riprendersi per il colpo preso in faccia dalla porta. Il naso gli sanguinava e si stava massaggiando il mento con sguardo vuoto e confuso.

Adele scattò gridando: “Sta scappando!” Corse fino alla fine del corridoio senza guardarsi indietro. Non sentì nessun passo alle sue spalle, e capì che il suo partner sarebbe stato fuori uso ancora per un po’. Adele strinse i denti e raggiunse la scala a chiocciola in metallo, lanciandosi giù tre gradini alla volta.

Le armi da fuoco non erano il suo forte. Ma trovare dei criminali sì. Scese le scale, sempre guardando Jason che correva verso la strada.

Lo perse di vista quando arrivò all’ultimo gradino e anche lei si lanciò in direzione della strada. Ma dopo poche falcate, si fermò ed esitò, ansimando, vicino agli arbusti che costeggiavano la piscina.

Davvero Jason sarebbe andato verso la strada trafficata? La gente lo avrebbe visto. Quella parte della città era pesantemente pattugliata. Jason di certo lo sapeva. La mente di Adele balzò di nuovo a quella cosa di metallo che gli aveva visto in mano. Un coltello? No. Un’arma da fuoco? No, troppo piccola.

Chiavi. Sì, dovevano essere delle chiavi.

I suoi occhi scattarono ancora verso il corridoio sopra di lei. Chiavi per la stanza del motel? No? Loro avevano usato una key-card. Voltò le spalle alla strada e scrutò la lunghezza della seconda ala del motel, dietro alla quale sospettava fosse scomparso. Sarebbe tornato indietro?

Chiavi della macchina. Dovevano essere chiavi della macchina, giusto? Il pickup di Jason era nel parcheggio del motel, lo avevano visto arrivando.

Adele si convinse e poi, anziché dirigersi verso il passaggio tra gli edifici e quindi verso la strada, si girò e scattò nella direzione opposta. Il parcheggio del motel era situato dietro agli edifici, circoscritto da una grossa recinzione in legno e con dei cassonetti rossi con coperchi neri, nuovi di zecca, ai quattro angoli.

Un presentimento. Ma a volte un presentimento era tutto ciò che un agente aveva a disposizione.

Adele poteva sentire le sirene in lontananza, ma erano ancora deboli. Era sola. Si guardò alle spalle, verso le scale, notando che il suo collega stava lentamente scendendo, lo sguardo ancora frastornato mentre scuoteva la testa. Zoppicava un po’, il sangue che ancora gli colava dal naso.

Adele espirò rassegnata mentre continuava a correre in direzione del parcheggio. Saltò un’alta piccola siepe, riconoscente per tutto il tempo passato a correre ogni mattina. Corse lungo il lato dell’ufficio di registrazione documenti e poi passò oltre una rete e un cassonetto rosso posizionato sul retro degli uffici. L’olezzo della spazzatura di due settimane impregnava l’aria e le si appiccicò ai vestiti. Adele ignorò il puzzo e imprecò mentre la stoffa le restava impigliata in una parte sporgente della rete. Uno strappo silenzioso, un lampo di dolore. Ma non si fermò, ignorando lo squarcio nei suoi abiti.

Adele scivolò attraverso la rete e il cassonetto puzzolente prima di fermarsi di colpo e fissare il grosso pickup nero con gli specchietti sporgenti. Il veicolo era parcheggiato in mezzo a due spazi liberi, dietro a un minivan.

La portiera laterale del pickup era spalancata.

Jason si stava già arrampicando al posto di guida. Lanciò un’occhiata verso di lei, poi imprecò ad alta voce prima di sbattere la portiera e infilare la chiave nell’accensione. Si sentì un attutito rumore metallico, seguito da una scia di bestemmie in spagnolo.

Adele alzò la pistola e la puntò contro il finestrino. “Fermo o sparo!” gridò.

Ma il signor Hernandez la ignorò, continuando a trafficare con le chiavi. Alla fine il motore prese vita. Jason fissò fuori dal finestrino, gli occhi sgranati, nel panico. Il tatuaggio contorto dei due serpenti sembrava pulsare sulla sua pelle e le vene erano sporgenti alle tempie.

L’uomo mormorò qualcosa che Adele non poté sentire attraverso il vetro, poi inserì la marcia. Diede gas. Si udì il fischio dei copertoni e il pickup sfrecciò in avanti, andando quasi a sbattere contro la parete dell’ufficio. Jason imprecò tacitamene e inserì la retromarcia prima di guardarsi alle spalle e prepararsi alla manovra.

Diversamente dal motel, il pickup di Jason era in condizioni immacolate. I finestrini erano puliti e il veicolo stesso non aveva un singolo graffio o botta. Alcuni dei testimoni che avevano visto Hernandez seguire le sue presunte vittime a casa loro avevano affermato che tutto aveva avuto inizio quando il signor Carter aveva quasi tamponato il pickup di Jason.

Adele tenne la pistola puntata e si preparò, le spalle aperte, i piedi divaricati. “Fermo, FBI!” gridò.

“Agente Sharp!” chiamò una voce alle sue spalle. Per un brevissimo istante, Adele sussultò e si voltò.

Masse stava arrancando lungo l’edificio più vicino a Jason. Chiaramente aveva fatto il giro dalla strada, percorrendo la via più lunga. Ma ora significava che era più vicino al pickup rispetto a lei. Masse scorse Jason. Il giovane agente sgranò gli occhi e sollevò la pistola.

“Aspetta!” gridò Adele.

Ma Masse scaricò tre colpi a raffica. Due colpirono il cofano del veicolo, il terzo mandò in frantumi entrambi i finestrini, passando dritto da uno all’altro. Nessuno degli spari colpì Jason Hernandez.

Ma attraverso la cornice dei finestrini ora infranti, Adele aveva adesso una buona visuale dell’espressione dell’uomo.

Non stava più trafficando con volante e accensione. Fissava il vetro distrutto, gli occhi sgranati come scioccato, il volto ora pallido. Guardò i frammenti del finestrino distrutto, poi i suoi occhi passarono ai due fori fumanti sul cofano dell’adorato pickup.

“Puta!” gridò. Hernandez passò sul sedile del passeggero e aprì la portiera da quel lato, uscendo velocemente dal veicolo. Ora si trovava dalla parte opposta del mezzo rispetto ad Adele, ma più vicino a Masse.

Adele cercò di mantenere la propria posizione, ma sbuffò frustrata: aveva perso il bersaglio diretto. Si spostò rapidamente, sempre con movimenti controllati, cercando di mantenere i due soggetti all’interno del campo visivo mentre faceva rapidamente il giro del parcheggio.

Jason iniziò ad avanzare verso l’agente Masse, ignorando la pistola puntata contro il suo volto e Adele che stava facendo il giro da dietro. Quando si fu rimessa in posizione, Adele scrutò la sua espressione: gli occhi di Jason erano dilatati, le vene gli pulsavano sulla fronte e sul collo.

“Cavron!” gracchiò, spostando lo sguardo dal suo pickup ora rovinato all’agente dell’FBI che aveva sparato. Sembrava del tutto indifferente, o forse inconsapevole dell’arma che Masse ancora teneva tra mani tremanti.

Sembrava che il giovane agente stesse registrando solo ora il grido “Aspetta!” che Adele gli aveva lanciato poco prima. Il dito premuto contro il grilletto era ancora bianco per la tensione, ma lui sembrava pietrificato. Aspettò, esitante, guardando Adele e poi la figura di Hernandez che si stava avvicinando. Esitò per un secondo di troppo.

“No… non farlo!” gridò Adele, ma fu troppo tardi.

Jason si lanciò in avanti, abbassandosi sotto alla linea di tiro di Masse e prese il giovane agente per la vita, cadendo insieme a lui sul marciapiede.

Adele corse in avanti, cercando un varco, la pistola puntata. Il cemento freddo del parcheggio e la barriera di sicurezza fornivano una superficie dura contro la quale le scapole di Masse andarono a sbattere una volta, e poi un’altra, mentre lui tentava di rialzarsi. Ma Jason ringhiava, tirava pugni e tentava di graffiare gli occhi dell’agente.

“Levati di mezzo!” gridò Adele. Poi sparò.

Masse si lasciò scappare un grido di terrore. Hernandez sbuffò per il dolore, ruotò su se stesso e cadde a terra accanto all’agente che aveva immobilizzato.

“Il primo al braccio,” disse Adele con tono secco, la pistola sempre puntata su Hernandez. “Continua a ribellarti e il prossimo di finisce dritto nel petto, capito?”

Il rumore di grida e imprecazioni da parte di Jason svanì. L’uomo continuava a rotolare avanti e indietro, i denti digrignati per il dolore e la testa premuta contro il ruvido marciapiede. Dei piccoli rivoli di sangue rosso gli scorrevano tra le dita. Di tanto in tanto distoglieva lo sguardo dal braccio ferito e guardava il suo pickup danneggiato, scuotendo la testa con rinnovata angoscia.

Adele sospirò, poi portò la mano alla radiotrasmittente che aveva al braccio. “C’è bisogno di un medico,” disse.

Guardò il collega, che si stava ancora mettendo in piedi, tremante, e poi la forma di Hernandez che si contorceva a terra. Sospirò di nuovo. “Meglio due”. Poi ruotò gli occhi al cielo e si avvicinò a Hernandez, prendendo le manette che teneva alla cintura.




CAPITOLO DUE


Adele espirò pesantemente, ascoltando il sommesso cigolio dei cardini mentre la porta di casa sua si chiudeva. Dopo quattro ore di ridicoli documenti e interrogatori, era felice di essere finalmente di nuovo a casa.

Premette un interruttore della luce e osservò lo spazio angusto mentre ruotava le spalle e sussultava sentendo un’improvvisa fitta di dolore. Adele si guardò il fianco e notò per la prima volta una macchia rossa sulla camicia bianca sotto alla giacca.

Si accigliò. Con un altro sussulto, scrutò il suo piccolo appartamento mentre andava al lavandino della cucina, sfilando rassegnata la camicia dalla cintura.

Un’altra casa. L’affitto andava di due mesi in due mesi. Restare nel vecchio appartamento le sarebbe risultato troppo costoso. Dopo che Angus se n’era andato, Adele semplicemente non prendeva abbastanza soldi per poter continuare a pagare l’affitto a SoMa, il quartiere di aggregazione di Angus e dei suoi amichetti informatici. Ora, dopo essersi trasferita a Brisbane, notava che il cambiamento non le dava per niente fastidio. Non era un posto rumoroso – e di questo doveva ringraziare i suoi vicini – anche se l’appartamento era poco più di una cucina, una TV e una camera da letto con bagno privato. Tutto quanto, addirittura anche il televisore, sapeva un po’ di muffa.

Ad ogni modo non era che lei passasse poi tanto tempo a casa.

Adele sussultò di nuovo mentre tirava la camicia fuori dalla cintura ed esaminava il lungo graffio sulla sua pelle. Fece una smorfia ricordando. Senza dubbio un regalino della rete di ferro.

“Maledetti dilettanti,” mormorò sottovoce.

L’agente Masse era giovane. Aveva finito l’addestramento solo pochi mesi prima. Adele dubitava di essere stata molto meglio durante il suo primo caso, eppure… questo era davvero stato un disastro. Sentiva la mancanza di John. L’ultima volta che si erano visti, però… si erano trovati impacciati. Ricordava la nuotata notturna nella piscina privata di Robert. Il modo in cui John si era chinato verso di lei, e come poi, quasi di riflesso, si era ritratto.

Adele si accigliò al pensiero, ma avrebbe voluto poter tornare indietro. Prese un pezzo di carta assorbente dalla mensola della cucina e fece scorrere l’acqua calda. Aprì l’anta sopra al frigorifero e ne tirò fuori una bottiglia di disinfettante. Vi inzuppò la carta e premette la medicazione improvvisata contro le costole, sussultando un’altra volta.

