Книга - Dopo il divorzio

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Dopo il divorzio
Grazia Deledda




Grazia Deledda

Dopo il divorzio



E dopo che lo avranno flagellato lo uccideranno…

Ed essi nulla compresero di tutto questo…

    Luca, XVIII, 34.






PARTE PRIMA





I


1904. In casa Porru, nella camera dei forestieri, c'era una donna che piangeva. Seduta per terra, vicino al letto, colle braccia sulle ginocchia rialzate e la fronte sulle braccia, ella piangeva singultando, scuotendo la testa come per significare che non ci era, non c'era più alcuna speranza. Le sue spalle rotonde, il suo dorso ben fatto, coperto dal panno giallo d'un corsetto stretto, s'alzavano e si abbassavano come un'onda.

Intorno era quasi buio: la camera non aveva finestra; la porta spalancata sopra una loggia di mattoni s'apriva su uno sfondo di cielo cenerognolo che andava sempre più oscurandosi. Su quello sfondo brillava una piccola stella gialla lontana, lontana; e nel cortile s'udiva un grillo zirlare e la zampa d'un cavallo, di tanto in tanto, sbattersi sulla pietra.

Una donna bassa e grossa, in costume nuorese, con un gran volto di vecchio grasso, apparve sulla porta, con in mano una candela di ferro a quattro becchi, in uno dei quali ardeva un lucignolo nuotante nell'olio.

– Giovanna Era, – disse con voce grossa e rude, – che fai lì al buio? Sei lì? Che fai? Mi pare che tu pianga! Tu sei matta, in verità mia, tu sei matta!

L'altra cominciò a singhiozzare convulsivamente.

– Ah! Ah! Ah! – disse la donna grossa, avanzandosi, come meravigliata e scandolezzata. – Lo avevo detto io che piangevi! Perchè piangi? Tua madre è giù che ti aspetta, e tu piangi lì come una matta che sei.

L'altra continuò a piangere più forte. La donna grossa appese il lume ad un lungo chiodo sul muro, si guardò attorno e cominciò a girare attorno alla piangente, cercando invano parole per confortarla. Non riusciva a dirle altro che:

– Ma sei matta, Giovanna, sei matta!

La camera dei forestieri (così è chiamata a Nuoro la stanza che in tutte le famiglie all'antica viene conservata per gli amici ospiti dei paesi vicini), era vasta, bianca, rozza, con un gran letto di legno, un tavolino coperto da un tappeto di percalle e adorno di chicchere e tazze di vetro; con moltissimi quadretti appesi in alto sulle pareti, quasi vicini al soffitto di legno non tinto. Dalle travi del soffitto pendevano grappoli d'uva raggrinzita e di pere gialle che piovevano una sottile fragranza. Bisaccie di lana, colme, dritte, stavano qua e là per terra.

La donna grossa, che era la padrona di casa, prese una di queste bisaccie, la portò più in là, poi la riportò sul posto donde l'aveva presa.

– Ecco, finiscila, – disse ansando per lo sforzo fatto, – che cosa vuoi farci? Non bisogna poi disperarsi; che diavolo, colomba mia; se il pubblico ministero ha chiesto i lavori forzati, non vuol dire che i giurati siano cani rabbiosi come lui…

L'altra continuò a piangere e scuoter la testa, e fra i singulti gridava:

– No… No… No…

– Sì! Sì! Ti dico che è sì! Alzati o chiamo tua madre, – gridò la donna, gettandosele sopra. E le sollevò a forza la testa.

Apparve un bel viso tondo e rosso, circondato da folti capelli neri scarmigliati, con due occhi neri gonfi e lucenti di pianto, e due sopracciglia nere foltissime, congiunte, arruffate.

– No! No! – gridava Giovanna, dibattendosi. – Lasciatemi pianger sulla mia sorte, zia Porredda mia…[1 - Porredda, femminile e diminutivo di Porru.].

– Che sorte o non sorte! Alzati.

– Non mi alzo! Non mi alzo! Lo condanneranno a trent'anni per lo meno. Voi non capite dunque che lo condanneranno a trent'anni?

– Questo sta a vedersi. Eppoi, cosa sono trent'anni? Ma tu sembri un gatto selvatico, sai?

L'altra strillava, si strappava i capelli, colta da un accesso di disperazione selvaggia. E gridava:

– Trent'anni! Cosa sono trent'anni? La vita di un uomo, zia Porredda mia! Voi non capite niente, zia Porredda! Andatevene, andatevene, lasciatemi sola, per amor di Cristo, andate via…

– Io non vado via! – protestò zia Porredda. – Un corno! Sono in casa mia, io! Alzati, figlia del diavolo, finiscila, che ti fa male! Aspetta a domani a strapparti i capelli, chè tuo marito non è ancora ai lavori forzati.

Giovanna riabbassò la fronte, e riprese a piangere un pianto calmo, accorato, che spezzava il cuore.

– Costantino mio, Costantino mio, – diceva con nenia, come cantano le prefiche davanti ad un morto, – tu sei morto per me, io non ti riavrò mai più, mai più. Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato, e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto sarà freddo, e la famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!

Davanti al dolore di Giovanna zia Porredda si commosse, ma non sapendo più che fare, uscì sulla loggia e chiamò:

– Bachisia Era, vieni su, chè tua figlia sta diventando matta!

S'udì un passo per la scaletta esterna; zia Porredda rientrò e dietro di lei venne una donna alta, tragica, vestita di nero, col capo avvolto in una benda nera, nel cui cerchio spiccava un viso giallo d'uccello rapace, con due punti verdi brillanti per occhi, infossati e circondati da sopracciglia nere selvaggie e da cerchi lividi.

La sua sola presenza parve dare una calma rigida alla figliuola.

– Alzati! – disse una voce rauca.

Giovanna si alzò: era alta, grossa eppure svelta, con dei fianchi stupendi. Le sottane di orbace con una fascia di porpora intorno ai fianchi, orlate di panno verde, cortissime, lasciavano vedere i piedi piccoli, calzati da stivalini elastici, e il principio di due gambe modellate.

– Perchè dài tanto fastidio a questa brava gente? – chiese la madre. – Finiscila un po', scendi giù a cena e non spaventare le ragazze e non turbare la gioia di questa brava gente.

La gioia di quella brava gente consisteva nel ritorno, per le vacanze, del figlio studente in legge, arrivato quella sera.

Giovanna parve capire e si calmò: si tolse dal capo il fazzoletto di lana, scoprendo una cuffia di vecchio broccato dalla quale scaturivano ondate di capelli nerissimi, e andò a lavarsi in un catino d'acqua deposto sopra una sedia. Zia Porredda guardò zia Bachisia, si strinse le labbra fra l'indice e il pollice della mano destra, accennando di far silenzio, e andò via senza far rumore.

L'amica obbedì; non disse parola, attese che Giovanna si fosse lavata e rimessa, poi entrambe scesero silenziose la scaletta esterna. S'era fatto notte, una notte calma, calda, profonda: alla piccola prima stella gialla erano seguite migliaia di astri argentei: la via lattea passava come un gran velo trapuntato di scintille, e un profumo aspro di fieno secco gravava nell'aria.

Nel cortile i grilli cantavano nascosti nel pergolato, e il cavallo ruminava sbattendo la sua zampa ferrata. In lontananza udivasi un canto melanconico.

La porta della cucina e quella d'una camera terrena, che per l'occasione serviva anche da stanza per pranzare, davano sul cortile ed erano spalancate. In cucina, accanto al focolare acceso, si vedeva zia Porredda intenta a condire dei maccheroni; e una bambina vestita con un signorile abitino nero, bionda, scarmigliata, scalza, che litigava con un bimbo vestito in costume, molto grasso e rosso come la nonna.

La bimba imprecava maledettamente, nominando tutti i diavoli; il bimbo cercava pizzicarla alle gambe.

– Finitela, – diceva zia Porredda. – Ah, ah, volete finirla, figli cattivi?

– Mamma Porru, questa ragazzina impreca, mi dice: al diavolo chi ti ha fatto nascere.

– Ah, ah, Minnìa, tu andrai all'inferno viva e sana, – rispose la nonna, senza voltarsi, rimescolando i maccheroni.

– Egli mi pizzica, mamma Porru, ahi, ahi, come mi pizzica!.. Che tu sii scorticato, immondezza, se ti afferro ti dò tanti schiaffi quanti capelli hai sul capo…

– Minnìa, che parlare è questo?..

– Egli mi ha rubato il portamonete, quello che ci ha il papa dipinto, quello che mi ha portato zio Paolo…

– Non è vero, no! Non mi far parlare, Minnìa, – gridò il bambino minaccioso, – in quanto a rubare…

La bimba tacque come per incanto; ma dopo un po' il bimbo prese un bastone e col manico ricurvo cominciò ad afferrarle una gamba, e Minnìa si mise a piangere; la nonna si voltò col mestolo in mano.

– In verità, io vi batto col mestolo, cattivi figliuoli. Aspettate, aspettate. – Li rincorse, ed essi scapparono nel cortile, andando ad urtare contro Giovanna e la madre.

– Che c'è, che c'è?..

– Ah, mi fanno disperare, essi sono indiavolati!.. – disse zia Porredda dalla porta di cucina.

In quel punto una figurina nera si staccò dal portone socchiuso e disse con voce commossa:

– Essi tornano, nonna, eccoli qui.

– E lasciali tornare. Faresti bene, Grazia, a dar attenzione ai tuoi fratelli, che si azzuffano fra loro come pulcini.

Grazia non rispose, ma poco dopo prese dalle mani di zia Bachisia il lume di ferro, lo spense e andò a nasconderlo dietro la panca di cucina, dicendo a bassa voce:

– Dovreste vergognarvi di queste candele, nonna, ora che c'è zio Paolo.

– Ma che zio Paolo; credi che egli sia stato allevato nell'oro?

– Egli viene da Roma…

– Un corno! A Roma lumi come questi non ce ne sono, perchè l'olio lo comprano a soldi, mentre noi ne abbiamo delle olle colme.

– State fresca voi se credete ciò, – disse la ragazza, e saltò nel cortile palpitando nell'udire la voce del nonno e dello zio.

– Giovanna, salute, zia Bachisia come state? – diceva la voce calda dello studente. – Io bene, grazie al Signore! Oh, mi dispiace tanto la vostra disgrazia: coraggio, chissà? è domani la sentenza?

Entrò nella stanza ov'era apparecchiata la tavola, seguìto dalle donne e dai bambini che la sua presenza intimoriva e divertiva nello stesso tempo.

Egli era piccolo e zoppicava alquanto, perchè aveva un piede più piccolo e una gamba un po' più corta dell'altra. Perciò lo chiamavano dottor Pededdu (piedino), ed egli non se n'aveva a male, perchè, diceva, val meglio avere un piede più piccolo dell'altro che avere la testa più piccola di quella degli altri.

Il suo visino roseo e tondo con due piccoli baffi biondastri, sorrideva sotto un gran cappello nero a cencio. Egli dicevasi socialista.

Entrato nella stanza si mise a sedere sul letto, a gambe sospese, e attirò accanto a sè, uno per parte, il nipote e la nipotina che lo guardavano a bocca aperta, stringendoli a sè, senza badarvi, dando attenzione al racconto doloroso che gli faceva zia Bachisia. Però di tanto in tanto osservava Grazia, la cui figurina tredicenne alta e angolosa, in formazione, veniva viepiù deformata da un vestitino nero troppo stretto. Gli occhi di lei, chiari e metallici, fissavano ostinatamente, avidamente lo zio.

– Ecco, – diceva zia Bachisia con la sua voce rauca, – il fatto andò così: Costantino Ledda aveva uno zio carnale, fratello del padre; si chiamava Basile Ledda soprannominato l'Avoltoio (Dio l'abbia in gloria, se non è fra le granfie del diavolo), tanto era avido di denari.

