Книга - Scritti editi e postumi

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Scritti editi e postumi
Carlo Bini




Carlo Bini

Scritti editi e postumi





AI GIOVANI


Erkenne erst, mein Sohn, was er geleistet hat,
Und dann erkenne, was er leisten wollte.

    Goethe.
Gli scritti in parte editi, in parte inediti, raccolti in questo volume, sono l'unico indizio ch'oggi ci avanzi d'una santa anima che passò, alla quale Dio aveva largito tanto tesoro d'amore da benedirne un'intera generazione, e che gli uomini e i tempi costrinsero a riconcentrarsi in sè stessa: sono il profumo d'un fiore calpesto da molti, inavvertito dai più, al quale mancarono l'aria e il sole, pur nondimeno sacro e bello di divina bellezza a quanti adorano nella povera modesta rosa dell'Alpi un simbolo di poesia, e dell'eterna vita che Dio diffonde, a conforto e promessa, anche fra i geli dell'inerzia e le nevi dello scetticismo.

E l'inerzia e lo scetticismo dei più fra' contemporanei avvelenarono di sospetti mortali, e di dolori tanto più gravi quanto più solitari, l'anima e la vita di Carlo Bini, e condannarono le facoltà di un intelletto nato potente a non rivelarsi se non per getti brevi e spezzati; note d'una melodia, che, a svolgersi ricca com'era, domandava la terza, e non l'ebbe. Io qui non parlo di scetticismo religioso: parlo dello scetticismo letterario sociale, conseguenza quasi sempre del primo, che ha esiliato tra noi come per ogni dove la poesia in un angolo del creato, e l'ammira a patto che non n'esca a diffondersi sulla vita; che ha impiantato sul dualismo dell'epoca in oggi morente il dualismo della pratica e della teoria; che applaude sorridendo, come a giuoco di ginnastica intellettuale o a visioni di anime illuse, all'adorazione dell'Ideale, alla religione del sacrificio, dell'aspirazione, dell'entusiasmo, al culto attivo, incessante, dei forti pensieri, dell'immense speranze e dell'avvenire: dello scetticismo che giudica freddamente com'opera d'arte l'espressione scritta col vivo sangue del core d'un dolore profondamente sentito, d'un desiderio ch'è forse il segreto di tutta una vita: dello scetticismo che, per cancellare nel Poeta l'uomo, ha inventato in questi ultimi anni l'artista. E dico che questo scetticismo, oggi ancora prevalente in Italia, condannò Carlo Bini al silenzio. L'anima sua pura, vergine d'ogni ambizione, ritrosa alla lode fino a sdegnarsene, abborriva dall'idea del letterato di professione. L'Arte gli pareva, ed è, l'espressione per simboli del Pensiero d'un'Epoca, che si fa legislazione nella Politica, ragione nella Filosofia, sintesi e fede nella Religione: per lui lo Scrittore, il Poeta, era, com'è per noi, l'apostolo, il sacerdote di quel pensiero, l'uomo che traducendolo in forme, immagini ed armonie particolarmente simpatiche, commove il popolo dei credenti a tradurlo in azione. Ma quand'ei cercava, guardandosi attorno, il popolo di credenti che dovea costituirlo Poeta e Scrittore, ei si ritraeva atterrito. Ricordo le parole ch'ei rispose con voce di mestizia ineffabile a me che andava spronandolo: «perchè non scrivi?» mentre viaggiavamo, nel 1830, a notte innoltrata, sulle alture di Montepulciano: «per chi scrivere? chi crede in oggi?» Fu l'unica volta ch'ei mi parlò, quasi forzato, il suo segreto, e lo stato dell'anima sua. Più tardi, e come s'ei temesse di calunniare i suoi fratelli di patria, andava innocentemente tentando d'ingannare sè stesso e gli altri sulle cagioni del suo silenzio, e diceva, «ch'ei s'era esplorato abbastanza e non si sentiva capace di lunghi importanti lavori.» Ma un eco di quel grido del povero amico suona tuttavia a chi sa intenderlo per entro ad alcune delle poche cose ch'egli dettò, segnatamente nella poesia sull'Anniversario della nascita. Quel canto, ch'egli scrisse col presentimento avverato di una morte precoce, è la condanna la più energica ch'io mi sappia del dubbio che s'abbarbicò negli anni più giovani, quando l'ali son più ferme al volo, all'anima sua, e la stancò innanzi tratto in una guerra muta, interna, incessante, fra il desiderio che la chiamava ad espandersi e lo sconforto che la dissuadeva. Ma quel dubbio d'onde venne? D'onde venne a Bini, ditemi, quella esperienza ch'egli chiama la morte del cuore?

Carlo Bini era nato potente; ma il segreto della sua potenza stava, per quanto a me fu dato conoscere, nella commozione. Le armonie che vivevano perenni nell'anima sua avevano, per sciogliersi in suoni, bisogno, come la statua di Memnone, d'un raggio di Sole sorgente. Il suo era ingegno d'Apostolo, non di Profeta. Temprato a sentire la vita nelle sue menome manifestazioni, nelle sue relazioni più delicate, con un cuore traboccante e assetato d'amore, con una mente pronta ad afferrare il Bello, il Grande, il Vero, dovunque apparissero, e a venerarli e a ispirarvisi, Bini avea più ch'altri bisogno, a rivelarsi qual era, d'armonia, d'equilibrio fra l'io e il mondo esterno, fra le tendenze ingenite in lui e il mezzo, l'elemento, in che dovevano manifestarsi: la solitudine dell'anima gl'intorpidiva a inerzia le facoltà. In mezzo a un gran Popolo, davanti a un gran fatto, in faccia a una grande Idea incarnata in pochi individui santi d'amore e di sdegno, di pensiero e d'azione, le potenze che nel sopore comune gli dormivano dentro, si sarebbero suscitate tutte in un fremito di volcano, e avrebbero operato in modo da lasciare ai posteri ben altra memoria di sè che non questa: in una società pigmea d'affetti e d'azioni, com'è – perchè non dirlo? – la nostra, Bini non trovava simboli e immagini a' suoi concetti, e quasi pauroso di profanarli si tacque. Egli era come quegli augelli, che sotto un cielo sereno empiono l'aria di bei concenti e nella maremma ammutiscono. Forse, un solo essere, uomo o donna, che gli avesse detto: – «tu soffri; che monta? Dio t'ha fatto per questo: i patimenti sono le sue benedizioni. Dio non t'ha creato per te, ma per gli altri. Soffri e persisti: persisti s'anche tu vedessi calpeste dagli uomini le idee che ti fervono dentro: persisti davanti alla morte: persisti davanti alle delusioni ben più terribili che non la morte. Guarda in alto e nel tuo cuore, e dentro ai sepolcri dei Grandi passati; non altrove. Cos'è il mondo d'oggi per te? Dio non t'ha detto: specchiati negli uomini che ti stanno intorno – ma – va, ama, predica e muori. La mia Legge è il tuo cuore: ivi sono le stelle de' tuoi destini:» – avrebbe salvato Bini dallo sconforto; certo, ei si sarebbe prostrato davanti a quell'essere, e rialzato meno infelice e più grande. Ma quell'ente ei non l'ebbe. Non che gli mancassero amici; ma i più si tenevano da meno di lui, e non s'attentavano d'ammonirlo; i pochi che lo avrebbero osato, gli vissero lontani e raminghi; nè parole siffatte riescono efficaci, se non quando sono pronunziate, nei momenti d'abbattimento supremo, col bacio dell'amante o colla stretta di mano dell'intima fratellanza. Bini, circondato di simpatia, d'ammirazione, d'affetti modesti e ineguali ai bisogni dell'anima sua, visse e morì solitario. E in questo isolamento morale al quale egli non era nato, ma pur sentivasi condannato irrevocabilmente qui sulla terra, cominciò l'incertezza sulle proprie forze, cominciò il dubbio sull'importanza della vita, cominciò la lenta etisia dello spirito che lo consumava fin da quando io convissi, or sono tredici anni, parecchi giorni con lui. Tra le abitudini prepotenti d'un'analisi venuta a disciogliere e i barlumi d'una sintesi nuova, tra le vecchie tristi dottrine, che insegnavano una vicenda alterna inevitabile di vita e di morte in tutte le umane cose, e la filosofia religiosa, che annunziava l'eterna progressione ascendente dell'Umanità collettiva in un vasto piano d'educazione assegnato dalla Provvidenza, l'intelletto di Bini, tendente per potenza intrinseca e per tutte le aspirazioni del cuore a quest'ultima, ma sconfortato dalle incertezze che regnano in tutti cominciamenti, e più dal contrasto visibile fra l'Ideale intravveduto e gli uomini che doveano rivelarlo in azione, invocava, a decidersi, un segno. Pronto a dedurre con un vigore non comune di logica le più remote conseguenze d'un principio, e avvezzo da molto a conformare, non per sistema, ma per natura, gli atti della vita alle credenze dell'intelletto, ei si sentiva dalla contemplazione delle generazioni contemporanee tratto a dubitare della verità dell'Idea. E allora, quand'ei non vedea più per chi sagrificarsi o per che, la vita gli sembrava un problema insolubile quando non una trista ironia, e tutte cose gli si tingevano a nero. Un riflesso di questa guerra tra l'intuizione dell'avvenire e la conoscenza anatomica del presente, che s'agitava dentro lui tormentosa, continua, gli pareva, quand'io lo conobbi, sul volto. La sua calma era calma di vittima: il suo sorriso, dacchè ridere nol vidi mai, un sorriso d'esule, de' più mesti ch'io m'abbia incontrati.

Poi vennero, – perch'io degli ostacoli materiali, della povera fortuna, degli affari di banco a' quali la carità della famiglia lo strinse, cose tutte ch'egli avrebbe superato, non parlo, – vennero le delusioni individuali, le delusioni che incanutiscono la chioma e l'anima innanzi tempo; la morte d'una fanciulla amata; amicizie di molti anni senza colpa perdute; tentativi, su' quali tutte le speranze della vita s'erano poste, falliti; e gli uomini venerati un tempo come insegnatori scaduti fin dove comincia il disprezzo, e l'entusiasmo creduto poc'anzi di fede scoperto entusiasmo di sola e spesso egoista speranza, e le visioni dell'anima vergine date da quei medesimi che primi le avevano accarezzate al ludibrio d'un materialismo crescente cogli anni, allo scalpello inesorabilmente feroce del calcolo: storia tristissima e di molti fra noi. Carlo Bini uscì dalla prova vincitore, ma esausto: credente, e lo dico con gioia, nella fede in che noi crediamo, ma disperato del presente, di molti anni avvenire, degli uomini che gli formicolavano attorno, e della propria vita terrestre. «Sono, – egli mi scriveva il 16 agosto 1842, – sono un vecchio edifizio tutto franato, e non mi resta che un cuore tutto rughe e pieno di morti, e sull'estremo orizzonte dell'avvenire ho l'ospedale, dove pur non mi soccorra la morte di cui ho in mano una buona caparra. Nè mi manca la fede nei principii; e sebbene spesso la senta svenire e quasi estinguersi, sebbene spesso una crudele ironia mi sferzi lo spirito e lo faccia ammattire, questa fede la sento rinascere più ostinata e più verde; ma non credo in me e negli uomini che compongono l'epoca, – e compiango a lacrime di cuore quegli infelici che hanno immaginato di alzare un monumento con siffatti materiali, quegli infelici cui la natura gettò sull'anima il cilizio d'una volontà forte e perpetua, destinata ad abbracciarsi e lottare e logorarsi coll'impotenza. Io li compiango questi infelici, e nel tempo stesso li invidio, perchè almeno avendo tenuto fermo nella strada che scelsero, quando pure non giungano a nessun termine, avranno la coscienza di aver fatto il proprio dovere e morranno senza rimorsi. Ma molti, ed io primo fra tutti, non potremo morire senza rimorsi!» Povero Carlo! chi scrive sa meglio d'ogni altro che tu potevi morire senza rimorsi.

Bini sdegnò d'essere letterato, ammirato da letterati. I pochi scritti ch'egli dettò, tutti a quanto io mi so senza nome, sgorgarono non da disegno premeditato, ma da circostanze imprevedute che gli suscitarono a tumulto le potenze del cuore. Puri d'ogni affettazione di lingua o di stile, caldi senza indizio di sforzo, candidi, ingenui, ritraenti del fare di Sterne, scrittore dei prediletti da lui, ma di Sterne con tutte le idee, con tutti gli affetti del XIX secolo, a me rendono immagine viva del suo sorriso; sorriso, come dissi, mestissimo, ma pieno di pietà e d'amore, senz'ombra di riazione, senza vestigio delle molte amarezze patite. E rimarranno, cari a tutti come la promessa, inadempita per colpa dei più fra noi, d'un ingegno originale e potente; preziosi a noi pochi che lo conoscemmo e non lo dimenticheremo mai più, come il ricordo d'una vita la più incontaminata, la più virtuosa, che ci sia stato dato d'incontrare in questi ultimi anni.

Condannato dalla fortuna a occupazioni dalle quali si ribellavano tutte le tendenze dell'animo suo, affannato dal desiderio d'un Ideale ch'ei disperava di raggiungere in terra, roso, – e questo è tormento che i più negano, e nessuno forse, se non chi lo prova, può intendere, – dalla potenza che gli fremeva dentro e rimanevasi, per disconforto dell'Oggi, inoperosa al di fuori, Carlo Bini tra l'esser frainteso o profanato nell'espressione del suo pensiero, scelse il silenzio; ma lo ravvolse di tanta dignità, che parve, a chi lo conobbe dappresso, più eloquente d'ogni parola. Non si lagnava; avido d'amore, sdegnava il compianto; fors'anche lo tratteneva il timore di aggiungere, snudando le proprie piaghe, allo sconforto dell'anime giovani, che guardavano in lui ed erano men forti a reggere che non la sua. La sua era di quelle che s'affinano nella sventura. Tutta la vita sottratta all'intelletto di Bini si riversava nel cuore; nè, s'egli avesse trovato l'esistenza simile fin da' primi suoi giorni a un letto di rose, avrebbe potuto mostrarsi più affettuoso ai viventi che s'abbattevano in lui. Dall'attività d'amico ch'egli più anni addietro, spiegò per giovare, nelle strette d'una crisi di povertà, chi scrive codeste pagine, fino alla traduzione dal Tedesco ch'egli imprese poco tempo innanzi la morte, e quando il male che ce lo rapì lo travagliava minaccioso, per soccorrere col ricavato della vendita a un conoscente, io potrei citare una serie d'atti tali e tanti da onorare qualunque vita; ma non li cito perchè mi parrebbe offendere la santità del pudore ond'ei ricopriva le belle azioni della sua vita: ei benediceva, come soffriva, tacendo. Non so quanti vivano grati a Bini per aiuto, consiglio o conforti; son certo che non esiste un sol uomo il quale possa dolersene. Tendente al frizzo, s'adoprava continuo a correggere la natura, e lo temperava di tanta benevolenza che nessuno poteva patirne o adontarsene: intollerante e santamente sdegnoso solamente all'ipocrisia. Lento, ma tenacissimo, negli affetti, non li tradì mai per tempo, lontananza, o vicende: tradito egli stesso, rispettò il passato e non rispose che col silenzio. Serbò, perseguitato, contegno virilmente decoroso dell'uomo che dal primo all'ultimo anno della sua vita avea, com'egli stesso scriveva, «segnato una linea retta nella via dell'onore;» e tra pericoli, de' quali nè egli nè altri poteva segnare i limiti, andava cacciando sulla carta, con una quiete di bambino accarezzato, linee di tanta innocenza d'amore alla Madre, che paiono scritte da un'anima di fanciulla con una penna tolta all'ala d'un angiolo. Delle sue opinioni non parlo: le più importanti trapelano a chi sa intendere anche dai pochi scritti raccolti in questo volume. Amava religiosamente la Patria; nè, rara dote nei tempi nostri, mutò mai: migliorò; – come un bel cielo al tramonto, le facoltà del suo cuore andarono via via rasserenandosi quanto più egli s'accostava all'ultimo giorno. L'ingegno pronto ed acuto, l'osservazione diligentissima, il senso ch'ei possedeva squisito del Bello sotto qualunque anche poverissima forma si presentasse al suo sguardo, la singolare facilità con ch'egli potea trapassare dalle corde dell'onesta letizia a quelle della commozione più profondamente patetica, una insolita dolcezza di stile, e l'anelito all'Infinito, e l'anima nata ad amare e inchinatissima alla pietà, avrebbero forse in altri tempi fatto di Carlo Bini il Gian Paolo Richter dell'Italia; ma egli non avrebbe mai potuto scrivere a chi lo conobbe, libro migliore della sua vita.

Morì côlto d'apoplessia, il 12 Novembre 1842 nell'età di trentasei anni[1 - Egli era nato in Livorno, il 1.º di Decembre 1806.], dopo quaranta ore più che di agonia di letargo, in Carrara, dov'ei s'era per affari recato. Ma le sue ossa, trasportate devotamente per voto di tutti ed opera degli amici a Livorno, riposano dov'io forse non potrò mai più visitarle, a Salviano, nel cimitero.

Nè gemo per lui; perchè gemerei? Il suo pensiero gli sopravvive, più potente a spandersi invisibile dal mondo migliore, ov'egli soggiorna, tra' suoi fratelli di patria; ed egli è salito a vita meno infelice e più pura. Gemo per noi che abbiamo perduto un amico, e non siamo certi fino all'ultimo giorno di meritar di raggiungerlo: gemo pei giovani che avrebbero potuto abbandonatamente specchiarsi e fidarsi in lui, e ai quali son tanto rare in oggi siffatte guide. E gemo dal profondo dell'anima pensando alle tante anime mie sorelle, simili a quella di Carlo Bini, che onorerebbero d'opere generose e di nobili scritti l'Italia, e si consumano, mentr'io scrivo, ignote a me, ignote a tutti, nel tormento d'un'impotenza decretata dai tempi, dall'egoismo ognor più invadente, e dall'inerzia vostra, o Italiani. Provvedete a quest'anime, o Giovani: è Bini che prega per esse. Voi avete dato onore d'esequie solenni e di tomba alla sua spoglia mortale: sia con voi il suo spirito e fate del vostro cuore un santuario della sua vita. Operate come se aveste raccolto in voi l'alito estremo del pensiero d'amore che lo animava. Educatelo devotamente attivi e diffondetelo sulla terra che Bini piangeva caduta. Amate la Patria come ei l'amava: ribeneditela d'entusiasmo, di fede, di Poesia: preparate ai vostri ingegni privilegiati quel popolo di credenti che Bini invocava. Oggi, comunque facciate d'abbellirle e onorarle, l'Angiolo dello Sconforto siede sulle tombe de' vostri cari, e la voce che noi moviamo per essi, e dovrebbe innalzare in religiosa lietezza l'inno della nuova vita, suona lamento inconsolabile e amaro.