Andò all’unica sedia che c’era in cucina, infilata sotto al mezzo tavolo che si trovava tra il frigorifero e il fornello, e si sedette di fronte al muro, tamponando il graffio con il pezzo di carta assorbente pregno d’alcool. Alla fine, appoggiandosi allo schienale, sospirò profondamente.

Sovrappensiero, si voltò a guardare la porta alle sue spalle. Due chiavistelli e una catena ornavano la cornice di metallo, rimasuglio dei proprietari precedenti.

La sedia grattò contro il pavimento mentre lei si spostava e posava un gomito sul tavolo, fissando la superficie del legno liscio. Si spostò ancora, se non altro per sentire nuovamente un po’ di rumore. L’appartamento era così silenzioso. Quando abitava con Angus, c’era sempre stato almeno uno spettacolo alla TV, o qualche podcast che riverberava dalla sua stanza mentre lavorava a un progetto di decodificazione. Per il paio di settimane che aveva passato da Robert in Francia, si era spesso trovata nella stessa stanza in cui c’era il suo vecchio mentore, godendosi la sua compagnia accanto al fuoco, mentre lui leggeva un libro o ascoltava un concerto alla radio.

Ora però, nel piccolo e stretto appartamento di San Francisco… era tutto di nuovo tremendamente silenzioso.

Adele si spostò ancora una volta, ascoltando lo scricchiolio di protesta della misera sedia. Le venne in mente una frase della sua infanzia, una delle preferite di suo padre: “Le cose semplici appagano le menti semplici.” In una sorta di protesta fantasma, Adele oscillò sulla sedia, ascoltando un’ultima volta quello scricchiolio stranamente consolante, prima di stringere i denti, sempre premendosi la benda improvvisata sulla ferita. Poi si alzò in piedi e imboccò il corridoio.

“Maledetto Renee,” mormorò.

Jason Hernandez non sarebbe mai scappato se John fosse stato lì. La Francia le mancava. Dopo il colloquio con l’Interpol, aveva passato del tempo con Robert. Delle giornate interessanti, rigeneranti in un certo senso. Le avevano offerto un’opportunità di fare delle ricerche sull’assassino di sua madre.

Adele aprì la porta del bagno alla fine del corridoio e si mise davanti allo specchio. Era un bagno piccolo e stretto. La doccia era sufficiente, dato che erano quasi sei anni che Adele non faceva un bagno. Le docce erano molto più efficaci. Il sergente – suo padre – probabilmente non aveva fatto un bagno in tutta la sua vita.

Adele sospirò mentre si spogliava ed entrava nella doccia, aprendo l’acqua calda. Lo spruzzo era ancora tiepido. Un altro piccolo difetto del nuovo appartamento. La pressione dell’acqua non era un gran che, ma si sarebbe dovuta accontentare.

Mentre Adele stava sotto all’erogatore della doccia, chiuse gli occhi e permise alla sua mente di vagare, mettendo da parte gli eventi della giornata e tornando agli ultimi due mesi negli Stati Uniti.

Le parole rigiravano nella sua mente.

“… Onestamente, è buffo che tu te ne sia andata da Parigi, sai? Soprattutto considerato dove lavoravi.”

Sospirò mentre l’acqua le inzuppava i capelli e iniziava a gocciolarle dal naso e dalle guance in lenti scrosci irregolari che corrispondevano al getto intermittente dell’erogatore. Ma lei tenne gli occhi chiusi, ripensando ancora a quelle parole. Riecheggiavano – a volte addirittura durante il sonno – risuonando nella sua testa.

Era quello che aveva detto il killer.

Di nuovo in Francia. Un uomo che aveva fatto a pezzi le sue vittime e le aveva guardate morire dissanguate, indifese e da sole. Lei e John avevano catturato quel serial killer, ma non prima che avesse quasi assassinato anche suo padre. Aveva quasi ucciso anche Adele stessa, in effetti.

Quel bastardo venerava l’assassino di sua madre. Un altro assassino. Ce n’erano così tanti.

La fronte di Adele si aggrottò sotto al flusso dell’acqua mentre teneva serrati i pugni, le nocche premute contro la plastica bianca, fredda e scivolosa, che sembrava porcellana.

John aveva ucciso il serial killer prima che l’uomo finisse Adele, ma questo l’aveva solo lasciata con più domande. Da qualche parte dentro di lei quasi desiderava che fosse rimasto in vita.

Perché era così buffo che lei se ne fosse andata da Parigi? Quella frase ora la ossessionava. Continuava a girarsela e rigirarsela nella testa. Buffo che tu te ne sia andata da Parigi… soprattutto considerato dove lavoravi. Come se la stesse prendendo in giro. Stavano parlando dell’assassino di sua madre.

Parigi. Ora ne era quasi certa. L’assassino di sua madre aveva vissuto a Parigi. Forse ci viveva ancora. Avrebbe avuto, cosa, cinquant’anni? Adele scosse la testa, spruzzando goccioline d’acqua nella doccia e sul ripiano scivoloso.

Strinse i denti mentre altra acqua tiepida scendeva in getti irregolari.

In uno scoppio di frustrazione, girò la manopola a metà, ma l’acqua non si scaldò. Adele sbatté le palpebre, gli occhi che bruciavano contro i rigoli di liquido che le striavano le guance. Fissò con rabbia il pomello della doccia, la freccia che indicava l’estremità di un segno rosso.

“Allor ava bene,” mormorò.

Afferrò la manopola e la ruotò dall’altra parte. Piccoli stratagemmi raccolti nel tempo. L’acqua fredda cominciò a colpirle la testa, facendole venire la pelle d’oca sulle braccia. Nel giro di pochi istanti Adele iniziò a battere i denti e il dolore al fianco svanì lasciando spazio a un indolenzimento gelido mentre l’acqua da fredda diventava ghiacciata.

Ma lei rimase nella doccia.

L’assassino l’aveva presa in giro. Come se avesse saputo qualcosa. Qualcosa che a lei era sfuggito. Qualcosa che era sfuggito anche alle autorità. Cosa c’era di così importante nel suo posto di lavoro? Quella era la parte che la disturbava di più. Era come se… Scosse la testa, cacciando via il pensiero.

Ma… e se fosse vero?

E se il killer di sua madre fosse in qualche modo collegato al DGSI? Magari non l’agenzia stessa, ma l’edificio. Magari c’era una connessione. Altrimenti che altro senso potevano aver avuto le sue parole?

Soprattutto considerato dove lavoravi…

L’uomo che John aveva ucciso sapeva qualcosa dell’assassino di sua madre. Ma se l’era portato nella tomba. E il Killer di Picche, l’uomo che lui aveva tanto venerato, l’uomo che aveva ucciso sua madre, era ancora libero.

L’acqua fredda continuava a scorrere in mezzo alle sue scapole e lei fece qualche breve respiro rapido e ravvicinato in risposta a quella sensazione, ma ancora si rifiutò di spostarsi.

La prossima volta sarebbe stata più furba. Le avevano chiesto di far parte di una task force con l’Interpol in caso di necessità. Ma Adele non vedeva l’ora di tornare in Europa. La California le piaceva, e le piaceva anche lavorare con l’FBI, soprattutto con la sua amica, l’agente Grant, come supervisore. Ma il desiderio di risolvere l’omicidio di sua madre le richiedeva un certo livello di vicinanza geografica al luogo dei fatti.

Alla fine, spingendo un braccio contro la porta di vetro e annaspando, Adele ruotò il pomello della doccia.

La cascata di acqua ghiacciata cessò. Lei rimase tremante all’interno della cabina in vetro e plastica, mentre l’acqua le gocciolava dal corpo.

Chiunque avesse progettato quel bagno, aveva messo il porta-asciugamano sul retro della porta, dalla parte opposta della stanza. Ci volevano un paio di passi per raggiungerlo, e anche se lei aveva messo un tappeto da bagno sul pavimento per assorbire l’acqua, preferiva sempre aspettare un po’ nella doccia, in attesa che l’eccesso di acqua scivolasse giù, prima di uscire.

E quindi aspettò, pensando, meditando, tremando. Pensò a un’altra volta che si era trovata bagnata zuppa di acqua, anche lì tremante…

Un lampo di calore le pervase le guance. Pensò a quando aveva nuotato nella piscina di Robert. John era venuto per una serata…

Era insopportabile. Rude, odioso, fastidioso, per niente professionale.

Ma anche affascinante, disse una piccola parte di lei. Affidabile. Pericoloso.

Scosse la testa e uscì dalla doccia, facendo stridere la porta di vetro e metallo, mandandola a sbattere contro la parete gialla. Un paio di pezzettini di intonaco caddero dal soffitto. Adele sospirò, guardando in alto. Sotto alla pittura del muro si erano già formate delle macchie di muffa. Il proprietario precedente ci aveva tinteggiato sopra, nascondendo quindi il problema.

Magari avrebbe potuto mandare un messaggio a John.

No, sarebbe stato un atteggiamento troppo familiare. Un’email allora? Troppo impersonale. Una telefonata?

Adele esitò un momento e allungò la mano per prendere l’asciugamano e asciugarsi i capelli. Una chiamata poteva essere carina. Si asciugò poi lungo il fianco, sussultando ancora per il graffio.

Alcune ferite guarivano lentamente. Ma altre volte era meglio evitarle a priori, le ferite. Forse era meglio che non telefonasse a John.

La stanchezza le pesava sulle spalle mentre si dirigeva in camera da letto. Tre ore di straordinari, a compilare carte e a giustificare il motivo dello sparo, ora si stavano facendo sentire.

Era un pensiero orribile, ma Adele stava iniziando a sperare di avere presto un caso in Europa.

Magari qualcosa che non facesse troppo male a qualcuno. Giusto qualcosa che la tirasse fuori dalla California per un po’. Fuori da quel piccolo e angusto appartamento. C’era troppo silenzio. Per alcune persone, il rumore di altri esseri umani che si muovevano attorno, che si godevano le loro vite, era un rumore ristoratore. Teneva alla larga certi sprazzi di solitudine.

Adele sospirò ancora ed entrò nella sua stanza, preparandosi per andare a letto. Si sistemò una benda sul graffio e cercò di cacciare via ogni pensiero di astio nei confronti del suo nuovo partner. Si infilò a letto e rimase ferma lì qualche minuto.

In passato, lei ed Angus guardavano la TV prima di addormentarsi. A volte lui leggeva un libro, raccontandoglielo a voce alta riga per riga, in modo che anche lei se lo potesse sentire. Altre volte stavano solo lì abbracciati a parlare per ore prima di appisolarsi.

Ora però c’era solo lei lì sdraiata. Niente TV. Niente libri. Solo silenzio.




CAPITOLO TRE


Melissa Robinson salì i gradini dell’appartamento canticchiando sommessamente tra sé e sé. In lontananza sentiva le campane della città. Si fermò per ascoltare e il suo sorriso si fece più grande. Abitava a Parigi da sette anni ormai, ma quel suono non la stancava mai.

Imboccò l’ultima rampa di scale. Niente ascensori in questi appartamenti. Gli edifici erano così vecchi. Pieni di cultura, pensò tra sé e sé.

Sorrise ancora e salì i gradini uno alla volta. Non c’era fretta. La neo-arrivata che doveva incontrare aveva detto alle due. Era le 13:58. Melissa si fermò sul pianerottolo, guardando fuori dalla grande finestra che lasciava vedere la città sottostante. Non era cresciuta a Parigi, ma quel posto era bellissimo. Adocchiò le vecchie strutture in pietra ingiallita di certi edifici che erano più vecchi di alcuni Paesi. Notò lo schema geometrico di alcuni appartamenti e locali e strade che si incrociavano nel cuore della città.

Con un altro sospiro soddisfatto, Melissa raggiunse la porta al terzo piano e bussò delicatamente sulla cornice. Passarono alcuni istanti.

Nessuna risposta.

Continuò a sorridere, sempre ascoltando le campane e poi girandosi ancora a guardare fuori dalla finestra. Da lì si vedeva la piccola guglia di Sainte-Chapelle che si stagliava all’orizzonte.