«Era un tristo, un avoltoio giallo, Dio l'abbia perdonato: basta, si dice che abbia fatto morire la moglie di fame. Ecco, Costantino restò sotto la sua tutela; aveva qualche cosa, il bimbo; lo zio gli mangiò tutto, poi lo bastonava, lo legava tra due pietre, in campagna, e lo lasciava al sole ed alle api che gli pungevano persino gli occhi.

«Basta, arrivò un giorno che Costantino scappò di casa; aveva sedici anni. Mancò tre anni: egli disse d'essere stato a lavorare nelle miniere, io non so, egli disse così.

– Sì, sì! Egli è stato a lavorar nelle miniere! – proruppe Giovanna.

– Non so! – disse la madre, stringendo la bocca in atto dubbioso. – Basta, fatto sta che durante l'assenza di Costantino fu su Basile l'avoltoio sparato un colpo di fucile mentre stava in campagna. È vero che egli aveva dei nemici. Quando Costantino tornò, confessò che era scappato per sfuggire alla tentazione di ammazzare lo zio, che aveva odiato a morte; ora però il giovane cercò e ottenne di far pace con l'avoltoio… Ora senti, Paolo Porru…

– Dottor Porru! Dottor Pededdu! – gridò il nipotino, correggendo l'ospite. Questa lo guardò con ira e fu per dargli uno schiaffo, un piccolo schiaffo; Giovanna si mise a ridere.

Nel veder ridere l'ospite addolorata, che aveva lo sposo in carcere e che quindi appariva circondata da un'aureola romantica, anzi tragica, la pallida e scarna Grazia si mise anch'essa a ridere nervosamente; anche Minnìa rise, anche il piccolo paesano e lo studente risero. Zia Bachisia si guardò attorno con occhi fosforescenti. Perchè ridevano? Erano matti? Alzò la mano gialla e magra, ma mentre stava per lanciare uno schiaffo, non sapeva bene se a sua figlia od al bimbo, ecco zia Porredda coi maccheroni fumanti.

Dietro di lei veniva zio Efes Maria Porru, uomo grosso, imponente, col petto molto stretto nel velluto turchino del giustacuore. Egli era un contadino che posava a letterato: aveva un faccione grigio che pareva un mascherone di marmo vecchio, con la corta barba a riccioli, le labbra grosse spalancate, e gli occhi grandi e chiari.

– Presto, presto a tavola! – disse zia Porredda, sbattendo il piatto in mezzo alla tavola. – Ah, voi ridete? Il piccolo dottore vi fa ridere?

– Io stavo per dare uno schiaffo a vostro nipote, – disse zia Bachisia.

– Perchè, anima mia? Venite dunque a tavola. Giovanna qui. Dottor Porreddu, venga qui.

Lo studente si gettò supino sul letto, stese le braccia, sollevò le gambe per aria, le riabbassò, si rialzò, balzò giù in piedi, sbadigliando.

E i ragazzi e Giovanna ricominciarono a ridere. Egli disse:

– Un po' di ginnastica fa bene. Oh Dio, come dormirò stanotte! Ho tutte le ossa slegate. Come ti sei fatta grande, Grazietta; sembri una pertica.

La ragazza arrossì e chinò gli occhi; zia Bachisia sporse il muso, scandolezzata perchè lo studente pensava a tutt'altro che alla storia da lei narrata, e perchè gli ospiti tutti facevano poco caso della disgrazia di Costantino. D'altronde anche Giovanna sembrava dimenticare, e solo quando zia Porredda le ebbe messo davanti una enorme porzione di maccheroni rosei fragranti di sugo, la giovine si rifece scura in volto e rifiutò di mangiare.

– Ve l'avevo detto io! – esclamò zia Porredda, meravigliata. – Essa è matta, in verità mia è matta! Perchè non mangiare ora? Che c'entra il mangiare, ora, con la sentenza di domani?

– Via, – disse zia Bachisia, non senza un po' d'acredine, – non far sciocchezze; non disturbar la gioia di questa brava gente.

E zio Efes Maria si mise signorilmente il tovagliuolo sotto il mento, e sputò la sua sentenza letteraria.

– Cuor forte contro la sorte, dice Dante Alighieri. Via, Giovanna Era, dimostra che tu sei un fiore delle montagne, più forte delle pietre. Il tempo appianerà ogni cosa.

Giovanna cominciò a mangiare, ma con un singhiozzo in gola che le impediva d'ingoiare le vivande.

Paolo stava zitto, curvo sul suo piatto: e questo era già pulito quando Giovanna arrivò a ingoiare il primo maccherone.

– Sei un vento, figlio mio, – disse zia Porredda. – Che fame da cane hai tu! Ne vuoi altri? Sì; e altri ancora? Sì?

– Oh bravo! – disse zio Efes – parrebbe che nella Città Eterna tu non abbia visto mai roba da mangiare.

– Eh, l'ho detto io, – affermò zia Porredda, – luoghi belli, se volete, ma là tutto si compra a soldi contanti. Io l'ho sentito dire, in verità mia: nelle case non ci sono provviste, come da noi, e quando nella casa mancano le provviste, voi sapete bene che non ci si sazia mai…

Zia Bachisia annuì, perchè purtroppo ella sapeva ciò che è una casa senza provviste.

– È vero o non è vero, dottor Porreddu?

– È vero, – egli diceva, mangiando e ridendo, e agitando le mani larghe e bianche dalle unghie lunghissime.

– Perciò egli è diventato una sanguisuga, un vampiro! – osservò zio Efes Maria, rivolto alle ospiti. – Non mi lascia una stilla di sangue nelle vene. Corpo del demonio, si mangia denaro a Roma!

– Ah, se sapeste, – sospirò Paolo, – tutto, tutto è così caro! Una pesca venti centesimi. Ah, ora sto bene!

– Venti centesimi! – dissero tutti ad una voce.

– Ebbene, zia Bachisia, e poi? Quando Costantino tornò?.. – chiese Paolo.

– Ebbene, Paolo Porru… ah, io continuo a darti del tu, sebbene tu sii fra poco dottore, perchè quando eri ragazzino ti ho dato persino qualche scappellotto…

– Non ricordo; andate avanti, – disse il giovine, mentre le narici di Grazia fremevano per la stizza.

– Ebbene, ti dissi che Costantino mancò tre anni e che…

– Stette nelle miniere; benissimo, poi ritornò e fece pace con lo zio.

– Ed ecco che vide Giovanna mia, questa ragazza, e s'innamorarono: lo zio non voleva, perchè la ragazza è povera. Ricominciarono ad odiarsi; Costantino lavorava per l'avoltoio, e l'avoltoio non gli dava un centesimo. Allora Costantino venne da me e disse: – io sono povero, non ho denari per comprare i gioielli alla sposa e per fare la festa e il banchetto delle nozze cristiane, e anche voi siete povere: ebbene, facciamo così, sposiamoci soltanto civilmente, per ora; lavoreremo assieme, accumuleremo la somma necessaria per la festa e ci sposeremo poi con Dio. – Siccome molti usano far così, lo facemmo anche noi. Si fece in silenzio il matrimonio civile e vivemmo assieme d'accordo. L'avoltoio schiantava dall'ira; egli veniva ad urlare persino nella nostra strada, e provocava da per tutto Costantino. E noi lavoravamo. Dopo la vendemmia, l'anno scorso, mentre preparavamo i dolci per le nozze, Basile Ledda fu trovato ammazzato nella sua casa. La sera prima Costantino fu visto entrare da lui: era andato per annunziargli le nozze e chiedergli pace. Ah, povero ragazzo! egli non volle fuggire come io gli consigliai. E fu arrestato.

– Perchè era innocente… mamma… mia…

– Ecco che quella sciocca ricomincia a piangere. Se non taci, io non dico più nulla, ecco. Ebbene, Costantino fu arrestato, ed ora si fa il dibattimento ed il pubblico ministero ha chiesto i lavori forzati. Ma è un cane quel pubblico ministero? Ci son delle prove è vero, fu visto entrare Costantino di notte, in casa dello zio, che viveva solo come un uccello selvatico che era; si ricordò il passato: tutto questo è vero, ma prove non ci sono. Costantino si mostrò pieno di contraddizioni e di rimorsi: egli dice sempre queste parole: è il peccato mortale. Perchè devi sapere che egli è un buon cristiano, e crede d'essere stato colpito dalla sventura perchè visse con Giovanna prima di essersi sposati religiosamente.

– Ma ditemi una cosa…

– Aspetta. Aggiungi che sposati religiosamente, poi, si sono. In carcere, sì, in carcere, anima mia, figurati che cosa orrenda. Non ricominciare a piangere, Giovanna, altrimenti ti butto in faccia questa saliera. Eccola lì la sciocca! Tutti dicevano: no, no, non sposarlo; se egli è colpevole e viene condannato tu potrai sposarne un altro…

– Ah, come siete vili!.. – urlò la giovine, con occhi fiammeggianti; ma lo sguardo acuto della madre si fissò sul suo ed ella tacque di nuovo.

– Lo dicevo io, forse? – chiese zia Bachisia. – No, lo dicevano gli altri, e lo dicevano per il tuo bene.

– Il mio bene, il mio bene, – si lamentò Giovanna, nascondendo il viso fra le mani. – Il mio bene è finito, è finito, è finito.

– Avete figli? – le chiese Paolo.

– Sì, uno. E se non ci fosse lui guai. Guai! Se Costantino verrà condannato e il bimbo non ci fosse, guai! guai! – E si ficcava le dita entro i capelli, al di sopra della fronte, e scuoteva la testa come una pazza.

– Tu ti ammazzeresti, cuor mio? – chiese la madre con ironia. Lo studente credette vedere qualche cosa di finto nel moto di Giovanna: la rassomigliò ad una famosa attrice, in una commedia francese, e parole scettiche gli uscirono dalle labbra, davanti al dolore della giovine donna.

– Ecco, – egli disse, – del resto ora è approvata la legge sul divorzio: ogni donna che ha il marito condannato può tornar libera.

Giovanna non parve neppure capire quelle parole, e continuò a scuoter la testa fra le mani; zia Porredda disse convinta:

– Sì, un corno! Neppure Dio può disfare un matrimonio!

Zio Efes Maria osservò, un po' beffardo:

– Già! L'ho letto sul giornale. Questo divorzio ora! Lo faranno in continente, dove, del resto, uomini e donne si maritano molte volte, senza bisogno di prete e di sindaco; ma qui, oibò!..

– No, babbo Porru, non è in continente, è in Turchia, – osservò Grazia.

– Anche qui, anche qui! – disse zia Bachisia, che aveva capito tutto.

Appena ebbero cenato, le Era uscirono per andare dall'avvocato.

– Dove le farete dormire? – chiese Paolo. – Nella camera dei forestieri?

– Sicuro. Perchè?

– Perchè veramente volevo starci io lassù: qui si soffoca. Qual migliore forestiero di me?

– Abbi pazienza fino a domani, figliolino mio. Esse sono povere ospiti…

– Oh Dio, che barbari costumi, quando finiranno? – egli chiese indispettito.

– Lo chiedo anch'io, – disse zio Efes Maria, che s'era messo a leggere il giornale. – Mi rompono le scatole queste donne. Ebbene, cosa ne dici tu del nuovo Ministero?

– Io me ne infischio, – egli rispose ridendo, perchè ricordava quel personaggio della Dame chez Maxim, delizia del teatro Manzoni, del quale egli era un habitué.