PRIMA PARTE.

SCRITTI ORIGINALI





MANOSCRITTO DI UN PRIGIONIERO




– 1833 —



    You smile? t'is better thus than sigh.
    Byron.



V'è più ragione di ridere quando sei in fondo, che quando sei in cima; – almeno tu non temi più di dare la balta. Il riso dell'uomo felice può essere smentito da un punto all'altro. La Fortuna non fa contratti perpetui con nessuno. Il suo corso è a spirali, e non rettilineo. Oggi t'abbraccia, e ti mette sul capo un diadema; dimani ti taglia la testa, e la dà per balocco all'abietto, che faceva da sgabello ai tuoi piedi.

    Epigrafe, che va per conto mio.




CAPITOLO I


Il cervello dell'uomo appena è in istato di esercitare le sue funzioni può rassegnarsi in tre scuole. Di queste una infallibilmente ne conoscete, – senz'altro le conoscerete anche tutte, perchè non sono arcani di astronomia; – son cose semplici, e dappertutto si sentono dire. Io nondimeno, a scanso di equivoci, mi stimo in dovere di nominarvele tutte e tre, secondo l'ordine naturale in cui giacciono fino dal principio dei secoli. Elle pertanto sono queste:

Scuola della Fede;

Scuola del dubbio;

Scuola dell'Incredulità.

E in una di queste tre, suo malgrado o no, ha da rassegnarsi il cervello. La prima è più frequentata di tutte; – la seconda più della terza; – quest'ultima ha un numero bene scarso di alunni. Il locale stesso è sì angusto, che non potrebbe capirne una folla, – e per entrarvi ci vogliono certi dati requisiti, che non son comuni. Sic se res habet. V'è chi crede in tutto; v'è chi dubita di tutto; v'è chi non crede in nulla. V'è chi crede, che il Sole abbia gli occhi, il naso e la bocca come abbiamo noi; – v'è chi dubita, che il Sole non sia di fuoco, ma una massa enorme di ghiaccio; – vi sono certi pochi disperati, che non credono in nulla, – nè anche nel sasso dove urtano, – nè anche nell'acqua che li bagna. – La verità dove siede? – Di grazia, vi prego, non fate a me questa dimanda, perchè non saprei di dove cominciare a rispondervi. Quello che è vero, ogni scuola la pretende esclusivamente nel suo ricinto, – e le ha destinato un bel seggiolone a bracciuoli, dove non ci si vede mai nessuno a sedere. Ma tutte le scuole vi spiegano il fenomeno in questa guisa: non si può negare, voi non vedete nessuno, e noi non vediamo nessuno, – ma v'è la sua propria ragione; – la Verità è un ente invisibile. Forse la Verità imita il Congresso degli Stati Uniti d'America, che tiene le sue sessioni ora in questa, ora in quella città, regolandosi con una giusta vicenda.

Io per cominciare ab ovo, come dicono i retori, primamente entrai nella scuola della Fede palpando l'ombre come cose sensibili, fino a che il tatto educato dall'uso non uscì d'inganno. Allora protestai nelle debite forme, – tolsi commiato il meglio che seppi, e mi diedi alla scuola del Dubbio. Non operò la stanchezza, o il capriccio: furon la coscienza e il puntiglio, che mi fecero divorziare colla Fede. La Fede me ne aveva fatte troppe delle fusa torte, e troppo manifeste. Mi dava una cosa per bianca, e al riscontro era bigia; – e quanto spesso, per cagion sua, invece d'uno ho dovuto far due viaggi, ho dovuto fare un conto due volte!

Un tempo io mi dava a credere, che un effetto solo e determinato fosse prodotto sempre da una causa sola, determinata, immutabile. Un tempo io lo credeva, – e la Logica anch'essa mi accennava col capo ad una certa distanza. A me pareva allora che volesse darmi ragione, – e forse invece voleva dirmi di no.

Oggi il mio credo è sensibilmente variato quasi in tutti i suoi articoli, e tale è il frutto degli anni. Ma son io più felice? Siete voi più felici, voi, che aspettaste con tanto anelito il benefizio del tempo? – Gli anni mi hanno guarito di certe poche malattie, che non mi facevano nè bene nè male, e mi hanno guarito di più altre malattie, che mi facevano meglio della salute. Ora me ne accorgo, ma è tardi, – e poi quel che è stato doveva essere. Gli anni, non contenti che il pomo dell'Asfaltide fosse pieno di cenere, gli hanno voluto rapire la lusinga di una scorza lieta di bellezza e di luce. Oh! la dottrina degli anni! io la lascerei volontieri a chi la vuole, se il Fato non me l'avesse imposta come una camicia di forza. La dottrina degli anni smuove il cuore dal suo centro portandolo verso la testa. È una dottrina severa, geometrica, che cammina per terra colle mani e coi piedi, e dal tetto in su non vede altro che nuvole, e le stima buone solamente a far piovere.

Ma veniamo al dunque. – Io voleva dire, che un effetto solo non dipende sempre da una causa sola: anzi spesso può dipendere da due cagioni diametralmente opposte fra loro. – Un fulmine può scoppiare a ciel sereno, – può scoppiare in burrasca. – Non so se in Fisica regga; ma l'ho detto così per dare un certo rilievo al mio disegno, – e in ogni caso sapete dove trovarmi; – io son qua per le debite scuse. – L'uomo può andare in prigione per i suoi meriti, exempli gratia per un furto, – etiam può andarvi per un qui pro quo. Un qui pro quo non è cosa da pigliarsi a gabbo; alle volte, è vero, può farvi ridere; – sovente ancora può farvi corrugare la fronte. Un qui pro quo può mettervi al fatto d'un segreto, che non avreste mai sospettato; – può dare e toglier l'ale a una vittoria; – può mandarti in prigione, e viceversa può farti vescovo.




CAPITOLO II


Lo conoscete voi Sancio Pansa? Quel tipo verace di buon senso gregio e originale, tale e quale come la natura se lo cava di manica? – Ma diamine! v'è mestieri di domandarlo? Prendete l'uomo il più idiota, e rammentategli Sancio Pansa, si mette subito a ridere. Sancio Pansa è conosciuto in Europa, è conosciuto in America, e sarà pur conosciuto in Africa e in Asia, quando queste due parti del globo vorranno leggere nei nostri libri. Sancio Pansa è il buon umore incarnato, – grazioso nei suoi sali, grazioso nelle sue balordagini, grazioso a piedi, grazioso sul'asino. – Sancio Pansa ha ormai la sua nicchia nella storia, e vi sta saldo, inchiodato, imperterrito; – potete scuotere a vostra posta, Sancio Pansa non si muove, non crolla. Egli e il suo asino occupano pacificamente tante miglia quadrate di fama, quante il primo conquistatore di prima classe: citate pure Alessandro, citate Cesare o Buonaparte.

Eterne grazie a Cervantes che me lo diede a conoscere! Io l'ho benedetto le mille volte Sancio Pansa, perchè mi ha fatto del bene. L'ho benedetto come il maestro, che mi ha insegnato tante cose, che l'accigliata filosofia non sapeva insegnarmi; – l'ho benedetto come il sogno allegro delle mie veglie, – come l'amico che nell'ora nera veniva di mezzo a mettermi in pace meco stesso e col prossimo. – Sia lieve la terra sulle sue ossa; – sia lieve ancora su quelle del suo asino. – Quest'ultima prece consolerà il suo spirito quanto la prima.

Sancio Pansa dunque era quell'uomo, che voi tutti ben conoscete. Aveva anch'egli una madre, perchè Sancio Pansa fu una persona vera e viva di questo mondo, battezzata e sepolta in Ispagna. Ora non mi ricordo appunto in qual parte del libro Sancio Pansa racconta, che sua madre, per arguzia di natura e per vecchiaia, era una donna pratica assai delle cose umane. Narra di più, che un giorno ragionando di nobiltà, di casate illustri, di origini antiche, sua madre chiuse il discorso affermando sinceramente di non aver conosciuto al mondo se non due sole famiglie: quella di coloro che hanno tutto, e quella di coloro che non hanno nulla. E la vecchia soggiungeva candidamente, che non so come l'istinto la portava a dirsela più volentieri colla famiglia dei possidenti.

Dunque nota bene: Chi va in prigione è povero o ricco.




CAPITOLO III


Quando va in prigione un signore è un avvenimento che nessuno se lo aspettava. Tutti se ne fanno le maraviglie; tutti ne parlano in mille voci, in mille maniere. Chi bisbiglia, chi grida, chi dice di sì, chi dice di no.

La città è seminata di gruppi, e per mezza giornata almeno non fanno più nulla, se non ciarlare del caso, e da un gruppo cacciarsi in un altro: precisamente come quando segue l'eclisse del Sole. Un signore in prigione pare alla plebe impossibile. – La plebe, che somma fatta in capo all'anno sta sei mesi in prigione e sei mesi in una soffitta, è inutile, non se ne persuade, perchè non ce ne vede mai dei signori; e così di rado che non se ne rammenta. Crede le prigioni fabbricate unicamente per sè; e se v'entra alcuno che non sia de' suoi, è un fatto che la percuote, le sembra quasi una usurpazione. – Tanta è la potenza dell'uso. – La plebe non crede che la colpa possa vestirsi di panno fine… crede che la colpa vada solamente vestita di cenci, scalza, e col capo ignudo. – E sì che tutto il giorno ha in bocca un proverbio pieno di verità che dice: L'abito non fa il monaco. – Non giova: – quel proverbio erra per tradizione così sulla lingua, ma la mente non l'accorda. – La plebe crede pur troppo nell'abito, e cotesta persuasione oggimai s'è ossificata con lei.

Tuttavia, volere o no, di rado, ma qualche volta un signore va in prigione.

Egli, appena ha varcato di tre o quattro passi la soglia, si volta risoluto, – fa il viso più imperioso del solito, – squadra il carceriere dai capelli alle piante, – poi gli ficca gli occhi negli occhi. – Lasciatelo fare: il signore legge qualche cosa in quegli occhi. È una lettura rapida, che dura un attimo, ma basta, – e il signore se ne trova contento.

Se ne trova contento, e mette mano alla borsa: – la dondola con due dita un momento per aria, – la fa suonare, – dice qualche cosa che non vuol dir nulla, e il soprastante che è un gran chierco in tutte le lingue, – anche in quella dei muti, – risponde subito; comandi, comandi; – in quella stessa maniera, nè più nè meno, che rispondevano gli spiriti in quei secoli d'oro, quando un mago o una strega con un tocco di verga o con un ribobolo erano padroni dell'aria, della terra e dell'inferno…

Voi l'avete sentito, il soprastante ha risposto: comandi, comandi. E di fatti la metamorfosi da un punto all'altro è così improvvisa, così universale, che sei tentato a giurare rinnovellato il regno degl'incantesimi. In cinque minuti il signore è stato introdotto in un nuovo quartiere; e il soprastante gli ha chiesto perdono, se, così preoccupato com'era, aveva sbagliato di numero. Il valentuomo aveva preso un tredici per un quindici; e il signore per tutta risposta gli ha battuto due volte umanamente sulla spalla, non mi ricordo se destra o sinistra. Ora le stanze sono tre, e prima erano una. Sono larghe, ariose, imbiancate di nuovo, con qualche rabesco per maggior vaghezza, e le finestre arrivano a mezza vita. Le finestre danno sur una buona strada, dove passano carrozze e pedoni, uomini e donne, – dove il signore può fare anche all'amore, – e senza scandalo. –

Viva la metamorfosi quando va dal basso all'alto! – Fervet opus. – Le piume sottentrano al pagliericcio, – le sedie all'unica panca, – i cristalli all'unico orciuolo di terra cotta. I valletti sudano attenti e in silenzio. – «Fate piano con quello specchio, – badate al canterale, è nuovo di zecca; – ehi! quel Napoleone non è mica di piombo, è d'alabastro, – voi lo maneggiate come una brocca, – sagratissimo diavolo! – ci vuol maniera, – badate, ve lo dico, chi rompe paga; – dove sono i vasi dei fiori?» – Così grida affannata la voce chioccia del soprastante, e non si cheta più mai.

In questo mentre il signore ha girato per tutti i versi la nuova abitazione; – ha veduto e riveduto minutamente, – ha disposto dove far la tal cosa dove far la tal altra; – dove dormire, – dove vegliare, – dove pensare, – dove non pensare. Ha fatto di quando in quando diverse dimande, e il soprastante spesso gli ha risposto un no invece di un sì, e viceversa. È un cattivo momento per discorrer con lui, – ha l'animo troppo internato nell'assetto delle tre camere, e cotesto pensiere gli ha rubato la mano. Ella è finita, – vuol farsi onore, nessuno lo frastorni, – tanto non dà retta a nessuno.

Laudate Iddio! l'assetto è finito, – si può respirare, – respiro anch'io. Con un'occhiata i valletti son licenziati, e se ne vanno. Alla buon'ora. Adesso il soprastante è contento; – se lo guardate bene nella statura, vi pare un dito più alto. – Si asciuga il sudore della faccia, – si raffazzona i capelli, – compone lo scompiglio delle vesti, – si scuote d'indosso la polvere, – si mette in somma in buono stato, – nello stato di comparire come un galantuomo. Dopo si rivolge al signore con un mezzo sorriso tra la compiacenza e l'orgoglio, e il signore gli corrisponde tentennando con bel garbo la testa. Ora è tempo che anch'ei se ne vada. E di fatti vedetelo là col cappello in mano, che se ne va all'indietro fino alla porta. E non crediate che se ne vada alla muta. Oh! il soprastante è un uomo di mondo. Sicuramente ha detto: servo devoto. Io l'ho sentito con queste orecchie, – e l'ha detto in tono di basso assoluto.

Ora manca null'altro? – Non saprei: – v'è la prigione, e il signore v'è dentro. Oh! le belle prigioni che son quelle dove vanno i signori! La povera gente le scambierebbe volentieri con la sua libertà. Cosa manca al signore là dentro? Il soprastante gli ha pur detto: comandi, comandi; – ed egli non ha inteso a sordo. Gli dà noia il divario, la novità del locale? Può immaginarsi finita la scritta della casa abitata prima, e che gli sia convenuto tornare in un'altra; – può immaginarsi il suo palazzo in mano alle maestranze per bisogno di certi restauri, e che per questo abbia condotta a pigione provvisoriamente una casa, come veniva veniva. Gli dà noia forse il non potere uscir fuori? – Bene, può mettersi in capo che non ha voglia d'uscire, – che l'acqua vien giù a rovesci, – che si è stravolto un piede montando a cavallo, – che cerca la solitudine per comporre un'opera, per farsi anch'egli un bel nome. In somma a lui tocca a scegliere. – L'immaginazione è là come un merciaiuolo alla fiera, e gli va mostrando uno dopo l'altro i suoi mille fantasmi, e si protesta di vendere a buon mercato.




CAPITOLO IV


Fra bene e male una buona mezz'ora è passata. Cos'abbia fatto il signore frattanto, io non ve lo posso dire. Io non sono S. Antonio, non posso trovarmi al tempo stesso in due luoghi. Ho lasciato il signore, e sono uscito col soprastante andandogli dietro dietro ad una giusta lontananza. Il soprastante ha girato due strade, – poi è riuscito sur una piazza. Quivi a passi smisurati s'è accostato a uno stabile di bella apparenza, che al primo piano portava una mostra dipinta nelle regole con certe parole cubitali, che dicevano: Restaurateur. Come ha messo il piede sul primo scalino, ha cavato fuori una scatola, – ha preso tabacco, – ha fatto uno sternuto, – e poi s'è infilato su per le scale. E io dietro senza perder tempo. Io son l'ombra del soprastante; – non mica per nulla, vedete, – ma son curioso anch'io, – forse troppo; – già sono stato sempre, – curioso forse come una femmina…

Il soprastante ha aperta la bussola franco franco, come se fosse stato il padrone, o come un avventore dei buoni. Arrivato in mezzo ha dato il buon giorno, e del compare a un cert'uomo, che stava inchinato sopra una tavola a mettere in sesto non so quali vivande. Il compare s'è riscosso, – s'è rigirato in un fiat, e veduto il soprastante ha fatto subito bocca da ridere, e gli ha reso bene e meglio il buon giorno. Egli ha compreso istantaneamente di che sì trattava. Allora si sono strette le mani come due vecchie conoscenze, – hanno parlato forte, – si son bisbigliati non so che nelle orecchie. Dopo di che il trattore ha lasciato quel che aveva da fare, – si è messo in ordine, e son venuti via di conserva.

Eccoli insieme alle carceri; – già salgono una scala, – due scale, – tre scale; eccoli sul pianerottolo. Il soprastante avanti, il trattore dietro. Ecco, che il primo mette adagio adagio la chiave, – la gira lentamente, quasi che la serratura fosse di vetro, – e prima di sospigner l'uscio ingentilisce la voce, e la manda dentro dicendo:

– È permesso? si può passare?

– Oh bella! se non passate voi, che avete le chiavi, chi deve passare?

– Vossignoria ha sempre ragione; ma io conosco con chi ho da trattare, e i miei doveri non li so d'oggi.

– Bene, bene. Che abbiamo di nuovo?

– Son venuto a sentir quel che occorre, conducendo meco quest'uomo.

– Avete fatto bene. Galantuomo, chi siete?

– Sono un trattore bello e buono, ai servigi di Vossignoria.

– Ah! siete un trattore? siete una cosa più necessaria della prigione.

– Viva la faccia di Vossignoria! in questi luoghi vuol essere borsa, e buon umore.