“Amanda,” chiamò con voce delicata e gentile.

Ricordò la prima volta che era venuta a Parigi. Le era sembrato tutto così travolgente. Sette anni fa, un’espatriata dall’America che si sistemava in un nuovo Paese, in una nuova cultura. La gente che bussava alla porta era stata una distrazione ben accetta al tempo. Melissa sapeva che molti dei suoi amici nella comunità di espatriati facevano fatica ad adattarsi alla città. Non era sempre così amichevole di primo acchito, soprattutto non per gli americani, o per ragazzi in età da college. Ricordava i primi due anni passati in un campus in America. Era stato come se tutti avessero voluto essere suoi amici. In Francia la gente era un po’ più riservata. E questo era il motivo per cui lei dava una mano a organizzare il gruppo.

Melissa sorrise ancora e diede un altro colpetto alla porta. “Amanda,” ripeté.

Ancora nessuna risposta. Esitò, guardando da una parte e dall’altra del corridoio. Mise la mano in tasca e ne tirò fuori il telefono. Gli smartphone andavano benissimo ed erano comodi, ma Melissa preferiva qualcosa più in vecchio stile. Diede un’occhiata al vecchio telefono a conchiglia e notò l’ora sullo schermo. Le 14:02. Scorse i messaggi e lesse di nuovo l’ultimo che Amanda le aveva mandato.

“Sono contenta di vederti dopo. Diciamo alle due? Non vedo l’ora di far parte del gruppo. È difficile farsi amici in città.”

Il sorriso di Melissa divenne più esitante. Ricordò l’incontro con Amanda: un incontro casuale in un supermercato. Erano andate subito d’accordo. Le campane sembravano essersi fatte più lontane adesso. D’impulso, Melissa mise la mano sulla maniglia e la provò. Girò. Un click e la porta si aprì.

Melissa rimase a guardare.

Avrebbe dovuto assicurarsi di avvisare Amanda che era pericoloso lasciare la porta così aperta in centro. Anche in una città come Parigi, la cautela veniva prima della sicurezza. Melissa esitò un poco, presa da una crisi di coscienza, ma poi, alla fine, aprì la porta del tutto spingendola delicatamente con l’indice.

“Ciao,” disse, rivolta all’appartamento buio. Forse Amanda era fuori a fare la spesa. Magari si era dimenticata del loro appuntamento. “Ciao, Amanda? Sono io, Melissa, del forum…”

Nessuna risposta.

Melissa non si considerava una tipa particolarmente impicciona. Ma quando si trattava di americani a Parigi, provava un certo senso di affinità. Quasi come se fossero parte della sua stessa famiglia. Non le sembrava tanto di fare l’intrusa, quanto di verificare che una sorella minore stesse bene. Si rassicurò mentalmente, giustificando la decisione tra sé e sé prima di entrare nell’appartamento della donna che aveva incontrato solo una volta in vita sua.

La porta scricchiolò ancora quando lei la urtò con il gomito, facendola aprire ancora di più. Esitò e le parve di sentire delle voci che provenivano dal fondo del corridoio. Sporse la testa nuovamente verso l’esterno, guardando in direzione delle scale.

Una giovane coppia stava salendo. La notarono, ma invece di salutarla o farle un cenno della testa, continuarono a chiacchierare allegramente. Melissa sospirò e tornò nell’appartamento. Poi rimase immobile. Il frigorifero era aperto. Uno strano fascio di luce gialla usciva dallo scomparto, illuminando il pavimento della cucina.

Amanda era lì. Seduta sul pavimento, rivolta verso la parete opposta. La schiena era mezza appoggiata alla credenza, una scapola premuta contro il legno, l’altra che sporgeva oltre la struttura del mobile, il braccio sinistro appoggiato sul pavimento.

“Ti è caduto qualcosa?” chiese Melissa, avanzando di più nella stanza buia.

Sotto al braccio sinistro di Amanda c’era una pozza di vino. Melissa fece un altro paio di passi e si voltò a guardare Amanda, sempre sorridendo.

Il suo sorriso si irrigidì. Gli occhi privi di vita di Amanda la guardavano. Sul collo si apriva un profondo squarcio. Il sangue rappreso le macchiava la maglietta e si era poi riversato sul pavimento, dove si era addensato sul linoleum.

Melissa non gridò. Sussultò e basta, le dita tremanti che tentavano di trovare il suo inalatore. Barcollò verso la porta, afferrando l’inalatore con una mano e tirando fuori il telefono con l’altra.

Dopo qualche spruzzata d’aria, emise un gemito gorgogliante e digitò le cifre 1-7 sul suo cellulare a conchiglia, per chiamare la polizia.

Sempre ansimando, la schiena appoggiata alla parete fuori dalla porta spalancata dell’appartamento, deglutì e aspettò che l’operatore rispondesse. Dietro di lei le parve di sentire il vago ed evanescente rumore di un liquido che gocciolava sul pavimento.

Solo allora, gridò.




CAPITOLO QUATTRO


Adele controllò il suo smartwatch, scorrendo tra diverse schermate che facevano il riepilogo di battito cardiaco, movimento, musica… Inspirò dal naso mentre stava sulla soglia del suo appartamento e guardò l’ora. Precisamente le 4 del mattino. Un sacco di tempo per farsi una corsa di due ore prima di andare al lavoro. Si sistemò la fascetta che le teneva indietro i capelli e si voltò a guardare verso il lavandino.

Aveva lasciato la sua tazza di plastica di Topolino sul ripiano metallico tra il secchiaio e il banco della cucina. Di solito puliva subito dopo aver mangiato, ma oggi, nel piccolo e silenzioso appartamento…

“Può aspettare,” disse, rivolgendosi a nessuno in particolare. Il che ovviamente era parte del problema.

Quella appena passata era stata una notte di riposo a intermittenza e scarso sonno. Adele era ancora sulla soglia quando il suo orologio digitale passò a segnare le 4:01. Guardò un’altra volta il lavandino e brontolò sommessamente tra sé e sé. Alla fine, andò nervosa fino a secchiaio, aprì con scatto irritato della mano il rubinetto dell’acqua e sciacquò i residui di latte sul fondo della tazza, posandola poi sullo scolapiatti. Tornò alla porta.

Prima che potesse ruotare la maniglia, però, una sommessa vibrazione colse la sua attenzione. Gli occhi di Adele scattarono verso il tavolo della cucina. Era il suo telefono.

Si accigliò. L’unica persona che la poteva chiamare così presto era suo padre dalla Germania, oppure poteva trattarsi di lavoro.

E con suo padre aveva già parlato un paio di giorni fa. Fu un po’ una sorpresa, quindi, quando guardò lo schermo verde acqua che lampeggiava e vide una singola parola in lettere bianche.

Ufficio.

Prese il telefono mentre la vibrazione cessava. Adele lesse le tre semplici parole di un messaggio di testo sullo schermo. Urgente. Vieni qui.

Si tolse la fascetta e andò velocemente in camera sua per cambiarsi. La sua corsa avrebbe dovuto aspettare.


***

Dal parcheggio e attraverso i controlli della sicurezza, Adele si fermò solo una volta per lasciare il solito caffè a Doug, uno dei suoi amici della squadra addetta alla sicurezza. Quando raggiunse il quarto piano – e l’ufficio dell’agente Grant – già si sentivano le voci attraverso la porta a vetri opaca.

Adele la spinse ed entrò senza tanti preamboli.

Due grossi monitor appesi alla parete mostravano volti che Adele conosceva. A sinistra, sopra alla scrivania della Grant, il direttore Foucault, supervisore del DGSI. A destra, sulla TV situata accanto alla finestra dal vetro blu che si affacciava sulla città, Adele scorse la signora Jayne, la corrispondente dell’Interpol che per prima le aveva proposto l’idea di essere a capo di una task force combinata.

L’agente Lee Grant, che portava il nome dei due generali della Guerra Civile, si trovava dietro all’alta scrivania verticale in metallo, il mento appoggiato sulle punte delle dita, il volto preoccupato. Posò lo sguardo su Adele e le fece cenno di entrare. L’ufficio dell’agente Grant era minimalista, con un materassino da yoga nell’angolo e una pila di DVD di workout nascosti sotto a un raccoglitore di plastica blu accanto alla sua scrivania.

La donna indicò uno degli sgabelli vuoti davanti alla sua scrivania e aspettò che Adele prendesse posto. Alla fine si schiarì la gola, guardando Adele e facendo un cenno della testa, poi disse: “Hanno di nuovo bisogno di te in Francia.”

Adele guardò i due monitor alla parete. Gli sguardi della signora Jayne e di Foucault erano un po’ deviati, entrambi concentrati sui diversi schermi a loro disposizione e quindi non direttamente puntati sulle loro videocamere. Lo stesso, Adele cercò di incrociare i loro occhi, cercando di comprendere le motivazioni.

“Una brutta faccenda?” chiese con tono esitante.

La signora Jayne si schiarì la gola e la sua voce chiara e cristallina rispose: “Solo due vittime per il momento. Lascio che sia Foucault a darle i dettagli.” La signora Jayne era una signora di mezza età, con occhi luminosi e intelligenti dietro a occhiali dalla montatura in osso. Aveva i capelli argentati e una corporatura un po’ più pesante rispetto alla media degli agenti. Parlava senza lasciar trapelare un particolare accento, lasciando intendere che padroneggiava la lingua inglese, anche se si capiva che non era madrelingua.

Sull’altro schermo, il direttore Foucault, con il suo caratteristico naso aquilino, socchiuse gli occhi. Scosse la testa e abbassò lo sguardo, non fissando più lo schermo. Si sentì il rumore di carte che venivano sfogliate.

“Sì, sì,” disse l’uomo, con un inglese dalla forte inflessione straniera. “Due morti. Fino ad ora. Due americane,” aggiunse, sollevando lo sguardo sullo schermo. “O almeno lo erano.”

Adele si accigliò. “Cosa intende dire?”

Lo sguardo di Foucault vagò sullo schermo, da una parte e poi dall’altra, senza fissarsi su nessuno in particolare nella stanza, ma suggerendo che probabilmente stava guardando porzioni dello schermo del suo computer.

“Espatriate,” disse. “Americane che ora vivevano in Francia. Entrambe avevano un visto, ma avevano fatto domanda di cittadinanza, o almeno così aveva fatto una delle vittime. L’altra era arrivata da poco.”

Adele annuì per far capire che aveva sentito. “Quindi perché avete bisogno di me?”

La signora Jayne si schiarì la gola. La sua voce arrivò chiara, anche attraverso il fruscio delle casse. “Ci serve qualcuno che abbia familiarità con il DGSI, ma che l’America gradisca lasciar lavorare da solo. E poi la natura particolare dei crimini potrebbe richiedere qualcuno con la sua esperienza.”

Adele si accigliò ancora. “Che natura particolare?”

Fu Foucault a rispondere. “Due morti fino ad ora. Gole tagliate, quasi da orecchio a orecchio.” Assunse un tono più cupo e continuò: “Le mando i file non appena mi sarò liberato del medico legale. Entrambe donne giovani, entrambe arrivate di recente. Stiamo indagando, ovviamente, e sono sicuro che i nostri agenti troveranno delle buone piste, ma,” spiegò aggrottando la fronte e guardando lo schermo del computer, “la signora Jayne sembra pensare che sia saggio coinvolgere anche lei da subito. Non posso dire di essere pienamente d’accordo, ma non è una battaglia che ho intenzione di intraprendere.”

Adele sollevò una mano mentre l’uomo parlava e aspettò che avesse finito. Lui la notò e le fece cenno di andare avanti.

“Quanto tempo è passato tra un omicidio e l’altro?” chiese.

Il direttore rispose senza esitazione. “Tre giorni. L’assassino è veloce. Vale la pena notare che sulla scena non ci sono prove materiali.”

Adele si spostò sulla sua sedia, rendendosi conto che non faceva tanto rumore come quella della sua cucina. “Cosa intende dire?”