E andò a guardare certi libri che aveva riposti in una nicchia in fondo alla stanza. Minnìa e il fratellino erano usciti nel cortile; Grazia, seduta davanti alla tavola, coi pugni nelle guancie, guardava sempre lo zio. Ed egli le si rivolse:

– Tu leggi romanzi, non è vero?

– Io no, – diss'ella arrossendo.

– Ed io ti dico che se ti trovo io, leggendo certi libri, te li scaravento sul capo…

Le labbra di lei tremarono: per nascondere il suo pianto s'alzò ed uscì fuori, e sentì che i fratellini litigavano ancora a proposito del portamonete col papa.

– In quanto a rubare, – diceva il bambino, – tu stai zitta, perchè tu con quell'altra che è lì, quella pertica, oggi voi avete venduto del vino e vi siete tenute i soldi…

– Ah, bugiardo! – disse Grazia andandogli sopra, e lo picchiò mentre piangeva amaramente.

Intorno cantavano i grilli; il cavallo ruminava sbattendo la zampa sul selciato, le stelle piovevano un barlume latteo sul cortile caldo e fragrante di fieno secco.

– Essa è una povera orfana, non maltrattarla, – diceva zia Porredda a suo figlio, difendendo Grazia, (i tre ragazzi erano figli del figlio maggiore dei Porru, ricco pastore, e di una giovane morta un anno prima) – e se vuol leggere lasciala leggere.

– Sì, lasciala leggere! – affermò solennemente zio Efes Maria. – Ah, perchè non lasciarono leggere anche me quando era giovinetto? Sarei diventato astronomo, istruito come un prete.

Astronomo, per zio Efes Maria, era uomo coltissimo, savissimo, come a dire filosofo.

– Hai visto il papa, figlio mio? – chiese zia Porredda, per associazione d'idee.

– No.

– Come, tu non hai visto il papa?

– O che credete voi? Il papa sta dentro una scatola, e per vederlo bisogna pagare, pagare molto.

– Oh va! – ella disse – tu sei un miscredente.

E uscì nel cortile, dove i nipotini si bastonavano: piombò in mezzo a loro, li divise, li gettò uno per parte del cortile, gridando:

– In verità mia che siete tanti pollastri. Eccoli i pollastri, che Dio vi salvi. Cattivi figliuoli! Tutti cattivi!

I bambini singhiozzavano fra lo stridìo dei grilli, nella notte serena.




II


L'indomani mattina Giovanna fu la prima a svegliarsi: dal vetro infisso nella porta penetrava un roseo barlume d'aurora, e nel silenzio mattutino si udivano garrir le rondini.

Appena svegliata, la giovine provò un senso di dolcezza, ma tosto le parve che un rombo di tuono fortissimo l'avvolgesse. Ricordava.

Quel giorno doveva decidersi il destino del suo sposo. Ella aveva la certezza della condanna di Costantino, ma si ostinava a sperare ancora. Che egli fosse o no colpevole ella non pensava affatto, e forse non aveva pensato mai: solo la conseguenza del fatto, la separazione forse eterna da quell'uomo giovine, dalle forme svelte e forti come quelle d'un veltro, dalle mani liscie e le labbra ardenti, la martoriava. E nel ricordare sentì tanta angoscia che balzò incoscientemente dal letto e cominciò a vestirsi, dicendo con voce anelante:

– E tardi, è tardi, è tardi…

Zia Bachisia apri i suoi piccoli occhi di lucciola, ed anch'essa si alzò; ma sapeva bene ciò che doveva accadere quel giorno e il giorno dopo e un anno e due e dieci anni dopo, per non scalmanarsi. Si vestì, intinse le mani nell'acqua e se le passò sul viso una sola volta; poi s'asciugò e avvolse la benda sul capo con somma cura.

– È tardi, – ripeteva Giovanna. – Dio mio, è tardi…

Ma la calma della madre finì col calmare anche lei. Zia Bachisia scese in cucina e Giovanna la seguì; zia Bachisia preparò il caffè-latte e il pane per Costantino (essendo permesso alle due donne di recar da mangiare all'accusato), mise tutto in un canestro e s'avviò verso le carceri: e Giovanna la seguì.

Le vie erano deserte; il sole, appena sorto sulle cime granitiche dell'Orthobene, inondava l'aria di pulviscoli d'oro roseo; il cielo era così azzurro, e gli uccelli così lieti, e l'aria così calma e odorosa che pareva un mattino di festa, non ancora animato dalla gente e dal suono delle campane. Giovanna, attraversando la strada che dalla stazione (presso cui abitavano i Porru) conduce alle carceri, guardava i suoi violacei monti lontani, adagiati come un enorme diadema d'ametista sull'orlo delle grandi valli selvaggie, respirava l'aria piena di profumi selvatici, pensava alla sua piccola casa di schisto, al suo bambino, alla felicità perduta; e si sentiva morire.

La madre trottava avanti, col canestro sul capo. Arrivarono davanti alla mole rotonda, bianca e desolata delle carceri: nel silenzio e nella luminosità mattutina la sentinella immobile e muta pareva una statua: un cespuglio verde sorgeva accanto al muro del carcere, accrescendo la tristezza del luogo. Il portone verdognolo che di tanto in tanto si socchiudeva come la bocca d'una sfinge, s'aprì per inghiottire le due donne. Tutti là dentro, nell'antro orrendo, conoscevano le due sventurate; dal capo-guardiano, rosso e imponente, che sembrava un generale, all'ultima guardia pallida dai baffi biondi ritti, che aveva pretese d'eleganza.

Nell'andito buio e fetente si sentiva già tutto l'orrore dell'interno: le due donne non procedettero oltre; ma il guardiano pallido ed elegante venne a prendere il canestro, e Giovanna gli chiese sottovoce se Costantino aveva dormito.

– Sì, egli ha dormito, ma sognava, sognava. Diceva: Il peccato mortale.

– Ah, quel suo peccato mortale, che egli vada al diavolo!.. – disse zia Bachisia. – Dovrebbe finirla!

– Mamma mia, perchè lo imprecate? Non è egli abbastanza maledetto dalla sorte? – mormorò Giovanna.

Ritornate fuori, le due donne attesero l'uscita dell'accusato. Quando Giovanna vide i carabinieri che dovevano condurlo alla Corte, cominciò a tremare convulsivamente, sebbene anche i giorni avanti l'avesse visto uscire fra di loro. I suoi occhi neri s'allargarono, fissando il portone con uno sguardo pazzo. Minuti d'attesa spasmodica trascorsero: la bocca della sfinge si socchiuse ancora e fra i gendarmi dal viso grigio di granito e i lunghi baffi neri, apparve la figura di Costantino. Era alto ed agile come un giovane pioppo: due bende di capelli neri, lucidi e lunghi, incorniciavano il suo viso sbarbato d'una bellezza femminea, sbiancato dalla prigionia; aveva due grandi occhi castanei e una piccola bocca di fanciullo innocente. E la fossetta sul mento: sembrava un giovine Apollo.

Appena vide Giovanna, sebbene anch'egli aspettasse quel momento, si fece ancora più bianco e si fermò resistendo ai soldati. Giovanna gli si precipitò davanti e singhiozzando gli strinse la mano incatenata.

– Avanti, – disse un carabiniere, con voce dolce, – tu sai che non è permesso, buona donna.

Ma anche zia Bachisia s'era avvicinata, saettando il gruppo con lo sguardo dei suoi piccoli occhi verdi. I carabinieri si fermarono un istante, Costantino disse con voce ferma, quasi lieta:

– Coraggio! coraggio! – ed ebbe la forza di sorridere a Giovanna.

– L'avvocato ti aspetta là, – disse zia Bachisia mentre i carabinieri respingevano dolcemente le due donne.

– Buone donne, andate via, andate, – dissero, trascinando via l'accusato. Egli sorrise ancora a Giovanna, mostrando i denti bianchissimi fra le labbra fresche ma pallide, e s'allontanò fra le due figure che sembravano di granito.

Zia Bachisia a sua volta trascinò via Giovanna, che voleva seguire il marito; e la ricondusse in casa Porru per far colazione prima di recarsi alla Corte. Il sole inondava il cortile; sui pampini lucenti del pergolato, da cui pendevano lunghi grappoli d'uva acerba che parevano scolpiti in marmo verde, le rondini cantavano guardando il sole, e zio Efes Maria, montato sul suo cavallo baio, disponevasi a partire per la campagna. Che luce e che festa in quel cortile, cinto soltanto da un piccolo muro di pietre, e dal quale godevasi un vasto orizzonte! I bambini mangiavano la loro zuppa di caffè-latte seduti sul limitare della porta di cucina; Grazia era andata a mangiar la sua in un cantuccio, forse per non essere veduta dallo zio studente in quella prosaica operazione, mentre egli, in maniche di camicia, in piedi in mezzo al cortile, divorava il suo grande scodellone di zuppa. E zia Porredda gli lustrava le scarpe, tutta meravigliata per i racconti che andava narrandole il figliuolo.

– Come è grande San Pietro? (Bisogna spiegare che Paolo era stato solo quell'anno a Roma). Ebbene, è grande quanto una tanca. Non si può neppure pregare. Come si può pregare in una tanca? Gli angeli sono grandi come quella porta, gli angeli più piccini, sapete, quelli che sostengono la pila dell'acqua santa.

– Ah, allora bisogna metter la scala, per prender l'acqua.

– No, perchè essi sono inginocchiati, mi pare. Datemi un altro po' di caffè-latte, mamma. Ce n'è?

– Sicuro che ce n'è. Sei tornato ben affamato, piccolo Paolo mio: sembri un pesce-cane.

– Sapete quanto costa una zuppa così a Roma? Una lira, non meno. E il latte è acqua.

– Che sieno benedetti! È spaventevole ciò!

– Ah, sapete! Ho visto i delfini, in mare. Oh, come erano curiosi! Ah, ecco le ospiti. Buon giorno. Cosa avete fatto?

Giovanna raccontò l'incontro col marito, e voleva ricominciare a piangere, ma zia Porredda la prese per mano e la condusse in cucina.

– Oggi tu hai bisogno di forze, anima mia; mangia, mangia, – le disse, presentandole una gran tazza di caffè-latte.

Poco dopo le due donne uscirono per andare alla Corte d'Assise, e Paolo promise loro di raggiungerle.

– Coraggio! – disse zia Porredda, congedandosi da Giovanna.

Ella sentì già la condanna di suo marito nella voce dell'ospite, e andò via a testa bassa, come un cane frustato. Paolo la seguì con gli occhi, poi andò verso sua madre, zoppicando come un pulcino ferito, e le disse una cosa strana:

– Sentite. Non passeranno due anni che quella giovine riprenderà marito.

– Cosa dici, dottor Pededdu? – gridò la donna, che quando s'arrabbiava chiamava suo figlio col soprannome. – In verità mia, tu sei matto.

– Oh, mamma, io ho attraversato il mare! – disse egli. – Speriamo almeno che mi scelga per suo avvocato!

– Quel giovinetto! – diceva Giovanna a sua madre, mentre scendevano un ripido viottolo, – mangia come un cane, che Dio lo salvi.

Zia Bachisia camminava pensierosa, e rispose a denti stretti:

– Sarà un buon avvocato; rosicchierà i clienti fino all'osso: anzi li divorerà vivi e buoni.

Detto ciò tacquero entrambe. Ad un tratto zia Bachisia inciampò in un sassolino, e mentre inciampava, non si sa perchè, pensò che se Giovanna dovesse un giorno far divorzio, ella avrebbe pregato Paolo ad esser avvocato di sua figlia.

Erano le otto quando giunsero davanti la cattedrale, al cui fianco le piccole finestre del Tribunale riflettevano nei vetri la luminosità del mattino.

Nella piccola piazza di granito le due donne ritrovarono molti compaesani, testimoni del processo, alcuni dei quali le circondarono ripetendo la solita parola:

– Coraggio! coraggio!