– Come vi chiamate?

– Marco Trappolanti ai servigi di Vossignoria.

– Avete un nome curioso.

– Eh! Signore! che vuole? tanto il nome che il grado son cose, che bisogna portarle come Dio ce le mette adosso. Se stesse a noi lo scegliere, non andrebbe così; – io mi sarei messo un nome lungo e liscio come una coda di cavallo, e invece di cucinare per gli altri farei cucinare per me. Non so se dico bene, sono un ignorante.

– Bisogna contentarsi. La provvidenza ha saputo quello che ha fatto. Ma veniamo al pranzo. Come mi tratterete.

– Vossignoria di certo non vorrà stare all'ordinario, – mi parrebbe un'offesa a proporglielo. Del resto la tratterò come merita, come vuol essere servita. Non dubiti, l'arte la so fino in fondo; – com'ella vede, ci sono invecchiato. Scelga, chè io son qua tutto per lei. Vuol cucina alla Francese? alla Piemontese? la vuole all'Inglese?

– Per non confondermi le assaggerò tutte. L'ordinario non lo voglio; – mi appresterete un pranzo a parte secondo la nota che vi darò. Pietanze sane, e in abbondanza. Vino sincero; – mi contento, che me lo diate come l'avete ricevuto. Voglio sperare, che col fatto smentirete la cattiva impressione, che produce il suono del vostro cognome. Scommetto, che siete un galantuomo. Dite di no?

– Eh! non ho detto nulla, – e come vede io non sono in prigione.

– Bravo! è una risposta che vale un paolo. Prendete (gli dà un paolo). Andate, – spicciatevi, – servitemi bene, – ed io penserò a voi.




CAPITOLO V


Voi potete rovesciare il quadro, se il carcerato appartiene alla famiglia dei poveri. Povero! – ma sentite che voce? – La combinazione stessa delle lettere che compongono un tal vocabolo è una cosa che dà addosso; – il nome stesso è così fiacco, che non si regge ritto.

No, – io non ci credo, – non ci credo neppure se me lo dicesse ella stessa. La Natura non ha fatto i poveri: – ella è buona, – ella è savia, – è madre, e non madrigna: siamo tutti suoi figliuoli, e vuol bene tanto al primo che all'ultimo. E se la Natura avesse mai stampato questa moneta, bisogna pur dire, che non avesse più credito, che avesse gli sbirri in casa, e dopo le prime mandate avrebbe fatto meglio a rompere il conio, – avrebbe fatto meglio a mettere in circolo degli assegnati, – avrebbe fatto meglio a fallire. Una moneta falsa è tuttavia di metallo, – ha un valor benchè minimo: – il povero è peggio, – è una moneta di fango.

I poveri, via, non ci volevano; – essi stessi ne vanno d'accordo. – Ma come mai son diluviati in questo mondo ad ingombrare le strade, i vicoli, le piazze, in guisa che il Signore per poter passare disperatamente è costretto di andare in carrozza? Ma come mai? Io mi ci sono stillato il cervello, e non son venuto a capo del come. L'ho dimandato perfino agli stessi poveri, e mi hanno risposto chiedendomi qualche cosa per amore di Dio.

Così è, – la storia è come io ve la narro. Le tradizioni, gli archivi, la stampa, non serbano traccia nè del come, nè del quando fosse fondata la setta dei poveri; – non serbano neppure il nome del fondatore. L'antiquaria ha cercato dappertutto, – per terra, – per mare, – per aria, ma non ha trovato nè pergamena, nè medaglia, nè altro documento, che ne desse il minimo indizio. Per avventura la setta non fu mai in grado di rizzare nè anche un tronco d'albero in memoria della sua origine. Quel poco che ne sappiamo è che la setta rimonta col suo principio verso un'epoca remota remota, le mille miglia lontana dal dominio della storia, e conta un'antichità canuta tanto da dar gelosia a chi stima di attingere un merito a questa sorgente. Un gentiluomo è sempre prudente, – ma tuttavia per le buone regole credo bene avvertirlo di non discender mai a cimento con un povero sulla primazia delle scambievoli origini. Bisognerebbe cercar nel passato, e chi sa dove lo menerebbe l'indagine. Chi l'assicura che non trovasse uno degli avi suoi in cotal luogo da fargli salire i rossori sul viso? Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov'era allora il gentiluomo?

Povero! – Questo nome ha un tal prestigio per me, ch'io non me ne posso staccare. E quanti sono! Trovatemi chi li sappia contare, ed io ipso facto lo dichiaro matematico più valente di Galileo. I poeti, per dare un'idea delle cose che non si possono numerare, hanno tolta l'immagine dalle arene del mare, e dalle stelle del cielo; – potevano toglierla ancora dai poveri della terra, e così avrebbero avuto un paragone di più. – Non v'è che dire, – è la più vasta setta di quante apparissero mai, – rimasta sempre in seduta permanente, – e riceve gli adepti alla rinfusa, – senza chieder loro come si chiamino, – senza guardarli neppure in faccia. Non ha misteri, – non ha sotterranei, – cospira sotto la cappa del sole, – non ha timore della Police. Ella non è una setta segreta, e qualsivoglia governo l'ammette.

O poveri! – Voi siete ricchi di pazienza più che altri non crede. Quando di sotto ai tetti delle vostre soffitte voi vedete le stelle, chi non fosse povero bestemmierebbe, – penserebbe al freddo, – alla guazza, – alla pioggia, – al malore che gliene potrebbe incogliere. – E voi pensate invece che quegli astri scintillanti un dì saranno casa vostra, – che passerete dall'uno all'altro a vostro talento, – che avrete tutti i giorni Domenica, – che le anime vostre potranno svoltolarsi a bell'agio sull'azzurro molle del firmamento come sopra un tappeto. Così sognate ad occhi aperti, e non sentite la durezza del letto, e l'inclemenza dell'aria. La speranza pietosa di tanti bisogni, di tanti dolori, coll'ambrosia del suo alito v'inebbria – vi affascina il cuore, – colle sue divine melodie vi culla i sensi in una calma profonda. – O poveri! Voi siete ricchi di pazienza, – e Dio… vi mantenga perenne quel dono. Che se un giorno la perdeste, se rompeste le dighe che al presente vi contengono, qual sarebbe allora la faccia del mondo? La gerarchia sociale resisterebbe al fiotto dei vostri milioni? la piramide starebbe, quando si scommovesse la base? Cosa sarà la superficie di questo suolo, quando il vulcano l'avrà lambita colle sue mille lingue di fuoco?




CAPITOLO VI


Ma ripigliamo il filo del nostro racconto. Dove siamo rimasti? Sarebbe bella che me ne fossi scordato! Lasciatemici pensare un momento: buoni, buoni, – ho ritrovato il filo. – Ma, di grazia, stateci attenti ancor voi, – io sono avvezzo troppo a divagare, tanto che non mi sembra neppure. Quando vedete ch'io prendo il largo per menarvi chi sa dove, – forse in un pantano, – forse sur un prato fiorito, – allora tentatemi per un braccio, – tiratemi una falda, – rimettetemi insomma sulla vera strada. Io n'ho di bisogno, – voi lo vedete da voi; – non posso camminar diritto, – serpeggio sempre, – ormai è un vizio che s'è convertito in una seconda natura. – Per questo ho stimato bene avvisarvene. – Uomo avvisato, mezzo salvato.

Sta tutto bene, ma un altro poco, s'io non me ne accorgo per tempo, il filo mi sfuggiva nuovamente di mano. – Su dunque all'opera.

Ecco il Povero viene. Vedetelo là in mezzo a quella massa di popolo, che lo preme, e lo incalza nel suo tristo destino spensieratamente, come il cavallone spinge sul lido una tavola del naufragio. L'avete veduto? Non si distingue se sia sciolto o legato, se gli sbirri sien quattro o sei, tanto è fitta quella massa di plebe. Che ronzio, che schiamazzo, che tempesta d'urli e di voci! – Cos'ha fatto? – Come si chiama? – È del paese? – È forestiere? – È un ladro? – È un assassino? Dove ha rubato? – Conoscete l'ammazzato? – Quante ferite? – E via discorrendo; e tutti dimandano, e tutti rispondono ad un tempo. – Ma non potrebbe darsi che fosse, più che iniquo, infelice, che fosse innocente? – Potrebbe darsi, ma nessuno l'ha pensato, nessuno l'ha detto. Ei l'infelice percorre le vie di fretta più che non vorrebbe; – il turbine popolare lo mena. E chi l'ha vestito in quel modo così pietosamente ridicolo? Se la Miseria non gridasse; io l'ho vestito, – tu diresti che il Capriccio ha mandato fuori la sua maschera più grottesca; il suo capo d'opera. Porta in capo una cosa, che tre anni sono era già un cappello vecchio, – ora è uno sgomento a definirla. – E la camicia non è di canapa, non è di lino, – nè di cotone, – nè di stoppa; – è d'una stoffa che non è stoffa, d'un colore che non è colore; – una camicia che ha una manica e mezzo. Oh! davvero è meglio contentarsi della pelle che ti diè tua madre, che avere una camicia come quella! – E i calzoni! che labirinto! Non si sa se sono a diritto o a rovescio, se il davanti è di dietro, e se il di dietro è davanti; – se in principio furono fatti di toppe, o d'una materia unica, perchè ora le toppe sono più grandi della materia primitiva. E quante sono! e come affollate! e si montano addosso una sull'altra come una turba di curiosi quando c'è da vedere uno spettacolo nuovo. E chi gli ha fatto quei calzoni? Giudicandogli al taglio, potrebbe averglieli fatti ancora un magnano. – Tutto questo vuol dir nulla: così vestito com'è, viene avanti; – un piede ha calzato di mota, – l'altro gli sta in una scarpa, mezzo sì, mezzo no. Ei l'infelice è vicino a toccare la meta del suo viaggio. È un viaggio che i poveri fanno frequentemente, – di rado sciolti, più spesso legati, – e non lo stampano, perchè son modesti, nè li rode la smania di farsi un nome a tout prix. È un viaggio che non fanno mai in vettura. È scritto che il povero vada sempre a piedi; – sia che vada a nozze, all'ospedale, o in prigione. E per questo il Povero va colle sue gambe in prigione; – e deve andarvi, fosse anche paralitico, stramazzato dalla febbre, fosse anche zoppo. – Il povero non ha diritto che a una vettura sola: a quella che dal carcere lo porta al patibolo, – dalla vita all'eternità.

Finalmente egli è giunto al portone d'ingresso, – all'arco trionfale della miseria, del delitto, dell'innocenza che la calunnia può convertire in delitto. E pur troppo vi sono trionfi di tutte le specie, e la plebe umana li accompagna tutti colla medesima calca, – col medesimo spirito, colla medesima furia, colle medesime grida. Basta che sia un alimento alla feroce curiosità della plebe! sia pure la testa mozza di Luigi XVI, l'incoronazione di Buonaparte! Tra cibo e cibo non mette divario. – Il Povero ha passato il suo arco di trionfo, – trionfo di vergogna e di dolore. – La plebe è rimasta di fuori, e non sa neppur ella cos'altro più aspetti; ella non è sazia ancora.




CAPITOLO VII


Il Povero è avanti, e gli sbirri fanno il corteggio. Salgono e scendono più volte; – voltano a destra, voltano a manca; – è un intreccio che la mente alla prima non può raccogliere in ordine; – in fine danno in un corridore lugubre lugubre, dove si può vedere l'oscurità, come disse Milton. Qui la vista non serve, conviene andare a tentoni. Giunti in fondo si fermano. Di lì a pochi minuti s'ode un rumor di passi che sempre più si avvicina; – finalmente senza averlo veduto comparisce un uomo con un mazzo di chiavi, – un uomo per così dire, con un viso duro, un viso cupo, che accresce le ombre del luogo. – Gli sbirri non gli dicono che due parole, e poi se ne vanno.

Ora il Povero e il soprastante sono in presenza l'uno dell'altro. – Ma non ci segue una parola, non ci segue uno sguardo. Il Povero non osa, il soprastante non se ne cura. Fra l'uno e l'altro giace un silenzio ineccitabile, una indifferenza letargica, come fra il beccamorti e il cadavere. Il soprastante tra la fretta e la rabbia apre un uscio basso più dell'uomo che deve passarvi, – poi si tira un passo indietro, come per dire al Povero: – entrate. Il pover'uomo curvandosi mette il piè sulla soglia, e il soprastante non crede opportuno di accompagnarlo, ma gli dà una spinta, e lo butta là come una cosa, che non è più buona a nulla. E così come dico arriva in fondo in un attimo; la stanza non è troppo lunga e con una spinta s'andrebbe anche più là, se il muro non si opponesse. Ora a qual Santo ricorrere? I Santi anch'essi vogliono salmi e candele. Egli non è tentato di frugarsi le tasche, perchè non ha tasche; – e, quand'anche le avesse, cosa dovrebbe cercarvi mai? Egli dispererebbe di trovarci un picciolo, posto ancora che li scudi belli e coniati piovessero giù dal cielo come le goccie dell'acqua. E in verità io credo, ed egli crede, che non ci troverebbe un picciolo: – forse un conto, che non ha potuto pagare, e che lo manda in prigione, – forse un rosario, se pure la Miseria col suo fiato ardente non gli ha cancellato dall'anima quel segno lieve di fede, che l'amor di sua madre v'impresse quando egli era un fanciullo.

Arrivato in fondo si volta, ma come una macchina; sta un istante fra il sì e il no: poi cerca di condurre sulle labbra un sorriso, e tenta di farlo, – ma il soprastante con un volto di pietra gli disfà quel sorriso cominciato appena a incresparsi. Egli allora si smarrisce, – tituba, – gli sembra che il suolo si avvalli; – era pallido pallido, e in un lampo si colorisce d'un rosso febbrile; – cerca una parola, e non la trova; – se avesse il cuore pacato la troverebbe di certo, ma un nodo di affetti gli scompiglia la mente, gli chiude la gola. Quegli affetti sono troppi, e troppo forti; – si affacciano tutti in un gruppo, – possono sboccare. Però se tu guardi attento, su quella faccia v'è un'espressione di preghiera, – un senso profondo di supplica, – non per sè, – ma per altri. Vorrebbe dir mille cose, – alcune poi vorrebbe dirle pregando, dirle anche piangendo; vorrebbe che portassero a casa sua una parola di amore, una consolazione; e se invece d'un carceriere avesse un uomo dinanzi, lo supplicherebbe di portare almeno un pane ai suoi figliuoli. Poveri suoi figliuoli! aspetteranno la sera, quando tornato a casa gli asciugavano il sudore della fronte, lo ricingevano di carezze, di baci, di mille dimande, – e mangiavano insieme il pane delle sue fatiche; – aspetteranno la sera, e non lo vedranno venire. Oh! concepite voi l'angoscia di aspettare indarno la creatura che vi ama, e che vi nodrisce? – La sera è diventata notte, e non lo vedono venire poveri suoi figliuoli! lo vanno a cercare di su e di giù, ne dimandano a chi trovano, lo chiamano ad alta voce, ma vanamente; s'è fatto più tardi che mai, e il padre non viene. Santa Vergine! che sarà successo di lui? – Allora il dubbio comincia le sue torture, – li fa sperare, e disperare, – piangere e ridere, – li rende insani col vortice della sua fantasmagoria, – vortice infernale, illuminato d'una luce livida, dove passano rapide rapide mille figure diverse, – dove or sì, or no, comparisce in fondo una bara. Poveri suoi figliuoli! pensano ancora, che possa esser morto! E quella sera non hanno mangiato, nè mangeranno. – E la fame non è sola; – la fame ha fatto alleanza col crepacuore.




CAPITOLO VIII


Il pover'uomo non ha potuto profferire una parola, e si è rincacciato nel cuore tutte le sue passioni come altrettante spine. Credeva di dir tutto col volto, ma un soprastante, fosse dotto ancora nelle lingue orientali, – fosse pure un Mezzofanti, – non sa leggere la sventura, o se la legge non le sa rispondere. Il soprastante non ha letto l'immenso volume di affetti, che spiegava la tramutata faccia del carcerato; – o se l'ha letto, per tutta risposta gli fa sentire il cigolio delle chiavi, e dei catenacci.

Il soprastante è partito.


················

E tu pover'uomo, sei rimasto impietrito, soverchiato dalla foga delle tue passioni. Il peggio è, che non puoi piangere ancora; ma piangerai più tardi, – non può mancare. – Una lagrima fu data alla gioia, una lacrima alla sciagura; – la prima rinfresca, l'altra arde come la lava. – Piangerai più tardi, e il tuo pianto sarà bello, perchè non sarà tutto per te; – piangerai pei tuoi figli, per la madre se l'hai, forse per un amore, forse ancora per una patria.

E perchè vi stringete nelle spalle, come se il cuore del povero non potesse palpitare per un nobile affetto, come se l'intelligenza del povero non potesse valicare le regioni concedute alla mente umana? Sapete voi cosa racchiuda quel cranio? Quando meno vel pensate, potreste rinvenirvi gli elementi da farne un Michelangiolo, un Byron, un Bolivar. Conoscete voi la vita degli uomini grandi di tutti i tempi, e di tutte le nazioni? Plauto era schiavo, e girava il molino, – ma la sua Musa fu salutata da un popolo di eroi. E quando una povera donna alla sera cantava le sue canzoni di madre a un povero bambino, e sospirava guardandolo, e pensava che un giorno forse non avrebbe un cognome, – sarebbe un mendicante, – al più un lavoratore della campagna, avrebbe creduto mai di cullare Shakspear, Rousseau, Franklin, di cullare il Correggio, e Masaniello? avrebbe creduto mai, che da quel verme un dì sarebbe sorta la farfalla destinata a libare fiori immortali nei campi della Gloria e della Bellezza? – L'organismo umano rompe le leggi della gerarchia sociale, – e quando l'Occasione batte sul vivo un popolo, allora si scorge quale delle classi possa dar più scintille. Allora la storia non è più confinata in un gabinetto a sommare le partite di frodi, che la diplomazia ha segnato nei numerosi suoi protocolli; non è più stipendiata a descrivere una guerra puerilmente sanguinosa, ove non si vedono in cozzo che due bastoni di maresciallo. La storia si slancia da quelle angustie, e la superficie nel mondo è la sua pagina, ed ogni linea che v'incide è un tratto di luce; – allora la Rivoluzione Francese sorge come un'epopea magnifica, immensa; sorge Mina e l'Indipendenza Spagnuola; sorge la lotta titanica della Grecia moderna. Oh! gli ultimi eroi della Grecia non erano cavalieri dello spron d'oro!