“Intendo dire che non ci sono prove materiali.”

“Nessuna?”

La fronte di Foucault si aggrottò ancora di più, le sopracciglia folte che si incontravano al centro. “Niente di niente. Niente impronte digitali, niente tracce di capelli o saliva. Nessuna aggressione sessuale. I tagli stessi, secondo l’iniziale dichiarazione del medico legale, sono strani. Chiunque abbia tagliato loro il collo, non l’ha fatto con mano tremante, ma con gesto esperto.”

“E questo cosa significa?”  chiese Adele.

“Se posso,” disse l’agente Grant prendendo la parola per la prima volta da dietro la sua scrivania verticale, “le ferite da taglio portano una specie di firma. Mostrano se l’attacco è stato fatto da un mancino, o rivelano la forza dell’esecutore, oppure la sua altezza…”

Foucault annuì a ogni sua parola e si schiarì la gola. “Esattamente. Ma questi specifici attacchi sono stati eseguiti da qualcuno che non ha lasciato una particolare firma. Non ci sono prove materiali. Nessun segno di colluttazione. Niente che suggerisca un crimine, eccetto ovviamente per i due cadaveri nel centro di Parigi.”

“Bene,” disse la signora Jayne, scrutando ora lo schermo. I suoi occhi sembrarono regolarsi per un momento, poi si fissarono su Adele. “Pronta per il volo?”

Adele spostò lo sguardo sull’agente Grant e inarcò le sopracciglia.

La Grant esitò. “Di certo non vorrai passare altre due settimane con l’agente Masse?” le disse, con tono capace di non tradire alcuna emozione.

Adele le lanciò un’occhiataccia.

Gli occhi della Grant luccicarono mostrando una sfumatura di malizioso umorismo. “Lo prendo come un no. Ho già firmato per la tua partenza e ho riassegnato Masse a qualcun altro. Sei pronta per andare.”

Adele cercò di tenere a bada l’improvviso scatto di emozione – era una professionista dopotutto – ma mentre si alzava dalla sedia, non poté fare a meno di sentirsi elettrizzata al pensiero di tornare in Francia.

“C’è altro che dovrei sapere?” chiese, guardando Foucault.

“Le invio i rapporti,” disse l’uomo scrollando le spalle. “Ma sono brevi. Come le ho detto, non molte prove. C’è una cosa però. Uno strano dettaglio, ma certamente importante…”

“Che cosa?”

“Alla prima persona mancava un rene.”

Uno strano silenzio calò nella stanza per un momento, e le due persone sugli schermi aspettarono, insieme alle due agenti di San Francisco, tutti accigliati e pensierosi.

“Un rene?” chiese Adele.

“Proprio così,” rispose Foucault.

“L’assassino si porta via dei trofei?”

Il direttore scrollò le spalle e aggrottò la fronte. “Beh, è per questo che lei è qui, no? La fornisca lei la risposta. Il mio lavoro è di fornire le domande. Mi dicono che la signora Jayne ha già acquistato il suo biglietto. Prima classe. Il suo volo parte entro un’ora.”




CAPITOLO CINQUE


Adele teneva la fronte aggrottata mentre guardava il suo portatile, comoda nel suo posto in prima classe fornitole dall’Interpol. L’aereo vibrava sfrecciando nel cielo, ma Adele era concentrata sullo schermo del computer che illuminava la piccola porzione della sua cabina.

Si trovò a giocherellare nervosamente con la tracolla della sua borsa porta-computer che stava appoggiata sul sedile vuoto accanto a sé, mentre continuava a scrutare le informazioni che aveva davanti. Una volta letto il file di un caso, raramente ne dimenticava i dettagli.

Si mise più comoda, appoggiandosi alla parete curva in plastica bianca, gli occhi che scattavano dai paragrafi alle foto.

Due morti fino ad ora. Tre giorni tra una vittima e l’altra. Un ritmo rapido, anche per un serial killer. Nessuna prova materiale in assoluto. Un rene mancante nella prima vittima e un rapporto medico legale ancora pendente per la seconda. Anche a questa poteva forse mancare un rene?

Giovani donne, entrambe. Espatriate. Americane che ora vivevano in Francia. Arrivate di recente. Entrambe uccise così velocemente da non aver reagito. Quella era l’unica spiegazione della natura netta dei tagli. Nessuna ferita slabbrata, nessun segno di colluttazione. Un momento le giovani donne erano vive nei loro appartamenti, e l’attimo dopo quella vita gli era stata portata via, come per opera di un fantasma.

Adele dubitava che le donne se ne fossero addirittura rese conto. Non era un grosso indizio, non ancora per lo meno. Rimase comunque concentrata, con la tendina dell’oblò abbassata, ascoltando il vibrare dei motori. Socchiuse gli occhi e continuò ad analizzare il file. Ancora, e ancora… e ancora.


***

Era riuscita a collegarsi al Wi-Fi dell’aeroporto Charles De Gaulle, e le sue sopracciglia si rilassarono quando vide l’ultimo messaggio che le aveva mandato Robert Henry, il suo vecchio mentore e amico. Diceva: Scusa, cara, non verrò a prenderti io. Hanno mandato un altro agente. Poi aveva incluso un sacco di emoji e faccine sorridenti.

Lei esitò e poi scrisse: Nessun problema. Ci vediamo in ufficio. Chi hanno mandato?

Nessuna risposta. Adele scosse la testa mentre accedeva al terminal centrale, accolta dall’aroma di caffè ultra-costoso e vecchi pasticcini che proveniva dai vari ristoranti dell’aeroporto. I suoi occhi si spostarono lungo una serie di negozi: uno di oggetti bizzarri e l’altro di libri. Rimise il telefono in tasca e andò velocemente verso il ritiro bagagli. L’altra volta l’avevano messa in coppia con John: probabilmente sarebbe successo di nuovo. Ma le cose erano rimaste sospese in modo impacciato dopo l’ultimo incontro. Mentre lei e Robert avevano continuato a mandarsi frequentemente messaggi durante quel mese, dopo il suo ritorno dalla Francia, John non l’aveva contattata una sola volta.

Neanche tu, le ricordò una vocina.

Ma lei la cacciò via con una leggera scrollata di spalle. Raggiunse il ritiro bagagli e vide la sua valigia che faceva il giro del nastro. Aspettò con pazienza, ma non riusciva comunque a cacciare quel senso di impaziente attesa che le opprimeva il petto.

Alla fine riuscì a recuperare il suo bagaglio, aspettando che si liberasse un posto attorno al nastro trasportatore.

Si ritrovò a sistemarsi i capelli dietro alle orecchie e a raddrizzare la postura anche mentre si avvicinava al controllo documenti e aspettava che l’agente di frontiera desse un’occhiata al suo speciale passaporto. Datti una calmata, pensò con severità. Perché era tutt’a un tratto così preoccupata del proprio aspetto? John o no, perché era così importante? Adele era più alta di molte altre donne, ma non in modo così insolito. I suoi capelli biondo scuro incorniciavano dei tratti del viso che lasciavano intendere la sua discendenza franco-americana. Esotica, secondo qualcuno. Aveva un neo solitario sopra al labbro, fonte di insicurezza da ragazza, ora non più.

Adele pensò all’ultima sera in cui aveva visto John, mentre nuotavano nella piscina privata che Robert aveva nella sua villa. Il modo in cui John si era posto all’inizio della serata, rispetto a come si era poi comportato alla fine. Aveva tentato di baciarla, no? Aveva forse frainteso il gesto? Qualsiasi fosse la risposta, quando lui si era ritratto, era sembrato offeso. E poco dopo se n’era andato.

Disobbedendo alle proprie confuse emozioni, Adele si scompigliò i capelli, mettendo appositamente in disordine i suoi ricci.

Poi, con espressione decisa in volto, passò oltre il controllo passaporti e arrivò all’area di accoglienza dell’aeroporto.

I suoi occhi scrutarono la folla, alla ricerca della figura alta e allampanata del precedente partner francese. Ma mentre guardava tutte le persone in attesa, non vide alcun segno della presenza di John. Il suo sorriso – che non si era accorta di avere stampato in faccia – divenne alquanto plastico quando il suo sguardo si posò su una donna in tailleur che stava appoggiata alla vetrata che si affacciava sulla strada.

Il sorriso scomparve del tutto quando Adele riconobbe la donna con le labbra corrucciate e i capelli argentati raccolti in uno chignon. Assomigliava a una pragmatica insegnante supplente, o forse a una suora senza divisa. Non c’era una sola ciocca di capelli che fosse fuori posto, e addirittura le rughe attorno agli occhi sembravano tendersi nel tentativo di mettersi sull’attenti.

Una agente con cui aveva lavorato in passato… Ma non John.

Questa particolare agente era stata il supervisore di Adele quando lei lavorava per il DGSI. Era anche stata declassata dal precedente incarico, uno scenario sfortunato del quale Adele si era ritrovava a sostenere la colpa. Tutto lo sdegno e l’impazienza erano visibili in ogni sfumatura degli occhi dell’agente Sophie Paige, ma almeno la donna alzò una mano e fece un rapido gesto indirizzato ad Adele per richiamare la sua attenzione.

Non un gesto di saluto, ma più uno di richiamo, come un padrone con il suo cane. Adele rimase impietrita un secondo, sentendo la gente che le passava accanto per andare a salutare i proprio familiari o amici. L’ambiente era ravvivato da risate, dal rumore di corpi che si abbracciavano, da mormorii sommessi di viaggiatori esausti che se ne andavano dall’aeroporto e correvano verso taxi o auto.

Per un brevissimo momento, Adele dovette resistere all’urgenza di fare dietrofront e tornare sull’aereo, lasciando Sophie Paige e il suo cipiglio lì vicino alla vetrata.

Ma alla fine raccolse un residuo di coraggio, si infilò i capelli dietro alle orecchie con rapidi gesti furtivi e avanzò verso la figura dell’agente che era stata suo supervisore e che ora le faceva da partner.




CAPITOLO SEI


Portata fuori dal centro di Parigi, nei sobborghi nord-occidentali della zona dell’Ile-de-France, Adele teneva gli occhi fissi davanti a sé mentre l’auto si fermava al quarto piano del parcheggio del DGSI. Il tragitto pomeridiano era proceduto nel più completo silenzio. Ora l’agente Paige uscì bruscamente dal veicolo, dicendo qualcosa su un incontro con Foucault. Lasciò Adele da sola a farsi strada attraverso la sicurezza per poi arrivare all’ufficio del suo vecchio mentore.

Entrare nell’ufficio di Robert fu un sollievo.

Adele poté sentire le spalle che si rilassavano come se le avessero tolto di dosso un peso, quando passò attraverso la porta dopo aver bussato delicatamente. La giornata di viaggio le pesava ancora addosso, ma il suo umore si sollevò mentre scrutava la familiare stanza. Le pareti avevano ancora le stesse vecchie foto incorniciate di auto da corsa e, sotto di esse, c’erano le mensole con polverosi tomi rilegati in pelle. Ora c’erano due scrivanie nella stanza. La seconda era stata posizionata accanto alla finestra, con una sedia girevole dallo schienale alto, rivestita in pelle, piazzata subito dietro. Sulla scrivania, una targhetta dorata diceva Adele Sharp.

Sentendo un uomo schiarirsi la gola, Adele riportò l’attenzione alla prima scrivania e al suo occupante.

Robert Henry era già in piedi. Si alzava spesso in piedi quando una donna entrava nella sua stanza. L’uomo, basso di statura e con lunghi baffi arricciati tinti di nero, teneva la schiena dritta.  Indossava un abito che gli calzava perfettamente e che Adele sospettava fosse stato realizzato su misura per lui. Robert aveva origini benestanti: il lavoro al DGSI non gli serviva, ma a lui piaceva. Forse questo era il motivo per cui possedeva una delle migliori schede al dipartimento. Robert un tempo aveva giocato a calcio per una squadra semi-professionista in Italia, ma era tornato in Francia quando era stato assoldato dal governo francese, ben prima che venisse fondato il DGSI.