– Ah, coraggio! Ma noi ne abbiamo, ma lasciateci in pace! – disse zia Bachisia, passando fiera come una cavalla indomita. Ella sapeva ben la strada e andò diritta all'aula triste e fatale.

Giovanna la seguì, seguirono i compaesani, uomini quasi tutti barbuti ed in rozzi costumi, ed entrò anche qualche curioso sfaccendato, ed anche una donna lunga e sdentata con gli occhi loschi.

I giurati, quasi tutti vecchi e grassi, sedevano già ai loro banchi; uno aveva un enorme naso aquilino, due con barbe folte e occhi selvaggi sembravano banditi, tre, aggruppati, con le teste vicine, ridevano leggendo un giornale.

Apparve il presidente, dal viso roseo circondato d'una scarsa barba bianca; il pubblico ministero, giovine, con baffi biondi diritti in un viso sanguigno di prepotente; il cancelliere, l'usciere: nelle toghe nere a Giovanna essi parevano maghi, feroci maghi venuti lì per stregare fatalmente il povero Costantino.

Egli stava nella gabbia, come un grande uccello fremente, tra le figure granitiche dei carabinieri, e guardava verso Giovanna, ma senza più sorriderle. Sembrava oppresso da cupa tristezza, e davanti a quegli uomini arbitri del suo destino, i suoi occhi limpidi di bambino s'offuscavano di terrore.

Anche Giovanna si sentì prendere il cuore da una mano di ferro; a momenti quella stretta le dava punture di dolore fisico.

L'avvocato, un piccolo giovine giallo-roseo, aveva cominciato a parlare con vocina stridula e femminile. La sua difesa era stata già abbastanza disgraziata: ora egli ripeteva le cose già dette, e le sue parole cadevano nel vuoto, come stille d'acqua in un gran vaso senza eco.

Il pubblico ministero dai baffi dritti conservava la sua aria insolente; qualche giurato credeva di far molto mostrando un viso paziente; gli altri, a giudicarli bene, si capiva che neppure ascoltavano. Soltanto zia Bachisia e Giovanna e l'accusato ponevano mente alla replica della difesa, e più l'avvocato parlava più si sentivano perduti.

Qualche altra persona giungeva, ponendosi dietro Giovanna, che ogni tanto volgevasi vivacemente per vedere se Paolo veniva. Non sapeva perchè, ma lo aspettava ansiosamente, quasi la presenza dello studente potesse giovare all'accusato.

Quando l'avvocato tacque, Costantino balzò in piedi, si fece rosso e chiese di parlare.

– Ecco… ecco… – disse con voce incerta, additando il difensore, – il signor avvocato ha parlato… mi ha difeso… ed io lo ringrazio; ma non ha parlato come volevo io… non ha detto, ecco, non ha detto…

Si fermò anelante.

Il presidente disse:

– Aggiungete pure alla vostra difesa tutto ciò che credete.

L'accusato rimase pensieroso ad occhi bassi, rifacendosi pallido: poi si passò la mano un po' convulsa sulla fronte, quasi graffiandosi, e sollevò il capo.

– Ecco, – cominciò a voce bassa, – io, io… – Non potè proseguire; strinse il pugno, si volse inviperito verso l'avvocato e gridò con voce tonante:

– Ma lo dica dunque che sono innocente, che sono innocente io!

L'avvocato mosse una mano accennandogli di calmarsi; il presidente sollevò le sopracciglia come per dire: – ma se egli lo ha detto cento volte; è colpa nostra se non possiamo crederci? – e un singulto di donna fremette per la sala.

Era Giovanna che piangeva: zia Bachisia la trasse fuori riluttante e piangente, e tutti, tranne il pubblico ministero, diedero uno sguardo alla lotta delle due donne.

Poco dopo la Corte si ritirò per deliberare.

Zia Bachisia, seguita da due compaesani, trasse Giovanna sulla piccola piazza, ed invece di confortarla si mise a sgridarla. Che era pazza del tutto? Voleva che la cacciassero via con la forza?

– Se non stai zitta ti dò tanti pugni, in fede mia, – concluse.

– Mamma mia, mamma cara, – singhiozzava l'altra, – me lo condannano, me lo perdono, che essi siano maledetti, ed io non posso far nulla, io non posso far nulla…

– Cosa volete farci? – disse un compaesano. – Non potete far nulla come è vero che son vivo. Abbiate pazienza. E del resto aspettiamo ancora un po'…

In quel momento apparvero tre figure nere, una delle quali rideva e zoppicava. Era Paolo Porru fra due giovani preti suoi amici.

– Eccola là, – disse lo studente. – Pare glielo abbiano già condannato.

– In mia coscienza, osservò uno dei preti – pare davvero una puledra: e dà anche dei calci, pare…

L'altro cominciò a guardar Giovanna con curiosità; poi tutti e tre i giovani amici si avvicinarono alle Era, e Paolo chiese se il dibattimento era finito.

Uno dei preti chiese:

– È quello che ha ucciso lo zio?

L'altro continuava a guardar Giovanna che andava calmandosi.

– Egli non ha ammazzato nessuno! – disse fieramente zia Bachisia, – Assassini sarete voi, corvi neri.

– Se noi siamo corvi, voi siete una strega, – rispose il giovine prete.

E qualcuno dei presenti rise.

Intanto Giovanna, che alle esortazioni di Paolo s'era calmata, promise di non far scene se la lasciavano rientrare nella sala. Rientrarono tutti assieme; mentre i giurati riprendevano i loro posti, dopo breve deliberazione.

Un silenzio profondo gravò sulla sala calda e cupa: Giovanna udì una mosca ronzare intorno ad un ferro della finestra; poi le parve che tutte le sue membra s'appesantissero, che lungo il corpo, lungo le gambe, lungo le braccia le si infilzassero delle spranghe di ferro gelido.

Il presidente lesse la sentenza con voce bassa e indifferente, mentre l'accusato lo guardava fisso, col respiro sospeso. Giovanna udiva sempre il ronzar della mosca, e provava un impeto d'odio verso quell'uomo roseo dalla barba bianca, non per ciò che leggeva, ma perchè leggeva con voce bassa ed indifferente. E quella voce bassa e indifferente condannava a ventisette anni di reclusione l'omicida che aveva premeditato lungamente il delitto e lo aveva compiuto sulla persona d'uno zio carnale suo tutore.

Giovanna era tanto sicura d'una condanna a trenta anni che ventisette le parvero assai di meno; ma fu un istante: subito calcolò che tre anni, in trenta, contavano niente, e si morsicò le labbra per non urlare. La vista le si ottenebrò, con uno sforzo disperato di volontà guardò Costantino e vide, o le parve vedere, il viso di lui grigio e invecchiato, e gli occhi di lui velati e smarriti nel vuoto. Ah, egli non la guardava; non la guardava più neppure! Era già diviso da lei per l'eternità. Era morto, essendo ancor vivo. E l'avevano ucciso quegli uomini grossi e pacifici che stavano ancora lì indifferenti, in attesa d'un'altra vittima. Ella sentì smarrire la ragione: all'improvviso udì grida selvagge echeggiare per la sala, qualcuno l'afferrò e la trascinò fuori nella piazza gialla di sole.

– Ma possibile, figlia mia? Ma tu sei pazza? Tu urli come una bestia; – disse zia Bachisia, trascinandola pel braccio. – A che pro poi? C'è l'appello, ora, c'è la cassazione, anima mia, sta' quieta!

Tutto questo accadde in pochi istanti. Tutti i testimoni, l'avvocato, Paolo Porru, circondarono le due donne e cercarono consolarle. Giovanna piangeva senza lacrime, con singhiozzi aridi che le tagliavano il petto: parole sconnesse, di tenerezza per Costantino, di minaccia per i giurati, le uscivano dalle labbra tremanti.

Pregò la lasciassero almeno assistere all'uscita del condannato, e attese. Egli apparve, infine, fra i due carabinieri freddi e impassibili; livido, curvo, con gli occhi infossati, improvvisamente invecchiato.

Giovanna gli si precipitò innanzi, e siccome i carabinieri non si fermavano, procedette alcuni passi di sghembo, rivolta al condannato, sorridendogli, dicendogli che la cassazione avrebbe rimediato tutto e che ella venderebbe anche la camicia pur di salvarlo. Egli la guardava con occhi spalancati pieni di stupore, e siccome i carabinieri lo spingevano ed uno di essi diceva:

– Va' via, buona donna, va' via, abbi pazienza; – anch'egli disse:

– Va' via, Giovanna: cerca di ottenere il colloquio prima che mi portino via: e… porta il bimbo… e fa coraggio.

Ella ritornò con sua madre in casa degli ospiti. Zia Porredda abbracciò le due donne e si mise a piangere; poi parve arrabbiarsi della sua debolezza e cercò rimediarvi.

– Ebbene, ventisette anni che sono essi? E se lo condannavano a trenta non era peggio? Voi volete partire? Con questo sole? Voi siete matte, in verità mia, io non vi lascerò partire.

– No, – disse zia Bachisia, – partiamo, perchè partono anche gli altri compaesani che ci terran compagnia. Ma Giovanna, se non vi disturba, tornerà fra qualche giorno col bambino.

– Che voi siate benedette: la nostra casa è la vostra.

Si misero a tavola, ma Giovanna non mangiò, pur tenendosi calma: per due o tre volte zia Porredda tentò parlare di cose indifferenti, chiese se il bambino aveva messo i primi dentini, osservò che forse gli nuocerebbe farlo viaggiare con quel sole, poi chiese se al paese delle Era la raccolta dell'orzo era stata abbondante.

Una gran pace regnava nel cortile, pieno di sole qua e là ricamato dall'ombra del pergolato. Le rondini venivano e volavano, cantando. – Paolo leggeva il giornale e mangiava: Grazia e Minnìa (il fratellino era andato via col nonno) coi loro abitucci neri stretti, scarmigliate, a metà del pranzo socchiudevano già gli occhi, colte dalla sonnolenza del meriggio, e le parole di zia Porredda cadevano nel vuoto, in quel silenzio, in quella pace luminosa, dove la figura tragica di zia Bachisia e il muto dolore di Giovanna sorgevano solenni.

Appena finito il pranzo le due donne sellarono il loro cavallo, prepararono le loro bisaccie e si congedarono. Paolo promise di sollecitare il loro avvocato per il ricorso in cassazione, e appena esse furono scomparse si mise a giocare con Minnìa per scuoterla dal sonno invadente, facendo il pazzo: rideva sfrenatamente, scuotendosi tutto, ed all'improvviso taceva, diventava cupo, con gli occhi fissi, poi ricominciava a ridere.

Le ragazze si divertivano; cominciarono anch'esse a ridere pazzamente, e tutto il cortile luminoso, e tutta la casetta tranquilla, liberata dalla presenza tragica delle ospiti addolorate, echeggiò di letizia nella gran pace del meriggio.




III


Le Era viaggiavano sotto il gran sole di luglio. Dovevano scendere la valle, percorrerne il fondo, risalirla e poi ascendere le montagne violacee che chiudevano l'orizzonte, ove i picchi selvaggi svanivano nel cielo reso d'una chiarezza cinerea dai vapori estivi.