Sì, pover'uomo; il tuo cuore può gemere per me, per la patria, e per te. Dacchè non posso sollevare le tue miserie, e quelle dei tuoi tanti fratelli, io non voglio toglierti un cuore, che forse avrai più buono e più generoso del mio. Io non voglio toglierti quello che non posso darti.

Certo, se tu fossi solo nel mondo, come alcuni sono, non so se per questo più o meno miseri di noi, a quest'ora avresti già preso il tuo partito; – avresti mostrato fronte ferma alla cattiva fortuna; – avresti cantato non so quante canzoni; perchè il povero in mezzo agli stenti e alla sua nudità, quando ha il cuore franco, canta del continuo, – canta allegramente come un uccello, che si alimenta di quel che trova, e muta nido ogni sera.

Ma tu non sei solo; – e sei rimasto immobile, come tocco dalla folgore. Ora perchè guardi le muraglie? perchè crolli mestamente la testa? – Tu hai ragione; – non hai che due mani, e non son buone a fare una breccia; – tu guardi l'inferriata, ma è doppia, e ci vuole una scala a salirvi; – tu guardi la porta, ma è grossa, e foderata di ferro, e sigillata in maniera, che non dà l'adito neppure a un sospiro. Oh! il tuo sospiro non penetra di là nel mondo; e il mondo già non l'udrebbe, o penserebbe che fosse aria traverso uno spiraglio. E poi, cosa farebbe il mondo del tuo sospiro? Il mondo vuol godere, e chiama breve la vita, breve tanto, che mala pena dà tempo di pensare a sè. E poi, il mondo non ha inventato le carceri, le torture, i patiboli, non ha inventato mille delitti, che la Natura umana non riconosce? – Requiem æternam. – Ti hanno deposto in un sepolcro, e non sei ancor morto; – t'hanno deposto in un sepolcro, senza lumi e senza canti, come il suicida. E il mondo spensieratamente ti si agita dintorno col suo dramma pieno di rumore e di vita.

O pover'uomo! potessi tu almeno dormire, potessi almeno posare su quella tavola le tue membra stanche, accasciate da tanti affanni! Ma il dolore non dorme mai; – veglia inesorabilmente, veglia come un marito geloso, perchè il mondo è suo, perchè addormentandosi teme di allentare gli artigli, teme che la preda gli fugga.




CAPITOLO IX


– Uf! non è anche finita con quel vostro Povero? Quasi quasi gli date più noia voi, che la sua disgrazia. – Queste parole mi pare di sentirmele già arrivare alle spalle. E, se devo dire il vero, con quel mio Povero mi ci sono trattenuto un poco più del dovere. Ma che volete? Il solo Dio senza difetti. – Io l'ho questo vizio, preso fin dai primi anni; quando comincio, non la farei più finita. E non ho riguardo alla pazienza di quelli che mi stanno a sentire; – non serve, che sbadiglino, che spurghino, che si dimenino. Tutt'altro; – allora vado più che mai per le lunghe; direste ch'io lo faccio apposta; e può darsi: non lo sapete il proverbio? – Ogni vipera ha il suo veleno. – E tutto il male fosse qui! lasciamo andare; – ci sarebbe da discorrer troppo. Ma veramente, se devo esser giusto, con quel mio Povero mi sono trattenuto un poco più del dovere: – quando è vero, è vero. Figuratevi! non ho neppur desinato! Non ho potuto veder desinare il Signore! E oramai chi sa, se sono più in tempo! È la verità che i signori vanno tardi a pranzo, e durano un pezzo; ma non c'è rimedio; – ho fatto tardi; – l'orologio mi condanna. Questa poi mi dispiace. Son tanto curioso! vorrei veder tutte le cose, – anche quelle che mi facessero storcere la bocca. Non potete immaginarvi quanto pagherei a potere stare accanto senza esser veduto a…

(Qui il Manoscritto è affatto inintelligibile).

Dio sa quanto pagherei! Badate, non farei quei mestieri per cosa del mondo; – non mica che vi sia nulla di male, – ma per non entrare in intrighi, per non avere a rispondere, per non aver da far niente. Io sono il cristianello fuggifatica per eccellenza; – mi basta di sapere, e non vado più là. – Ma che faresti di tante cose, quando tu l'avessi sapute? – Io lo so quel che ne farei. Farei tanti calcoli, tante figure, tirerei tante linee, che, se voi non conosceste appieno chi sono, mi pigliereste per un fattucchiere! Oh! se potessi rubare quella bottiglia dove stava rinchiuso il diavolo zoppo! grave come voi mi vedete, mi metterei al repentaglio di andarla a rubare in cima a una cuccagna! Immaginate voi che piacere di fare un viaggio sui tetti col mio diavoletto a vedere tutti i fatti degli altri! immaginate voi che sorpresa a trovare un amico la mattina, e raccontargli che dormiva all'insù, – che dormiva per parte, – che aveva in capo un berretto, o una cuffia!.. immaginate voi che sorpresa, che piacere! Quando io ci penso, vado in estasi! Altri sogna di vincere un terno, altri d'esser fatto gonfaloniere, altri che i grani rincariscano; – io sogno sempre il diavolo zoppo, e se potessi averlo, anche un'ora sola del giorno, lo piglierei rovente come un ferro infuocato. Se poi volesse far meco vitalizio, io vi so dire che farei di tutto per averlo, che farei miracoli. Mi adatterei a lavorare una parte della giornata, – mi adatterei per averlo anche a camminar lesto.

Ma vedete s'io dico il vero? Dianzi era tardi, – ora a forza di ciarle è più tardi che mai, ed io non mi sono anche mosso. È inutile, – io lo so, – il pelo si perde, ma non il vizio. Andiamo per quel che saremo in tempo. Chi vuol venir meco? Su via, qualcheduno venite; ho piacere che tutti godano. Ehi! là, galantuomo! voi che mi avete l'aria di esser sempre digiuno, che mi avete l'aria di voler arrivare così fino a dimani, volete venire a sentire, e a vedere? Guardate! un cane è già sotto alle finestre, – ha levato il muso da terra, – e guarda in su fiutando, aspettando la provvidenza. Ma voi ridete! Ah! io intendo bene quel riso amaro che avete fatto; – il supplizio di Tantalo non vi aggrada. Il cane è corso per le sue buone ragioni; quella bestia è a miglior partito di voi. Un cane può mangiare un osso se non gli danno la carne; – l'uomo pure mangerebbe un osso sovente, ma i denti non gli servono.

Amici, io ci sono: – vedo il Signore che lavora lavora con un coltello intorno a non so qual cosa, – par che tagli un non so che di duro; – in che diavolo si affanna il Signore? – di qui non ci scorgo troppo, – voglio farmi più appresso.

Pta! l'avete sentito? un tappo ha baciato i travicelli; – è Sciampagna per…!

Io non lo sapeva, – la pigrizia è la mia rovina; – ella mi si è fitta nell'ossa, e per cagion sua non sarò mai un uomo comme il faut. Sono arrivato alla fin del banchetto, e potevo esser venuto al principio. Sono arrivato alle seconde mense volgarmente dette il dessert. Ci vuol pazienza, ma non posso dissimularmi la perdita enorme che ho fatto. È una perdita seria, effettiva. Io che son tanto curioso non ho potuto vedere il desinare d'un signore dal cominciamento alla fine! io che ho veduto così di rado desinar dei signori, – che vedo sempre a mangiare dei poveri, – e che perfino quando mangio io stesso ho di faccia alla tavola uno specchio antico, lungo lungo, che mi ridice tutto appuntino, e senza pietà! È una stizza maledetta, che mi farebbe dare al diavolo; – non c'è maniera nè anche di potersi illudere.

Io ve l'ho detto, – la pigrizia è la mia rovina; – che ci fareste voi, che non ci avete niente a che fare? io stesso, io parte interessata, non ci faccio nulla. Ma zitti! zitti! ve lo chiedo in carità; – parmi di sentire aprir l'uscio pian piano; – ella è così; – l'orecchio non mi tradisce, – è lungo più del bisogno; – la mia vocazione era di farmi dottore, – mio padre non ha voluto, – io non ci ho colpa.

Ella è così; – l'orecchio non mi tradisce; è stata schiusa la porta. Venite, venite; io non dico per ischerzo; – il carceriere s'inoltra in punta di piedi, – non fa un rumore, – è leggiero come un alito; – un gatto ne perderebbe al paragone; – è carico, che non ne può più. Cosa ha messo su quella tavola? – Ora ho visto bene; – è un bel lume all'Inglese; – ora ha posato un calamaio, della carta, dei libri; poffare! di dove se la cava tanta roba? zitti! zitti! vediamo che si leva di seno; – oh bella! sono i giornali; e perchè no? – il Signore deve sapere come vanno gli affari, – anch'egli ha il suo partito in politica, – e poi ha una somma sui fondi di Parigi, un'altra su quelli di Londra; – se non gli premono i Tories, o gli Whigs, se non gli preme il juste milieu, la gauche, la droite, i consolidati gli premono; premerebbero anche a voi, se aveste che fare coi fondi.

Il Signore guarda tranquillamente il soprastante in facende, e tiene un bicchier di Porto vicino due dita alla bocca. Il Signore è tranquillo, beve e lascia fare il soprastante.

– Or ora verrà il caffettiere. Vossignoria beverà un Moka stupendo, e bollente. Sentirà che Rum! Giammaica di nome e di fatti. —

Il signore gli risponde additandogli una bottiglia, e un bicchiere. Il soprastante riverisce, e butta giù stringendo gli occhi.

– Quegli avanzi li volete?

– Troppa grazia, Signore.

– Prendeteli, mi fate un piacere, mi levate il cattivo odore di camera.

– Con Vossignoria io non so che obbedire. – E la sua parola non manca. Gli avanzi del pasto son lauti; – prende, prende, e riprende. Soprastante! soprastante! tu credi che nessuno ti veda, ma io ti vedo. Quando si tratta di prendere, la gioia ti moltiplica le mani; – per pigliare tu sei Briareo. Vedete! piglia con tanta foga, che ha messo per infino una posata fra gli avanzi, e se n'è accorto per miracolo. Ora è così pieno zeppo di roba, che vuol essere un brutto impaccio a licenziarsi col solito inchino; – nondimeno vuol fare il suo inchino; – eh! soprastante! hai avuto propriamente un Santo dalla tua! la testa ti pesa più che non credi, e poco è mancato che tu non faccia un capitondolo.

Il Signore ha riso veramente di cuore, e si è levato da tavola.




CAPITOLO X


Che buon odor di caffè! Sentite, il profumo vien fino a noi; – come mi lusinga le nari! Questa volta il soprastante l'ha detta giusta; è un Levante legittimo, e carico per bene; oh! non si sbaglia; io non so come; ma me ne intendo.

Attenzione! attenzione! Il Signore si fa inverso la finestra; – eccolo là fisso fisso; – ha dato uno sguardo verso di noi, e poi l'ha ritirato, come se noi non fossimo nessuno; eh! ve l'ho detto sempre; saranno buoni, affabili come volete, ma, dàgli e ridàgli, il ticchio del signore vien sempre a galla. Che bella pipa, eh! – bianca come il latte; – non è mica di gesso, che abbiate a credere! – è spuma di mare, e sarà costata le belle monete. – E il tabacco? – è Latacchia pretto pretto, come voi siete un uomo. – E che foglio legge? – che disgrazia l'esser miope! – Maestro Santi, levatevi un po' di cavalcioni al naso quel vostro paio d'occhiali, che voglio leggere il titolo del giornale; – tanto voi non sapete leggere; – ho capito: Journal des Débats, ho capito; il Signore è del partito ministeriale; – non può essere a meno: chi ha dei fondi cosa deve fare? Cosa fareste voi, che non ne avete? – Come legge attento! Si vede bene, che vuole intendere. – E non è mica brutto il Signore! – colore bianco e rosso, carni fresche, un viso tondo, una testa tonda, un bell'occhio tondo: eh! ci si vede l'uomo, che se la gode, e lascia arruginirsi chi vuole; – nel suo giusto embonpoint; se non capite il Francese, andate a scuola; io lo capisco. – E quant'anni gli date? – Alto alto, a vederlo, io dico che passa la trentina; – come no? sentite, giù per lì dev'essere; sbaglio di rado in quanto a fisonomie. – E il Signore non ha moglie? – Chi ve l'ha detto? l'ha presa non è anche un anno, e di par suo; – e che buona dote! e che bella ragazzina, se voi l'aveste veduta! poteva bersi in un bicchier d'acqua. – E le vuol bene? – Così così, tra il freddo e il caldo; – badiamo veh! non la strapazza mica, non la bastona, che non aveste a crederlo voi altri, che misurate tutto sul vostro braccio; – non la cura troppo; – eh! il Signore ha un affare vecchio; non lo può lasciare; ha provato, ha riprovato, – è stato impossibile; – c'è una malia di mezzo…

E intanto che le ciarle piovono a fiocchi come la neve, il Signore ha finito di leggere, e chiude non solo le finestre, ma le imposte pur anche.

Cappita! quel chiudere ancora le imposte m'è andata giù male. Se avesse chiuso le finestre soltanto, col vedere metà dai vetri, e metà coll'indovinare, faute de mieux, mi sarei contentato. È agra davvero, e bisogna esser curiosi per convenirne. Vedete voi, che stravaganze! Che il Signore faccia la siesta è nelle regole, lo vuole il bon ton, lo vuole il ben essere del corpo; ma non lasciarsi veder dormire è una stravaganza; – lo dico e lo sostengo, ora e sempre, – ahora y siempre. – Come farò a render conto del come dorma il Signore? Se dorma supino, o dalle due bande, se dorma vestito o spogliato? Poh! è una disgrazia, è una lacuna irreparabile in questa istoria, che non saprei come riempiere, se non coll'andare a dormire pur io. E badate, che ci riesco, e son capace di farlo. Vedete voi, che stravaganze! quel chiudere le imposte mi ha fatto un danno del diavolo. Chi sa quanto tesoro d'osservazioni avrei potuto raccogliere dal sonno? Vedete, io sono così sottilmente curioso, che dalla faccia e dai moti del dormiente mi sarei studiato d'investigare i sogni, che gli passeranno traverso il cervello. E poi, non poteva darsi, che fosse un di coloro, che parlano fra il sonno? Chi sa cosa avrei potuto sapere? – cose, che il Signore non avrebbe dette all'unico suo amico, che non avrebbe dette nè anche all'aria, che forse avrebbe stentato a dire al capezzale del letto, quando il prete ti dà un passaporto in latino per l'altro mondo: Proficiscere, anima christiana; che significa: vattene, anima cristiana. Il tono è un poco assoluto, ma il tempo stringe, e non ne avanza pei complimenti; stringe tanto, che i morti non hanno tempo di provvedersi di nulla, e dalla fretta perfino partono ignudi. – Vedete voi, che stravaganze! sul più bello mi chiude in faccia le imposte! io ho perduto un tesoro! Per un curioso, credetelo, queste sono le pene dell'inferno.

Potessi almeno sentirlo russare! mi contenterei anche di questo. Ma che volete? I signori non russano. Oibò! la bienséance non lo permette. Dormono leggieri leggieri, che non è cosa da credersi. Dormono con tanta disinvoltura, che io n'ho veduti dì quelli, che tutti credevano desti, e pure dormivano. Come vada io non lo so, – ma il suo perchè ci dev'esser sotto. Basta, quando io sarò signore, venite, e ve ne dirò la ragione.

Non v'è rimedio; – il meglio è darsi pace. Vuol dormire il Signore, senza che nessuno lo veda? Ebbene, ch'ei dorma; io non glielo posso proibire. Silenzio dunque, lasciatelo dormire.




CAPITOLO XI


Mi par mill'anni che passi quest'ora! Uh! le finestre son sempre chiuse, – nessuno si fa vivo. Non so più quel che fare; sono andato su e giù lungo la strada come un pendolo, e le gambe si protestano, – non ne vogliono più sapere. Che diavolo! quel Signore non ha discrezione! ora potrebbe alzarsi; – il sonno soverchio ingrossa il sangue, e, quel che è peggio, fa ottusa la testa. È vero ch'ei può farne di meno, – ha una buona borsa, – ha più del bisogno. Giova tanto poco la testa! per i più non la vedrei necessaria, se non fosse che la portassero per farsela tagliare. A me fin qui non ha reso che il dolor di capo, e Dio voglia che resti lì. – Ma le finestre son sempre chiuse! O pazienza, pazienza! è passato un carro, che ha fatto rintronare anche i tegoli, ma il Signore non l'ha sentito. Si vede bene, che ha una buona coscienza! dormire di quella fatta! come farà stanotte? felice lui! non ha debiti, non ha inquietudini, e però fa tutta una tirata. Eh! non son bagattelle! son due ore buone che dorme; – il Sole è andato sotto, che non è poco; – già già si fa buio. Oh! si desti, mio bel Signore, che farà un'opera meritoria per me. Se potesse sognarsi, ch'io son qua fora, e mi struggo per lui, già si sarebbe levato. Sì, ho un bel dire; egli dorme, e lascia vegliar chi vuole.

Tanto tonò, che piovve. Ho sentito rumore, – qualche sedia rimossa dal luogo. Eccole finalmente riaperte quelle benedette finestre! Non entro più in me dall'allegrezza! Potrò nuovamente veder qualche cosa, – potrò raccontarla. Mi son sentito rinascere; – viva il mio buon Signore! egli ha dormito di pro, – si scorge agli occhi, alla faccia, alle membra che stira saporitamante. Ora beve un bel bicchier d'acqua; – eh! ci vuole un bel bicchier d'acqua; – sta nelle regole di chi sa ben vivere. – La buona vita fa la buona morte. Ora si affaccia alla finestra canterellando un'arietta; – mi par della Gazza Ladra, se non m'inganno; – e intanto si aggiusta sulla fronte una bella ciocca di capelli castagni, e intanto respira l'aria fresca della sera, che finisce di risvegliarlo, e lo rimette nello stato di prima.