Fisso Adele per un momento, ma i suoi occhi luccicarono, tradendo il sorriso che teneva nascosto dietro le labbra.

“Ciao,” disse Adele, incapace lei stessa di trattenere un sorriso.

A quel punto Robert Henry le sorrise, mostrando una schiera di denti perfettamente bianchi, dove però due erano mancanti. Adele aveva sentito molte storie su come avesse perso quei denti, una più improbabile dell’altra.

Si guardarono negli occhi da una parte all’altra della stanza, osservandosi per un momento.

Poi Adele disse: “Usi troppi emoji.”  Parte del cattivo umore di prima iniziava a stemperarsi di fronte al vecchio mentore e amico.

Robert tirò su con il naso. “La considero una forma d’arte.”

“Uhm,” disse lei. “Non eri stato tu a dirmi che l’avvento dei cartoni animati era stato la morte della cultura?”

Robert allargò le spalle e sollevò il mento, quindi rispose: “Un uomo raffinato sa come ammettere di essersi sbagliato.”

Il sorrisino appena abbozzato di Adele si trasformò in un sorriso bello e proprio. Robert Henry era stato per lei come un padre per molti anni. Il suo padre vero non era particolarmente affettuoso, ma Robert era un tipo capace di mettere da parte i propri modi per assicurarsi che lei si sentisse accolta e confortata. Robert possedeva una villa, ma ci viveva da solo e accoglieva spesso con gioia l’opportunità di avere degli ospiti. Adele sarebbe stata da lui fintanto che si sarebbe fermata in Francia.

“Ci hai messo un po’,” le disse Robert, guardando l’orologio. Era di luccicante argento, il genere di oggetto che si sarebbe normalmente visto al polso di un banchiere. Robert si sistemò i gemelli della camicia e spinse l’orologio sotto il bordo dei polsini perfettamente stirati.

Adele posò la valigia contro lo stipite della porta e appoggiò sul pavimento la borsa del computer. “Chiunque abbia programmato il mio volo, mi ha fatto fare uno scalo di tre ore a Londra,” disse. “Poi c’è voluto un po’ per arrivare alla macchina: siamo dovute andare a piedi dall’altra parte dell’aeroporto. Una persona più meschina penserebbe che lei l’abbia fatto apposta, giusto per infastidirmi.”

Robert si accigliò. “Lei? Con chi ti ha messa a lavorare, Foucault?”

Invece di rispondere, Adele attraversò la stanza e allargò le mani, abbracciando l’amico. Lei non era altissima, ma Robert era quasi dieci centimetri più basso di lei. Lo tenne stretto a sé e sentì un piacevole calore nel petto. Era più piccoletto di quanto ricordasse. Quasi… fragile. Anche se Robert si tingeva baffi e capelli, Adele non poteva trascurare il fatto che stesse invecchiando. Sciolse l’abbraccio e gli sorrise ancora. “Ho sentito che lavoreremo nei pressi del tuo ufficio,” gli disse.

Robert le diede una pacca sulla spalla con gesto confortante. “Sì, quella è tua,” disse, accennando alla scrivania che portava la targhetta con il suo nome.

“L’ho messa vicino alla finestra. Mi piace lì.”

“L’ultima volta che sei stata qui, ricordo che ti piaceva la vista da lì,” aggiunse, scrollando le spalle. Abbassò la mano e tornò alla propria sedia, sbuffando sommessamente mentre vi si accomodava.

“Va tutto bene?” gli chiese Adele.

Robert annuì, facendo un gesto con la mano come a voler cacciare via altre simili domande. “Si, certo. Le vecchie ossa non si muovono come un tempo, quindi temo che non sarò sul campo con te.”

Adele annuì evasiva. “Me l’ero immaginato. Ad ogni modo, abbiamo bisogno di qualcuno che tenga le fila delle cose da qui.”

Robert non stava più sorridendo. Tutt’a un tratto il suo sguardo sembrava duro.

“Non sei malato, vero?” disse rapida Adele. Non era sicura di quale fosse l’origine di quella domanda, ma le uscì dalla bocca prima che potesse fermarla.

Robert sorrise e scosse la testa. “No, non che io sappia. Ma,” continuò, picchiettando le dita contro la scrivania e poi guardando lo schermo del computer di fronte a sé, “sto imparando meglio come usarlo. Con le email faccio fatica. Ma ho pensato, beh, per il tuo bene…” Si interruppe, sollevando lo sguardo su di lei.

Adele provò una vampata di gratitudine. Sapeva quanto Robert odiasse la tecnologia. Nonostante la quantità di emoji che usava nei suoi messaggini, aveva fatto il testardo di fronte all’avvento dei computer. Lo stesso, lei aveva chiesto all’Interpol che gli permettessero di essere parte del team. Questo era il patto che avevano sancito quando la signora Jayne le aveva proposto il contratto.

Al tempo, Adele aveva sentito voci e pettegolezzi che il DGSI stesse tentando di allontanare Robert dalla sua posizione: una sorta di pensionamento obbligatorio. Sentì un lampo di frustrazione. Il pensiero che qualcun altro prendesse il posto di Robert era irragionevole. Avevano messo in piedi la sezione omicidi del DGSI in parte con i suoi sforzi. Lui si era fatto un nome presso altre agenzie ben prima che il DGSI venisse formato, cosa che aveva attratto un sacco di nuove reclute. Adele rispettava la maggior parte degli agenti che lavoravano per l’Intelligence francese, ma nessuno suscitava il suo rispetto quanto Robert. Quell’uomo aveva una speciale intelligenza intuitiva e molto raramente si sbagliava. Nell’ultimo caso a Parigi, aveva insistito che l’assassino fosse un uomo con i capelli rossi, e ne aveva sottolineato la vanità. Lei non ne era stata sicura, ma alla fine la deduzione si era rivelata accurata.

Però Adele ricordava gli scambi con il direttore Foucault. Il cipiglio sulla sua fronte quando lei aveva richiesto l’aiuto di Robert. L’agenzia stava cercando di sfoltire il personale. Ora però, con l’aiuto del suo mentore all’Interpol, Foucault si era trovato con le mani legate.

“Ho bisogno di te,” gli disse semplicemente. “Sei il migliore in quello che fai.”

Robert scosse la testa e sospirò. “Non so se sia vero, cara,” disse, la voce tutt’a un tratto più debole.

“È così. Non ti preoccupare dei computer: ce la farai. Ne sono sicura. Abbiamo bisogno di qualcuno con cui avere i contatti alla base, che coordini le cose da qui. E non vorrei nessun altro.”

Robert annuì di nuovo, l’espressione ancora mesta. “Sono vecchio, Adele. So che può non sembrare.” Si passò la mano tra i capelli chiaramente tinti. “Ma questa agenzia, questo posto, penso sia per gente più giovane adesso.”

Adele si fece ancora più confusa. “Perché stai dicendo queste cose?”

Robert agitò una mano in aria. “Non ha importanza. Sono contento. Probabilmente, se non avessi chiesto di me, sarei stato mandato fuori dall’agenzia nel giro di una settimana.”

Ora la confusione di Adele si tramutò in risentito cipiglio. “L’hai sentito? Qualcuno ti ha detto che stavano cercando di sbarazzarsi di te?”

Robert scosse la testa. “Sono un investigatore. Non sono fatto per stare incastrato dietro a una scrivania. A volte queste cose le sai e basta.”

“Stai pensando troppo. Il tuo valore è impareggiabile, fidati di me. E poi, se tu te ne vai, me ne vado pure io”.

Robert sorrise di fronte a quel commento e premette le dita tra loro. “Mi pare giusto. I computer non sono il mio forte, ma farò del mio meglio. Ma non mi hai ancora detto con chi ti ha messo in coppia il direttore. John?” Inarcò leggermente le sopracciglia e un leggero sorriso gli inarcò i lati della bocca, ma Adele scosse la testa, smorzando la sua espressione.

“L’agente Paige,” disse con tono greve e pesante come il martello di un giudice.

Robert la fissò incredulo.

Lei scrollò le spalle.

Lui continuò a fissarla.

“Non l’ho chiesto io,” gli disse.

“Sophie Paige?”

Adele guardò verso la porta aperta, controllando che il corridoio fosse sgombero, poi annuì. “A quanto pare. Diciamo che era contenta quanto me.”

“Foucault non conosce la vostra storia?” disse Robert alzando la voce.

“Va bene,” rispose Adele con voce più bassa. “Non so cosa sappia o non sappia il direttore. Ma le cose stanno così.”

“E John?” chiese Robert.

Adele agitò una mano in aria, come se il pensiero non le fosse neanche passato per la testa. “Intendi l’agente Renee? Beh, penso stia lavorando a un altro caso. La Paige ha detto così.”

Le sopracciglia perfettamente curate di Robert stavano inarcate sopra ai suoi occhi come nuvole scure che minacciavano tempesta. “La Paige,” disse sbuffando. “Adesso ho capito perché Foucault non me l’ha detto.”

Adele esitò. C’era qualcosa nel suo tono che non riusciva a interpretare. “Cosa intendi dire?”

Robert si stava ancora fissando le dita con sguardo cupo, e Adele dovette ripetere la domanda. Alla fine l’uomo sollevò lo sguardo. “Oh, niente… eccetto che sa quello che provo per te. E la Paige non è stata esattamente la persona più carina con te dopo l’incidente.”

Adele esitò, scrutando il suo vecchio mentore. Sapeva che Robert si sarebbe messo dalla sua parte. Ma c’era di più nel tono della sua voce. C’era qualcosa dietro a quel cipiglio che lei ancora non riusciva a capire. “Hai parlato con la Paige da quando me ne sono andata?” gli chiese lentamente.

“Parlato? No.” Si interruppe, come se fosse sul punto di aggiungere dell’altro, ma poi sembrò decidere il contrario e scosse rapidamente la testa, intrecciando le dita e piegando un pollice sopra all’altro. “No, niente del genere. Però penso che tutte e due sarete capaci di essere professionali, no?”

Adele scrollò le spalle. “Posso farlo, se lo fa anche lei.”

“Magnifique,” rispose lui. “Spero tu abbia dormito in aereo. Foucault voleva vederti subito al tuo arrivo.”

Adele annuì, le labbra premute saldamente tra loro. “L’agente Paige è già da lui,” gli disse. “Dobbiamo cominciare subito?”

Il vecchio mentore annuì mentre si alzava dalla sua sedia e si spostava rigidamente facendo il giro della scrivania. “Lascia qui la valigia,” le disse. “Mando a chiamare qualcuno perché la porti a casa mia. Adesso vieni.”

Robert le prese una mano e se la mise sottobraccio, appoggiandola nell’incavo del suo gomito, quindi la accompagnò all’ascensore. Robert era un uomo dalle vecchie maniere e c’era chi lo considerava pomposo. Ma per Adele, il suo comportamento suscitava solo affettuoso divertimento.

Aspettarono il sommesso tintinnio dell’ascensore ed entrarono nella cabina. Per un brevissimo istante il dito di Adele rimase sospeso sul pulsante del secondo piano, dove c’era l’ufficio di John. Che fosse lì? No, ora non era il momento giusto. Non c’era un’attesa di tre settimane tra gli omicidi come era successo l’altra volta. Tre giorni. Solo questo tempo era passato tra un crimine e l’altro. Un ritmo rapido e sorprendente. Un ritmo che poteva solo peggiorare.

Adele premette il pulsante dell’ultimo piano, con Robert che accanto a lei la teneva per il gomito, e aspettò che l’ascensore li portasse in alto, verso l’ufficio del direttore.


***

La Paige era seduta vicino alla finestra, un certo agio nel modo in cui stava appoggiata allo schienale dalla sedia da ufficio. Il direttore Foucault osservava con i suoi occhi da falco, mangiucchiandosi un lato della bocca e scuotendo la testa.