Era un triste viaggio. Le due donne cavalcavano su uno stesso cavallo, mansueto e melanconico; dei compagni di viaggio chi precedeva e chi seguiva, sbandati, oppressi dal caldo, dal silenzio, dal dolore. Essi soffrivano per la condanna di Costantino, quasi quanto le due donne; tacevano rispettando l'angoscia muta di Giovanna, e se osavano parlare, la loro voce si smarriva senza vibrazioni, nel gran silenzio dell'ora e del paesaggio. Cammina cammina, la valle scendeva giù verso un torrente essiccato, per sentieri non precipitosi ma selvaggi, tracciati appena su chine inaridite, fra roccie, macchie polverose, stoppie gialle e melanconiche. Alberi strani, selvaggi e solitari come eremiti, sorgevano a grandi intervalli, muti e immobili su sfondi di una lucentezza desolante: la loro ombra cadeva per terra come l'ombra di una nuvola solitaria, smarrita, spaventata dalla luce immensa che interrompeva. E qualche strido di uccello selvatico sorgeva da quell'ombra, ed anche quel grido, prima acuto, pareva poi affievolirsi, vinto dal silenzio che interrompeva.

I grandi fiori dei cardi, d'un violetto vivo, le campanelle rosee dei vilucchi, le stelle color lilla delle malve, sfidanti il sole, accrescevano il senso di desolazione della valle. E giù e su serpeggiavano lunghe, infinite muriccie di pietra coperte di musco secco giallastro, saettate dal sole: campi di frumento non ancora mietuto, le cui spighe gialle parevano mazzi di spine, chiudevano la tacita lontananza. E cammina, cammina, Giovanna sentiva ardere la sua testa sotto il fazzolettone di lana bruciata dal sole, e lagrime silenziose le rigavano il volto. Ella sforzavasi di non farsi sentire a piangere da sua madre, che stava a cavalcioni in sella, mentre ella sedeva sulla groppa del cavallo – ma zia Bachisia vedeva, zia Bachisia udiva anche a spalle voltate, e oramai non ne poteva più.

– Senti, anima mia, – disse ad un tratto, mentre attraversavano il fondo della valle, fra grandi macchie di oleandri fioriti, – non potresti fare la carità di finirla? Perchè piangi? Non lo sapevi forse da molti e molti mesi?

Invece di finirla, Giovanna singhiozzò forte: allora zia Bachisia vedendo che i compagni di viaggio erano tutti lontani, si sfogò con voce bassa, rauca, che a Giovanna arrivava come da lontano, sfumata nel gran silenzio del luogo.

– Non lo sapevi tu, anima mia? possibile che tu sia così sciocca? Ha egli sì o no ammazzato l'avoltojo crudele? Sì, egli lo ha ammazzato…

– Egli non ha mai detto ciò – osservò Giovanna.

– Mancava soltanto che egli fosse così matto da dirlo, anche! Guarda un po', anima mia, mancava ciò soltanto! D'altronde io ero certa che egli, un giorno o l'altro, avrebbe schiacciato l'avoltojo come si schiaccia la vespa che ci ha punto. Tu dici che Costantino è un buon cristiano? Anima mia, ora tu sai un po' cosa sia l'odio. Ammazzeresti tu, sì o no, gli uomini che hanno condannato Costantino? Ebbene, egli ha ammazzato l'avoltojo, ed io lo compatisco, fino a un certo punto, perchè io conosco il cuore umano. Ma non gli ho perdonato, e non gli perdonerò mai la sua imprudenza. Ah, questo no, per amor di Dio! Egli aveva moglie e figlio, egli doveva far la cosa con prudenza, se voleva farla. E ora basta, e ora finiscila. Tu sei giovine, Giovanna, anima mia; figurati che egli sia morto.

– Ah, egli non è morto! – disse Giovanna con disperazione.

– Ebbene, allora appiccati. Ecco, vedi là quell'albero? Va e appiccati là. Ma non tormentarmi oltre! – esclamò zia Bachisia, alzando la voce. – Sei stata sempre il mio tormento. Se tu avessi sposato Brontu Dejas avresti fatto bene. No, tu hai voluto quel mendicante. Ebbene, ora va e appiccati.

Giovanna non rispose. In fondo anch'ella credeva Costantino colpevole, ma da molto tempo lo aveva perdonato; davanti al suo dolore non esisteva che la condanna, e non sapeva capacitarsi come semplici uomini potessero così disporre della vita d'un loro simile. Ah, come ella odiava la loro misteriosa potenza! La odiava come odiava i fantasmi terribili, mai visti ma spesso sentiti, che popolavano le notti di tempesta.

E cammina cammina, si risalì la valle, si cominciò a salir le montagne; il sole calava, l'orizzonte si apriva, il cielo intenerivasi, il paesaggio perdeva la sua crudele desolazione. Lunghe ombre calavano dalle cime, stendendosi come tappeti sulle basse macchie cenerognole dove fioriva ancora qualche rosa canina: spiravano soffi di vento, pieni di odori selvatici. L'anima si consolava in quell'improvviso refrigerio di ombra e di frescura. Un compagno di viaggio s'avvicinò alle due donne e cominciò a raccontare una storiella di non so quali avventure strane capitate una volta, in quelle vicinanze, ad un suo amico: e ad un certo punto la storiella diventò così amena che Giovanna sorrise vagamente.

E cammina cammina, venne il tramonto, e dall'alto delle montagne si vide il mare, steso come una fascia di vapori azzurrognoli nel chiaro orizzonte. Al di là delle brughiere, formate di macchie così potenti che resistono ai pazzi venti invernali ed alle saette del solleone, sugli altipiani melanconici, sorgenti come isole sconosciute in un mare di luce e di solitudine, sta il paesello delle Era, Orlei, nido di gente bella, forte e selvatica, dedita alla pastorizia e alla coltivazione del grano e del miele. I pascoli verdi, intersecati di roccie, in primavera folti di asfodelo e fragranti di menta e di timo, e i campi di frumento raggiungono e circondano il piccolo gruppo delle casette costrutte di pietra schistosa, lucente come argento brunito; e grandi alberi ombreggiano qua e là quel nido di quaglia posato fra il grano: in lontananza si vedono verdi linee di tamerice, foreste di timo e di corbezzoli, e gli sfondi infiniti dell'altipiano, stesi sotto un cielo chiaro di una dolcezza e d'una tristezza indicibili. A destra, su questo stesso cielo, posano, come immense sfingi, azzurre al mattino, color lilla al meriggio, e violacee o bronzine alla sera, le montagne solitarie, rigate di foreste, animate da aquile e da avoltoj.

Le Era giunsero al paese verso sera, quando appunto monte Bellu, il colosso delle sfingi, svaporava violaceo sul cielo cinereo. Il paesello era già deserto e silenzioso; sul selciato rozzo delle strade il passo dei cavalli risuonava come pioggia di pietre.

I compagni di viaggio si sbandarono di qua e di là, e le due donne arrivarono sole davanti alla loro casetta che sorgeva in una spianata sopra lo stradale. Un'altra casa, tinta di bianco, la sovrastava. Un gran mandorlo, rasente ad un tratto di muriccio a secco che partiva dalla cantonata di casa Era, sporgevasi sul sottostante stradale, al di là del quale cominciavano i campi.

Qua e là sulla spianata, sotto il mandorlo, davanti alla casetta scura delle Era e davanti alla casa bianca dei Dejas, posavano grosse pietre che servivano da sedili. La spianata, così, era un gran cortile comune a tutto il vicinato.

Appena arrivata, Giovanna si lasciò scivolare dal cavallo, e indolenzita e curva andò verso una donna, una parente alla quale aveva lasciato in custodia la casa ed il bimbo, che le veniva incontro col piccino fra le braccia. Glielo tolse, se lo strinse fra le braccia, e ricominciò a piangere, nascondendo il viso sulla piccola spalla del bambino. Ora il suo pianto era calmo, d'una disperazione profonda: le pareva che il dolore sino allora provato fosse nulla in confronto al dolore che provava ora. Il bambino, di appena cinque mesi, con un visetto un po' ruvido e due piccoli occhi violacei lucenti, con una cuffia dura, rossa, circondata di frangie che nascondevano la piccola fronte, aveva riconosciuto la madre, e le aveva afferrato forte forte un lembo del fazzoletto, scuotendo i piedini e facendo:

– Ah, aah, aaah…

– Malthinu mio, Malthineddu mio, mio solo bene in terra, il tuo babbo è morto… – disse Giovanna piangendo.

La parente capì che Costantino era stato condannato a gravissima pena e cominciò a piangere anche essa. Zia Bachisia sopravvenne, spinse Giovanna entro casa e pregò la parente d'aiutarla a scaricare il cavallo; diceva con voce bassa:

– Siete pazze, davvero. C'è bisogno di pianger così, davanti a quella casa bianca? Vedo la testa d'uccello di comare Malthina. Ah, essa sarà contenta del nostro male…

– No, – disse la parente, – essa è venuta più volte ad informarsi di Costantino e si è mostrata dolente: mi disse d'aver sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.

– Ah, è il dolore del cane rabbioso: eh, io la conosco la vipera velenosa, essa non può perdonarci. D'altronde, – soggiunse, avviandosi verso la porta con la bisaccia sulle spalle, – essa ha ragione; e non ce la possiamo perdonare neppure noi.

Zia Martina Dejas era la proprietaria della casa bianca e madre di quel Brontu Dejas che aveva già chiesto la mano di Giovanna ottenendone un rifiuto. Era molto benestante, ma avara, e zia Bachisia s'ingannava assai credendosi odiata da lei, perchè la vecchia Dejas era rimasta indifferente al rifiuto.

– Ecco, – disse zia Bachisia, quando il cavallo fu scaricato, – fammi ancora un piacere, Maria Chicca, va e riconducile il cavallo; e diglielo pure che Costantino è stato gettato per ventisette anni in reclusione: poi osserva il viso che fa.

La parente prese subito la briglia del cavallo che era stato preso a nolo dai Dejas, e andò verso la casa bianca. Questa casa, che i Dejas avevano acquistato pochi anni prima all'asta, espropriata ad un mercante fallito, era grande e comoda, preceduta da un portico quasi signorile, dove zia Martina lasciava passeggiare i majaletti e le galline. Non era una casa per pastori selvatici come i Dejas, e il rozzo arredamento delle stanze, composto di letti di legno, altissimi e duri, di arche rozzamente scolpite, di sgabelli e sedie pesanti, lo dimostrava.

Zia Martina stava nel portico, e filava ancora (ella sapeva filare anche al buio) quando Maria Chicca le ricondusse il cavallo. La casa era completamente deserta, perchè Brontu ed i servi erano in campagna, e zia Martina non aveva domestiche. Ella aveva altri figliuoli e figliuole maritate, coi quali viveva in continuo dissidio a causa della sua avarizia. Quando in casa c'era molto lavoro chiamava persone del vicinato, spesso anche Giovanna e sua madre, compensandole malamente con derrate avariate. Queste persone erano tanto povere che si contentavano di tutto.

– Ebbene, come è andata? – chiese, deponendo il fuso e la piccola conocchia sul sedile del portico. Aveva una voce sottile e nasale, due occhi rotondi, chiari, vicini, su un naso finissimo e aquilino, e la bocca ancora fresca e rossa. – Tu piangi, Maria Chicca? Ho visto tornare le due povere donne, ma non ho osato avvicinarmi, perchè stanotte ho sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.

– Me lo avete già detto, zia Malthina. Ah, no, lo hanno condannato a ventisette anni…

Zia Martina parve contrariata, non perchè odiasse Costantino, ma perchè credeva infallibilmente ai suoi sogni. Prese la briglia del cavallo, e disse:

– Se posso vado dalle Era questa sera stessa, ma non so se potrò andarci perchè aspetto un uomo, già servo di Basilio Ledda, che deve entrare al mio servizio. Egli è stato testimonio; credo però sia già tornato da Nuoro.

– Credo, – disse l'altra andandosene; e appena rientrata dalle parenti cominciò a raccontare che zia Martina era dolentissima, che aveva sognato la condanna di Costantino ai lavori forzati, e che Giacobbe Dejas (questo Dejas povero era cugino in secondo grado dei Dejas ricchi) doveva entrare al servizio dei vicini.