Appena il mio Signore è ben desto, scuote risolutamente la testa in atto di accingersi a qualche facenda di rilievo. Staremo a vedere quello che saprà fare il Signore. Intanto dal movimento della bocca mi accorgo, che ha dato un ordine a qualcheduno ch'io non posso vedere, perchè rimane nel buio. Già me lo immagino sarà il soprastante. Già ho capito il tenore dell'ordine: era di accendere il lume; – non pensate mica un lume solo; – tutt'altro! – questo non usa, che in casa vostra, quando non è Luna piena, perchè allora prendete quel della Luna, che non ha bisogno di essere smoccolato, e dura la notte; – ma avranno acceso benissimo la mezza dozzina dei lumi, e più ancora. Guardate che luce larga e brillante prorompe fuor delle stanze! non vi sentite rallegrare a guardarla? È incontrastabile, – i lumi son sei, se non son otto; – vorreste negar la luce?

Ma stiamo attenti a quello, che vuol fare il Signore. Ecco, egli ha tolto in mano un bel mazzo di penne nuove; – ecco, ne tempera una, – ne tempera due, – ne tempera tre. Badate là, – ora prende un quaderno di carta, e la esamina di contro al lume. Per Bacco! è fina davvero quella carta, e indorata sugli orli! Eh! non vuol mica scrivere al fattore; si vede chiaro, che scrive a dei pezzi grossi!

Non vi movete. Che ve ne andate di già? – ora viene il meglio. Ecco, il mio Signore s'è messo al tavolino; – ecco che ha già cominciato. Fin qui non v'è molto da raccapezzare, ma pur qualche piccola cosa. Per un curioso tutto è buono; – il minimo che mena a delle scoperte importanti. Dall'ombra, che si disegna sul muro, vedo la sua testa via via inclinarsi e rilevarsi; – vedo tuffar la penna; – ora s'è grattato dietro all'orecchio destro; ha stracciato un foglio; – la lettera non veniva a modo suo; – un foglio nuovo, e da capo. Ora sì, che tira via, – ha trovato la strada, – non si ferma un istante, – la passione gli guida la mano. Oh! se la passione crescesse! se lo impegnasse a profferire ad alta voce quello che pensa, e che mette in carta tacitamente! Dall'allegrezza farei un salto mortale. E badate, spesso succede; e quando la passione dice davvero, non v'è più ritegno. Dimandatene agli scrittori; – pare che quel dir forte l'idea, che vanno a scrivere, la faccia completa, come la mente la concepisce. E di fatti è così; la declamazione è il colorito del pensiere. Ma zitti! zitti! il Signore s'impegna; – sento un mormorio; – crescerà, se Dio vuole, – diventerà voce scolpita; – diventa, diventa! Oh! io sono un uomo felice, io credo nella mia buona stella! – Ascoltiamo: – uh! se non fosse il vento, che me le mangia mezze, sentirei tutte le parole; ma mi contento; ascoltiamo:… una nera calunnia… così non si tratta un gentiluomo… badare a ciò che si fa… scoprire la cabala… guai a lui!.. so maneggiare una spada… Siamo il più… sostegno dell'ordine… la canaglia in prigione, sta bene; ha… d'un freno… l'anarchia regnerebbe… le… classi vanno rispettate… riprese, ma non punite… la canaglia si crede qualche… e la Ragion di Stato è… princìpi son conosciuti… innocente… non deroga a sè stesso… riparazione pubblica… conveniente alla mia condizione… servo – Cavaliere Scipione Frullanotti Marzocchi.

Oh! vediamo, se la metto insieme; – ho tanto in mano da ripromettermene bene.



«Eccellenza!


«Fino di stamane io sono stato tradotto nelle prigioni di questa città, senza poterne indovinare la vera cagione. Vado convinto, che Vostra Eccellenza, appena saputo il caso, darà tutte le disposizioni necessarie, perchè io sia quanto prima rimesso in libertà. Credo fermamente, che una nera calunnia abbia motivata una tal misura. Però così non si tratta un gentiluomo. Conviene badare a ciò che si fa in materie tanto delicate. Impegno la giustizia di Vostra Eccellenza a scoprire la cabala, e l'uomo perfido, che l'ha tramata. Guai a lui! se arrivo un giorno a conoscerlo; – so maneggiare una spada, e sul terreno vedremo a chi sta il buon diritto. Noi gentiluomini siamo il più saldo sostegno dell'ordine, e meritiamo assolutamente riguardo. Che vada la canaglia in prigione, sta bene; ha bisogno d'un freno, e senza questo l'anarchia regnerebbe. Vostra Eccellenza conosce e sente, che le alte classi vanno rispettate, e quando cadono in fallo vanno riprese, ma non punite così volgarmente. Se no, la canaglia si crede qualche cosa, – l'ordine si confonde, e la Ragion di Stato è perduta. Io fortunatamente non sono nel caso di aver commesso nessun fallo. I miei princìpi son conosciuti abbastanza; – sono innocente; – e un gentiluomo par mio per nessuna bassezza non deroga a sè stesso. Mi dirigo pertanto a Vostra Eccellenza, perchè l'onor mio abbia una riparazione pubblica, immediata, e conveniente alla mia condizione. Al tempo stesso Vostra Eccellenza accolga le proteste della mia più alta considerazione.



Di Vostra Eccellenza

    Umilissimo e Devotissimo Servo
    Cav. Scipione Frullanotti Marzocchi.»

Aha! mi sento riavere. Mi è costata fatica, ma pure l'ho messa insieme. Eh! quando mi picco, mi picco. Ho fatto più d'un naturalista, quando da pochi frammenti d'ossa ricompone in un insieme perfetto la struttura d'un corpo qualunque. Sì, ho fatto più d'un notomista; – il corpo è una cosa certa, e definita; – lo spirito è vario, incerto, e mobilissimo. Son contento come una pasqua! contento come un sonettista quando ha trovato una bella chiusa! Sì, ne son contento, ne vado superbo; – confrontiamo la mia coll'originale, e scommetto che non ci corre una sillaba.

Ma va, che l'ho fatta bella! Un po' col rimettere insieme la lettera, un po' col compiacermene, il tempo è trascorso, e il mio Signore ha scritto le rimanenti, ed ora v'è sopra a calcare il sigillo. Ma va, che l'ho fatta buona! e adesso come si stilla? è una rottura, che non si accomoda; – chi è che sappia leggere una lettera già sigillata? Potessi averla nelle mani, farei l'estremo di mia possa; – ma vàlle a toccare, se ti riesce! Eccole là! io magari le toccherei! – ma il Signore non ci è per nulla in questo mondo? Eh! non c'è rimedio! eccole là! – il morto è sulla bara; – son quattro giuste giuste; – posso sfogarmi a leggere la sopraccarta, mercè delle lettere lunghe un mezzo dito: – basta! è meglio poco che nulla; – eccole là! son quattro in fila, nè più nè meno; si leggono come di giorno; – la prima al Marchese, l'altra al Ministro, la terza all'Arciprete, la quarta alla Contessa. Poffare! si vede bene che al Signore è già venuta a noia la prigione, che vuole uscirne per fas e per nefas. Tutto vien messo in moto, tutto a contributo, per uscir di prigione; – la toga, e la spada; lo scrigno, la cantina, e la donna. – In prigione ci hanno a stare i poveri e i matti. – Voi parlate come un libro, mio bel Signore. Sì, venite fuori, anch'io lo desidero; – così potrò vedere più da vicino i fatti vostri. Voi n'uscirete senz'altro, – avete troppe ragioni dalla vostra; – solamente quei titoli, che a profferirli soltanto fanno tremare i chiavistelli! Sì, mio bel Signore, voi n'uscirete, e presto; – io lo desidero anch'io, per voi, e per me.

Ma che sia quella carticina breve breve, elegante elegante, che il Signore guarda e riguarda, di sotto e di sopra, e a guardarla gli sfavillano gli occhi? Forse un biglietto da visita? Eh! giusto! è un billet doux, – è una cosa, che mi passa l'anima per non averla sentita. Scrivermi un billet doux sotto gli occhi e non poterlo sentire! Se ci penso un momento di più, addio cervello, addio tutto. Un billet doux! non vi par di dir nulla, un billet doux! Io che per leggere un billet doux non avrei quasi scrupolo di portarlo! Io, che, se potessi leggerli tutti, non vorrei far più altro; – lascerei tutto, il teatro, la taverna, la scienza, i crocchi, l'amore, i vizi e le virtù; – non mangerei, non dormirei, farei la vita d'un martire, mi ridurrei magro come un Cristo di Cimabue! Oh! se ci penso dell'altro, voi ne vedrete delle belle! – una e una due; – ma questa è più agra dell'altra; – questa, e l'affar dell'imposte mi fanno dubitare della mia buona stella.

Certo la mia buona stella in questi due casi si è portata male; – una cometa non poteva farmi di peggio; – e poichè ella ha preso la mala piega, stimerei prudenziale di levar le tende da questa strada onde non m'avesse a incogliere un qualche malanno più grave. Già l'ora è tarda; – saranno l'undici al tocco e non tocco, e non passa più un'anima. Tuttavia, se devo confessarmi giusto, me ne vado malvolontieri. Non so chi mi lega, ma ci starei tutta la notte. Ma zitto! sento salire una scala, – sento girar mollemente una chiave; vedete cosa vuol dire un minuto? Un minuto spesso decide di tutto; – spesso non ci è tesoro, che possa pagare il valor d'un minuto. – E chi sarà in un'ora sì tarda? – Oh bella! è il solito soprastante, colla solita voce, e colla solita frase:

– È permesso? si può passare?

– Appunto voi; passate, passate.

– Ho forse tardato troppo?

– No, siete venuto in tempo: ho finito in questo momento. Eccovi un mazzo di lettere; dimani a un'ora competente, che sieno tutte spedite. Non fate sbagli, vi raccomando; son cose che premono.

– Vossignoria non dubiti di nulla; conosco ad una ad una le persone a cui vanno, e senza adulazione posso dire, che Vossignoria non potrebbe esser meglio appoggiata; son persone che fanno e disfanno, e dopo non c'è nulla a ridire. Ella già non ha bisogno di tutto questo; – si vede bene l'equivoco; si vede bene che hanno preso un granchio, e non vorrei esser nei piedi di chi s'è preso un simile arbitrio. Specialmente quando lo saprà la Contessa, è capace di sputar fuoco. Io son vecchio di queste cose, e so come vanno a finire. Alberghi come questi non sono per la gente par suo. Quando io la vidi arrivare, trasecolai, credetti dì travedere. Si figuri, son quarant'anni che faccio il mestiere! si figuri, se non conosco un uomo alla cera; appena lo vedo, comprendo subito di quel che si tratta; di questo posso vantarmene. Stia allegra Vossignoria; – riposi bene; – se stanotte ha bisogno, non faccia che chiamare; io dormo qui vicino, e son sempre all'erta.

– Non andate anche via. Ho un'altra commissione da darvi. Vi siete già scordato l'affare, di cui vi ho parlato stamani?

– Perdoni Vossignoria, sono uno smemoriato, però mi ricordo di tutto. Il numero, mi pare, 1613?

– Certamente, e dev'essere un palazzo con due riuscite. Eccovi la letterina; fate che recapiti con bel garbo. Già non ci andrete voi?

– Eh! diavolo! che mi crede ammattito affatto? Son uomo di mondo anch'io, e nessuno mi deve insegnare. Non pensi, si lasci servire. Ci mando la mia Rosina, e la cosa vien fatta d'incanto. Ha null'altro da comandarmi?

– Null'altro per ora.

– Dunque la lascio in libertà; riposi bene; buona notte.

– Buona notte. —

Ed io scrittore, che sono in prigione anch'io, e non ho nessuno che me la dia, giacchè la buona notte mi è capitata sotto la penna, me la dò da me stesso, e faccio conto di andarmene a letto.




CAPITOLO XII


– Ma il Povero dov'è rimasto? – Che v'importa del Povero? se, invece di essere freddamente curiosi, voi foste pietosi anche a mezzo, non mi avreste lasciato andare solo solo a cantargli l'esequie; ma mi sareste venuti dietro, – vi sareste arrampicati uno sull'altro per arrivare alle sbarre della prigione, – avreste consolato quel misero colla vista d'un volto umano, – vista più cara del cielo in quella oscura solitudine; lo avreste chiamato per nome, – gli avreste gittato un pane, una parola soave di compianto; avreste infuso olio e vino nella ferita, come il Samaritano dell'Evangelo; – e invece avete fatto peggio del Fariseo, – non gli siete passati neppure d'accanto. Che v'importa del Povero? Non siete voi freddamente curiosi? Non siete voi egoisti? Non siete voi venuti meco a veder la vita del Signore in prigione per alimentare un cupo sentimento d'invidia? Non v'ho io veduti percossi da un brivido allo spettacolo degli ori e degli argenti, degli arredi preziosi, delle laute vivande? Non ho io sentito le vostre voci, le vostre esclamazioni, che la passione mandava fuori velocemente come dardi, – e il calcolo non avea tempo neppure di coprir loro le vergogne? – Non ho io veduto passare sulle vostre fronti un nuvolo di pensieri diversi, ma tutti armati di artigli? Ecco perchè veniste meco a vedere il Signore. Non siete voi egoisti? Il Povero non aveva nulla da farsi invidiare, – invece aveva bisogno d'una consolazione, e d'un tozzo di pane. – Ecco perchè non siete venuti meco a visitare il Povero. Non siete voi egoisti? Ed io non sono un egoista? Io non mi fido della mia pietà; e, se l'ultima somma è più sicura della prima, parmi di aver trovata la vera chiave del motivo, per cui mi son trattenuto tanto tempo Povero. Sentite, se vi torna. Ho veduto che nessuno si curava dell'infelice, – e allora io mi son mosso, – gli sono andato d'intorno, per l'idea d'esser solo, per contradizione. – Ho fatto come Diogene, che andava al teatro quando tutti n'uscivano. Certo, per contradizione; – e, se la cosa è così come io la espongo, allora alla pietà tocca il secondo luogo, se pure un luogo le tocca. Non sono io forse un egoista? non è la contradizione un egoismo? La beneficenza stessa non è sovente un egoismo? Perchè in certi Stati si sviluppa più che altrove lo spirito di associazione, lo spirito di sovvenimento? – Perchè l'ambizione è palpata, perchè l'indomani un giornale deduce a pubblica notizia il benefizio, e il nome di chi l'ha fatto. Gesù Cristo conobbe questo peccato dell'umana natura, e per questo inculcò come un dovere sacro, come un precetto di religione inviolabile, il fare l'elemosina quando nessuno vede; tentando così con un dogma di vincere una tendenza dell'anima, tentando di assuefare l'umanità a fare il bene sempre, e sinceramente, non a sbalzi, quando lo comanda l'ostentazione, la debolezza, o qualsivoglia altro interesse. Il tentativo fu fatto; ora a voi sta il giudicare, se il buon successo l'abbia coronato. Mettetevi una mano al cuore, e giudicate.

Avete deciso? – Il primo prossimo è sè medesimo. – Questo grido fu infuso nel sangue, e circola per le vene d'ogni mortale, – ponetelo pure in qualsivoglia grado di società; – prendetemi pure il selvaggio errante per le foreste, o l'uomo incivilito, pacifico, abbiente, dell'America settentrionale. E se i proverbi sono la traduzione sommaria di una lunga e costante esperienza, questo è il Vangelo di tutti i proverbi passati, presenti e futuri. – La maggior parte vede l'egoismo sotto una faccia unica; e quando vuole personificarlo, per esempio, piglia per il collo un avaro, l'alza da terra, lo squassa mostrandolo, e grida: specchiatevi, ecco l'egoista. – La maggior parte non capisce nulla in questa materia. – Quel tale, che lapidasse il genere umano a furia di dobloni, sarebbe anch'egli un egoista. Il sacrifizio stesso, che vien citato come il contrapposto dell'egoismo, è pure un egoismo; e il generoso, che muore spontaneo per la difesa di un principio morale, o per la salute di un popolo, muore per l'amore di un sentimento, che gli rappresenta più della vita; muore, perchè, sopravvivendo alla sua idea, la vita gli sarebbe uno scherno, un peso, un dolore intollerabile; muore, perchè nel suo speciale organismo in certi dati casi la vita è una perdita, la morte è un guadagno. L'egoismo è un poligono d'infiniti lati, una scala di tutti i toni, un'iride di tutti i colori primitivi, e composti. L'egoismo è l'uomo, o per dir meglio il moto dell'uomo. Togliete l'egoismo all'uomo, voi ne fate una pietra; non ha più ragione di operare nè il bene, nè il male. L'egoismo è l'unico movente delle azioni umane. Distruggerlo non potete, a meno che non imponeste all'uomo una novella organizzazione; potete bensì modificarlo, sottomettendolo alla influenza potentissima della educazione. L'educazione è buona o cattiva, come sapete; – e dipartendosi da questi due limiti, l'egoismo può esprimere tutte le gradazioni della virtù, tutte quelle del vizio. La buona educazione lo modifica, educandolo a combinare il bene individuale col bene generale. Così l'uomo dovizioso, che altrimenti avrebbe mandato in fumo un milione, orna invece la sua città di utili istituzioni, e in capo all'anno riscatta centinaia d'anime dalla schiavitù del peccato e della ignoranza. E questo perchè? Vuol dire, che la buona educazione con un'arte squisita ha modificato in lui l'Egoismo Vanità, affascinandogli gli occhi con un bel fantasma, e trasportandogli l'ambizione da un oggetto in un altro. – La trista educazione lascia andare l'egoismo come un toro infuriato, e gli aggiugne stimoli sovente; allora ei non cerca che un bene personale, senza badare al sentiero che percorre; – e per avere una borsa d'oro, taglia anche una vita, purchè la trovi di mezzo fra sè e la borsa. Così dipartendosi da questi due limiti l'egoismo può rivestire la gioia serena dell'angiolo, o il riso funereo del demonio; – può esser la Ragione o il Fanatismo, – la cicuta o la rosa, – può essere adorato o maledetto. Leonida, che si sacrifica alle Termopili, tocca l'apogeo dell'egoismo virtuoso, e merita un altare, e le ghirlande fresche, immortali, della storia. Nerone, che cerca un aumento di piacere nell'agonia della creatura umana, merita un rogo, e le stimate della infamia.