Adele e Robert stavano in piedi, in attesa. Gli occhi di Foucault erano fissi sullo schermo del suo computer e la sua espressione si faceva man mano più buia. “Tutto qua?” chiese, sollevando lo sguardo. “Niente di nuovo?” I suoi occhi sfrecciarono all’agente Paige, che a sua volta si girò verso Adele, come a voler proiettare su di lei l’ira del direttore.

Adele esitò. La luce del sole filtrava dalla finestra aperta del grande ufficio: l’aria circolava e portava via un po’ dell’odore di fumo, anche se buona parte aveva già impregnato le pareti.

“Sono appena arrivata,” disse Adele esitante, non sapendo se la stesse incolpando di qualcosa. “Avevo intenzione di sistemare le mie cose da Robert…” Si interruppe vedendo l’occhiata che le lanciava Foucault e si schiarì la gola. “Onestamente, ho dormito in aereo. Possiamo cominciare oggi pomeriggio. Vorrei vedere la scena del crimine della seconda vittima.”

Foucault annuì agitando una mano. “Sì,” disse, le folte sopracciglia corrucciate sopra gli occhi scuri. “Sarebbe meglio. Non abbiamo tempo da aspettare con questo, uhm? No.” Annuì in direzione della Paige. “Voi due avete lavorato insieme in passato, vero?”

La Paige continuò a restare seduta in silenzio accanto alla finestra. Annuì una volta. Anche Adele annuì.

Dopo qualche momento di imbarazzato silenzio, Robert intervenne schiarendosi la gola. “Caso strano, questo,” disse sommessamente.

Adele tenne gli occhi fissi su Foucault, ma annuì d’accordo con l’amico.

Robert sbuffò mentre l’attenzione dei presenti si spostava da Adele a lui. “Le vittime devono aver conosciuto l’assassino,” disse. “Un amico? Magari un parente?”

Adele ruotò leggermente il viso, inclinando al testa verso la spalla. “Forse. O forse l’assassino le ha colte di soppiatto. Un padrone di casa? Qualcuno in possesso della chiave?”

Robert esitò un momento e nuovamente calò il silenzio. Alla fine disse: “Che dici del rene mancante?”

“Hai letto le cartelle?”

“Il secondo rapporto non è ancora arrivato.” Robert fece una pausa, guardando Foucault con espressione interrogativa.

Il direttore annuì. “Ci stanno lavorando, ma sta richiedendo tempo. Il rapporto completo dovrebbe arrivare a breve.”

Robert annuì e questa volta si rivolse a Foucault, attraversando la stanza e andando a guardare attraverso la grande finestra che si affacciava sulla strada sottostante. Un piccolo bar dalle pareti dipinte di rosa occupava la strada dalla parte opposta del DGSI.

“Ho letto il primo rapporto,” disse. “Solo il rene mancante. Perché secondo voi?

La Paige e Foucault rimasero entrambi in silenzio. Ma Adele guardò il suo mentore, osservando il modo in cui la luce del pomeriggio illuminava il lato del suo volto, gettando delle ombre contro il pavimento rivestito di moquette.

“Collezione di trofei?” gli disse.

“Forse,” rispose Robert. “Ha senso.”

“Che altro?”

Robert scrollò le spalle e il suo sguardo andò a Foucault dietro alla scrivania.

Il direttore si accigliò ancor più. “Venite pagati per scoprirlo,” disse. I suoi occhi sfrecciarono tra i tre agenti, quindi diede un colpetto al computer e aggiunse: “Abbiamo bisogno di maggiori informazioni, e non avete molto tempo per raccoglierle.”

Adele notò la rapidità con cui noi si era trasformato in voi. Esitò un momento e poi disse sottovoce: “Ho pensato alle vittime. Entrambe straniere, sì? Da ragazza ho avuto esperienza con quella comunità, anche se non molta, visto che mia madre era del posto. Ma avevo alcuni amici americani con i genitori che si erano trasferiti per lavoro.” Si fermò. “Sono una comunità vulnerabile. Molte volte isolata: barriere di lingua e cultura. Forse l’assassino sta usando questo per avvicinarsi a loro. Lo sfruttamento della solitudine, oppure una pressione ad appagare il Paese ospitante.”

Foucault rispose annuendo e scrollando le spalle. “Esplorate tutte le possibilità,” disse. “Solo,” aggiunse, “non ne faccia un caso personale.” Distolse lo sguardo da Adele. “Agente Henry, lei starà qui, presumo?” Gli occhi del direttore erano fissi su Robert.

Robert si lisciò i baffi. “Direi che lascio il lavoro sul campo ai più giovani.”

Foucault riportò l’attenzione ad Adele. “La seconda scena del crimine?” disse. “È ancora sotto la nostra supervisione.”

“Io sono pronta a cominciare, se lei non è troppo stanca,” disse la Paige, parlando per la prima volta da quando erano entrati nella stanza. Il commento sembrava innocente, ma qualcosa in esso fece venire ad Adele la pelle d’oca.

Ora che l’attenzione era di nuovo su di lei, Adele espirò piano.

Americane in Francia, espatriate: si sentiva vicina a loro. Adele sapeva cosa volesse dire spostarsi da un Paese all’altro, rimettere radici, costruire da capo una nuova vita.

Ma queste vite erano state ricostruite solo per finire, tra le macchie di sangue sul pavimento dei loro appartamenti. Nessuna prova materiale. Nessun segno di colluttazione. Nessun segno di scasso o ingresso violento.

Ora non era il momento di riposarsi.

“Io sono pronta, quando sei pronta tu,” disse Adele, poi si girò verso la porta.




CAPITOLO SETTE


Adele strinse i denti frustrata, picchiettando le dita con impazienza contro la porta d legno che dava accesso all’appartamento. Guardò l’orologio per la decima volta negli ultimi trenta minuti e aggrottò ancor più le sopracciglia, assumendo un’espressione ancora più cupa mentre una scossa di impazienza la pervadeva.

“Cristo,” mormorò. Si accigliò guardando da una parte e dall’altra della strada, osservando il flusso dei veicoli. Continuò a tentare di individuare auto della polizia, ma la sua attenzione si fermava solo sul veicolo di cortesia che stava parcheggiato vicino al cordolo, accanto al parchimetro. Era ancora pomeriggio, con il sole alto in cielo che era solo leggermente sceso verso l’orizzonte.

Adele e Sophie avevano preso auto separate, dato che Adele sarebbe andata direttamente da Robert dopo aver visionato la scena del crimine.

Si appoggiò alla ringhiera che fiancheggiava i gradini di cemento e si rigirò verso la porta dell’appartamento. Per un momento considerò l’idea di entrare da sola. Ma il protocollo generale dettava che due agenti fossero sempre insieme su una scena. Nel suo primo giorno di lavoro tornata in Francia, Adele non voleva varcare i limiti. Però l’agente Paige le stava rendendo la cosa difficile. Era già in ritardo di quasi trenta minuti.

Adele sbuffò risentita. Aveva concordato con Robert che i suoi bagagli venissero portati alla villa, e poi era venuta direttamente alla scena del crimine. Le ci erano voluti venti minuti in auto. Parigi era una delle poche città con pochissimi segnali di stop, se non addirittura nessuno. C’erano voci che ce ne fosse uno da qualche parte. L’agente Paige doveva averlo trovato, e probabilmente non sapeva come procedere da lì.

Non c’era nient’altro che potesse spiegare quell’attesa di mezz’ora.

Guardò lungo la strada, scrutando lo spazio tra gli edifici. Deglutì, fissando il passaggio aperto dall’altra parte della strada, con alcune parti verdi un po’ nascoste. Una cosa che amava di Parigi erano i piccoli passaggi e i giardini nascosti pronti per essere esplorati come una specie di labirinto che si diramava tra gli edifici. I francesi avevano una parola speciale per descrivere coloro che girovagavano senza meta, godendosi le viuzze secondarie e i giardini: la flânerie. Adele non poteva ricordare l’ultima volta che si era rilassata tanto da poter gironzolare senza meta. E certo adesso non era il momento per farlo.

Con un ultimo sbuffo di frustrazione, si girò verso la porta e fece per premere il pulsante sul fondo, contrassegnato dalla parola Locatore. L’uomo aveva istruzioni di farla entrare. Con o senza la Paige, Adele era determinata a vedere la scena del crimine della seconda vittima.

Prima che potesse premere il campanello, però, ci fu un leggero fischio di copertoni contro l’asfalto. Adele si guardò alle spalle e scorse un secondo SUV con vetri oscurati che stava parcheggiando dietro al suo veicolo. I capelli argentati dell’agente Paige apparvero da dietro la portiera mentre scendeva dall’auto, prendendosi tutto il suo tempo. La donna si fermò sul marciapiede, poi schioccò le dita come se le fosse venuto in mente qualcosa, si rigirò verso l’auto, aprì la portiera e iniziò a frugarvi dentro.

Adele rimase a fissarla: ci volle quasi un minuto perché la Paige trovasse quello che stava cercando. Poi riprese il cammino verso la porta dell’appartamento, ovviamente a passo di lumaca. Fece un evasivo segno di saluto in direzione di Adele.

Adele represse l’impazienza. Avrebbe dovuto lavorare con la Paige per tutta la durata del caso, e partire con il piede sbagliato non l’avrebbe aiutata. Ma sembrava quasi che la collega che le avevano assegnato stesse forzando la mano appositamente.

“Pensavo avessimo concordato di venire subito qui,” disse Adele, cercando di mantenere un tono neutrale.

La Paige la guardò di sottecchi. “Sì? Di solito non vado di fretta quando si tratta di uno spreco di tempo. Gli addetti alla scena del crimine ci hanno già lavorato. Non sono sicura del motivo per cui siamo qui.”

Adele si girò del tutto, voltando le spalle alla porta dell’appartamento e al campanello per guardare la collega dritto in faccia. “Siamo qui,” le disse a denti stretti, “perché voglio esaminare la scena del crimine con i miei occhi. Ti può andare bene?”

La Paige si mangiucchiava le unghie, guardando qualsiasi cosa potesse trovare sul marciapiede. “Non scoprirai niente di nuovo.”

“Magari no, o magari anche sì.”

Adele poteva sentire il profumo della donna, anche se chiamarlo profumo era un po’ un’esagerazione. La sua collega sapeva di sapone. Non sapone profumato, ma piuttosto un lieve odore di pulito che parlava di igiene e semplicità. L’agente Paige non indossava orecchini, né alcun gioiello di sorta. Aveva un profilo forte, con un naso romano e zigomi netti. Adele ricordava il suo primo anno al DGSI, mentre lavorava in una task force con lei: allora si era sentita intimidita dalla donna, e a giudicare dallo stomaco che le si contorceva, la sensazione non era svanita.

Adele non aveva mai conosciuto la famiglia di Sophie, ma dalle discussioni con altri agenti sapeva che la Paige aveva cinque figli suoi, tutti adottati. Eppure, nella sua esperienza, Adele non aveva mai visto la donna perdere un solo giorno di lavoro. Aveva dovuto fare qualche ricerca, quando era al DGSI, ma da come sembravano essere messe le cose, il marito dell’agente Paige stava a casa e si prendeva cura dei bambini, mentre sua moglie faceva lunghe ore di lavoro al servizio del governo.

La Paige guardò Adele con il medesimo sguardo irritato e, in risposta, Adele premette il pollice sul pulsante del campanello del locatore. Ci volle un secondo, poi la porta si aprì. Sophie spinse la porta, entrò e lasciò che si richiudesse dietro di sé.

Adele dovette mettere velocemente il piede sulla soglia per impedire che si chiudesse del tutto. Poi guardò frustrata la nuca della collega, davanti a lei. Di nuovo, non c’era un singolo capello fuori posto. I vestiti della Paige erano perfettamente stirati, la giacca grigio antracite, abbinata ai pantaloni.

Adele non aveva mia particolarmente gradito la compagnia della donna che le aveva fatto un tempo da supervisore. L’ultima volta che aveva interagito con lei, durante il precedente caso in Francia, la Paige si era rivelata piuttosto scontrosa.