Giovanna allattava il bambino, guardandolo con dolore, e non sollevò neppure il capo; zia Bachisia invece volle sapere molte cose: se la vecchia Dejas era sola, se filava, se filava al buio, ecc.

– Senti dunque – disse poi a Giovanna – ella verrà forse stasera.

Giovanna non rispose, non si mosse.

– Non odi dunque, anima mia? – gridò la madre stizzita. – Verrà stassera.

– Chi? – domandò Giovanna, come uscendo da un sogno.

– Malthina Dejas.

– Ebbene, che essa vada al diavolo!

– Chi deve andare al diavolo? – domandò dalla porta una voce sonora. Era Isidoro Pane, un vecchio pescatore di sanguisughe, parente delle Era, che veniva a far le sue condoglianze. Alto, con una lunga barba giallastra, occhi azzurri, un rosario d'osso alla cintura, un lungo bastone e un involto in cima al bastone, zio Isidoro sembrava un pellegrino: era il più povero ed il più savio e tranquillo degli abitanti di Orlei. Quando voleva imprecare diceva: —

– Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe!

Egli era stato grande amico di Costantino, col quale tante volte aveva cantato in chiesa le laudi sacre; ed anzi le Era lo avevano designato come testimonio di difesa, perchè nessuno meglio di lui poteva dire le buone qualità dell'accusato; ma era stato scartato. Che mai contava, davanti alla giustizia grande e potente, un povero pescatore di sanguisughe?

Appena lo vide, Giovanna s'intenerì e ricominciò a singhiozzare.

– Sia fatta la volontà di Dio, – disse Isidoro, poggiando al muro il suo bastone. – Abbi pazienza, Giovanna Era, non disperare di Dio…

– Voi sapete? – chiese Giovanna.

– Ho saputo. Ebbene? Egli è innocente, e ti dico che sebbene oggi l'abbiano condannato, domani può risultare la sua innocenza.

– Ah, zio Isidoro, – disse Giovanna, scuotendo il capo, – non credo più alla vostra fiducia. Ci ho creduto fino a ieri, ma ora non posso crederci più.

– Tu non sei buona cristiana; questi sono gli insegnamenti di Bachisia Era…

Zia Bachisia, che vedeva di mal occhio il pescatore, e temeva sempre che egli le lasciasse in casa dei brutti insetti, si volse adirata, e stava per ingiuriarlo, quando entrò un altro uomo, poi delle donne, poi altri uomini ancora.

In breve la casetta fu piena di gente, e Giovanna, sebbene si sentisse stanca anche di piangere, credè suo dovere singultare e strillare disperatamente.

Zia Bachisia attendeva la ricca vicina, ma costei non venne: venne invece Giacobbe Dejas, quel tal servo che doveva contrattare con zia Martina. Egli era un allegro uomo sulla cinquantina, di aspetto comune, piuttosto basso e scarno, sbarbato, senza sopracciglia e senza capelli, con due piccoli occhi obliqui molto furbi e d'un colore incerto tra il verde e il giallo. Da venti anni servo di Basilio Ledda, aveva testimoniato in favore di Costantino raccontando i maltrattamenti che Basilio usava al nipote, e come il vecchio avaro, che malmenava anche i servi e le donne, il giorno prima di morire avesse bastonato e preso a calci lui, Giacobbe Dejas.

– Malthina Dejas ti aspetta, – gli disse zia Bachisia. – Va.

– Che il diavolo le scortichi il naso, io ci andrò, – rispose Giacobbe, – ma ho paura di cadere dalla padella nella brace. Essa è avara più di quanto lo fosse colui.

– Se essa paga, non devi giudicare le sue azioni, – disse una voce sonora.

– Ah, siete lì, zio Isidoro, – disse Giacobbe con voce di scherzo sprezzante. – Ebbene, come vanno i vostri affari? Son ben punte le vostre gambe?

Isidoro si guardò le gambe avvolte in istracci (egli le immergeva nell'acqua stagnante, le sanguisughe vi si attaccavano, e così egli le pescava), poi rispose con dolcezza:

– Questo non deve importarti. Ma non sta bene che tu imprechi la donna della quale mangerai il pane.

– Io mangerò il mio pane, non il suo. Ma questi sono affari nostri. Ebbene, Giovanna, fa coraggio, che diavolo! Ricordi la storiella che ti ho raccontato mentre tornavamo da Nuoro? Fa da savia, via, per questo marmocchio. No, Costantino non morrà in reclusione, te lo dico io. Dammi il bambino.

E si chinò, ma visto che il bambino dormiva, si rialzò e mise un dito sulle labbra.

– Zia Bachisia, – disse (egli dava del voi e dello zio anche ai più giovani di lui), – fatemi il piacere, mandate a letto vostra figlia. Essa non ne può più. Brava gente, – disse poi agli astanti, – facciamo una cosa, andiamocene via.

A poco a poco tutti se ne andarono. Allora zia Bachisia prese lo sgabello dove erasi seduto Isidoro Pane, lo portò fuori e lo pulì: poi rientrò e dovette scuoter Giovanna, caduta in una specie di sonno, per farla andare a letto. La giovine spalancò gli occhi rossi e vitrei, e s'alzò, col bimbo fra le braccia.

– Va a letto, – le impose la madre.

Ella guardò la porta e mormorò:

– Ah, egli non torna; egli non tornerà mai più. Mi pareva di aspettarlo…

– Va a letto, va a letto… – disse la madre, con voce viepiù rauca.

La spinse, prese il vecchio lume d'ottone, aprì l'uscio. La casetta era composta della cucina col solito focolare di pietra nel mezzo ed il forno in un angolo, e due stanze miseramente arredate. Il letto di Giovanna era di legno, alto e duro con una coperta di percalle rosso. Zia Bachisia prese il piccolo Martino, che pianse un pochino senza svegliarsi, e lo depose sul letto, cullandolo con le mani finchè Giovanna si fu coricata.

E quando Giovanna si fu coricata, a testa nuda, con le belle treccie annodate intorno al capo come una antica romana, la madre la coprì con cura e uscì via. Appena uscita lei, la giovine rigettò la coperta e cominciò a lamentarsi incoscientemente. Era rotta dal dolore e dalla stanchezza, aveva sonno ma non poteva addormentarsi completamente: visioni confuse le passavano per la mente; e quasi non bastasse la sua angoscia morale, sentiva, a intervalli, acutissimi dolori ai denti e alle tempia. Ogni volta che questo spasimo l'assaltava, le pareva che le venisse addosso un'ondata d'acqua bollente, causandole un terrore indefinibile. Fu una notte orribile, orribile.

Dalla stanzetta attigua, di cui lasciò l'uscio aperto, zia Bachisia udiva Giovanna lamentarsi e delirare, rivolgendo a Costantino parole d'amore insensato, e minacciando di morte i giurati che l'avevano condannato.

Zia Bachisia vegliava, aveva la mente lucida, la visione netta di tutto ciò che era accaduto e che doveva accadere; e s'arrabbiava contro il dolore di Giovanna, ma nello stesso tempo anch'essa finalmente piangeva.




IV


L'indomani a sera, – un sabato, – Brontu Dejas rientrò di campagna, e appena smontato da cavallo cominciò a brontolare. In famiglia egli brontolava sempre, mentre con gli estranei mostravasi amabilissimo; del resto era un buon diavolo, giovine e bello, molto nero e molto magro, di media statura, con la barba rossa, corta e ricciuta. Aveva bellissimi denti e quando conversava con donne sorrideva continuamente per mostrarli.

Rientrando di campagna, il sabato sera, cominciò a brontolare perchè la madre non aveva acceso il lume nè preparata la cena; e forse non aveva torto, perchè infine egli era un lavoratore, e dopo una settimana di fatica, quando il sabato egli rientrava in paese, trovava sempre la casa buia e squallida come quella d'un pezzente.

– Eh! Eh! Sembra la casa di Isidoro Pane – diceva, scaricando il cavallo. – Accendete dunque il lume, almeno, chè non ci si vede neppure per imprecare. Che c'è da mangiare? – chiese poi.

– Ci son delle uova, ecco, e del lardo, figlio mio, abbi pazienza – disse zia Martina. – Sai che Costantino Ledda è stato condannato a trent'anni?

– A ventisette. Ebbene, queste uova? Quel lardo è rancido, mamma mia; perchè non lo buttate alle galline? Alle galline! – ripetè, stringendo i bei denti per la stizza.

Zia Martina rispose tranquillamente:

– Non ne mangiano. Sì, a ventisette anni. Ah, son lunghi ventisette anni! Io sognai che lo avevano condannato ai lavori forzati.

– Ci siete stata voi da quelle donne? Ah! ora saranno contente del loro matrimonio, quelle immonde pezzenti, – diss'egli con curiosità; ma appena la madre ebbe detto che c'era stata, che Giovanna si disperava e si strappava i capelli, e che zia Bachisia le aveva fatto capire d'essersi pentita di non aver affogato la figliuola prima di permetterle quel matrimonio, Brontu si arrabbiò.

– Perchè ci andate, voi? Che avete voi da fare nella tana di quei pidocchi affamati?

– Ah, figlio mio, la carità cristiana tu non sai cosa sia! (Zia Martina, pretendeva di essere caritatevole). C'era anche prete Elias, questa mattina; sì, egli andò da loro per confortarle. Giovanna vuol portare il bambino a Nuoro perchè Costantino lo veda prima di partire; io dicevo che è una pazzia, con questo sole; ma prete Elias diceva di portarlo, e quasi si metteva a piangere.

– Che ne sa lui di bambini? Come tutti i preti egli è un uomo sterile, – disse Brontu, che odiava i preti, perchè un suo zio, parroco del paese prima che da Nuoro venisse mandato prete Elias Portolu, aveva lasciato i suoi beni ad un ospedale. Anche zia Martina conservava rancore per questo fatto, ma sapeva fingere, la vecchia volpe, e ogni volta che Brontu parlava male dei preti, ella si faceva il segno della croce.

– Cosa dici tu, scimunito? – disse, anche questa volta segnandosi. – Tu non sai neppure dove porti i piedi. Prete Elias è un santo. Se egli ti sente parlar male, guai! Egli ha i libri sacri e può maledire i nostri campi e far venire le cavallette e far morire le api.

– Allora è un bel santo! – osservò Brontu, poi insistè per avere particolari sulla disperazione delle Era. – Come gridava Giovanna? Cosa diceva zia Bachisia, il vecchio nibbio?

Ebbene, Giovanna piangeva da schiantar le pietre, e zia Bachisia si disperava perchè, oltre il resto, ora l'avvocato e le spese di giustizia l'avrebbero cacciata nuda anche di casa.

Il giovine ascoltava con viso intento, beato, mostrando i bei denti di fanciullo. Nella sua contentezza egli era semplicemente feroce.

– Ecco, – disse poi zia Martina, – Giacobbe Dejas verrà fra poco, per parlare anche con te. Egli voleva cominciare il servizio da domani, ma io gli dissi che aspettasse a lunedì. Ebbene, domani è festa: perchè deve mangiar a ufo?

– San Costantino bello, siete ben stretta (avara) mamma mia…

– Ah, tu sei ancora un bimbo! Perchè sprecare? La vita è lunga, e per vivere ce ne vuole!

– E quelle due donne, come faranno? – chiese Brontu, dopo un po' di silenzio, sedendosi davanti ad un canestro di asfodello, dove zia Martina aveva deposto il pane e le uova.

– Ebbene, andranno a cercar chiocciole! – rispose zia Martina con ironia. Ella aveva ripreso il fuso e filava vicino alla porta aperta. – T'interessano assai, quelle donne, Brontu Dejas!