L'Egoismo è il Proteo del Bene e del Male.




CAPITOLO XIII


– Avete finito? volete fare una cosa da uomo? scendete di cattedra, e tornate al vostro proposito; – sarà meglio per tutti. Coteste cose, di cui avete preteso ragionare, sono state dette e ridette in prosa e in rima, – son cose vecchie quanto l'egoismo; – e che per questo? – mostratemi il frutto: – coi discorsi si fa poco o nulla; col fiato solo non si può, che spegnere un lume. Che importa a voi, se gli uomini sono piuttosto in un modo che in un altro? Li avete fatti voi? Lasciateci pensare a chi tocca. Che serve inquietarsi pei bianchi e pei neri? Gli uomini son padroni di stare come vogliono. Volete diventar sistematico? Vi troverete a de' begli sconcerti. Fino che son teorie, le cose camminano bene; – vincete sempre voi, – come quel giuocatore che giuocava da sè. Alla pratica poi s'impara a distinguere i bufali dall'oche. Io lo so come vorreste gli uomini; – li vorreste tutti di tre braccia, – di struttura slanciata, – un bel viso color di rosa, – occhio ceruleo, – zazzera bionda, – vestiti di una tunica bianca, – calzati di verde, – e che profferissero da mane a sera orazioni giaculatorie di amor fraterno. E vi dico, che a prima giunta sarebbe un bel colpo d'occhio, – in seguito poi non so. Ma che volete? le stampe non l'avete voi, e il vostro desiderio non può avere sfogo; – e invece di vedere tanti uomini di getto secondo la vostra idea, voi vedete un miscuglio bizzarro oltremodo, un caos, che non finisce più mai. Vedete nani e giganti; – uomini bianchi, rossi, neri, color di rame, di cento colori; – vestiti di mille stoffe, vestiti bene, vestiti male; uomini ignudi; – chi bestemmia, chi dice Messa, chi sta sempre zitto; – e via discorrendo. E per questo? perchè una vostra idea non ha sfogo, vorreste andare a finire in un pozzo? Oibò! non vi fate tentare. Il mondo va preso come il vento, – va preso come viene. Volete contrastare con la corrente? – pensateci prima due volte, – il minor rischio è quello di annegare. Tanto voi lo vedete; – non si sa chi abbia ragione, se il Torto, o il Diritto. Se uno vince oggi, l'altro vince domani; – è un circolo vizioso, – è la serpe, che si piglia in bocca la coda, – non ci si conosce nè principio nè fine… Il Bene e il Male sono i due sproni del mondo, e lo tengono in carreggiata. Se pungesse soltanto il Male, il mondo, perderebbe l'equilibrio, e cadrebbe tutto da una parte, e così viceversa del bene. Se poi voi persistete nella vostra idea, e questi patti non vi accomodano, allora sapete come fare; – voi, che veniste a caso in questo mondo, siete però il padrone, di uscirne quando volete, e di andare in un mondo migliore a perorare le vostre ragioni. Non dubitate, – ai confini della vita non ci son dogane. Ma forse non avete voi gli anni dell'esperienza, non conoscete le storie, non avete viaggiato e veduto le nazioni in faccia come elle sono? – Bon! cosa ne concludete? – Che l'Errore è un guanciale morbido a modo e a verso, come può esser la Verità, e che metà del mondo dorme i suoi sonni placidi sopra questo, come l'altra metà li dorme su quell'altro. Mi faccio intendere? parlate schietto, perchè io amo di ragionare. Non avete osservato, che i popoli tengono alla natura degli uccelli? che altri ama il Sole, altri ama la notte? che due princìpi diversi possono descrivere insieme una parallela continua, indefinita, senza mai toccarsi? che la Libertà può affacciarsi al suo balcone, e dalla finestra accanto sentirsi dare il buon giorno dalla Inquisizione? – Chi è convinto coscienziosamente d'un sistema cattivo, vive tranquillo come chi è convinto d'un buono; – non esiste fra loro, che un divario metafisico. – L'uomo poi, che, per legge della sua organizzazione, è superiore o inferiore al sistema che lo circonda, – non può negarsi, – ei ci vive a disagio; – ebbene, vi è il suo rimedio; scuota la polvere delle sue scarpe, e se ne vada gridando come Scipione: ingrata Patria, non avrai le mie ossa. V'è il suo rimedio; – il Francese Carlista può andare in Ispagna, – il Liberale Spagnuolo può venirsene in Francia. La terra è larga abbastanza: – Nemo propheta in patria sua. – Lo vedo anch'io, che, senza sottoporre l'umanità all'archipendolo delle vostre geometrie, starebbero bene tante belle cose! Per esempio, sarebbe bene, che la Fortuna si levasse una volta la benda dagli occhi per vedere almeno chi piglia; – sarebbe bene, che la Giustizia tenesse una stadera sola, e non una per il povero, e una per il ricco; – sarebbe bene, che il Giudice quando va in Tribunale appiccasse al cappellinaio anche le sue passioni per riprendersele quando va a pranzo; poichè bere un fiasco di vino di più non è un terremoto, – dell'altro vino si trova; ma una testa di più o di meno è una cosa seria, attesochè l'uomo non n'abbia che una: – vi ripeto, starebbero bene tante belle cose! sarebbe bene anche, ch'io non fossi in prigione; – e per questo, – se io vado sui mazzi, forse non sono sempre in prigione? che serve ostinarsi, e dar di cozzo nel destino? Tornerete indietro colla testa infranta; e finchè non giunga il tempo ad hoc, il vostro sangue non sarà considerato; – i contemporanei appena si prenderanno la briga di guardare, se il vostro sangue era del solito colore, o no.

– E voi avete finito? Il vostro è un discorso diabolico, e si scorge bene, che siete di coscienza larga… Dovreste essere un gran partigiano del quieto vivere, – uno scettico. Lo scetticismo è il sistema degl'infingardi. Badate, non voglio mica dire, che abbiate spropositato; anzi avete aggruppato con tal arte le figure del vostro quadro, che ai più sembrerà plausibile. Avete esposto dei fatti, avete detto delle verità, avete enunciato anche qualche sofisma, e stringendo poi non avete negato nulla, non avete conceduto nulla. Io ve l'ho detto, siete uno scettico. E credete, che, a guardare minutamente da vicino, il buco nella calza si trova; e quel vostro discorso in parte potrebbe sfumare. Sicuro, bisognerebbe intraprendere una lunga polemica, e mettersi al largo, cosa che io non ho intenzione di fare, e specialmente con voi, – con voi, che sareste uomo da addormentarvi a mezzo la disputa, che con una stretta di spalle non fate più differenza dal Sole di Affrica a quel di Norvegia. Quanto poi al vostro pretendere, che l'uomo non si perda dietro ad un'idea, che non può mandare ad effetto, avrete ragione nella massima, ma avete torto nel fatto, e senza avvedervene siete dato nella rete, che volevate scansare; – voi filosofo sperimentale questa volta mi siete riuscito un idealista; – avete preteso, che la mente umana si sottragga da un fatto, che spesso la incatena indissolubilmente. Non l'avete mai voi osservato questo fatto? o l'avete dissimulato per aver ragione? Può darsi anche questo, perchè siete malizioso la vostra parte. Non avete mai osservato, che in ogni tempo, e in ogni nazione, nascono uomini fatalmente avvinghiati ad un'idea fissa, – un'idea talvolta capace anche a falciare la vita d'una generazione; – un'idea che amano col furore della gelosia; – che non lasciano mai, benchè la veggano confinar col patibolo? – Questi uomini nell'epoca loro hanno due faccie: una sublime, e l'altra grottesca; e la storia contemporanea li chiama pazzi od eroi, secondo da chi è scritta la storia. Al giudizio pacato, imperterrito, dei posteri spetta determinare una delle due faccie, una delle due denominazioni.




CAPITOLO XIV


Ma il Povero dov'è rimasto? è morto di angoscia, o di fame? Chi sa? tutto può darsi. – Le carceri vivono alla buona, – non tengono storici al loro stipendio, – non registrano nè date, nè nomi, nè avvenimenti; – le scene che si svolgono nel loro grembo sono scene d'un altro mondo, – d'un'esistenza sotterranea, – e temono la luce come cosa nemica; – pure così all'ingrosso le carceri si rammentano di alcune notti, – d'un viso truce, – d'un pugnale, o d'un laccio, – d'un gemito cordiale, – d'una caduta pesante; – si rammentano ancora di certuni entrati sani e gagliardi, che di lì a poco si fecer lentamente cadaveri per difetto d'acqua, e di pane. – Fu questa dimenticanza, o caso pensato? – Non precipitiamo nei nostri giudizi. – Dio è il revisore delle coscienze, – e Dio, che può convertire in uno scherno il diadema e la testa del prepotente, un giorno vorrà conoscere il pro e il contra di queste ed altre bisogne.

Ma dunque è morto quel pover'uomo? E così solo, solo, e infelice, come avrà fatto a reggere il peso dell'agonia? – e se avrà chiesto un sorso d'acqua, per mitigare la febbre delle sue viscere, chi gli avrà bagnato la bocca? – e se l'asma lo soffogava, chi l'avrà sollevato a mezza vita? Chi gli avrà asciugato la fronte, e scaldate l'estremità irrigidite? Chi gli avrà dato una croce a baciare? – Chi avrà risposto amorosamente al delirio d'una testa che si sfascia, che vede il diavolo, che vede i Santi, che vede un'ombra nera, un'ombra bianca, mille stranezze, che lacerano il cuore di chi sente, e per un tratto percuotono di smarrimento la ragione di chi le considera, fosse pure una ragione di ferro? Chi gli avrà aperte le finestre, perchè beva un ultimo alito d'aria pura, perchè veda il cielo e la speranza? Oh! la speranza è un letto di piume al moribondo, ove egli a quando a quando dimentica le spine sulle quali si giace! è un'ala candidissima sulla quale l'anima del moriente va a posarsi via via, provandosi così per tempo a slanciarsi alla vita degli angioli! – E i suoi figliuoli? perchè Dio non rompe le porte della prigione, onde passino i suoi figliuoli? Poveri suoi figliuoli! non poterli benedire, non poterli vedere, non poterli palpare! Poveri suoi figliuoli! d'ora innanzi chi darà loro un bacio, chi darà loro del pane? Misero padre! questo pensiere ti sta come una lastra infuocata sul cuore; – è l'unica striscia di ragione e di memoria, che sia rimasta intatta nel naufragio della tua mente; – questo pensiere è la tua vera agonia; – agonia di coscienza, e di sensibilità; – questo pensiere ti fa dubitare di Dio, ti fa sorridere infernalmente. Misero padre! hai tu commesso un delitto infinito per meritarti un tormento infinito?

Ma dunque è morto quel pover'uomo? e chi gli ha asciugato l'ultima lacrima? chi gli ha chiuso gli occhi, chi l'ha baciato cadavere?

Il pover'uomo non è morto ancora, – almeno giova sperarlo. E s'ei fosse morto, chi l'avrebbe potuto sapere finora? Presso a poco è trascorsa una giornata, e il soprastante non ha anche aperto quell'uscio. Cosa importa al soprastante, se il Povero sia morto o vivo, purchè sia in prigione? Cosa importa al potente, che esista un povero di più o di meno? Non è egli il padrone del carcere, dell'esilio, e della scure, l'arbitro della vita e della morte, del Torto e del Diritto? Il potente di rado è iniziato ai misteri della sciagura; e una volta che sia, non è più potente; – ma s'ei potesse sapere e sentire quanti dolori gemono, quante lagrime piangono sotto ai suoi piedi, forse gitterebbe lo scettro con quel ribrezzo come se avesse tenuto un aspide. Chi mai l'educa a simpatizzare coi suoi fratelli di carne? Chi gl'insegna, che il dolore solo è re della terra in eterno, e che la Sorte dona colla destra, e toglie colla sinistra? Chi gli rammenta l'uguaglianza solenne, universale, del sepolcro? Chi lo consiglia a compatire le debolezze, le colpe, e gli affanni d'una schiatta dannata a travolgersi fra l'ignoranza e il bisogno? Chi gli fa sapere, che l'errore è un elemento organico dell'umana natura, e che un uomo solo non è mai infallibile? Chi lo sospinge a chinar verso terra lo scettro a guisa di leva per suscitare i prostrati, e non a gravarlo come un flagello? – Invece i suoi cortigiani recidono qualunque legame fra lui e il popolo; – lo chiudono fuori dell'umanità; – lo chiudono in un palazzo assiepato di ferri appuntati contro il lamento e la preghiera dell'infelice; – gli fanno vedere il mondo traverso un prisma colorato d'oro e di porpora; – gli empiono l'aule di festa, e d'armonia continua; – gl'intristiscono il cuore con un senso monotono di prosperità ottusa e solitaria, – talchè se un sospiro per accidente gli ferisce l'orecchio, dimanda: – perchè sospira quel miserabile? è egli così fiacco? io non ho mai sospirato. – Lo persuadono a riguardare i precetti moderatori d'una santa filosofia come atti di ribellione; – gli fanno credere ch'ei sia stato creato a calpestare uno strato di teste umane. – Gli comprano un poeta, gli comprano uno storico, per adularlo in prosa e in versi, – nel bene e nel male; – lo posano sopra un'ara; – gli mettono in mano il fulmine della legge assoluta, e poi l'adorano; – tanto che, se egli non si vedesse diffuso sul capo il manto infinito dei cieli, crederebbe d'essere Dio. E quando gli hanno pervertite tutte le facoltà del cuore e dello spirito, gl'insegnano a giuocare indifferentemente colla vita dei popoli come fa il matematico sulla sua lavagna, che trasporta a suo talento i numeri da un'estremità all'altra, e per uno sbaglio o per bizza cancella talvolta la cifra d'un milione. Oh! la potenza senza freno d'umane simpatie è un dono funesto! Trista è la potenza che può emulare Dio nel distruggere, e non nel creare; che può annientare una generazione, e non può risuscitare un verme quando l'ha spento!




CAPITOLO XV


– Devo dirla come la penso? – Per un tratto del vostro discorso mi avete fatto una paura diabolica; – io credeva, che voi voleste volare; – io tremava per voi, ma poi mi sono rassicurato; – vi ho guardato i piedi, e li ho veduti immobili, e fissi come chiodi. – Per altro avete fatto un gran fare; – sbracciavate, – sbuffavate, – gli occhi fuori dell'orbita, – il volto infiammato, – le vene della fronte rigonfie; – vi pare a voi? – è la maniera di farsi venir male. E che paroloni! sesquipedalia verba: – e che voce avete fatto! ne ho sempre rintronate le orecchie! voi eravate in un accesso! mi avete fatto paura! io già pensava a una cavata di sangue.

Volete un consiglio da amico? Smettete cotesto stile, – non è per voi, – non ci guadagnerete, che l'asma. Voi non siete un uomo esaltato, – non potete esserlo, – avete troppo umore. Io lo so; – vorreste esser poeta; – ognuno ambisce di essere quel che non può. Invece di un buon cappello di feltro vorreste una bella ghirlanda d'alloro, – per mille ragioni, e, non fosse altro, per campar la testa dalle saette. Ma datevi pace, l'alloro non è per voi; – e ve ne regalassero anche un albero, non sapreste mai trarne una corona di poeta; – gran mercè, se voi ne cavaste una frasca da osterie. – Io lo so; – vorreste esser poeta, e vorrei essere anch'io; – ma come fareste quando il filo non arriva? – Vi compatisco; – avete letto Dante, l'Ariosto, Byron, Schiller, Goethe; – li avete gustati, – li avete sentiti; – vi compatisco; vorreste anche voi avere un'anima temprata come l'arpa eolia, che ad ogni minimo fiato rendesse armonia; vorreste avere un'anima limpida, trasparente, in cui l'universo si riflettesse come in uno specchio. – Ma è tutt'una, – non siete nato, – i poeti nascono belli e fatti: Vates nascuntur. Ditemi voi, – dove andarono a scuola Omero, Ossian, Burns? – E poi sentite questi due versi, che paiono fatti a posta per voi:



E cui Natura non lo volle dire

Nol dirian mille Rome, e mille Ateni.


Avete capito? e badate, son versi di un classicista, che credeva nell'Arte forse più del dovere. – Smettete, – vi ripeto – sarà meglio per voi. Consultate bene l'indole vostra, e quella seguite; non farete mai male. Perchè, se avete corta la vista, volete farmi l'astronomo? Fate il sartore piuttosto, che cucirete a punti piccoli e bene uniti, e così vi acquisterete una lode moderata, è vero, ma pure una certa lode. – Non fate l'astronomo; – potreste scambiare un fanale col mondo di Saturno, e allora – risum teneatis, amici? – Smettete lo stile eroico, – non è per voi; invece di fare della poesia, fate della rettorica, – cosa veramente insoffribile in un secolo come il nostro. Non ve l'ho detto io sempre? Il cavalcare non è per voi; – crederete di fare la figura di un S. Giorgio, e invece siete una balla a cavallo. Non ve ne abbiate per male, – andate a piedi, – è la vostra condanna. Cosa ci volete fare? Tanto, poeta non sarete mai; vi manca l'ispirazione. Se l'esser poeta consistesse nel tornir bene un verso, come usava nel cinquecento e nel settecento, – vada; avete l'orecchio abbastanza armonico, e, quando vi piace, sapete scegliere una frase elegante. Ma tutto questo non è poesia, – è un lavoro da monache. Avete bensì l'anima spruzzata di poesia, – ma quella vena larga, inesausta, – che costituiva Dante e compagni, – voi non l'avete. – Non bisogna pretendere di far tutto, – anche il genio ha i suoi limiti. – Newton, che poteva leggere a suo beneplacito la facciata immensa del firmamento, si smarrì nei pochi fogli dell'Apocalisse, e riuscì un infelice teologo. – Chi nasce artefice per tessere un drappo prezioso, – chi nasce tignuola per guastarlo. E la tignuola, – è inutile, – non sa che rodere. Ve lo dica un Professor dal fiocco rosso, quando si propose anch'egli di fare una stoffa! – Fece una tal cosa, che anch'egli ne avrebbe riso, se non fosse stato giudice e parte. Ma non fu così quando si trattò di rodere; – vero è bensì, che in ultimo torse la bocca, perchè le tinte delle vesti corrose contenevano troppo d'acido. – Smettete, – non cesserò mai di ripetervelo, – lo stile poetico; – credete di suonare la tromba epica, e invece non fate che gonfiar le guancie. Voi non siete veramente nè poeta, nè oratore, nè storico, nè filosofo, nè tignuola; – siete un non so che, che non lo sappiamo nè io nè voi. – Quando la Natura vi architettava, invece di farvi la testa, sopra pensiere fece una gabbia da grilli; – poi si accôrse del fallo, ma non volle tornare indietro, e lasciò il lavoro come stava; – pure perchè la gabbia avesse uno scopo, una conveniente destinazione, la riempì liberalmente di grilli, e così voi siete riuscito quel che siete. Dovete convenirne per maledetta forza, – l'enfasi, il far di Pindaro, a voi non si addice; – voi non potete aspirare, che a una certa ironia, a una certa malizia, talvolta a un poco di grazia, a uno stile negligente giusto appunto come siete voi. Datemi ascolto: scrivete sempre alla buona, alla sans souci, e terminate la storia del Povero carcerato. —




CAPITOLO XVI


E così mandando al diavolo tutti i saccenti, e adoprando lo stile che meglio mi aggrada, ripiglio la mia storia tante volte interrotta.