“Scusami,” le disse Adele, tenendo la voce bassa. “Dobbiamo parlare?”

La Paige si comportò come se non avesse sentito e continuò ad avanzare verso le scale.

Adele camminò velocemente e la raggiunse, allungando una mano e posandola sul braccio della donna. Come se si fosse scottata, la Paige si girò di scatto, le labbra piegate in una smorfia. “Non mi toccare!” le disse con tono secco.

Gli occhi di Adele scattarono alla fondina che si intravedeva sotto alla giacca semiaperta dell’agente. Tolse la mano, sollevando le braccia in gesto di resa. “Le mie scuse.”

“Cosa vuoi,” le chiese la Paige guardandola torva. “Stiamo facendo a modo tuo, no? Siamo qui a sprecare tempo invece di parlare con i testimoni.”

“Quali testimoni?” disse Adele ribattendo senza esitazioni.

“L’americana. Quella che ha trovato il corpo.”

Adele scosse la testa. “Ha trovato la vittima, ma non ha visto niente.”

La Paige corrucciò le labbra. “Sarebbe un modo migliore di usare il nostro tempo invece che venire su una scena del crimine vuota. Hai letto il rapporto, no? Nessuna prova materiale. Non c’è niente per noi, qui.”

Adele sbuffò, scuotendo la testa. Allungò una mano come a volersi mantenere in equilibrio, afferrando il corrimano in legno che fiancheggiava i gradini che salivano all’appartamento.

Sentì il tintinnare di chiavi e il rumore di passi che si avvicinavano mentre il locatore attraversava il corridoio. Adele guardò oltre la sua collega, al di là del corrimano e attraverso la ringhiera di legno, scorgendo un uomo anziano e calvo con la pancia un po’ prominente e un maglione macchiato che veniva verso di loro.

Adele abbassò la voce, cercando di mantenere la calma. “Puoi contattare gli agenti con l’americana. Sono in attesa. Di’ loro di portarla qui, se vuoi. La interrogheremo dopo. Meglio qui che alla centrale, comunque.”

“Bene,” disse la Paige. “Forse lo farò.” Prese il telefono e cincischiò con l’apparecchio per un momento.

Adele aspettò mentre il locatore si avvicinava, sperando che questo fosse l’ultimo scambio così acceso, per il momento. Non sarebbe stato carino apparire poco professionali davanti agli occhi indiscreti di un pubblico esterno.

L’uomo guardò le due donne, apparentemente ignaro della tensione tra loro. Fece un finto e forzato sorriso e disse: “Posso mostrarvi la stanza.” Esitò un momento, il sorriso che gli tendeva le labbra in modo quasi innaturale. “Solo per curiosità…” Esitò ancora, come se stesse aspettando un dovuto numero di secondi. Poi proseguì: “Quando potrò riaffittare l’appartamento? Ci sono le bollette da pagare…”

“Sono l’agente Sharp,” lo interruppe Adele. Scrutò l’uomo. “Questa è l’agente Paige.” Mise la mano in tasca e mostrò il suo cartellino, come anche le credenziali dell’Interpol che Robert le aveva dato.

Il locatore fece un gesto di noncuranza senza neanche guardare il badge. La Paige stava ancora guardando il suo telefono, ignorando l’uomo.

“Posso farvi vedere,” ripeté.

Adele fece segno con la mano di avanzare su per le scale e permise al locatore di fare strada, seguendolo a passo lento e sentendolo respirare affannosamente, man mano che faceva un gradino alla volta. Quando raggiunsero il pianerottolo del terzo piano, l’uomo inserì la chiave nella serratura e la girò, aprendo la porta. Adele esaminò le chiavi, poi guardò il locatore. “Non è entrato nell’appartamento un paio di giorni fa, vero?”

Il locatore la guardò e poi, passato un momento, il suo volto assunse un’espressione inorridita. Si mise immediatamente a scuotere la testa furiosamente, facendo ballonzolare le guance. “No,” disse ansioso. “Certo che no. Non entro mai negli appartamenti. Le chiavi sono solo per emergenza.”

Adele sollevò le mani. “C’è qualcun altro che ha accesso a un mazzo di chiavi?”

Il locatore scosse la testa con fermezza. “Solo chi affitta l’appartamento. E io. E non le uso,” ripeté.

Adele annuì per mostrare che aveva sentito, guardando l’uomo che spingeva la porta dell’appartamento e si faceva di lato, indicando alle due agenti di entrare.

Le donne passarono sotto al nastro di delimitazione che sbarrava la porta. Adele andò avanti e osservò il pavimento piastrellato.

La maggior parte del sangue era stato rimosso. Erano state fatte foto della scena, e gli investigatori precedenti avevano proceduto a catalogare ogni cosa. Adele si guardò attorno nella cucina: notò alcune macchie di sangue sul mobiletto accanto al frigorifero, come anche lungo le piastrelle del pavimento. Passò oltre le macchie e guardò il frigorifero. Ora era chiuso.

A parte il frigo chiuso e la grossa macchia mancante, la scena del crimine era esattamente la stessa delle foto. Il corpo era stato portato da tempo dal medico legale, e il rapporto finale sarebbe stato pronto a breve.

Odiava ammetterlo, ma non c’era molto da vedere. Nessuna prova materiale. Proprio come le avevano detto.

Avevano già cercato impronte digitali sul banco, sul frigorifero, sul corpo. Eppure non era apparso nulla. Niente, oltre alle impronte della vittima stessa.

La seconda vittima era stata trovata con la schiena appoggiata alla credenza, rivolta verso il frigo. Questo significava che chiunque l’avesse attaccata l’aveva fatto molto rapidamente. C’era stato qualche spruzzo di sangue, ma non molto. Nessun segno di ferite provocate da tentativi di difesa, sul corpo. E nessun segno di lotta.

“Pensi che conoscesse l’assassino?” chiese Adele sottovoce.

L’agente Paige rispose: “Forse.”

Adele scavalcò con attenzione la pozza di sangue ora sbiadita. Andò al frigorifero e, usando la tasca per rivestirsi la mano, afferrò la maniglia e la aprì. C’erano ancora alcuni cibi all’interno. Dei vecchi panini erano posati nel cassetto della frutta e verdura e una grossa caraffa di latte era posizionata accanto a una dozzina di uova. Per il resto il frigo era quasi vuoto. Adele guardò la credenza addosso alla quale la donna era stata rinvenuta, seduta in terra in una pozza del suo stesso sangue.

Esaminò il ceppo di legno per i coltelli accanto al lavandino. C’erano tutti. Erano stati controllati uno per uno per cercare la presenza di sangue, ma erano stati trovati puliti. L’assassino aveva portato con sé la sua arma. Ancora non sapevano cosa avesse usato per uccidere la donna.

Adele allungò una mano e aprì il congelatore. C’erano due vaschette del ghiaccio, una scatola di gelato e alcune pizze surgelate. Il contenitore del gelato era macchiato di strisce di gelato sciolto e poi ricongelato su un lato. Una delle vaschette del ghiaccio era completamente vuota. Adele corrucciò le labbra: era una sua fissazione personale, ma odiava quando la gente rimetteva la vaschetta del ghiaccio vuota nel freezer. Guardò la scatola di gelato e poi le pizze. Cavolfiore. Arricciò il naso, ma provò un’improvvisa ondata di imbarazzo mentre analizzava i cibi.

Cosa si era aspettata di trovare?

Chiuse la porta del congelatore e si girò per guardare la stanza. Non c’erano decisamente prove materiali. Osservò il lavabo e notò che gocciolava leggermente. Si avvicinò e ruotò una delle manopole. Il gocciolio continuò, una goccia alla volta. Tap, tap. Le gocce colpivano il secchiaio di metallo.

“La testimone viene?” chiese Adele, voltandosi a guardare la Paige.

La donna stava guardando fuori dalla finestra. Sbuffò. “Sta arrivando.”

Adele si schiarì la voce. “Mi ripeti come si chiama?”

“Melissa Robinson. Anche lei americana. Ha trovato il corpo.”

Adele strinse le labbra. “Come pensi che dovremmo impostare l’interrogatorio?”

L’agente Paige scrollò ancora le spalle. “Sei tu l’agente dell’Interpol. Io sono qui solo per seguire la tua guida. Fai quello che vuoi.”

Adele esitò, fissandola. Annuì, poi con il tono più diplomatico che le fu possibile assumere, aggiunse: “Penso ci sia bisogno di fare una chiacchierata.”

La Paige finalmente distolse gli occhi dalla finestra e inarcò un sopracciglio argentato.

Adele le si avvicinò con attenzione, portandosi di fronte alla donna, anche se sotto sotto avrebbe preferito andare a nascondersi nell’angolo della stanza. L’odore di sapone era ancora più forte di prima mentre lei guardava la donna negli occhi. “Non serve che questa cosa sia penosa, ma ho come la sensazione che tu non ti stia sforzando quanto potresti.”

La donna non tradì alcuna espressione. Alla fine scrollò le spalle e rispose: “Non sono responsabile dei tuoi sentimenti. Forse dovresti avere maggiore cura tu nel controllarli.”

Adele la fissò. “Non credo che questo sia di aiuto.”

“Il numero di cose che sei incapace di credere non è affar mio,” disse la Paige con freddezza. Aveva l’atteggiamento di chi gode della frustrazione dell’altro. Il nervosismo crescente di Adele sembrava alimentare sempre più il godimento della Paige.

“Non sapevo fossi tu,” disse Adele alla fine.

L’espressione dell’agente Paige divenne fissa.

Adele si girò a guardare verso la porta e fu contenta di vedere la soglia vuota, indice che il locatore non era lì. Lo stesso abbassò la voce e continuò: “Non lo sapevo. Avevo solo visto che qualcuno aveva spostato uno dei documenti contabili che facevano da prova. Pensavo fosse stato un errore d’ufficio. Quando ho fatto rapporto a Foucault, non avevo idea che…”

“Piantala,” disse con tono secco la Paige, stringendo i denti.

La tacita ed enigmatica espressione di noncuranza era svanita ora, come ghiaccio che si scioglie, mostrando tutta la rabbia che ribolliva sotto.

“Dico sul serio,” disse Adele. “Se l’avessi saputo…”

“Hai fatto quello che hai fatto,” disse la Paige, ora torva in volto. Le sue mani ai fianchi tremavano appoggiate all’abito grigio. “Mi hanno declassata. Sono fortunata se ho ancora il mio lavoro. Matthew è stato arrestato. Lo hanno interrogato per quasi una settimana!”

Adele sussultò. “Mi spiace. Io ho solo visto delle prove mancanti. Non sapevo…”

“Al diavolo quello che non sai,” rispose bruscamente l’agente Paige. Puntò con forza un dito contro il petto di Adele e la spinse. “Avresti dovuto venire da me. Ero il tuo supervisore! Hai agito alle mie spalle, come un topo.”

Adele fece un passo indietro, portandosi una mano al petto e massaggiandosi, chiedendosi se l’indomani vi avrebbe trovato un livido. Scosse la testa e disse: “Hai spostato delle prove per proteggere il tuo fidanzato. Non sapevo cosa fosse successo. Non sapevo neanche che frequentassi un sospettato…”

“Non era un sospettato quando avevamo iniziato,” disse secca la Paige, ma poi si interruppe, pronunciando il resto delle parole a denti stretti. “Non sono fatti tuoi, con chi cazzo vado fuori, chiaro? E poi è risultato innocente. Non era stato lui.”

Adele annuì, cercando di mantenere un atteggiamento non minaccioso. “Bene. Mi fa piacere. Al tempo questo non lo sapevo. Sapevo solo che qualcuno aveva spostato delle prove. Se avessi saputo che eri stata tu, ti avrei parlato. Lo avrei fatto di sicuro. Però non me l’hai detto. Io ho solo visto che mancavano…”

Sophie sbuffò e agitò una mano. “Non tutto deve appagare la piccola preziosa Adele,” disse con tono brusco. “Non si tratta sempre di te.”