Silenzio. S'udiva il rotolìo del fuso e il suono dei forti denti di Brontu che masticavano il pane duro: e al di fuori, al di là del portico, lo zirlare dei grilli, e più in là, nella solitudine delle macchie, nella calda oscurità della notte incipiente, il grido melanconico dell'assiuolo.

Brontu si versò il vino, prese il bicchiere e aprì la bocca, ma non per bere. Voleva dire una cosa a sua madre, ma non potè. Bevette: alcune goccie rimasero sulla sua barbetta rossa, ed egli le forbì col dorso della mano, abbassando gli occhi e aprendo ancora le labbra per dire quella cosa. E neppure questa volta potè dirla.

Ed ecco un suono di scarponi nella spianata. Zia Martina, sempre filando, s'avvicinò al figlio, disse che veniva Giacobbe Dejas, prese il canestro ed il vino e li ripose nell'armadio.

Entrando, Giacobbe s'accorse dell'atto della vecchia e pensò che ella nascondesse il vino per non offrirgliene un bicchiere; ma era troppo uomo di mondo (così egli diceva) per offendersi, e si avanzò sorridente e lieto.

– Scommetto, – disse, portandosi un dito al naso – scommetto che parlavate di me.

– No. Parlavamo di quel povero Costantino Ledda.

– Ah, sì, povera creatura! – disse Giacobbe, facendosi serio. – E dire che è innocente! Innocente come il sole! Nessuno meglio di me potrebbe affermarlo.

Brontu si mise in posa, accavalcando le gambe, rovesciandosi un po' indietro e mostrando i denti come faceva con le donne.

– Le opinioni sono varie! – disse con voce nasale. – Mia madre, per esempio, ha sognato che lo avevano condannato alla morte.

– O no, Brontu, cosa dici! Ai lavori forzati!

– Bè, fa lo stesso. Parliamo di noi.

– Parliamo di noi, – disse Giacobbe, accavalcando anch'egli le gambe.

Parlarono e conclusero l'affare del servizio di Giacobbe, poi i due uomini uscirono assieme, e Brontu condusse il nuovo servo alla bettola. Giacchè egli non era avaro, e se qualcuno andava a trovarlo a casa non gli dava un bicchiere di vino per non irritare la madre, ma poi lo conduceva alla bettola, dove si mostrava splendido. Quella sera fece bere tanto Giacobbe e tanto egli stesso bevette, che si ubbriacarono.

Usciti poi nello stradale buio e silenzioso, dove spandevasi il profumo aspro dei campi inariditi, ripresero a parlare di Costantino, e Brontu disse crudelmente che era contento della condanna.

– Va' al diavolo! – gridò Giacobbe. – Tu sei un uomo senza cuore.

– Ebbene, sì, sono un uomo senza cuore.

– Perchè Giovanna non ti ha voluto, tu ti contenti della morte di un tuo simile, anzi di qualche cosa peggiore della morte?

– Egli non è morto, e non è mio simile, e Giovanna Era son io che non l'ho voluta. Se l'avessi voluta, ella mi avrebbe leccato la suola delle scarpe.

– Bum! Bada che cadi, uccellino di primavera. Tu sei bugiardo come una serva.

– Io? Io… non… sono… una… serva! – gridò Brontu, staccando le parole. – Se tu mi ripeti una cosa simile, ti prendo per il cocuzzolo e ti ammazzo.

– Bum! Ti ho detto che cascavi per terra, uccellino di primavera! – gridò anche Giacobbe.

Le loro voci risuonarono nella notte silente; ma poi tacquero e tutto fu di nuovo silenzio. In lontananza, al brillare delle stelle, che incoronavano di fiori d'oro i profili di sfinge delle montagne nere, l'assiuolo batteva sempre il suo grido melanconico.

E ad un tratto Brontu si mise a piangere; uno strano pianto d'ubriaco, senza lagrime nè singhiozzi.

– Ebbene, che hai? – chiese l'altro a voce bassa. – Sei ubriaco?

– Sì, sono ubriaco. Ubriaco di veleno, che tu possa morire affogato, avanzo di galera!

L'altro si offese, perchè non era stato mai non solo in carcere, ma neppure colpito da una contravvenzione, e fu preso da un vago timore. Disse, sempre piano:

– Tu diventi matto; che hai, perchè parli così? che ti ho fatto io?

Allora l'altro si sfogò, lamentandosi come se gli facesse male qualche membro, e disse che amava Giovanna come un pazzo, e che aveva sempre pregato il diavolo perchè Costantino venisse condannato.

– Si pigli pure la mia anima il diavolo, non mi importa nulla, tanto io non credo a lui! – disse poi; e rise, con un riso stridente e fanciullesco, più desolante del pianto di poco prima. – Io sposerò Giovanna.

Giacobbe si meravigliò, ma dimostrò una meraviglia ancor maggiore di quella che realmente sentiva.

– Io sono come un uomo affogato! – disse. – Come, perchè, cosa vuol dire tutto ciò? Come tu puoi sposare Giovanna?

– Farà divorzio, ecco tutto. Ebbene? C'è una legge che alle donne, il cui marito è condannato a molti anni di reclusione, permette di riprendere marito.

Giacobbe aveva già sentito parlar di ciò, ma nessun caso di divorzio legale e tanto meno di nuovo matrimonio erasi ancora avverato in Orlei; tuttavia per non mostrarsi stupido disse subito:

– Ah, sì, lo so. Ma è peccato mortale. Giovanna non vorrà.

– È questo che mi affligge, Giacobbe Dejas! Vuoi tu parlargliene? Sì, parlagliene domani.

– Sì, proprio domani! Come sei stupido, Brontu Dejas. Sei ricco ma sei stupido come una lucertola. Eppoi sei ancora più stupido. Tu che puoi sposare una donna pura, ricca, una fanciulla simile ad una rosa rugiadosa, tu vuoi sposare quella donna lì. In verità mia c'è da ridere per sette mesi…

– Ebbene, che tu possa ridere fino a spaccarti come il frutto del melograno! Io la sposerò! – disse Brontu, arrabbiandosi di nuovo. – Nessuna donna è come lei. Io, vedi, io la sposerò!

– E sposala, uccellino di primavera! – rispose l'altro ridendo. Anche Brontu si mise a ridere; e risero assieme per lungo tratto di via, finchè videro un uomo alto, con un lungo bastone, venire loro incontro a passi silenziosi.

– Zio Isidoro Pane, avete fatto buona pesca? – gli chiese Giacobbe. – Sono ben punte le vostre gambe?

– Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe, – disse l'altro, avvicinandosi. – Che odore di acquavite! Ah, devono aver rotto qualche barile, qui!

– Tu vuoi dire che noi siamo ubriachi? – chiese Brontu, minaccioso. – Tu non ti ubriachi perchè non hai con che; allontanati o ti ammazzo. Ti schiaccio come una rana…

Il vecchio fece una risatina soave e si allontanò.

– Stupido, – disse Giacobbe a bassa voce. – Egli può farti l'ambasciata; è amico di Giovanna.

– Ebbene, – cominciò a gridare Brontu, volgendosi e scuotendo le braccia, – vieni, vieni! Vieni qui, ti dico, Sidore Pane, che ti morsichi il cane!

Rise della sua rima ben riuscita, ma Isidoro non si fermò.

– E dunque! – gridò ancora l'ubriaco, balbettando un po', – ti dico di venire! Ah, tu non vuoi venire, piccolo rospo? Ti ho detto…

Ma Isidoro s'allontanava a passi silenziosi.

– Non dirgli così, che modo è questo? – mormorò Giacobbe.

Allora Brontu cambiò metodo.

– Fiorellino, vieni! Vieni chè ho da parlarti. Dirai a quella donna tua amica… ebbene, sì, a Giovanna, che se fa divorzio io la sposo.

Allora il vecchio si fermò di botto, si volse, chiamò con voce sonora:

– Giacobbe Dejas!

– Che volete, anima mia? – chiese il servo con voce sarcastica.

– Fallo ta…ce…re! – disse Isidoro in tono di severo comando.

Non seppe perchè, Giacobbe provò un brivido nel sentire quella voce e quelle due parole, e tosto prese il padrone per il braccio e lo trascinò via, mormorandogli:

– Sì, sei uno stupido. Che modi sono questi? Ti comporti come un montone, uccellino di primavera…

– Non me l'hai detto tu?

– Io? Tu vacilli. Io non sono matto.

E andarono via uniti, barcollanti: nel portico dei Dejas trovarono zia Martina che filava ancora, al buio. Ella s'accorse tosto che il figlio era ubriaco, ma non gli disse niente, perchè sapeva che contrariandolo, quando egli si trovava in quello stato, montava in furore: soltanto quando Brontu le chiese del vino, ella rispose che non ce n'era.

– Ah, non c'è vino in casa Dejas, la più ricca del paese? Come siete avara, mamma mia! – Egli cominciò a urlare. – Io non farò scandali, no, ma sposerò Giovanna.

– Sì, sì, tu la sposerai, – disse zia Martina per calmarlo. – Intanto coricati e non gridare, perchè se essa ti sente non ti vuole.

Egli tacque, ma volle che Giacobbe spiegasse e stendesse per terra due stuoie di giunco, vi si coricò e volle che il servo gli si coricasse vicino. Zia Martina lasciò fare per non irritarlo, e così Giacobbe invece che al lunedì prese servizio il sabato sera.




V


Circa quindici giorni dopo, una domenica mattina, tutti i nostri personaggi si trovarono riuniti alla Messa officiata dal prete Elias che, dicevano quelli del paese, quando celebrava pareva avesse le ali.

Mancava solo Giovanna, e mancava per due ragioni: anzitutto perchè la disgrazia accadutale imponeva un certo duolo, che la costringeva a non mostrarsi fuori di casa, tranne che il bisogno di lavorar fuori non glielo imponesse; e poi perchè ella era caduta in una specie di atonia che le impediva di muoversi, di uscire, di lavorare, di pregare. Già, buona cristiana ella non era stata mai: soltanto prima del dibattimento di Costantino aveva fatto qualche voto, come quello di recarsi a piedi, scalza, a capelli sciolti, fino ad una lontana chiesa di montagna, e se Costantino veniva assolto, di trascinarsi sulle ginocchia dal punto ove appena scorgevasi la chiesa, fino alla chiesa stessa, cioè per due chilometri circa.

Ora non pregava, non parlava, non mangiava. Anche il bimbo le era diventato quasi indifferente, e zia Bachisia doveva nutrirlo con latte e pane masticato per tenerlo su. Qualcuno diceva che Giovanna stava per impazzire, ed infatti, se ella usciva dalla sua atonia, durante la quale stava ore ed ore accoccolata in un canto con gli occhi vitrei fissi nel vuoto, era per dare in escandescenze, strapparsi i capelli, urlare parole insensate. Dopo il suo ultimo colloquio con Costantino, al quale aveva portato il bimbo, ella non pensava ad altro che alla scena avvenuta, e la ripeteva ad intervalli, con l'accento incosciente dei monomaniaci.

– Egli era là e rideva. Era livido e rideva. Dietro l'inferriata. Malthineddu si attaccò all'inferriata e lui gli toccò le manine. E rideva. Cuore mio! Cuore mio! Non ridere così, che mi fai male, tanto lo so che il tuo riso è il riso dei morti. E i guardiani stavano lì come arpie. Prima erano buoni questi guardiani di carne umana, ma dopo, dacchè Costantino è condannato, son diventati cattivi. Cattivi come cani. Malthinu nel vederli aveva paura e piangeva. E il padre rideva, capite? Il bambino, la creatura innocente, piangeva: capiva che suo padre era condannato e piangeva. Cuore mio! Cuore mio!