Il pover'uomo non è morto ancora; – prova ne sia ch'io l'ho veduto. – Come mai? – mi direte. Ecco come; mentre quel ser saccente mi dava quei tanti consigli, che io non gli aveva chiesti, facevamo cammino, e questo era il meglio; a un terzo del discorso, siamo giunti dinnanzi alla carcere, e di lì a minuti è stata aperta, ond'io ho potuto vedere agiatamente i fatti miei tali e quali come vado a dirveli. – Il pover'uomo, come sapete, non è morto ancora; e s'ei fosse morto, (questo lo dico per rispondere a chi dianzi trepidava tanto per lui), s'ei fosse morto, certo sarebbe morto senza nessuno d'intorno, – solitario come una bestia del bosco. Chi volete che fosse passato per assisterlo in quel transito angoscioso? Fra il Povero e la Pietà sta di mezzo una prigione, e la Giustizia ne difende l'ingresso come la spada del cherubino alle mura dell'Eden.

Il pover'uomo non era più stupido, come quando io lo lasciai; – mi pareva anzi irritato, – e forse troppo. Le sue passioni erano rimontate, – le passioni fanno come la marea. Allora sì mi pareva, che più di prima egli avesse bisogno d'un amico, che con modi cordiali e con suoni di conforto si provasse di acchetare quella tempesta, che gli ruggiva dentro, e gli capovolgeva la ragione. Egli passeggiava furiosamente per tutti i versi i cinque passi della sua stanza; – spesso si dava nella fronte con una palma, – spesso batteva coi piedi la terra; – ora fischiava turbinosamente, – ora cantava in una lingua e in una musica affatto nuova; – ora s'incrociava le mani sul petto, nascondendosi le pupille terribilmente sotto le ciglia. Una volta si mise una mano sul cuore, – e fece atto di strapparselo, e di lanciarlo in aria con un grido disperamente salvatico, – uno di quei gridi, che atterriscono l'uomo e la fiera, – il grido della madre che fuga il leone, e gli cava il figlio di bocca… Dipoi si riconcentrò, e fece pochi passi adagio adagio, e senza intenzione: – quindi sembrava stanco, e si pose a sedere sopra uno scalino col capo fra le ginocchia. – Col capo in quella maniera, io non potei vedere se pregasse, se bestemmiasse, se piangesse. Forse egli faceva queste tre cose confusamente insieme; – forse era assorto in una di quelle estasi, prodotte dall'ambascia profonda, in cui l'anima abbandona il corpo, e s'ingolfa in una nuova esistenza, in un mondo incognito, pieno di forme strane; non mai vedute, non mai pensate, – dove l'anima giace immemore di quello che fu, di quello che è; – e solamente, tra il sì e il no, sogna, che in qualche parte le dolga, ma non sa dove, non saprebbe cercarvi, non è tentata a farlo.

A un tratto mi scosse un forte sospiro misto di singulto; – e vidi che il pover'uomo si era rialzato girando penosamente la testa verso l'inferriata. – E l'inferriata confina col palco, e la persona non può salirvi. – Gli sia contesa anche la vista del cielo: – così hanno detto, e così hanno fatto. – Un raggio scarso di Sole entrava malvolentieri tra mezzo alle sbarre, e sdrucciolava giù in fondo, lento, malinconico, scolorito, vestito anch'esso da povero. Forse quel raggio era pietoso, e tramutava così la sua pompa per mettersi d'accordo col Povero, – per non unirsi all'oltraggio degli uomini.

Arrivato a questo punto, io non vidi più nulla. Il soprastante chiuse, e partì. – Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. Quando il dolore percuote a gran masse l'anima umana, è una vista che si può reggere; – e talvolta è uno spettacolo dignitoso, quando l'anima sviluppa un vigore proporzionato alla forza delle percosse; – e quel combattimento tra il mortale e il Destino, tra il signore e lo schiavo, ha un non so che di sublime, che lusinga la nostra superbia. Ma quando il dolore prende lo scalpello del notomista, e comincia a incidere il cuore di dentro e di fuori con mille tagli diversi, e lo cincischia con mille disoneste ferite, quello spettacolo allora ha un non so che di fastidioso, e di crudele, che gli occhi non lo sopportano, e, offesi come sono, volentieri si chiudono.

Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. – Il soprastante era venuto a visitare la carcere, e non il carcerato; solamente avea portato seco un vaso d'acqua fresca, e l'avea deposto per terra.

– Dunque quel pover'uomo morrà di fame, – perchè d'acqua, o fresca o calda che sia, non si vive; mala pena si vive di pane… —

No, no; rassicuratevi; questa volta non morrà di fame; un pane gli sarà dato. Ridete? – io vi comprendo, – sarà un pane dato come un colpo a un nemico; sarà un pane duro, duro davvero; – ma che vuol dire? – Ei l'ammolirà colle lacrime: – perchè no? – forse non è infelice? – la corda del pianto forse non è la prima corda del cuore, e non trema forse al soffio più lieve? – L'ammolirà colle lacrime, – non ne dubitate; – non v'ho io già detto, che sa piangere? e, se l'alterezza gli vietasse di piangere per sè, non ha i suoi figliuoli, non ha forse una madre, non ha un amore, una patria?

Io piango, – voi piangete, – tutti piangono. Questo è tal verbo, che ognuno sa e deve coniugare senza bisogno di gramatica. La sventura è qua maestra per tutti.

O Sventura!...... Tu sei una pianta perenne, che non temi vicenda di stagione; il sereno e la procella egualmente ti alimentano. Il tempo, che coll'ala instancabile corre rovinando ciò che gli si para di fronte, quando giunge dinnanzi al tuo simulacro chiude l'ala, e oltrepassa adorando. – Il genio avvalorato dal grido delle plebi umane ha tentato sovente di atterrare il tuo Nume, ma indarno. La Fatalità ti protegge, – e i conati del Genio e delle moltitudini si sono spezzati contro di te, come la spuma contro la rupe… – Il mondo è tuo retaggio assoluto; – e se il tuo spirito gode aggirarsi fra le rovine, – gode pure insinuarsi come il serpente fra l'erbe e i fiori. Tu puoi rivestire anche l'aspetto dell'allegrezza; – e non v'è una razza stranamente infelice, che ha sempre il sorriso sul volto, e il pianto eterno nel cuore? – questi son più d'ogni altro infelici, appunto perchè non sembrano. – La vita ti appartiene intera; – tuo è il primo vagito dell'infante, – tue le tradite speranze del giovane, – tuo il gemito estremo della vecchiaia… Non v'è nessuno, che trapassi da questo pellegrinaggio ai riposi della tomba senza avere offerto nel tuo santuario il suo obolo, – senza averti dato almeno una lacrima, – una lacrima spremuta dal più puro sangue del cuore. Tu non ammetti privilegi, e stampi il tuo marchio rovente tanto sulla fronte alla virtù, come sulla fronte al delitto; – ogni condizione deve piegarsi sotto la tua verga, tanto il conquistatore, che stende la sua spada sui popoli come il raggio del Pianeta, quanto l'umile bifolco, che nasce e muore ignorato come l'eco della sua valle. Anche il povero matto, – che a spese della ragione si riparava in un mondo di larve, e d'illusioni, e credeva francarsi dalle leggi della comune esistenza, – anche il povero matto deve adorarti; – e quando la morte è vicina a rapirselo, tu gli doni un istante lucido d'intelletto, onde anch'egli senta la tua presenza, e ti paghi il suo tributo di dolore. O Sventura! tu non sei punto generosa, tu non hai coraggio di risparmiare nè anche il povero matto.




CAPITOLO XVII


I primi primi giorni, che l'uomo passa in prigione, sono per l'anima sua come giorni nebbiosi: – l'anima non ha peranche fatto l'occhio a quel clima; – vede confusamente, talvolta non vede gli oggetti, talvolta li vede a doppio; – il suo palato non ha sapore; – un ronzio continuo gli alberga le orecchie; – lo spirito giace stordido, e non sa pensare; – il cuore sente di star sotto a un fascio enorme di sensazioni, ma non sa darne ragione. Se la mente non gli crolla, è una prova sodisfacente della sua buona tempra; – se il corpo non gli si ammala, è una prova sodisfacente, che il corpo fu tessuto comme il faut. Sia come vuolsi, però in cotesta alterazione dello stato normale dell'anima l'uomo ci guadagna qualche cosa; – la noia non trova luogo di abbarbicarsi così di leggieri; – il pensiere, che agisce eccentricamente, non è quell'avvoltoio insaziabile, come quando il senno si aggira sopra il suo pernio naturale; – e il dolore vibra il suo pungiglione sopra una carne mortificata. Questo stato di esaltazione, in cui tutte le nostre potenze superando il coperchio hanno dato di fuori, ha prodotto per legge di reazione una pace stanca, un sopore, un dormiveglia nell'anima nostra, che volentieri ella afferrerebbe di nuovo quando si desta, e la pienezza del giorno le mostra a diritto e a rovescio la sua posizione. Ma la natura vive d'eccezioni a controgenio, e quanto più presto può gradatamente rientra nel suo letto.

Una volta per altro, che il carcerato si è stropicciati gli occhi, e gli ha spalancati, ed è desto ben bene, e si accorge, e tocca con mano di essere in prigione, la prima cosa che sente è la sconvenienza di una simil dimora, e il primo pensiere che se gli affaccia è quello di andarsene. Io stesso, che sono un uomo tutto pace, che, se il vento mi porta via il cappello, aspetto che si fermi, e non gli corro dietro, io stesso, – Dio mel perdoni, e chi mi ci ha messo, – ho pensato, prima d'ogni altra cosa, di andarmene. E vi ho pensato così a lungo, e con tanta intensità, che mi maraviglio come questo pensiere nel chinarmi non mi sia caduto giù dal cervello in forma di lima… E se questo mio cranio verrà in potere del sistema di Gall, e di Spurzheim, quei signori notino bene, e cerchino fra le tante protuberanze buone e cattive, chè troveranno uno scavo fatto dall'idea della fuga, una figura tale e quale come l'ho descritta qui sopra.

Pertanto noi siamo d'accordo; – il primo pensiere del carcerato è quello di andarsene. I mezzi poi per andarsene sono due: uno naturalissimo, e di riuscita infallibile, ed è quello di andarsene quando ti metteranno fuori; – l'altro naturale pur egli, ma non al grado del primo, ed è quello di fuggire. – Tu puoi fuggire con due metodi: – o fuggire da te col rompere la porta, o col segare i ferri della finestra; – o corrompendo a furia d'oro i custodi. Il primo metodo costa assai meno del secondo; il secondo assai più del primo. E tutto questo per tua regola e governo.

Io dopo molte considerazioni fatte colla coscienza, e non a caso, ho meco stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finchè un qualcheduno non venga e cavarmi. Già, figuratevi voi, mi hanno messo in un Forte munito di soldati, e di cannoni, e sotto chiave di un Profosso munito di 12 Articoli stabiliti contro di me, e contro di lui; il Forte poi l'hanno messo in un'isola. – Ora andate a fuggire, se vi riesce! – Io mi protesto da capo, che non ho voglia nè modo di andarmene; e quando anche conseguissi la fuga, sarei costretto a tornarmene indietro, perchè fuori è la stessa prigione; – avrei di più a pagare il fitto d'una stanza, mentre adesso me ne godo un paio, e di pigione non se ne discorre, a meno che non facessero all'ultimo tutto un conto. – Napoleone, è vero, fuggì, – ma voi sapete chi era costui; e se nol sapete voi, altri l'hanno saputo; – e poi, egli fuggiva per delle buone ragioni; – fuggiva per rimettersi in capo un berretto da imperatore, ed io non potrei mettermi in capo che un berretto da notte; – fuggiva per riafferrare la coda della Fortuna, che nuovamente gli capricciava dinnanzi, e gli faceva le smorfie da innamorata; – e poi, egli era padrone del Forte dove io son racchiuso, e il Forte non era padrone di lui. – Ma io, che sono una cosa con un nome, e con un casato, e niente di più, faccio sapere a tutti una volta per sempre, che ho meco stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finchè non mi diranno: – vattene. – Io sopporterò la mia prigione, come una escrescenza, che per un accidente mi sia venuta sulla persona, – come la paziente pizzuga sopporta quella casa d'osso, che la Natura gli ha collocata sul dorso.

V'è ancora un altro mezzo d'evasione, – ma io m'attento poco a proporvelo......

(Mancano nel Manoscritto la fine di questo, e alcune parti del seguente Capitolo, il quale a differenza degli altri porta il titolo in fronte).




CAPITOLO XVIII



IL SUICIDIO

… Spendete meno massime, spendete più fatti: – allargate le vie della vita, sgombratele di tante spine, che vi seminò l'errore e l'ingiustizia. Con che titolo l'ozioso opulento verrà a filosofare aspramente sul corpo del suicida per miseria, – egli, che giornalmente in una bottiglia di Sciampagna beve almeno cinque giorni dell'esistenza di un povero?


················

Discendendo poi dalle teoriche al fatto, osserviamo che più ordinariamente questo fenomeno si verifica o nell'estrema energia, o nell'estrema spossatezza dell'umana natura. Di rado tocca il grado intermedio; – di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue. Egli è buono a sopportare molti disastri, che fiaccano il debole; – egli in forza delle sue misurate facoltà non si trova mai avvilupato in quel nodo di eventi, che sforzano l'uomo superiore a sparire dalla scena del mondo celandosi in un sepolcro. L'uomo moderato può convenientemente transigere con una lunga serie di fatti. L'uomo debole vive a caso, – e se i fatti gli passano rasente senza urtarlo di fronte, può invecchiare pacificamente, e morir nel suo letto. Ma se un fatto lo prende di fronte, egli è perduto, egli non ha vigore bastante da sviarlo, e rimetterlo sul suo cammino. Una cosa lieve, un nonnulla, anche una risata, in un cervello così fatto diventa un'idea fissa; e allora la follia compie la paralisi delle sue forze morali, ed egli è costretto a morire senza poterne dar conto a chi glielo dimandasse. Io ho conosciuto un giovane leggiadro di forme, d'indole mite, ma vuoto di testa, che si fucilò, perchè i genitori, che l'amavano assai, non gli permisero di farsi dragone. – Ma l'anima atletica d'un eroe trascorre una scala lunghissima d'eventi, e nulla l'arresta; – la sua gagliardia rompe spesso la corrente, che strascinerebbe in rovina ogni altra forza fuorchè la sua; – poi ad un tratto si trova di faccia una combinazione intricata, profonda, dove freme l'onnipotenza del Destino. Allora il Genio si conosce perduto, – ma non cede sul subito; ei sviluppa una lotta da gigante a gigante, – e la lotta dura finchè le forze da una parte resistono: – finalmente il Genio soccombe, – il Destino supera, perchè il Destino è ciò che deve essere. Che deve fare allora l'eroe? – progredire è impossibile, perchè una barriera di adamante gli chiude i passi; – rovinare in fondo è impossibile, perchè la natura del Genio è di salire finchè può. Allora l'eroe decide di morire, non già perchè vuol morire, ma perchè non può più vivere. Non è il delirio, che spinge; è la coscienza, che sceglie. Il Genio si scava la fossa su quel gradino, dove la Fatalità gli ha reciso l'ale; – e si scava la fossa per insegnare che il sistema del Bene va portato innanzi finchè si può, e non va rinnegato colla codardia del tornare indietro. Certo, il suo concetto era di salire al sommo della scala, e piantarvi lo stendardo della vittoria. Dio non ha voluto, – egli è morto. Egli non poteva vivere sospeso fra il cielo e la terra.

Catone sta per la Repubblica, – e combatte all'usurpatore a palmo a palmo il terreno; ma questi, più felice di lui, lo incalza di provincia in provincia, – lo soffoga coll'alito ardente della vittoria. Catone finalmente è in Utica, chiuso in un circolo magico, donde gli sarà impossibile uscire come dalla tomba. – Già si sente fremere a tergo il delitto e la fortuna di Cesare. Ma i fati non sono per lui, – egli lo sa. Non v'è più scampo, – non v'è più spazio, – non v'è battaglia più da tentare; – la Virtù contro il Fato è un vetro contro una massa di ferro. Catone deve morire, e morrà. Poteva rendersi a Cesare, – ed ei l'avrebbe perdonato, – l'avrebbe anche onorato, – perchè Cesare era un tiranno, ma un tiranno di genio. Catone era come quei metalli, che si spezzano, ma non si piegano. Doveva morire per dimostrare, che la Virtù è un fatto sensibile, e non un nome vuoto; doveva morire, perchè la sua ragione gl'insegnava pacatamente la morte come un dovere, la vita come un tradimento. Se non fosse morto, nè i contemporanei nè i posteri avrebbero saputo in che più credere. La sua morte fu una protesta eloquente contro l'usurpazione felice, – una guarentigia del diritto, – un conforto, uno stimolo ai superstiti; e dal suo sangue usciva una voce, un insegnamento solenne a morire piuttosto che a disertare una causa santa.