Adele strinse i denti e avrebbe voluto protestare oltre, ma le parole non le vennero. La situazione era stata brutta. L’agente Paige era stata fortunata a mantenere il suo lavoro. La sua relazione con Matthew, un contabile del DGSI, non era cosa pubblica al tempo. Adele non sapeva che la donna stesse frequentando un sospettato nella morte di una prostituta. Alla fine Matthew era stato dichiarato innocente. Ma la Paige aveva dato ad Adele la colpa di aver denunciato la mancanza di una prova. Era saltato fuori che la Paige stava tentando di proteggere il suo fidanzato. Alla fine, però, era venuto alla luce che Matthew era andato a letto con la prostituta. Adele sospettava che la Paige non l’avesse saputo quando aveva nascosto ricevute e documenti che suggerivano il coinvolgimento dell’uomo.

Adele aveva visto che le prove mancavano, però, e aveva subito denunciato la scomparsa dei documenti. Dopodiché Sophie Paige era stata indagata come anche Matthew. Il suo ragazzo era stato a ritenuto innocente rispetto alle accuse di omicidio, ma era stato licenziato dal DGSI. Anche la Paige sarebbe stata licenziata, ma Foucault – per qualche motivo che Adele non capiva – l’aveva difesa e le aveva fatto conservare il posto, anche se aveva dovuto degradarla.

“Tu non mi piaci,” disse la Paige con semplicità, tutte le finzioni ora messe da parte, la sua espressione di nuovo dura e torva. “Non mi piacerai mai. Non ho chiesto io questo incarico. Devo sopportarlo. E anche tu. Adesso che ne dici di smetterla di sprecare il mio tempo trascinandomi su una scena del crimine che è già stata analizzata? Hai trovato qualcosa di nuovo?” le chiese.

Adele esitò, guardando verso la cucina. Odiava dover ammettere di no. Quindi disse invece: “Quando arriva la testimone?”

“Sei insopportabile,” disse Sophie. Si girò verso la finestra a guardò fuori, verso la città. Adele, le mani che tremavano per la rabbia, andò alla porta e uscì nel corridoio, preferendo aspettare fuori l’arrivo della loro testimone, piuttosto che passare un momento di più con l’agente Paige.




CAPITOLO OTTO


Adele fu risvegliata dai suoi pensieri da un agente in uniforme che le diede un colpetto alla spalla. Si voltò, distogliendo lo sguardo dalla finestra del corridoio fuori dall’appartamento della vittima.

“Mi scusi,” disse l’agente sottovoce.

Adele sollevò un sopracciglio per dare a intendere che aveva sentito.

L’agente si schiarì la gola e si lisciò i baffi. “La testimone si rifiuta di entrare. Dice che preferisce parlare sul marciapiede. Va bene?”

Adele guardò l’uomo, poi si girò verso la porta aperta dell’appartamento. Per un breve momento, fu tentata di lasciare l’agente Paige e andare a parlare da sola con la signora Robinson. Ma alla fine sospirò e annuì. indicò la porta aperta. “Le spiacerebbe dirlo alla mia collega?”

L’agente annuì, poi fece il giro del corrimano e andò alla porta. Fece un educato cenno di saluto al locatore che ancora stava aspettando alla fine del corridoio, le chiavi in mano. Per quanto la riguardava, l’uomo poteva aspettare anche tutto il giorno. Quel posto non sarebbe stato rimesso in affitto molto presto. Almeno non per ora.

Scese le scale, facendo due gradini alla volta e sperando di avere un paio di momenti per parlare con la testimone senza la presenza dell’agente Paige ad annebbiarle i pensieri.

Arrivò al piano terra, aprì la porta dell’edificio e notò la terza auto, questa volta un veicolo della polizia, che aspettava accostata al marciapiede. Una seconda agente stava appoggiata al cofano. Teneva una sigaretta in mano e sembrava sul punto di accenderla, ma quando scorse Adele, rimise rapidamente l’accendino in tasca e gettò la sigaretta nella grata del tombino davanti all’auto.

L’agente si alzò dal cofano velocissima e fece un cenno con la testa verso il sedile posteriore dell’auto.

“Si rifiuta di scendere,” disse. “Posso costringerla, se vuole…”

“Certo che no,” sbuffò Adele. “Non è una sospettata.” Si portò verso il retro del veicolo e scrutò all’interno. Una giovane donna dal volto paffuto con i capelli ricci e castani sedeva sul sedile posteriore. Non poteva avere un’età tanto più alta della sua. Forse al massimo trent’anni o poco più.

Adele tirò la maniglia della portiera e diede un’occhiata all’agente. La donna fece un cenno di scuse con la mano, prese dalla tasca la chiave e premette il pulsante.

I fanali lampeggiarono una volta e si sentì il sommesso click delle serrature. Adele tirò la maniglia e aprì la portiera. Guardò all’interno dell’abitacolo, abbassandosi per incrociare lo sguardo dell’americana.

“Lei è Melissa Robinson?” le chiese.

La donna dai capelli ricci annuì. “Sì, sono io,” rispose, con un francese dal marcato accento straniero.

“Inglese o francese?” le chiese Adele. La donna esitò, accigliandosi, e iniziò a parlare. Adele però la interruppe e le disse: “Che ne dice di inglese. Facile per entrambe, immagino.”

Il modo in cui Adele passò senza esitazione da un francese quasi perfetto a un inglese impeccabile parve fare un po’ colpo sulla donna dai capelli ricci. “Lei è…” fece per chiedere.

Adele rispose: “Incaricata. È una lunga storia.” A volte la gente non capiva cosa volesse dire essere americana, tedesca e francese. L’idea di avere tre cittadinanze era incomprensibile per i più, e Adele preferiva non addentrarsi nel discorso.

Sentì dei passi dietro di sé, e abbassando stancamente le spalle si voltò a guardare, notando la Paige che si avvicinava, guardando torva verso di lei.

Adele riportò la propria attenzione al veicolo della polizia. Non vi entrò, immaginando che la donna l’avrebbe potuta percepire come una minaccia, quindi decise di rimanere china in avanti, le braccia premute sulla parte superiore della portiera in una sorta di posizione che faceva da schermo, sperando che quell’atteggiamento comunicasse positività alla donna che si trovava all’interno.

Adele si schiarì la gola e disse: “Mi spiace moltissimo che lei sia dovuta tornare qui, e mi spiace che volessimo riportarla di sopra. Questa è stata una mia svista.”

Melissa Robinson annuì e fece un piccolo sorriso, a indicare che accettava le scuse. Adele sentì un po’ di peso sollevarsi dal proprio petto vedendo l’espressione dell’americana, quindi continuò. “Ma mi stavo chiedendo se magari lei potesse dirmi qualcosa della vittima. Si chiamava Amanda, giusto?”

“Sì,” rispose Melissa con voce tremante.

Adele continuò a rimanere china in avanti, ma sentì altri passi e avvertì la presenza sempre più vicina dell’agente Paige.

Lo sguardo di Melissa passò da Adele a dietro di lei, verso l’agente che si stava avvicinando.

“Ti spiace lasciarci un secondo?” disse a labbra serrate alla collega.

L’agente Paige si appoggiò alla parte frontale del veicolo, però, scrutando all’interno senza salutare la testimone. “Vai avanti,” disse, senza dare segno di volersi spostare. I due agenti di polizia guardarono le donne, ma rimasero ai loro posti sul marciapiede.

Con un sospiro frustrato, Adele si girò di nuovo, mantenendo l’espressione più tranquilla e quieta possibile. “C’è nient’altro che sarebbe in grado di dirci riguardo ad Amanda?”

Melissa scosse la testa quasi immediatamente. “Niente,” disse un po’ balbettante. “La conoscevo appena. Oggi ci saremmo incontrate per la seconda volta.”

“Adele si accigliò. “Oggi?”

“Scusa. Intendevo ieri. È stato così brusco… Ieri, presto, prima che lei… quando è morta.” La donna scosse la testa ancora una volta, sussultando, poi guardò attraverso il finestrino, su verso il terzo piano del condominio.

“Mi spiace molto sentirlo,” disse Adele. “Ma le spiace darmi una mano: cosa intende dire con ‘ci saremmo incontrate ieri’?”

“Intendo dire,” spiegò la donna, “che ci siamo conosciute al supermercato, ma poi abbiamo parlato per lo più online.”

“Online?” chiese la Paige con tono burbero, chinandosi davanti ad Adele e dandole una spallata in modo da farla spostare e poter guardare all’interno dell’auto. “Cosa vorrebbe dire online?”

Melissa guardò le due donne. “Intendo dire in Internet. Abbiamo una chat per gli espatriati che arrivano dall’America. Voleva fissare un incontro. A volte ci si sente da soli in un Paese nuovo, se non si conosce nessuno.”

“Siete in tanti qui?” chiese l’agente Paige. Ad Adele non piaceva il tono di disapprovazione nella voce della collega. La Paige fece un rapido sbuffo, ma si mantenne per lo più impassibile. “Non vi piace il Paese natale, è così?”

Melissa si mosse sul sedile, evidentemente a disagio, rigirando la cintura di sicurezza tra le dita. Ce l’aveva ancora allacciata, anche se l’auto era parcheggiata. Adele non la biasimava. A volte la gente si aggrappava a qualsiasi appiglio pur di avere una parvenza di protezione.

La donna si spostò ancora e sembrava indecisa a chi rivolgersi. Alla fine posò gli occhi su Adele. “Non è che il nostro Paese ci dispiaccia. Almeno non a tutti. Non proprio. Ci sono un sacco di motivo per cui uno decide di spostarsi. Cultura, un nuovo lavoro. Non potrei dire quante ore erano costretti a lavorare la maggior parte di noi quando si trovavano negli Stati Uniti. A volte sembra che in America vivi solo per lavorare. In Francia sembra di avere più una propria vita. E poi ci sono un sacco di persone diverse che puoi incontrare. E una storia comune, bellezze architettoniche…” Si interruppe scuotendo leggermente la testa. “Scusate, sto blaterando a caso. Non fraintendetemi, mi piace anche l’America, a volte,” aggiunse rapidamente. “Ma ognuno ha le sue priorità e i suoi gusti. Alcune persone amano viaggiare. Alcune altre vogliono ricominciare da capo. Non ci trovo niente di strano.”





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“Quando pensi che la vita non potrebbe andare meglio di così, Blake Pierce arriva con un altro capolavoro del thriller e del mistero! Questo libro è pieno di svolte e il finale porta una sorprendente rivelazione. Lo raccomando fortemente per la biblioteca permanente di ogni lettore che ami i thriller davvero ben scritti.”

–Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (riguardo a Il Killer della Rosa)

NON RESTA CHE SCAPPARE è il libro #1 di una nuova serie thriller sull’FBI realizzata dall’autore statunitense campione d’incassi Blake Pierce, il cui bestseller numero #1 Il Killer della Rosa (Libro #1) (scaricabile gratuitamente) ha ricevuto oltre 1.000 recensioni da cinque stelle.

Un serial killer sta facendo man bassa nella comunità di espatriati Americani a Parigi, con omicidi che ricordano Jack lo Squartatore. Per l’agente speciale dell’FBI Adele Sharp, si tratta di una corsa folle contro il tempo per entrare nella sua mente e salvare la vittima successiva. Fino a che non scopre un segreto più oscuro di quanto chiunque potrebbe mai immaginare.

Perseguitata dall’omicidio della sua stessa madre, Adele si getta nel caso, immergendosi nel ventre rivoltante di una città che una volta chiamava casa.

Riuscirà Adele a fermare l’assassino prima che sia troppo tardi?

Una serie thriller piena zeppa di azione con intrighi internazionali e suspense che tiene incollati alle pagine, NON RESTA CHE SCAPPARE vi costringerà a leggere fino a notte inoltrata.

Il terzo #3 libro della seria di THRILLER DI ADELE SHARP è ora disponibile per pre-ordinazioni.

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