Zia Bachisia sbuffava, non ne poteva più, e diceva:

– In verità mia, tu sembri una creatura di due anni, Giovanna, anima mia. Ha più giudizio tuo figlio di te, sciocca.

E minacciava persino di bastonarla; ma tutto, preghiere, conforti, minaccie, tutto riusciva inutile.

Intanto da Nuoro giunse notizia che in attesa dell'appello Costantino era stato trasportato alle giudiziarie di Cagliari; poi venne una sua lettera breve e triste. Diceva d'aver fatto buon viaggio, ma che a Cagliari si soffocava per il caldo, e che certi insetti rossi ed altri di vario colore lo tormentavano notte e giorno. Mandava un bacio al bambino, pregando Giovanna di allevare Martineddu nel santo timor di Dio. E salutava anche il suo amico Isidoro.

Finita la Messa, zia Bachisia attese che il povero pescatore terminasse di cantare con la sua voce sonora le laudi sacre, per passargli i saluti di Costantino.

Prete Elias rimase inginocchiato sui gradini dell'altare, pregando, col volto pallido estasiato; Isidoro continuava a cantare, ma la gente cominciò ad andarsene.

Davanti a zia Bachisia passò zia Martina col suo passo fiero di cavalla vecchia ma ancora indomita: passò Brontu, vestito di nuovo, coi capelli lucidi di grasso (egli parlava male dei preti, ma la domenica andava alla messa) e passò Giacobbe, con un paio di calzoni di tela nuova, rude, non lavata, che puzzavano ancora di bottega.

Isidoro continuava a cantare.

La chiesa finì col restare quasi deserta ed egli cantava ancora. La sua voce sonora risuonava fra le bianche pareti polverose, sotto il tetto composto di travi e di canne, fra gli altari umili, coperti di rozze tovaglie, adorni di fiori di carta, su cui guardavano melanconici santi di legno colorato.

Quando zio Isidoro finì di cantare non c'era più nessuno tranne il sacerdote e un ragazzo che finiva di smorzare i lumi, zia Bachisia e un vecchio cieco.

Isidoro dovette ripetere da solo il ritornello delle laudi, poi si alzò, depose il campanello del quale si serviva per segnare le poste del rosario, e s'avviò. Zia Bachisia l'aspettava vicino alla porta; uscirono assieme ed ella gli diede i saluti di Costantino, poi gli chiese un favore; di pregare prete Elias perchè si degnasse d'andare a trovar Giovanna e farle una predica onde distoglierla dalla sua disperazione.

Egli promise e zia Bachisia si allontanò; nello stradale fu raggiunta da Giacobbe Dejas che era rimasto sull'alta spianata della chiesa guardando il villaggio ed i campi gialli inondati di sole.

– Come state? – chiese il servo a zia Bachisia.

– Ah, Dio mio, stiamo male senza esser malate! E tu come ti trovi coi nuovi padroni?

– Ah, ve l'ho già detto! Son caduto dalla padella nella brace. La vecchia è avara come il diavolo; vorrebbe che mi cascassero le viscere a furia di lavorare, e mi permette di tornare in paese, appena per ascoltar la Messa, ogni quindici giorni.

– E il padrone?

– Ah, il piccolo padrone? È un animale, ecco tutto!

– Cosa dici tu, Giacobbe?

– Ecco, dico la verità, uccellino di primavera. Egli si arrabbia come un cane per ogni piccola cosa, si ubriaca, ed è bugiardo come il tempo. Ecco, anzi Isidoro Pane vi avrà detto…

Egli tacque, sospeso, e zia Bachisia lo fissò coi suoi occhietti verdi, pensando che se egli parlava tanto male del padrone aveva uno scopo.

– Ecco, – egli riprese, – Isidoro Pane vi avrà detto… sì certo, ve lo avrà detto… che Brontu era ubriaco quella sera. Qui, ecco, proprio qui, egli s'è messo a gridare: «Dirai a Giovanna Era che se fa divorzio, io la sposo!» Una bestia! Proprio una bestia! Egli beve l'acquavite a barili.

Di tutto questo zia Bachisia capì soltanto che Brontu aveva detto: «Se Giovanna Era fa divorzio la sposo». I suoi occhietti verdi scintillarono. E disse con fierezza:

– E tu, Giacobbe, tu non vorresti?

– Io? Che importa a me, uccellino di primavera? Ma voi dovreste vergognarvi di dire simili cose, zia nibbio, appena dopo due settimane…

– Io non sono un nibbio… – strillò la vecchia, offesa.

E l'altro rise, ma la donna capì che egli schiantava di rabbia.

– Aspettate almeno che arrivi l'appello, – disse Giacobbe. – E poi divorate Costantino come si divora l'agnello immacolato; divoratelo pure, ma Giovanna sposerà una botte di acquavite e voi, finchè vivrà Martina Dejas, morrete di fame peggio di prima…

– Ah, cocuzzolo spelato… – cominciò a gridare zia Bachisia; ma l'altro si allontanò rapidamente, ed ella dovette contentarsi di borbottargli dietro un mondo di vituperi.

Nonchè essa pensasse già di far divorziare la figlia, Dio ne liberi, mentre il povero Costantino era ancora sotto appello, chiuso in una fornace ardente, divorato da immondi insetti, no… ma perchè quel vile servo parlava così? che importava a lui del padrone? Zia Bachisia si fissò in mente che Giovanna piacesse a quel vecchio corvo spelato, e facendo di questi maliziosi pensieri rientrò a casa.

Voleva raccontare ogni cosa a Giovanna, ma per la prima volta, dopo quindici giorni, la vide a lavarsi e pettinarsi tranquillamente i lunghi capelli scarmigliati, che le cadevano in gran quantità, e non osò dirle niente.




VI


E il tempo passò: venne l'autunno e venne l'inverno. Il ricorso di Costantino, come accade sempre, fu respinto; ed egli una notte fu legato ad una catena che lo univa ad un uomo a lui sconosciuto, e venne messo in fila con altri uomini, a due a due, vestiti di tela, taciturni, simili a bestie mansuete, resi tali da una invisibile potenza. Essi andavano. Dove? Non sapevano dove. Tacevano e non sapevano perchè tacevano. Li condussero al mare, li fecero salire su un lungo piroscafo nero, li chiusero in una gabbia. Sempre come bestie. Intorno il mare di cristallo verde-cupo rifletteva i fari di rubino e di smeraldo, le cui colonne di luce slanciavansi lontane, serpeggiando fra le onde come drappi fosforescenti di perle verdi e sanguigne. E sopra, sopra l'infinito anello del mare, il cielo di cristallo azzurro-cupo incurvavasi come una immensa valle silenziosa, tutta fiorita di stelle gialle. Sulle prime Costantino non provò impressioni disgustose. Egli andava verso l'ignoto, verso il suo crudele destino; ma aveva in fondo al cuore la certezza che verrebbe presto liberato, e non disperava mai. L'andirivieni del personale di bordo, il rumore delle catene, il primo ondular del piroscafo, gli diedero un'impressione di curiosità fanciullesca. Non aveva mai viaggiato in mare. Da ragazzo scorgendo all'orizzonte la linea cinerea del Mediterraneo, talvolta sfiorata dall'ala delle vele, egli, ritto fra i cespugli selvaggi della montagna natìa, aveva sognato di attraversare quelle onde lontane, verso paesi ignoti, verso le città d'oro del continente. Egli sapeva leggere e scrivere; nel suo libro c'era dipinto S. Pietro di Roma, e nella parte riguardante la Storia Sacra un'incisione rappresentava l'antica Gerusalemme.

Ah, Gerusalemme! Verso Gerusalemme, che secondo lui era la città più grande e bella del mondo, avrebbe voluto viaggiare, allora, quando ritto fra i cespugli di monte Bellu guardava la linea cinerea del Mediterraneo. Ora egli attraversava il mare, ma come diversamente dal suo sogno! Eppure il concetto che egli conservava ancora di Gerusalemme era così lusinghiero, che se l'avessero portato là, anche legato e condannato, ad espiare la pena, si sarebbe sentito felice.

E il piroscafo rullava, ondulava, andava, tra un fragore incessante di torrente. I condannati bisbigliavano fra loro, alcuni scherzavano e ridevano.

Costantino si assopì e sognò, come sempre gli avveniva, di trovarsi a casa sua. L'avevano liberato da poco, – egli sognava, – ed era tornato a casa senza far sapere nulla a Giovanna, preparandole così una sorpresa di indicibile gioia. Ella diceva: – ma questo è un sogno, questo è un sogno! – Le spese di giustizia avevan portato via di casa tutto, tutto, anche il letto. Non importava niente, però. Tutti i beni del mondo erano nulla in confronto alla gioia della libertà, alla felicità di vivere con Giovanna e con Malthineddu. Però Costantino era stanco, stanco, e s'era coricato nella culla del bambino, e questa culla ondulava da sè, sempre più forte, sempre più forte. Giovanna rideva e diceva: – Bada che cadi, Costantino mio, agnello caro! – e la culla ondulava ancora più forte.

Sulle prime anch'egli si mise a ridere, ma ad un tratto si sentì male, provò un capogiro e cadde dalla culla inclinatasi fino al suolo. Si svegliò col mal di mare. Il mare era mosso; il piroscafo saliva e scendeva da montagne d'acqua; l'acqua saltava fino sopra i passeggieri di terza.

Tutti i condannati soffrivano: alcuni cercavano ancora di scherzare, altri imprecavano; uno, il compagno di Costantino, un uomo dal viso giallo sottilissimo, gemeva come un bambino.

– Oh, – diceva col capo penzoloni, ansante e spaurito, – io sognavo di essere a casa, ed ora… ed ora!.. San Francesco bello, abbiate pietà di me…

Costantino, nonostante l'angoscia fisica e morale che provava, ebbe pietà del compagno.

– Abbi pazienza, fratello caro, anche io sognavo d'essere a casa…

– Ah, mi pare che mi sfugga l'anima, – disse un altro. – Cosa diavolo ha questo bastimento? pare balli il ballo sardo! – e taluni ebbero forza di ridere per il paragone.

La tempesta proseguì. In certi momenti a Costantino pareva di morire, e aveva paura della morte, ma nello stesso tempo sentiva un dolore immenso della vita.

La sua anima parve imbeversi del liquido amaro ch'egli cacciava dallo stomaco convulso. Neppure nell'udire la sentenza di condanna egli aveva provato una disperazione simile. Cominciò anch'egli a gemere ed imprecare, stringendo i pugni e contorcendo le dita dei piedi gelati.

– Che tu possa morire così, come muoio io, cane omicida che mi hai rovinato… – diceva; e dai suoi occhi stillava lo stesso liquido amaro che gli inondava la bocca e tutta l'anima.

Verso l'alba la tempesta cessò; ma Costantino, anche dopo passatogli il male, non ritrovò pace; gli pareva lo avessero bastonato a morte, e tremava di freddo, di debolezza, di paura.

Il piroscafo non si fermava mai: oh, si fosse fermato almeno un momento! Un momento di tregua, pareva a Costantino, sarebbe bastato per ridonargli le forze smarrite, ma quel continuo procedere, quel continuo rullìo e quel continuo fragore di onde violentemente infrante, gli comunicavano un continuo tremore di convulsione. Cammina e cammina, passarono lunghe ore di angoscia, ritornò la notte: il compagno dal viso giallo sottile si lamentava sempre, dando a Costantino una irritazione angosciosa. Finalmente egli potè assopirsi e, cosa strana, tornò a sognare lo stesso sogno della notte prima; però questa volta Giovanna era corrucciata, e la culla ondulava quasi dolcemente. Quando Costantino si svegliò, il piroscafo pareva muoversi appena; nel gran silenzio dell'ora antelucana udì una voce dire al di fuori:





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Porredda, femminile e diminutivo di Porru.



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