E Bruto da quel sangue raccolse quella voce, e se la pose nel cuore. Quella voce gl'intimò primamente a non disperare della salute della patria, – a tentare la sorte incerta delle armi, e così fece; – poi quando a Filippi fu perduta l'ultima battaglia delle Libertà Latine, interrogò quella voce, e gli disse di morire. E Bruto moriva incontaminato, come devono morire le anime sublimi. – Comprese la santità della sua missione, – la grandezza dell'esempio, che andava a dare, – il frutto immenso di cui questo sarebbe stato fecondo nell'avvenire. Il suicidio in lui non fu il consiglio d'uno stretto egoismo, – fu un sacrifizio fatto alla dignità dell'umana morale. Se fosse vissuto, avrebbe commesso peggio, che una viltà; – avrebbe messo in dubbio i diritti dell'uomo; – avrebbe sanzionata la scelleraggine trionfante; – ne avrebbe in certo modo velate le vergogne: – così la lasciò nuda, – così col suo sangue si appellò pei diritti delle nazioni alla vendetta dei posteri rigenerati; – così piuttosto che concederla agli stupri della tirannide volle condur seco la Virtù vergine nella tomba. Bruto, anima esaltata, e inflessibile nell'amore del grande e del giusto, era portato al suicidio dalla necessità e dal dovere. Non gli rimaneva a fare più nulla nè di buono, nè di grande; – non gli rimaneva nè anche di sedersi sulle rovine della patria, e sciogliervi un canto funereo; – le rovine della patria erano ormai lo scanno dei Cesari. – Doveva fuggire? Il pensarlo solo è un sacrilegio; – ma e in qual parte di mondo fuggire? Il mondo era una Provincia Romana, e qualunque nazione avrebbe portato a gara la testa di Bruto in aggiunta ai consueti tributi. Doveva ricorrere alla clemenza di Augusto? Oh! l'ultimo dei Romani non poteva ricorrere al primo dei tiranni. La Fatalità aveva incatenato lui alla Repubblica, e la Repubblica a lui. Erano due in un destino solo; – dovevano esistere insieme, perire insieme, e perirono. E poi conoscete voi la clemenza d'Augusto? Ve lo dica Perugia. – Augusto non aveva, che talento e libidine d'imperio; – del resto, ineccitabile come una pietra; un alito di passione non aveva mai increspato quel mare morto dell'anima sua. Un giorno fece un conto e barattò la testa di Cicerone suo amico contro quella d'un uomo, che appena conosceva, come farebbe un fanciullo dei suoi balocchi; e sotto manto d'amore carezzava Cleopatra per menarsela a Roma in catene in un giorno di festa, e d'orgoglio. Augusto avrebbe messo la testa di suo padre per puntello a un piede del trono, se quel piede non avesse posato in piano.

Il suicidio di Catone, di Bruto e di mille martiri della Verità, è un eroismo, – un fatto di natura trascendentale, che sfugge al compasso di una volgare filosofia. È il punto culminante dell'umana grandezza, è il Sacrifizio. L'invidia sola può tentare d'impiccolire le proporzioni colossali d'un tanto fenomeno, ma la ragione sdegna l'analisi, e si contenta di venerare. Il suicidio è vero, che in questi casi stacca un fiore dalla corona della Virtù; ma la Gloria raccoglie tosto quel fiore, – ne fa una stella, e l'aggiugne al suo serto immortale.




CAPITOLO XIX


Poffare Dio! ho scritto queste quattordici pagine tutte d'un fiato, e con tanto impeto, che me ne trovo stordito. Ho lasciato fare il più al sentimento, e alla penna; – al cervello è toccata la minima parte. Non so se sia bene; – comunque siasi, è andata così. Mi son voluto lasciare andare, dove il flutto voleva portarmi, – ho lasciato le vele in balìa del vento. Se invece di arrivare in porto ho dato in secco, non ve ne prema; – il danno è tutto mio. Quando me ne vada il peggio, vuol dire che non avrò ragionato. Benissimo; – è una cosa, che mi succede spesso, anche quando ho le più serie intenzioni di fare il contrario. – Per me è una baia. Quandoque bonus dormitat Homerus. Non lo dico per superbia di paragone, – lo dico così per citare, e per far vedere, che anch'io sono stato in collegio, dove in quattro anni m'insegnarono a non sapere il Latino. Non lo dico per superbia di paragone. Omero era cieco, e poeta; io invece ho due begli occhi, e non sono nè poeta, nè prosatore. Scrivo per capriccio, – per far diventar nero un foglio bianco. Scrivo perchè non ho da parlare con nessuno, chè se io potessi anche con una vecchia, anche con un bambino, non pensate, non toccherei la penna. Andate a leggere, se vi riesce, quello che ho scritto quando io non era in prigione! Certo potrei parlar meco stesso, – ma non voglio avvezzarmici, perchè uscendo di prigione con questo vizio, e portandolo meco in società, mi potrebbero prender per matto. Assai in fatto di giudizio non godo di un credito troppo esteso! – allora la storia sarebbe bella e finita. – D'altronde, quando io scrissi le suddette quattordici pagine, avevo il cuore pieno pieno, – non so di che, – ma veramente pieno, – e bisognava sfogarlo. Se fossi stato un romantico, avrei scritto una ballata malinconica, – se un classicista, avrei scritto un'elegia; – se un musico, avrei cantato qualche melodia del Bellini. Ma io non sono nulla di tutto questo, – non so che fischiare; – però lo faccio quando ho l'umor nero, o quando una coppia di grilli mi mettono in festa di ballo la fantasia. – Del resto, ve lo ripeto, ho scritto quel che io sentiva; – il calcolo ci è entrato per un momento, e poi fuori. L'anima ha qualche quarto d'ora, in cui se ne vuole star sola sola con le sue sensazioni, liete o dolorose che sieno, e guai se la mente vuol venirne a parte; – guasta tutto, come qualche viso antipatico spesso mette il freddo e il silenzio in un crocchio cordiale d'amici. D'altra parte è impossibile star sempre sopra una nota, – e quand'anche ti riuscisse, verresti noioso a tutti, e i casigliani ti caccerebbero del casamento. La vita, a voler che sia bella, a voler che sia gaia, a voler che sia vita, dev'essere un arcobaleno, – una tavolozza con tutti i colori, – un sabbato dove ballano tutte le streghe. Il sollazzo e la noia, il pianto e il riso, la ragione e il delirio, tutti devono avere un biglietto per questo festino. Che serve far della vita una riga diritta diritta, lunga lunga, sottile sottile, noiosa noiosa, e color della nebbia? È un volersi reggere sopra un piede solo, – è un mettere l'anima umana nella stessa situazione, in cui si pose lo Stilita, che stette quarant'anni in cima a una colonna. Vuol essere un'orchestra piena, e non un piffero solo; – varietà vuol essere. Viva la varietà! Per tutti questi motivi, io ho scritto quattordici pagine senza pensare, e non me ne pento. Giorgio Spugna mio dilettissimo amico mi ha ripetuto sovente queste notabili parole: «L'uomo che è sempre savio val poco più dell'uomo che è sempre pazzo; – est modus in rebus: – l'arte di pensare è un'arte, che va stimata e riverita; è una fatica concessa all'uomo, e negata alla bestia; – ma il farlo sempre si assomiglia all'avaro, che conta e riconta perpetuamente i suoi scudi; – qualche volta bisogna spendere; – il superchio rompe il coperchio; – qualche volta bisogna non pensare per riflessione; se no, all'ultimo, spesso invece di una scoperta psicologica ti trovi di aver pescato un'emicrania». Così mi diceva Giorgio Spugna, filosofo, che si è fatto da sè senza bisogno di libri, senza bisogno di Pisa, di Bologna, e di Padova. Non già che Giorgio Spugna sia ritroso al viaggiare, – anzi è questo un suo desiderio vivissimo, e giuoca sempre al lotto per vedere se un giorno o l'altro potesse mettersi in corso; e mi ha giurato più volte, che se ottiene il suo intento vuol fare il giro del globo, componendo un trattato di pratica comparata sui migliori vini dell'uno o dell'altro emisfero. Mi ha detto ancora, che giro facendo non avrebbe scrupolo di mettere in carta le sue osservazioni di qualunque altra maniera, dacchè egli pure possiede un cannocchiale fatto da sè, col quale guarda tutti gli atti di questa umana tragicommedia. – «Ma io nol farei», – soggiugneva Giorgio, – «giusto appunto perchè mi è venuto fatto di osservare, che le opinioni, anche buttate là colla stessa insouciance, colla quale soffio il fumo della mia pipa, possono cadere in frodo peggio del tabacco, e la multa non è lieve, ed è certa sempre la perdita della merce, e talvolta anche quella della persona; per questo io nol farei, e procurerei al summum di tenermele a mente per ridirtele poi testa testa nel giolito d'un simposio, nell'intervallo fra un bicchier e l'altro.» – E credete, che Giorgio Spugna è più filosofo di quel che non pare, precisamente perchè non pare un filosofo. E ripeterò con lui: qualche volta bisogna spendere. Che direste d'un uomo, che stesse da mattina a sera a guardar l'orologio per far buon uso del tempo? Per lo meno perderebbe il tempo a vederlo passare. Mettetevi in tasca l'orologio, e fate le vostre faccende, l'orologio consultatelo di quando in quando secondo il bisogno. Bisogna fare a tutti la sua parte, e se coltivate una cosa sola, e l'altre trascurate, godete meno, e le altre vi vanno a male. Così è come io ve la dico, e vi esorto a crederci, o almeno potete fidar più sul mio senno quand'io discorro alla buona, e senza pretensioni, che quando mi metto in aria di ragionare. Sopratutto rammentatevi il nome e le opinioni di Giorgio Spugna. Ei se lo merita, ed a me farete cosa cara.




CAPITOLO XX


Io ho detto nel capitolo XVII, che sono in prigione, e lo confermo nel Capitolo XX. Oggi finiscono trentaquattro giorni, e non isbaglio; in mancanza del lunario li ho contati due volte sulle dita.

A chi me l'avesse detto il 2 di settembre io avrei riso in faccia di un cotal riso da venirne al duello. Eppure io ci sono!

Benedetti i primi giorni della mia prigionia! – io era così sempre fresco del passato, che sovente mi riusciva d'illudermi. Sovente sopra pensiere chiamava ad alta voce la serva, perchè mi recasse una cosa o l'altra; e sentendo che nessuno mi rispondeva, io mi accertava allora della prigione; ma ci rideva sopra, e non era più altro. Sovente sopra pensiere in un batter d'occhio m'indossava la giubba, mi calcava in capo il cappello, e tutto infuriato andava per uscire; – ma giunto alla porta mi accorgeva, che il chiavistello stava per di fuori, – segno evidente della prigione; – ed io al solito ci rideva sopra, e non era più altro. Benedetti i primi giorni della mia prigionia!

Oggi però è ben diversa la cosa. Io son mesto e spossato dalla noia, – e così penetrato fino al midollo del convincimento di essere in prigione, che questo pensiere dinnanzi agli occhi e alla mente mi brulica in infinite forme, come uno sciame di atomi innumerevoli traverso un raggio di luce; e così mi si è dentro inchiodato, che nei primi tempi della mia nuova libertà per avventura, crederò sempre d'essere in prigione.

Io sono mesto, e spossato dalla noia. La noia tacitamente ha tramato per me una così gran tela, che io non vedo parte donde salvarmi. Io son la mosca di quella tela, e più che mi dibatto per uscirne, e più vi dò dentro.

Oh! la noia è una parola sola, – una parola breve, che non conta più di quattro lettere, – ma il provarla è tal volume, che uomo al mondo non sfoglierebbe così per tempo, nè così di leggieri. La noia è l'asma dell'anima, – è una ruggine che può consumare la meglio temperata lama, che si dia; – è una cosa, che dai capelli alle piante ti fascia la cute d'un senso umido, fastidioso, ti perverte l'occhio, e ti fa veder tutto in bigio; – toglie il sapore al gusto, la fragranza ai fiori, – la dolcezza all'armonia. Schiaccia l'acume dell'intelletto, e lo rende bestialmente stupido, – e insugherisce il cuore, mortificandone la squisita sensibilità, disseccandovi dentro la lacrima del piacere e del dolore. Oh! la noia è il più insopportabile dei nostri dolori, perchè è il dolore della stanchezza; perchè non eccita in noi una forza, che valga a combatterlo. Essa non è un vulcano, ma cuopre di freddissime ceneri il sorriso della Natura intera.

E le ho tentate tutte per medicarla, ma senza pro. Il leggere non mi giova; – sto mezz'ora sopra un filaro, – e poi gitto il libro. Non ho più coraggio nè anche di scrivere i miei ghiribizzi; – i miei grilli son morti d'inedia, – essi volevano l'erba fresca del prato, e l'alito dell'aria aperta. – Non mi giova il passeggiare; – vado in su e in giù per i dodici passi della mia prigione, e di lì a poco torno a sedermi colla vertigine. – Se mi affaccio, vedo, è vero, un bel cielo, ma le sbarre, che mi traversano l'occhio, me lo tingono di color di ferro; – vedo un cerchio di monti, e mi paion sepolcri; – vedo una mandra di soldati, che la disciplina militare ha saputo convertire in altrettanti arcolai. – Pallida mi apparisce la verdura degli orti, e dei vigneti, e il canto degli uccelli mi suona lamento.

Alas poor Yorick! Io mi curvo sotto un peso, che non posso più reggere, e ho fatto di tutto per sollevarmene. Ho contato le battute del mio polso, e ho dovuto smettere; – ho fatto la guerra agli insetti, che mi son compagni, e ho dovuto smettere, perchè son troppi; – ho contato i travicelli delle mie due camerette, e sono diciotto e mezzo; – i travi grossi, e son otto; – ho contato perfino i mattoni, e son trecento novantuno. Io non ho più pace, e non so come averne. Non posso più pensare nè al passato, nè all'avvenire, spazi così vasti, e così comodi per il diporto dello spirito. Son confinato nel presente, – e il presente di un carcerato non è già il Tempo coll'ali snelle velocissime, – è una figura di piombo sdraiata in un canto.

… E come fare per il resto di tempo, che dovrò starmi in prigione? Avessero almeno detto: – ci starai tre mesi, sei mesi, un anno, – manco male; – ogni sera con un sospiro di sollievo esclamerei: – v'è un giorno di meno! – Se io potessi avere dell'oppio, forse sarei felice, e certamente tranquillo; – l'anima mia dolcemente assopita passerebbe le sue giornate in un mondo aereo, multiforme, – un mondo così dovizioso d'illusioni, e d'immagini, che la più alta fantasia dell'uomo desto può concepirne appena una frazione ben minima. Ma non posso sperare nell'oppio; – i miei custodi l'hanno in concetto di veleno, e non me lo farebbero vedere nè anche dipinto. E per questo io ho desiderato le mille volte una febbre acuta, che mi levasse fuori di me fino al giorno della mia scarcerazione. Ma la febbre anch'essa, che pur non dipenderebbe dai miei custodi, non vuol venire; – non vi è rimedio; è un calice, che bisogna bere…

Ecco qui; tutti i giorni sono i medesimi, misurati dalle medesime vicende. Alle otto la mattina il solito caffettiere colla solita colezione; – al tocco il solito pranzo portato dai due soliti selvaggi, che si son rubati il nome di camerieri. Il pranzo è composto sempre della solita zuppa, e di tre pietanze, che sembran tre morsi, presso a poco sempre uniformi, e di rado una di quelle variata in un uccello, strano, – una specie d'uccello, che avrà che fare coll'ornitologia, ma non so se abbia diritto all'ingresso d'una cucina; – una specie d'uccello che, a casa mia non ho mai veduto nè per aria, nè sullo spiedo. Io non so dove trovi quegli uccelli il trattore; – mi pare impossibile, che un cacciatore li trovi; e, se li trova, che abbia il coraggio di spendervi sopra una botta. Ma io ho veduto spesso il trattore sur un campanile, e di certo ei vi andava per quegli uccelli, e per noi.

E il Profosso? Mutassero almeno il Profosso una volta la settimana, come avevano cominciato dapprima! Ma dopo una volta non l'anno più fatto. Eccolo là, – è sempre il medesimo Profosso, – col medesimo viso, – col medesimo passo, – col medesimo vestito bianco mostreggiato di rosso, – colle medesime chiavi, – coi medesimi 12 Articoli, stabiliti contro di me, e contro di lui, – col medesimo suono di voce. Fin qui il Profosso non è ancora infreddato, per sentirgli fare almeno una voce diversa. L'unica mutazione, che segua in lui qualche volta, è quella da un casco a una berretta. È un uomo anche egli convinto della disciplina, – convinto dei suoi superiori, – persuaso, che le bastonate sieno un dovere a darle, e a riceverle, come voi siete persuaso a grattarvi in quella parte ove vuole il prurito. – Oh! le strane fantasie della noia! Quante volte non ho io desiderato, per non vedere sempre il medesimo Profosso, di vederlo un giorno con un occhio solo, un altro giorno con tre; un giorno con due nasi; un altro giorno con la bocca sulla fronte; una domenica, quando mi accompagna alla Messa, che camminasse colle mani e coi piedi; un lunedì di vedermelo vestito da donna; un giovedì colla testa voltata dalle spalle; un venerdì senza testa. Ma il Profosso non sì muta mai, – è inesorabile; e ogni giorno viene a menarmi fuori per prendere un'ora d'aria, com'egli dice, e spesso mi tocca invece un'ora d'acqua. E sul primo anche questo era un conforto, – ora non è più. È sempre il medesimo Forte… – le medesime salite, – le medesime scese, – i medesimi sassi ribelli, e pronti ad offenderti, – i medesimi cannoni, – i medesimi soldati; – non si trova un uomo, o una donna, se tu li pagassi al peso dell'oro.





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notes



1


Egli era nato in Livorno, il 1.º di Decembre 1806.



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